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Autore: Aluah    22/03/2020    3 recensioni
Tempestava.
Tempestava e lei era fradicia.
Il suo ombrellino striminzito a poco era servito contro quel nubifragio improvviso.
Sarebbe però stata un’ottima arma da scaraventargli in testa al suo rientro, visto che era lui la causa della sua inaspettata passeggiata sotto l’acqua.
L’aveva definita difficile-da-trattare-come-un’-iguana.
Un’iguana, lei.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Drakul Mihawk, Perona
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Qui fuori dai tuoi sogni l'amore sta morendo,
ognuno pensa solo a se stesso”
 
 



 
Tempestava. 
Tempestava e lei era fradicia.            
Il suo ombrellino striminzito a poco era servito contro quel nubifragio improvviso. 
Sarebbe però stata un’ottima arma da scaraventargli in testa al suo rientro, visto che era lui la causa della sua inaspettata passeggiata sotto l’acqua.
L’aveva definita difficile-da-trattare-come-un’-iguana.  
Un’iguana, lei.
Stranamente non aveva ribattuto.  
Quella mattina l’aveva visto, si era svegliato di pessimo umore. Non avere più attorno lo spadaccino squattrinato gli aveva dato sì un po’ di sollievo -avercelo attorno anche quando non era di certo il caso era sicuramente fastidioso- ma era certa che gli avesse anche tolto parte di quell’innato e divorante spirito di competizione che lo caratterizzava, rendendo le sue giornate di nuovo parzialmente insipide. 
Giornate che ora necessitavano di essere occupate senza una continua fonte di stimolo per la sua stessa crescita personale. 
E che passava quindi dandole il tormento per ogni più piccola cosa. 
Dal giornale della mattina mancante di pagine, all’utilizzo spasmodico che faceva del dentifricio. 
Arrivando alla sua sola presenza lì nel castello. 
Si stava stancando di lei. 
Vedendola uscire dal portone con un cipiglio che avrebbe fatto invidia ai migliori -o peggiori- ammiragli della marina, nemmeno i suoi fantasmi avevano osato seguirla. Per lo meno, non a distanza tale per cui potessero diventare loro i bersagli delle sue ombrellate inferocite. 
Queste li avrebbero attraversati solamente, sì, ma non gradivano comunque essere usati alla stregua di un bersaglio per allenamenti collerici.
Aveva bruciato la colazione. E quando lui le aveva fatto notare con ben poco garbo -lo stesso che in ben altre situazioni lei apprezzava parecchio- che non era mai un granchè commestibile ciò che gli propinava, lei aveva dato di matto. 
Il paragone con l’iguana -animale noto per la sua estrema particolarità nell’essere gestito e allevato- era stata una diretta conseguenza.  
Camminava stringendo convulsamente l’asta dell’ombrello, le labbra serrate e lo sguardo puntato alle finestre che intravedeva in lontananza. Si era preparata un discorso durante quella sua scampagnata che prevedeva -in questo preciso ordine- l’insultarlo, il suo farsi valere, l’insultarlo, il metterlo a conoscenza della decisione che aveva maturato, l’insultarlo e, se non l’avesse interrotta, il Gran Finale.
Insultandolo nuovamente. 
Il fatto che l’acqua scrociante le avesse inzuppato pure le mutande -che per inciso, da quando quella loro Frequentazioneaveva avuto inizio portava ben poche volte- era una cosa del tutto trascurabile. Si sarebbe prima di tutto concentrata nell’esprimere con garbo -e parecchi insulti- i concetti che le frullavano per la mente in quel momento. 
Doveva sapere che, se davvero lui si era arrivato a stancare di lei, anche lei non era da meno. 
Ecco.
Che aveva una dignità, forte. Estremamente forte.
Come l’ombrellata che gli avrebbe tirato.
Così magari non avrebbe sentito la sua così labile convinzione vacillare pericolosamente. 
Incedendo un passo dopo l’altro, un insulto dopo l’altro, arrivò alle porte del castello. Il portone d’ingresso era spalancato, esattamente come lo aveva lasciato.  L’acqua scrociante aveva creato sulla soglia una pozzanghera da cui correva solitario un rivolo d’acqua in direzione dell’atrio. In condizioni normali l’avrebbe sgridato, sarebbe toccato sicuramente a lei asciugare quel piccolo disastro e lei e lo strofinaccio non erano mai andati molto d’accordo. 
Per lo meno, non erano più andati d’accordo dopo che lui l’aveva usato più volte come pretesto per ridere di lei, impegnatissima nel tirare a lucido il pavimento coperto dalle chiazze di sangue che i due spadaccini si divertivano a lasciare dietro al loro passaggio. 
Non le era nemmeno passato per l’anticamera del cervello che forse lui rideva per il suo curioso modo di utilizzarlo, percuotendolo a mo’ di mazza per levare dalla vista quelle orride macchie.  
Chiuse l’ombrellino e gli diede una leggera scossa per levare l’eccesso d’acqua di cui oramai era pregno. Un altro scossone, giusto per esercitarsi ancora un poco prima di rivolgerlo alla di lui testa di rapa.
Entrò in casa diretta in cucina. 
Sapeva di trovarlo lì, era l’ora del giornale. 
Aumentò il passo, decisa. 
Gliene avrebbe cantate quattro, gli avrebbe detto cosa pensava, così, senza pensarci due volte. L’avrebbe messo con le spalle al muro per farsi dire realmente cosa pensava, cosa voleva davvero da lei. 
Con lei. 
Arrivò in cucina, trovandolo placidamente seduto all’altro capo del tavolo rispetto a quello dove solitamente sedeva lei, immerso nella lettura. Non aveva alzato lo sguardo -non l’aveva degnata di uno sguardo- ma l’aveva vista, lo sapeva; non che avesse fatto nulla per nascondersi, e di certo il suo passo da carica non l’aveva celata ad orecchio alcuno, men che meno al suo. La testa era leggermente chinata in avanti, la fronte corrugata. 
Notò una certa tensione in lui, e se solo non l’avesse paragonata ad un rettile ben poco grazioso -noto per altro per scendere dagli alberi giusto per accoppiarsi o levare le tende- gli avrebbe forse osato chiedere cosa l’aveva incupito tanto da fargli strizzare non uno, ma ben entrambe le sopracciglia. 
Qualcosa che esteriormente gli aveva richiesto un utilizzo di energie apparentemente iniquo ma che -lei sapeva- interiormente l’aveva più che semplicemente smosso.  
Continuando nella sua marcia arrivò al suo fianco, alzando nel mentre il braccio destro, pronta a riversare su di lui la sua collera attraverso la sua improvvista arma. 
Sapeva esattamente cosa dire, l’aveva pensato, studiato e ripassato ancora mentre tornava al castello. L’avrebbe ovviamente reso partecipe del tutto dopo un tentativo -che sarebbe sicuramente andato a vuoto- di malmenarlo. 
“Io non sono un’igu..” 
L’urlo le morì in gola. 
L’attenzione si focalizzò invece sul giornale aperto, ora poggiato sul tavolo. 
Due iridi scure la fissavano serie, ora era lui ad avere un cipiglio degno di un ammiraglio della marina. 
Questo forse non avrebbe dovuto dirglielo mai. 
Un faccione lungo e sbiecamente sorridente campeggiava in prima pagina.
Nessuno dei due fece caso all’ombrellino che, molle e zuppo tanto quanto lei, cadeva per terra senza aver realmente compiuto nessuno dei suoi doveri della giornata – né proteggerla dalla pioggia, né tantomeno tentare di smuovere dal suo guscio quell’algido spadaccino. 
Moria era vivo. 
Lei, forse, non tanto. 
L’intenzione di cantargliene quattro era più morta dell’idea che Moria potesse essere ancora vivo. O per lo meno, era stata momentaneamente accantonata in vista di una notizia decisamente poco aspettata. 
Aveva ancora il braccio sollevato. 
E il suo sguardo puntato addosso. 
Gekko Moria era vivo e vegeto, e per giunta in attività. 
Lei invece, era paralizzata. 
Serio più che mai, Drakul Mihawk la fissava senza proferire una parola. Era ancora seduto, le mani poggiate sul tavolo accanto al giornale e la camicia leggermente sbottonata. E anche spiegazzata. 
In lei crebbe la necessità impellente di stirargliela -il che avrebbe presupposto spogliarlo, prima.
Da nudo, di certo, le ombrellate avrebbero avuto un maggior effetto -oppure lui ne avrebbe avuto su di lei. 
Impalata nella sua posizione alquanto buffa, per una che fino a poco prima avrebbe voluto richiamare a sé forze sconosciute ed incanalarle nel suo ombrellino per annientare l’uomo che le stava di fronte, non proferì parola nemmeno quando lui si alzò da tavola. 
Le si affiancò.
“Avrei preferito che questa mattina non arrivasse alcun giornale.”
Coinciso e lapidario si allontanò.
Il leggero tremolio che le attraversò le viscere -e che solitamente provava quando lui era molto più vicino- le fece pensare che, se fuori non fosse imperversata la tempesta del mese, sarebbe uscito fino a sera. 
Sentendo la porta d’ingresso sbattere capì che a lui, in quel momento, della tempesta fregava poco e niente.  
 



 
“Quello che mi dispiace è quel che imparo adesso
Ognuno pensa solo a sè stesso”
 




 
Tempestava. 
Tempestava e lui era fradicio. 
Non lo vedeva, era disperso in chissà che parte dell’isola, ma poteva immaginarlo. Si sentiva fin lì, lei lo sentiva fin lì. L’imbecille non aveva nemmeno preso una giacca. 
E Moria era vivo. 
E lui si stava stancando di lei.
Le veniva da piangere. 
Ci era voluta una buona mezz’ora perché si decidesse a leggere l’articolo che le campeggiava davanti alla vista. Si era riscossa da quella mezza paresi solo ed esclusivamente perché il braccio, quello incriminato che avrebbe dovuto essere responsabile del riversarsi delle sue idee costruttive sulla sua testa, aveva iniziato a dolergli. 
Quel che aveva appreso era che c’era stato un attacco portato da Gekko Moria e da un’armata di zombie. Non si scendeva troppo nel dettaglio, la notizia che il capitano dei pirati di Thriller Bark fosse vivo bastava da sé a fomentare -e forse spaventare- buona parte di chi lo avesse appreso. 
Sentiva freddo. 
L’idea che forse era dovuto al fatto che fosse ancora bagnata fradicia, coperta con solo un vestitino di cotone, non l’aveva nemmeno sfiorata. Sentiva freddo, dentro –dove normalmente c’era qualcosa di ben più caldo. 
Un fantasma le era svolazzato accanto. Lo sguardo che gli aveva lanciato dovette fargli capire che non era il momento di interromperla, qualunque cosa stesse facendo. Perché stava facendo qualcosa, effettivamente, oltre a scervellarsi. 
Si stava chiedendo dove fosse. 
E stava congelando. 
Alzandosi da tavola si era diretta in bagno. Aveva bisogno di calore -e chi solitamente glielo elargiva era al momento impegnato a sfogare il suo indefinito stato d’animo fuori, lontano da lei.  
Seduta nella vasca da bagno con gli occhi ben chiusi, sentiva i suoi fantasmi svolazzarle attorno. Se aveva mai pensato di poter avere una qualche altra costante nella sua vita, ora come ora era assolutamente certa che non avrebbe dovuto preoccuparsi di cercarla altrove se non negli spettri che tanto amava. 
Si stava lentamente scaldando. E altrettanto lentamente stava riprendendo la ragione, e con quella l’irresistibile voglia di insultarlo. E di abbracciarlo, almeno una volta, prima di comunicargli che avrebbe dovuto allontanarsi da lì. 
D’un tratto, il gelo, di nuovo. 
Se nessun fantasma si faceva più intravedere, o anche solo percepire, era il segno distintivo che l’aria era stata già saturata da una ben più ingombrante –ed in questo momento alquanto indesiderata- presenza. 
Gliele avrebbe cantate, assolutamente sì. 
“Non sono un’iguana”.
Era risuonata alquanto atona. 
Gli occhi di lei ancora chiusi, giusto per non fargli vedere troppo chiaramente quanto in quel momento si stesse dando della stupida.
Quelli di lui puntati sulla vasca da bagno. 
“Le iguane sono di difficile gestione” la rimbeccò, rimanendo piantonato sulla porta del bagno.
Lei sbuffò.
“Non mi piace il verde” lo incalzò.
Decisamente gliele stava cantando. 
Lo sentì sogghignare, una vaga -o forse non troppo- ammissione che, dell’altro spadaccino scorbutico, non gliene era importato poi così tanto, almeno, non nel senso in cui a lui sarebbe dovuto interessare. 
Se mai gli fosse interessato. 
Aprì gli occhi giusto per trovarselo di fronte, un piede sul bordo della vasca che campeggiava, tronfia e ingombrante come il proprietario, in mezzo alla stanza e la mano poggiata sul ginocchio. La stava fissando, o meglio, la stava guardando male, segno che probabilmente -anzi, sicuramente- voleva chiederle qualcosa la cui risposta non avrebbe sicuramente gradito. 
La guardia stranamente abbassata. 
“Stavo pensando di farti cadere nella vasca”.
Il progetto di elencargli tutti gli svariati motivi per cui avrebbe dovuto considerarlo un’idiota era stato decisamente accantonato. Almeno, momentaneamente. Aveva bisogno di altro
Richiudendo gli occhi, tornò a godersi il calore che quell’acqua le stava donando. Amava fare lunghi bagni rilassanti, occhi chiusi e i suoi fantasmi a farla ridere mentre volteggiavano davanti a lei. Era un momento suo, un qualcosa che aveva sempre voluto tenersi esclusivamente per sé. Era il suo momento per pensare, cosa che, a detta di molti, non era solita -o capace- di fare. 
Sapeva di essere petulante, molto petulante alle volte. Sapeva anche di poter essere dispotica, testarda, crudele, molto spesso infantile nelle sue esternazioni. Ma era comunque, e a tutti gli effetti, una donna. 
Accoccolatasi nel caldo abbraccio dell’acqua si spaventò parecchio quando lui, con tutta la leggiadria di cui non era assolutamente dotato fuori da una qualsivoglia battaglia, piombò nella vasca con lei. 
L’acqua fuoriuscita, esattamente come quella nell’atrio, avrebbe dovuto asciugarla lei. Lui con lo spazzolone, proprio non ce lo vedeva. 
“Sei un idiota!”
Per l’appunto, il progetto di renderlo parte dei suoi pensieri a suo riguardo -degli insulti più precisamente- aveva assunto nuovamente una cruciale importanza. I suoi occhi sbarrati, fissi in quelli dell’inaspettato inconveniente, non accennavano ad abbassarsi. 
“Se volevi fare un bagno con me” la canzonò lui, avvicinandosi “bastava chiedere”.
Prenderla in contropiede, lo sapeva, era il suo passatempo preferito.  
Lo baciò. 
Di nuovo, l’idea di insultarlo, aveva perso importanza. 
La sollevò con facilità, lo aveva sempre fatto. 
L’urlo isterico che lei aveva lanciato, più per il gelo che l’aveva avvolta fuori dal torpore dell’acqua bollente che per altro, non era servito ad altro che ad enfatizzare la presa. Le proteste e gli insulti -giusto per darsi un’aria contrariata- a fargli affrettare il passo. 
“Sei un idiota!” 
Aveva pure sbuffato lui, mentre la trascinava, o meglio, la trasportava, nuda e inferocita verso la camera da letto. 
“E tu sei particolarmente insopportabile” una pacca sul sedere, ben esposto per via della posizione a sacco di patate che le aveva riservato sulla sua spalla sinistra “Ma questo non è una novità”.
Gliele avrebbe cantate. 
Questa volta, per davvero. 
“Devo andare a cercare Moria”.
Se fosse esistito il lavoro di insultatrice-di-spadaccini di certo, non l’avrebbe ottenuto, realizzò. 
Lo sentì irrigidirsi, la mano sul suo fianco aveva rafforzato la presa. Avrebbe voluto per vedere la sua faccia -o forse no. Non aveva ancora imparato a leggere nulla su quel volto che non fosse fastidio, cosa che era assolutamente abile nel procuragli.
Uno sbuffo, l’ennesimo. 
“La strada la sai”. 
Idiota, ancora una volta. Sull’articolo non si faceva cenno a nessuno dei posti in cui ad oggi si sarebbe potuto trovare il suo padre adottivo. Si parlava solo del luogo dell’attacco, posto in cui sicuramente non sarebbe rimasto viste le notizie che erano prese a circolare. Si era già esposto troppo. 
“No che non la so! Pensi forse che Moria sia così stupido da rimanere impalato a farsi catturare?”
Il tono, ben più acuto della consueta voce che utilizzava normalmente per insultarlo, le fece stranire. Possibile che non ci arrivasse? 
Lo sentì nuovamente sbuffare.
Quel giorno doveva essere particolarmente loquace. 
L’ennesima pacca sul sedere.
“Intendevo, razza di isterica” la lanciò sul letto nel frattempo “quella per tornare qui.”



 


 
“Scende la pioggia, ma che fa
Amo la vita più che mai”



 
 
Se qualcuno le avesse chiesto di descrivere gli amplessi con Drakul Mihawk l’avrebbe probabilmente preso a ombrellate. I suoi preziosi fantasmi non avrebbero dovuto essere mai disturbati per sciocchezze del genere. 
Quanto al suo ombrello, avrebbe superato l’oltraggio di essere utilizzato come arma poco convenzionale per malmenare curiosi. 
Quando aveva provato a chiederlo a sé stessa si era però data un’unica riposta: erano cambiati nel corso del tempo. 
Dapprima sporadici, casuali -o forse nemmeno troppo- e consumati in fretta e furia come se fosse quanto di più frivolopotessero fare, si erano man mano evoluti, diventando quanto di più strano e carino lei avesse mai vissuto. 
E lei amava le cose carine.  
Un morso sul seno la riscosse dai suoi pensieri. Le aveva fatto male. 
Voleva la sua attenzione su di lui, esclusivamente su di lui -ma essendo un tipo di ben poche parole in certi momenti, amava farglielo capire a modo suo. Un modo, per inciso, per cui lei non aveva mai storto il naso, stranamente. 
Un altro morso, questa volta sul fianco. 
L’ennesimo, sull’interno coscia. 
Ansimò. 
L’ultimo, questa volta più delicato, dove lo stava aspettando. 
Era la prima volta che gli dedicava quelle attenzioni disinteressate -di solito servivano a rabbonirla prima di sgridarla. Era strano sentirlo dedicarsi a lei senza un secondo fine, senza che lei avesse effettivamente combinato qualcosa di cui era perfettamente al corrente -e che da brava orgogliosa non avrebbe mai ammesso. 
A dire il vero, ragionando mentre lui si spostava quel tanto che bastava per slacciarsi i pantaloni, qualcosa di estremamente grave lo stava per commettere.
Alzando lo sguardo vide che si era fermato. 
La fissava, infastidito.
Aveva le sopracciglia aggrottate.  
Si corresse, decisamente infastidito. 
“Sei pregata di non sprecare il mio tempo”.
Avrebbe giurato -sperato- che avesse voluto intendere impegno, ma si accontentò. Sistemandosi meglio con un lieve broncio sul materasso, con le gambe divaricate, si trasse sui gomiti, ricambiando lo sguardo inferocito di lui. La pazienza era il suo forte solo in battaglia -non che quella non lo fosse. E lei l’aveva infastidito, senza nemmeno pronunciare parola. 
Si sentì molto simile a Zoro. 
Certo, immaginarsi Zoro a gambe aperte, ben disposto -per non dire assolutamente desideroso- di ricevere un certo tipo di attenzioni da Mihawk in persona non era cosa contemplata nella sua similitudine. Anche perché immaginava che il suo continuo svuotare la dispensa di ogni qualcosa profumasse anche solo vagamente di mandarino avesse un che di esplicativo riguardo i suoi interessi in ambito sentimentale. 
Questo pensiero avrebbe sicuramente potuto -dovuto- evitare di lasciarselo scappare. 
“Sei pregato di non sprecarlo nemmeno tu!”
Quando lui tornò sulle sue labbra le trovò ancora dischiuse. 
Si posizionò sopra di lei, lasciando che con le gambe le cingesse i fianchi. 
Si ricordò dell’inizio, di quando lui la prima volta che erano finiti in quella situazione, l’avesse toccata sì con trasporto, ma con una certa ritrosia, quasi non la considerasse sufficientemente donna per lui. 
Si ricordava le sue gambe esili, quasi scheletriche, attorno ai suoi fianchi. 
Il suo seno piatto, che aveva degnato di ben poche lusinghe.
Le sue labbra inesperte, che aveva baciato con superficialità, più a togliersi un peso, che un desiderio.
Si ricordava i suoi gemiti strozzati, i sospiri, il suo scarso contatto visivo mentre la possedeva. 
E si ricordava anche quando, dopo qualche mese di lontananza a causa di alcuni allenamenti particolari che aveva voluto -o meglio, si era divertito- ad impartire a Roronoa, l’aveva ritrovata cambiata. 
E di come, anche i loro amplessi, erano mutati di conseguenza.   
Provocazioni nascoste, toccate sfuggenti, atti consumati ovunque, dal tavolo della cucina al muro in corridoio. Quegli sguardi furtivi che lei si sentiva alle spalle e che non mancava mai di apostrofare, spesso ad alta voce, definendolo un idiota.  
Lei era cambiata.
E lui con lei. 
Ed era dannatamente fiera di questo. 
Quando finalmente le scivolò dentro e le puntò addosso gli occhi la trovò a fissarlo di rimando con una sicurezza ed un orgoglio che non le aveva mai visto prima nello sguardo. 
“Sta attenta”.
Aveva sempre avuto un tempismo orrendo nel dirle le cose. 
Sentendolo avventarsi sul suo collo ed incrementare le spinte, intrecciò i piedi dietro la schiena di lui stringendolo possessivamente a sé.
Perona realizzò infine che, ovunque fosse Moria, in quel momento -in quel preciso momento- avrebbe potuto aspettare. 
   
 
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