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Autore: httpjohnlock    04/04/2020    0 recensioni
Dal diario di John H. Watson, 1921.
Pensieri e avventure sparpagliate di due vite.
O forse soltanto una.
«Il figlio di Violet è uno in gamba, estremamente intelligente ma quasi impossibile da trattare senza perderci via il senno.»
«E voi volete che io mi rechi lì?»
«Watson, siete troppo giovane per trascorrere il resto della vita da solo e senza qualcosa che vi tenga occupato.»
«Ma sono anche troppo stanco per starmene dietro ad un bambino complicato.»
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Lestrade, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Lentissimo
Esperimenti riversi al suolo (Non stavolta)






Un giorno d'autunno del 1894
A volte uno si sveglia e percepisce diversamente dal solito le proprie ossa o il proprio stato d'animo, stravolto durante la notte appena trascorsa, oppure i raggi del sole – o le gocce di pioggia – più vivi e vivaci: oppure tutto assieme in un turbinio impetuoso – il sole, la pioggia, la tua anima, l'universo.
Ecco, quando succede, sai già che qualcosa di quella giornata cambierà, o magari è già cambiata; eppure tutto ti sembra rimasto invariato: il colore della tua pelle è sempre della medesima tonalità, il letto è sempre poggiato allo stesso angolo della stanza, la scorta di tè è sempre quella... eppure tu lo sai, lo sai che qualcosa sta per succedere.
Io quel giorno non lo sapevo mica. Infondo a me non succedeva mai niente.
Da quando ero stato congedato per un proiettile che mi fratturò l'osso della spalla destra, sfiorando l'arteria succlavia, la mia esistenza era diventata uno strascinarsi giorno per giorno, arrancando. A Londra non avevo né parenti né amici, potevo dunque far quel che più mi aggradava anche se con quei pochi spicci, ma ero come incatenato – o peggio, tragicamente abituato – a quell'insulsa vita. Ero divenuto ostacolo al mio stesso benessere. 
Comico, come spesso siam noi stessi gli artefici della nostra tragedia greca.
Il fatto è che adesso non c'erano più campi di battaglia intorno a me, rumori assordanti di spari e mine e grida, la gamma dei bruni dell'Afghanistan e polvere e fatica e sudore. Non stavo più a rischiar la vita giorno dopo giorno né a cercar di salvare quella dei miei commilitoni. Ora c'era solo un tempo placido, il lieve rumore delle carrozze e l'odore della civiltà.
I giorni mi scivolavano via privi di una qualsivoglia anche lontana logicità – sulla cute, non riuscivo neanche a percepirli addosso, scanditi dal nulla se non dalla noia e dall'ansia, dagli incubi e dal buio. Il tempo mi passava davanti alla punta del naso ed io non riuscivo a riacciuffarlo, come un bambino che rincorre una bolla di sapone.
Nel pomeriggio del 24 settembre 1894, dopo aver adocchiato per l'ennesima volta l'ormai inutile pistola d'ordinanza nel cassetto della mia scrivania, m'ero deciso a rinfrescarmi i polmoni con un poco di aria e a mettere il naso fuori casa, ricordare al mio corpo di non addormentarsi – che non era ancor tempo di morire. L'aria era frizzantina e fresca: serrai le palpebre per lasciare che mi travolgesse e decisi di recarmi a bere qualcosa al bar Criterion che stava all'angolo della strada e ad un paio di chilometri dalla stanza nella quale alloggiavo.
Insomma, ero lì seduto che cercavo di rilassarmi e godermi la mia birra quando sento qualcuno pronunciare a gran voce il mio cognome. «Watson!» esclama una seconda volta, io a stento ci feci caso (d'altronde era un cognome abbastanza diffuso in Inghilterra); ma quando al mio canale uditorio arrivò anche un: «John Watson!», mi voltai ritrovandomi davanti un volto familiare.
«Stamford, ricorda? Eravamo compagni al Bart's.»
«Oh, certamente. Stamford.» E mi strinse entusiasta una mano. Era tutto contento. Beato lui. 
L'uomo nerboruto prese posto di fronte a me e prese piega una conversazione sul più e sul meno, il ché significava che lui chiacchierava animatamente su quanto la sua vita fosse splendida, assieme alla moglie e i due figli che stavano "diventando degli ometti". Ci tengo a specificare: non che io non fossi contento di vederlo, anzi, una faccia conosciuta nell'ignoto più assoluto era pure consolatoria, ma quel pomeriggio necessitavo solo di rilassare e riscaldare i nervi tesi.
«Ho sentito che vi hanno sparato... cos'è successo?»
«Mi hanno sparato.»
«Certo, sì. E dov'è che vivete adesso?»
«In una stanza in periferia», risposi per poi schiarirmi la gola, «Di questi tempi non è facile trovare un alloggio a Londra con una pensione militare.»
«Avete provato a cercare un lavoretto?» Scossi la testa. Lui bevve un sorso di birra. «Mi è appena venuta in mente una cosa: ho una cugina di secondo grado che è rimasta sola con il figlio che ha problemi alle articolazioni o qualcosa del genere.» Si asciugò il bordo delle labbra con la mano e continuò, «Molti dottori si sono presentati per cercare di diagnosticargli quella che pare una malattia senza nome. L'ultimo se l'è data a gambe dopo tre giorni.» terminò con una risatina.
«Data a gambe?»
«Il figlio di Violet è uno in gamba, estremamente intelligente ma quasi impossibile da trattare senza perderci via il senno.»
«E voi volete che io mi rechi lì?»
«Watson, siete troppo giovane per trascorrere il resto della vita da solo e senza qualcosa che vi tenga occupato.»
«Ma sono anche troppo stanco per starmene dietro ad un bambino complicato.» 
Stamford ridacchiò quasi compiaciuto e, dopo aver chiesto una penna, sporcò d'inchiostro un fazzolettino. Un indirizzo. «Il cognome è Holmes. Pensateci su e dite che vi raccomando io. Anzi, le parlerò io stesso.» Poi mi sorrise mostrando le due fossette ai lati della bocca e, senza darmi il tempo di dir qualcosa, uscì con il cappello su le ventidue.
Gonfiai il petto d'aria, finii la mia bevanda e tornai al mio alloggio.
Quel giorno successe qualcosa, e tre mattine dopo chiamai una carrozza e lasciai che quel qualcosa si realizzasse.
Infondo a me non succedeva mai niente.

Le pietre rumoreggiavano sotto le ruote e sotto gli zoccoli del cavallo, che continuò la sua corsa lungo uno stradone alberato fino ad arrestarsi d'irimpetto ad un edificio color giallo pallido, sviluppato su due piani e dallo scheletro piuttosto squadrato, circondato da betulle, olmi, vasi di garofani, ortensie e specie di fiori che mai avevo visto prima d'ora; il palazzo si estendeva difatti su un vastissimo giardino, ricco e ben curato, che stava iniziandosi ad imbrunire.
Ad aprire la porta di quella che ai miei occhi pareva una reggia, fu una donna dallo sguardo stanco ma gioioso, di quelli puri che oggi faticano a resistere. Infilai la mia tuba sott'un braccio e accennai un sorriso. «Buongiorno, sono il dottor John Watson.»
«Oh, certo! Entri, la prego!» La donna mi sfilò il cappotto e lo sistemò insieme al cappello sull'appendiabiti.
Avanzai di sei passi e diedi una rapida occhiata intorno: tutto ciò di quell'interno richiamava il legno, il colore della sabbia e dei boschi; non era così sfarzosa come m'ero figurato, il ché, data la mia borghesia, mi faceva estremamente piacere. 
Mobili in legno di noce / vasi di Sèvres / vasi provenienti da chissà dove / rasi / pizzi / tappeti persiani / lampadario di cristallo a sei luci.
Se l'ingresso era illuminato da due finestroni adiacenti alla porta, coperti nei lati con tende color rame, la copertura delle pareti era decorata con boiserie e intarsi geometrici, che accentuavano ancor di più la squadratura dell'edificio e donavano al tempo stesso un ulteriore tocco di raffinatezza e stabilità. L'ingresso si espandeva poi in più rami, tra i quali scorsi un salone-biblioteca.
«Lei dev'essere il dottor Watson.» Annuii alla voce squillante e al sorriso gioviale di una donna che ci raggiunse subito dopo, che ringraziò l'altra (seppi successivamente essere la domestica), la quale si congedò non prima di farmi un piccolo inchino. «Avete fatto buon viaggio?»
«Sì, vi ringrazio. A dire il vero, l'aria settembrina così fresca e autunnale mi ha rinfrancato lo spirito.»  
«Ne sono lieta. Gradite da bere, un tè?» 
E così, davanti ad una bella tazza di tè fumante e a qualche biscotto, iniziammo una lunga e piacevole conversazione, finché non mi chiese se accettassi di visitare il figlio. Ad essere sincero, avrei potuto dir di sì anche solo per poter restare ancora un po' con quell'amabile, splendida donna, dai capelli scuri come la pece e dagli occhi blu.
«Non vi assicuro d'esser migliore dei dottori che l'hanno già incontrato, ma vi prometto che farò del mio meglio.» 
Con la curiosità della situazione e la voglia di poter migliorare la vita di quella famiglia, salii con lei le marmoree e spesse scale che portavano ad un corridoio. Lady Violet picchiettò alla porta, svoltati a sinistra e qualche passo dopo.
Poi picchiettò di nuovo.
E di nuovo.
«Sherlock, è arrivato, ti prego di non iniziare con i tuoi capricci infantili.» 
E picchiettò.
«Lo scusi, è un po'-» La portà si spalancò come per magia, sorrisi comprensivo alla donna ed entrammo nell'ampia stanza.
La prima cosa che catturò la mia attenzione furono sicuramente degli insetti – imbalsamati, finti?, non lo seppi mai – dietro una piccola lastra di vetro circondata da una cornicetta posta sul camino spento.
Poi un letto.
Ed un violino.
Ed un ragazzo seduto a gambe incrociate sul suddetto letto con il suddetto violino tra le mani. Quella scena mi dovette colpire parecchio, perché tutt'oggi la ricordo minuziosamente.
«Sherlock, ti presento il dottor John Watson.» 
Come colpito da una puntura d'insetto, il ragazzo dalla riccioluta chioma scura si svegliò dal quel suo stato di trance, mi lanciò un'occhiata fulminea e riprese a pizzicare pigramente le corde del suo strumento.
«Afghanistan o Iraq?»


Sherlock Holmes non era uno a cui badare, perché lo faceva da sé.
Trascorreva tutto il giorno sui libri ad accumulare nozioni su nozioni di scienza e chimica che stupirebbero anche un fanatico, così che dopo qualche giorno di convivenza in quella casa, avevo stilato tutti i campi nei quali aveva una conoscenza si può dire completa, in quelli in cui aveva carenze e di quelli in cui non sapeva nulla.
Fu tremendamente buffo quando gli feci notare come riusciva a riconoscere in quale zona di Londra proveniva una certa macchia di terra o fango, ma ignorava che la Terra girasse intorno al Sole.
Il cervello di Sherlock Holmes era un vaso colmo delle sole conoscenze, informazioni, nozioni e dettagli che lui stesso riteneva utili, importanti e validi, come quelli che possedeva riguardo la chimica, e mi rispose che i moti della Terra non avevano la minima importanza! Era inoltre completamente a corto di letteratura, filosofia, politica, sapeva poco di botanica e abbastanza di anatomia. Si dilettava spesso (in realtà così spesso da risultare estremamente fastidioso) a dedurre gli esseri umani, ed era impressionante come indovinasse ogni 
singola
volta. 
Dopo qualche tempo riuscii più o meno ad inquadrare il suo metodo di deduzione/indagine: innanzittuto osservava con attenzione rapida ma estremamente accurata ed efficace; poi il suo cervello raggruppava ogni dettaglio in modo pragmatico – una macchiolina di tabacco sulla manica della camicia, una striscia d'inchiostro sul bordo di una mano, il taglio dei capelli, una quasi impercettibile abbronzatura – ("Io non tiro a indovinare, John! Le mie indagini si basano su un ragionamento progressivamente correttivo, sull’abduzione e il riempimento dei vacui causa-effetto che sussistono prima di una rielaborazione logica. Semplicemente, al contrario di voi, io osservo!").
Era così appassionato di scienza forense ed il suo era un talento così spontaneo e curioso, che gli proposi di entrare a far parte di Scotland Yard, un giorno: lui aggrottò la fronte e partì con uno sproloquio su quanto fossero state offensive le mie parole, su quanto fossero incompetenti quelli lì e scommise che un giorno sarebbero stati loro a chiedergli aiuto. 
Se tra le mani non teneva un libro, aveva il suo fedele violino, e uno spartito se era particolarmente ispirato o turbato. D'altronde, era un tipo che non difficilmente manteneva il proprio riserbo, e la musica era un prolungamento dei suoi pensieri ed una maniera di esprimerli.
Lui e la musica era il mio connubio preferito.
Mi piaceva sentirlo suonare, comporre. 
Adoravo quando, immerso nella lettura di un libro in salotto, alle mie orecchie arrivava la melodia dell'eco di un sentimento.
Mi è sempre piaciuto.
Quando suonava, la sua espressione regolarmente presuntuosa e infastidita si prendeva una pausa, lasciando il posto ad una serena, in cui i tratti del suo viso si ammorbidivano, addolcendosi. Si muoveva a tempo, quasi cullando lo strumento come se fosse una donna bellissima, leggero e meraviglioso, con quel suo sguardo che si faceva cristallino, concentrato, certamente, ma allo stesso tempo idilliaco. I polpastrelli pizzicavano – a volte pigramente e lascivamente, altre da tener testa ad un esperto violinista – le corde dello strumento con una delicatezza e un'intensità tale da provocarmi scosse elettriche lungo tutto il corpo, tale d'avere la sensazione che la mia testa fosse leggera e al tempo stesso vorticosa, da farmi vagare con la mente verso luoghi mai veduti, odori mai sentiti e labbra mai baciate.
Ed io inizialmente non me ne accorsi mica, che gli donai le corde della mia stessa anima.

La madre di Sherlock mi aveva informato che dopo l'acquisizione della deambulazione autonoma, l'andatura di quest'ultimo era come quella di tutti gli altri bambini, e di come, verso i tredici anni, essa iniziò ad assumere caratteri barcollanti e spossati. Dopo una consulenza genetica – la trasmissione è difatti autosomica recessiva – e aver sottoposto e valutato gli esami del sangue di Sherlock, presi un respiro profondo e serrai la mascella, perché quel che stavo per dire non era mai facile.
«È chiamata sindrome di Wohlfart Kugelberg-Welander.»
«Oh Signore... Abbiamo incontrato i migliori medici di Londra, perché nessuno è stato in grado di scoprire cos'avesse?»
«Non si sa molto a riguardo, se non che è una rara forma di atrofia muscolare spinale.»
«Dio mio, dottore... Dio mio. Guarirà? Cosa si può fare?» domandò la donna, febbricitante, accasciandosi contro lo stipite della porta. Tossicchiai e respirai a fondo per cercare di mantenere un atteggiamento professionale tenendo testa ai sentimenti, «La perdita di forza simmetrica e l'atrofia soprattutto negli arti inferiori tenderanno sempre di più a progredire, anche se lentamente, con dei periodi di stallo. La debolezza muscolare colpisce soprattutto le gambe e i muscoli pelvici, per poi progredire verso le spalle e le braccia, evitando però il viso. Una cura non è stata, almeno fino a questo momento, trovata. L'unico appiglio a cui possiamo aggrapparci sono degli esercizi di fisiot-»
«E? La prego dottore, qualunque cosa, qualunque cosa!»
«... Di fisioterapia di sostegno.» Abbassai il capo, mordendomi forte l'interno di una guancia per scacciare via la rabbia e l'amarezza che si stavano facendo spazio dentro di me, ma quando sentii il lungo cappotto di Sherlock spostare l'aria intorno, non riuscii a bloccare le mie gambe che corsi verso di lui, chiamandolo a gran voce mentre accelerava sempre di più il passo sui gradini della rampa di scale dell'ospedale.
«Sherlock.»
«Il cervello.»
«Mh?» 
«Il mio cervello, dottor Watson! Diventerà anche lui un rottame?» Mi sputò in faccia uno sguardo gelido, girandosi di scatto, sopraffandomi con la sua figura alta e snella. Davanti a me un volto smarrito, cupo, amaro.
«No, non lo diventerà. E neanche tu.»
Poi andò via, girando l'angolo e scomparendo dalla mia vista.

Sherlock Holmes non si lamentava mai – della sua malattia, s'intende, preferiva fingere che non avesse nulla e che non gli dolesse mai nulla. Nessun altro ne era a conoscenza, perché Sherlock aveva espressamente richiesto che non se ne accennasse mai né con lui né con nessun altro. Ciononostante, io ero il suo dottore, sapevo quando il suo corpo decideva di non collaborare: quando una fitta gli colpiva la testa lui serrava la mascella e strizzava un occhio a seconda di quale lato pulsasse; quando le ginocchia stavano per cedere, lui contraeva i muscoli dei polpacci che tremolavano, e quel momento non fu un'eccezione.
Lasciai cadere il bicchiere che avevo in mano e corsi verso di lui, afferrandolo sotto le braccia e stringendolo a me più che potessi, come se da un momento all'altro potesse sfumar via. E fu terribile, non l'ho mai dimenticato. In cinque mesi che lo conoscevo, quella fu la seconda volta che vidi un barlume di paura nei suoi occhi, che, sapevo, non avevano il coraggio di guardare i miei. Voleva sempre mostrarsi invincibile e inattaccabile, Sherlock Holmes, ma in fondo lo sapeva, lo sapeva. 
Passai un braccio sotto le sue cosce e lo portai di peso nella sua camera, con i riccioli scuri e il respiro turbolento a solleticarmi la gola e la consapevolezza che tra le mie braccia, almeno lì, almeno in quel momento, fosse tutto intero. Gli rimboccai le coperte, frastornato da quell'assordante silenzio e quel dolore e quella mia incapacità di formulare una qualsiasi parola; certo, avrei potuto pronunciare un ridicolo e banale come stai?, o un ti serve qualcosa? o ancora, mi dispiace, ma lui sapeva. Tra me e lui c'era una complicità che il mondo dopo di noi non ha più visto. Le parole erano inutili, i chiarimenti banali, persino gli sguardi a volte erano superflui. 
L'ho incontrato che avevo sì e no ventisei anni, l'amore, ed era come un Chopin durante una corsa folle e spericolata.
«Se hai bisogno di me sono in camera mia.»
«Perché dovrei aver bisogno di te?»
«Per niente.»
Mi scordai persino il cappello.
Semplicemente uscii da quella casa che in quel momento sentivo mi stesse schiacciando contro.
Vedersi esclusi dalla vita, come se non t'appartenesse più, come se stessi respirando una vita non tua, o l'esistenza di chissà chi; addosso vestiti troppo larghi, troppo stretti o nessun vestito affatto. Vedersi spoglio d'ogni certezza e d'ogni castello – fortezza sicura – che ti sei costruito nel lungo – o breve, è relativo – corso del tuo passaggio su questa terra. 
Un castello di carte. 
Basta bagnarlo d'un respiro troppo intenso, basta un'involontaria contrazione d'una faringe, l'impercettibile soffio di vento proveniente da una finestra che figurati se ricordavi non aver mai chiuso – troppo concentrato a costruirti carta per carta il tuo castello. E allora il teatro crolla, i lacci si sciolgono, il muro si frantuma, rimani solo tu, su un palco sgangherato a luci spente, a fare i conti con ciò che sei, mentre nella tua mente ripercorri ciò che ti rimane – Il treno si mette in marcia e nella tua testa arrivano ad entrare, così in un apparente confuso disordine, rapidamente tutte quelle immagini: quelle viuzze nella tua mente che chissà in quale angolo di mondo portano, le mani dei tuoi genitori, il campo di battaglia, il terriccio, il granturco, la bocca di Sherlock Holmes, la nebbia di Londra e di nuovo il campo di battaglia, la bocca di Sherlock Holmes, il granturco, il cielo se alzi gli occhi, il bruciore del mondo e poi di nuovo il campo di battaglia, il terriccio, il granturco, la bocca Sherlock Holmes, di Sherlock Holmes, di Sherlock Holmes, Sherlock Holmes, Holmes, Holmes, Holmes, la bocca di Holmes, la tua bocca sulla sua, le parole che escono da quella bocca, quella bocca dalla quale escono respiri, il cielo se guardi nei suoi occhi. 

Venne la fine di novembre, il mio primo nella dimora degli Holmes, dimora in cui ogni giorno che passava mi sentivo sempre più a mio agio, nonostante un'opulenza alla quale non ero di certo abituato.
Mi viene in mente la mattina in cui la madre di Sherlock, con i raggi di un sole particolarmente caldo che le bagnavano gli occhi, mi chiamò con un: "Dottor Watson, posso rubarle qualche minuto?". Ci sedemmo in giardino e un set di porcellana da tè, decorato con motivi dorati, era già posato su un vassoio d'ottone, accompagnato dai biscotti allo zenzero che tanto piacevano al piccolo Holmes. Era una bella giornata. Inconsciamente cercai una certa protezione stringendo tra le mani la calda tazza di fronte a me, concentrandomi esclusivamente sulle sensazioni della ceramica calda contro la pelle. Nella mia armatura da uomo posato e imperturbabile, in realtà si celava un uomo terrorizzato, terrorizzato che potesse venir cacciato via da quel calore che sapeva di tenerezza e tristezza, che sarebbe dovuto tornare a cercare una squallida stanza in uno squallido quartiere di periferia. 
«Il motivo per cui vi ho chiamato è per parlare di Sherlock,» iniziò la donna, con lo sguardo fisso sulla distesa di verde dirimpetto. Uno sguardo preoccupato, che ben poco le s'addiceva: Violet era difatti una donna gioviale, appassionata di teatro, di ballo, di musica, amante della compagnia. «Ho avuto modo di notare come tra di voi si sia instaurato un certo legame.»
In una squallida stanza in uno squallido quartiere di periferia, senza Sherlock, ovviamente.
«Suo figlio è un giovane in gamba. Assolutamente brillante.»
«Mi piange il cuore dirlo, da madre, ma mi ha sempre creato non poche preoccupazioni. Il non aver mai avuto amici e apparentemente mai averne voluto uno, l'isolarsi, i suoi silenzi, il suoi interessi poco... convenzionali. Per Dio, gli insegnanti non smettono mai di adulare la sua spiccata intelligenza e il suo acume, ma è sempre stato interessato solo a poche specifiche materie e mi dispiace vederlo sprecarsi così.» Bevve un sorso di tè e meccanicamente lo feci anch'io, immerso nelle sue parole e voglioso di saperne di più, perché in quei due mesi Sherlock non mi aveva mai parlato di sé, e di certo non come potrebbe una madre. «Sapete, ricordo come fosse ieri le litigate con suo fratello e...»
«Fratello?» A quella mia domanda l'espressione della donna si tramutò in una desolata, quasi amareggiata ma non sorpresa, al mio contrario.
«Oh... non mi sorprende che Sherlock non ve ne abbia mai parlato, non è mai andato molto d'accordo col mio primogenito, Mycroft... forse perché avendo anch'egli un'intelligenza superiore alla media ed essendo Sherlock il minore, si sentiva in competizione.»
«Dov'è ora, se posso permettermi?»
«Ha scelto la sua strada.» Capii dal suo sguardo che quello non era un argomento piacevole, e fortunatamente riprese a raccontare. «Sherlock è cambiato, da quando voi siete qui.»
«Ah... dite?»
«Dico. Certamente continua ad essere brusco e introverso e a guardare tutti con quell'aria insolente» Ridacchiò, per poi tornare presto seria, quasi pensierosa, «Ma con voi... a voi riserva uno sguardo differente.» Un soffio di vento mi passò davanti per poi accarezzare i lunghi rami delle betulle. «Dottor Watson, non vorrei mancare d'educazione, ma sono a conoscenza della vostra situazione e per questo vi propongo di trasferirvi qui da noi. Se vi fa piacere, s'intende. Sostengo che siate un giovane troppo arguto e di buon cuore per continuare ad abitare in una casetta in solitudine.» Superfluo è dire che a quelle parole il liquido giallognolo del tè mi andò quasi di traverso. «Ovviamente la paga resterà invariata e riceverete tutto ciò di cui avete bisogno.»
E fu così che un giorno e mezzo dopo salutai la proprietaria della mia vecchia stanza a Peckam.




 
Allegretto


 
Qualche settimana dopo ci fu la prima nevicata invernale dell'anno e poco dopo il Natale. In casa Holmes venne organizzata una festa. 
Era una bella domenica mattina. La cuoca aveva portato in sala da pranzo una miriade di leccornie come se ci aspettasse una giornata di lavoro nei campi: una bella torta di mele, dei morbidi panini al cioccolato ancora fumanti, uova sode e altre strapazzate, pane fresco, salsicce, pomodori grigliati, frittelle e altro che neanche ricordo. Era un bel momento di raccoglimento, mi sentivo fresco, riposato, sereno e parecchio affamato, così dopo aver dato a tutti il buongiorno mi riempii il piatto. Come al solito non potei non fare i complimenti e ringraziare Julie, che si prendeva costantemente cura della casa e della famiglia Holmes e anche di me, che come al solito arrossiva e si sventolava una mano davanti al viso. Credo che le piacessi e la mettessi in uno strano imbarazzo. Era una donna di mezz'età, di poco rotondetta, dal portamento rigido ma gentile, dal caratterino testardo ma premuroso; la si poteva sempre vedere coi capelli rossicci raccolti in una fascia bianca, le maniche del vestito raggomitolate sui gomiti e le mani sporche di farina. Prima della mia permanenza, Julie faceva colazione spiluccando qualcosa qua e là solo dopo averla preparata per la famiglia e, nonostante le insistenze di Violet e Sherlock nel farla accomodare con loro, ha sempre ripetuto che non era "cosa buona", perché lei, da domestica, non aveva il diritto di condividere il pasto con chi "andava servito". Inutile precisare quanto il padrone di casa la mettesse in soggezione. Per me, tuttavia, quella era una cosa inaccettabile, dato che faceva parte della famiglia da anni e gli Holmes non erano di certo di ceto così nobile, così dopo non poche insistenze arrivammo al compromesso che ci avrebbe fatto compagnia ogni domenica a colazione.
Anche Sherlock quella mattina era stranamente lì, il ché mi fece piacere e non potei smorzare un sorriso.
«Sapete, John», esordì Violet, mandando giù un pezzo di pane imburrato, «tra una settimana, per il giorno di Natale, come ogni anno terremo una festicciola... niente di esorbitante s'intende, solo un modo per riunire la famiglia, i parenti sparsi per la città. Ormai siete uno di noi, quindi sentitevi libero d'invitare un amico o una qualsiasi persona a voi cara.» E sfoggiò un sorriso smagliante, caldo e luminoso, per poi versarsi del succo d'arancia in un lungo bicchiere di vetro.
No, non avevo nessuno da invitare: dei miei commilitori avevo perso ogni contatto, mia sorella Harry si sarebbe data alla pazza gioia con qualsiasi cibo o bevanda contenesse anche una minima percentuale alcolica, rovinando tutto, e di amici non ne avevo. Certo, pensai, avrei potuto invitare Mike, ma ero certo che si sarebbe portato al seguito moglie e figli, e non mi andava di creare così disturbo alla famiglia Holmes. 
O semplicemente non mi andava di vederlo. 
Pensai poi ch'era stato lui ad avermi indirizzato qui, ch'era grazie a lui che la mia vita fosse svoltata in una strada migliore... poi la tenerezza e il calore m'invasero il cuore in petto. Vidi tutto ciò che mi circondava come avvolto da un sottile lenzuolo di familiarità: quei volti che m'ero abituato ad incontrare ogni giorno — Violet, Julie, la modica  gente che popolava la zona —, quella tranquilla dimora così vasta per uno come me ma della quale avevo imparato ogni angolo e percorso a menadito, il tavolino color panna attorno al quale spesso prendevamo il tè, perfino la brocca di porcellana nella quale riposava il liquido arancio del succo. La mia vita, per la prima volta, mi sembrava uno spettacolo meraviglioso.
Mi voltai verso Sherlock, che seduto accanto alla madre, col suo piatto riempito apposta dalla cuoca dei suoi amati biscotti allo zenzero, di crostata e paste varie, ne infilzava goloso la forchetta. 
Prendeva davvero sul serio i dolci! 
Ed io prendevo sul serio la mia colazione.
A dirla tutta, stavo bene così, grazie.
§
 
Nonostante la cuoca mi dicesse di lasciar fare a lei e di non disturbarmi, quasi ogni mattina, prima di far colazione le auguravo il buongiorno, che veniva ricambiato con un ampio sorriso, mi procuravo il vassoio di legno dall'anta in alto a destra, e prendevo a rovistar nella dispensa.
Sherlock pareva non aver mai fame e non aver mai bisogno di cibo, ma ovviamente era un essere umano — anche s'era facile che sorgessero dei dubbi a riguardo —, e ne aveva bisogno. Quando, giorni prima, la cuoca mi aveva chiesto di portare la colazione in camera di Sherlock per qualche imprevisto che non ricordo, mezz'ora dopo mi riferì che aveva spiluccato qualcosa, cosa che, a parole sue, con lei non succedeva mai.
Inutile descrivere il calore che mi avvolse il cuore.
Come dicevo, quella mattina misi sul vassoio una tazza di tè nero con latte, un bicchiere di succo d'arancia, due fette di pane tostato, un uovo ad occhio di bue, una porzione di marmellata e una di burro, qualche biscotto, delle frittelle ancora calde e una ciotolina di frutti di bosco. Non sapevo cosa preferisse al mattino né cosa gli avrebbe rallentato di meno il cervello quel determinato giorno, quindi gli portavo qualsiasi cosa fosse fresca e preparata dalla cuoca al mattino.
In più, perché fragellarmi così tanto privandomi della sua presenza? Perché dobbiamo sempre sempre esser noi stessi creatori dei nostri dolori?
«Guarda che non ho bisogno di cose stupide come il cibo», pronunziò accompagnandosi da un cenno teatrale della mano, «Sei diventato la mia cameriera?» Sherlock se ne stava in piedi davanti alla finestra aperta / letto sfatto / violino buttato malamente sulla poltrona / tappezzeria bordeaux / pigiama bianco a righe blu con vestaglia / odore di sostanze strane / microscopio sulla scrivania / giornali / fogli sparsi. 
Che Dio me ne scampi!, stavo diventando come lui.
«No, sono il tuo medico e ti ordino di mangiare.» 
Non gli chiesi come avesse indovinato dedotto che gli avevo portato del cibo.
Il suo sbuffare mi fece ridacchiare, e quando feci per andar via, dopo aver sistemato il vassoio sul letto, sentii il mio polso sinistro avvolto in una stretta.
«Insieme a te.» 
«Vuoi che mangi con te?»
«Hai svuotato tutta la cucina.» Spallucce.
Abbozzai un sorriso inumidendomi le labbra con la punta della lingua prima di sedermi al suo fianco.
Sherlock diede un'occhiata veloce a quella montagna di cibo per poi prendere una fragola, infilarla appena tra le labbra rosee e affondarne gli incisivi. Poi mi allungò qualcosa e un po' titubante lo sfilai dalle sue dita magre, per poi portarmelo alle labbra.

 
§
 
Uscii dalla mia stanza tutto contento, una valigia di cartone alla mano ed un sorriso sincero sul viso.
Ero contento, sì. Il cuore come avvolto da una coperta calda e l'eccitazione di una svolta. Di un viaggio. 
Nonostante io sia tuttora un'uomo dall'indole abitudinaria e "casalinga", ho sempre ritenuto il verbo viaggiare termine di paragone alla parola rinascita. Se non sai come continuare, se ti sei perduto, se ti sei smarrito: sali su un treno, un treno qualsiasi, che vuoi che importi la destinazione o chissà cos'altro. Lasciati indietro pantaloni, mogli, orologi, mariti, bretelle, amici, cappelli. 
Solo non scordarti di portar te stesso.
Il viaggio è immergersi in altre vite per trovar la tua. 
Anche se quella era solo una gita fuori porta.
«Dottor Watson, vi prego, parlateci voi ch'io ho perduto la pazienza.» Violet quasi mi urlò contro, correndo disperata a destra e a manca subito dopo senza neanche lasciarmi rispondere. La sua richiesta era priva di complemento oggetto ma non ci voleva di certo un genio per capire a chi si stesse riferendo. Fatto sta ch e in quel barlume di secondo le sfoggiai il sorriso più rassicurante e comprensivo di cui ero capace e, dopo aver posato la valigia sul pavimento, raggiunsi la sua camera.
Toc toc.
...
Toc toc.
...
Aprii la porta.
Sherlock Holmes era seduto a gambe incrociate sul letto, senza fiatare, come al solito chino sul suo prezioso microscopio ad analizzare chissà cosa, avvolto nello scurità se non da un brillore di vita che filtrava attraverso le tende della finestra semichiusa e che gli dava un'aria, se possibile, ancor più inquietante.
«La risposta è no.» esalò dopo momenti di tombale e religioso silenzio.
«No?» 
«No, non verrò a questa stupida gita.» sbottò senza prendersi il vago disturbo di staccare gli occhi dalle lenti.
«Invece ci verrai. Il sole e l'aria fresca non possono che farti bene.» replicai spalancando la finestra — Cielo, i miei occhi!
«Dio, ora anche tu devi trattarmi da malato terminale? E chiudi quella maledetta finestra, diamine, non vedi che sono occupato?»
«Non ti sto trattando da malato terminale. Qualunque essere vivente non può che giovare di una bella giornata primaverile come questa. Per giunta, è solo per un giorno.»
«Io non credo che gli orsi po-»
«Sherlock!»
«Io resto qua.»

Qualche minuto dopo uscii da quell'oscuro rifugio, scesi le scale e raggiunsi l'ingresso.
Sarò anche uno pseudo scrittore, ma ancora oggi non riesco a trovar parole che descrivano anche solo vagamente l'espressione di Violet.
Julie ci aprì la porta e la ringraziai con un cenno; Sherlock fu il primo ad uscire — non si sa mai che potesse far marcia indietro — e, quando fu abbastanza lontano da non poter sentire, Violet mi sussurrò un eccitato: «Ma come avete fatto a convincerlo?»

Scesi dalla carrozza, trainata da due splendidi cavalli bai, sentendomi in pace col mondo, beato come poche volte in quegli anni. Alzai lo sguardo all'insù e osservai il cielo limpido bagnato dal sole, la natura che stava sgranchiendosi e gli uccelli che animavano la primavera, piroettando allegri nell'impeto dei primi raggi di sole.
«Su su, è il momento di rifornirci d'energia!» esclamò Julie, la domestica, tutta presa dall'entusiasmo. 
Rifornirci d'energia. 
Non avevamo di certo scalato una montagna, ma il mio stomaco non avrebbe di certo rinunciato ad un buon pasto, così ci accomodammo tutti sul telo steso sull'erba profumata e rigogliosa.
Violet era splendida accanto a me: i lunghi capelli scuri raccolti in un'accurata treccia, il corpo esile e pallido, che stava spogliandosi della mantella scura rivelando un leggero vestito color panna a quadretti, dal colletto squadrato e dalle piccole decorazioni floreali azzurrine. Lanciava spesso lo sguardo al figlio, uno sguardo chiaro e allegro che non nascondeva l'amore e la premura di una madre. 
Guardavo lei, così affascinante, donna.
Guardavo Sherlock, così fragile, ragazzo cresciuto troppo in fretta.
Mi premurai di obbligarmi a smettere immediatamente di torturarmi in quella maniera massacrante e suicida e tornai nel presente.
Sistemai sul telo rosso e squadrettato tutto il contenuto del cestino di vimini che Julie aveva preparato quella mattina, sotto lo sguardo quasi imbarazzato di quest'ultima — "Vi prego, lasciate che porti io il cesto", "Ma no, no, non posso permettermi!", "Sono io a chiedervelo", "Dottor Watson... se fossi stata un po' più giovane vi avrei fatto la corte! Vedeste che bella giovane ch'ero...": pane fresco, un'estremamente invitante torta salata ripiena di formaggio e porri, patate arrosto, pancetta — non la mangiavo da secoli! — ciliegie, una torta alla melassa, acqua e del vino rosso.

Più tardi eravamo lì a far due passi, a perderci nello spirito gioioso e fiammante della vegetazione, quando per nessunissima ragione al mondo ci fermammo di fronte ad un cespuglio colmo di bacche. E Sherlock lo fece di nuovo, come tempo addietro: assottigliò le palpebre in due fessure senza smettere di osservarmi, come fossi uno dei suoi esperimenti da analizzare sotto due lentine da microscopio; forse avrei dovuto farlo, ma non avrei mai distolto lo sguardo. Poi staccò una bacca dal rametto, in quel suo modo bellissimo di fare le cose da nulla come l'addentare una bacca durante una gita in campagna, col succo rosso cremisi che gli baciava le labbra. Leccai le mie, di labbra, come di riflesso, come se potessero sostituire le sue. Così proibite, vergini e carnose.
Allora feci com'era mio solito.
Dissi ch'era meglio tornare indietro altrimenti sua madre si sarebbe preoccupata.
Perché quel gesto? Possibile che non si rendesse davvero conto? Possibile che non si rendesse conto di quanto lo desiderassi, e di quanto mi consumasse? Possibile che m'amasse? 
Mi volsi, m'obbligai a un passo veloce e respinsi dalla mente tutte quelle domande. 

Il sole ci fece compagnia ancora per poco, rabbuiando un cielo striato d'arancio e rosso, quando nel tardo pomeriggio lasciammo quel piccolo angolo di paradiso per tornare a casa — quasi mi faceva ancora strano che fosse anche mia.
Verso sera, nonostante mi sentissi in qualche modo imbarazzato, entrai in camera di Sherlock per portargli la cena, ma forse qualche legge cosmica era nel frattempo cambiata, sicché erano le otto di sera e Sherlock Holmes era già a letto, dormiente tra le braccia di Morfeo. 
Gli rimboccai le coperte e gli azzardai un bacio leggero sulla fronte liscia, per poi pentirmene immediatamente dopo, incupendomi. Cos'avrebbe pensato di me? Mi avrebbe sbraitato contro? Mi avrebbe cacciato via? Non riuscivo a pensare ad altro, quella manciata di secondi erano riusciti a scatenarmi una guerra nella testa, quella situazione mi stava sfuggendo di mano e divorando vivo, e allora fuggii, come un vero John Watson.
«John, se hai intenzione di rifarlo, ricordati di accorciarti i baffi.»



 
Vivo
 


luglio 1893
1° giorno, h21:12: Il paziente nota solo adesso che nella sua stanza è scesa un'oscurità, di certo non come quella della sua anima — entrata e non uscita. È steso a letto dalla notte precedente, non ha inghiottito un boccone, neanche un sorso d'acqua, non si è alzato per andare a svuotarsi al bagno, non s'è mosso neanche per masturbarsi, non sente niente e non vuol sentire niente. Collabori, per grazia!
2° giorno: Ci son pazienti che quando aprono bocca sembra non che la richiuderanno mai più. Non prendono neanche ossigeno, semplicemente si mettono lì e iniziano a dar voce a ciò che gli accende l'anima e attraversa la testa. 
"Sembrava un brav'uomo insomma io ci credevo insomma avevo fiducia in lui c'è stato il colpo di fulmine tutte le mie amiche non hanno fatto che ripetermi quanto io fossi fortunata invece è finito tutto mi credete è finito com'è iniziato mi chiedo se quando diciamo a noi stessi d'esserci innamorati quel sentimento è davvero amore o solo un brillume di passione o profonda stima per l'altro o forse è il nostro cervello non il cuore eh che ci segnala che abbiamo bisogno di sentirci speciali e voluti bene e allora ci autoconvinciamo ci danniamo per qualcosa che magari non esiste io non lo so eh il cervello umano è così complesso ... forse se è amore nessuno ce lo dice ..."
"È che io ci provo capite? io ci provo continuamente c'ho questo dolore lancinante che pare muto e vuoto ... sono da sempre una tempesta emotiva che si schianta su di me come un proiettile al cuore o un biscotto contro il latte e su tutti coloro che mi stanno intorno ... sento troppo di tutto e nessuno sembra rendersene conto e penso sempre di essere speciale e di avere il dovere di fare qualcosa di ancor più speciale del tipo salvare il mondo me lo dico spesso che forse io son nato per far qualcosa di rilevante ed è diventata una questione ossessiva e quotidiana santo cielo forse sono solo un imbecille ... ci penso spesso alla morte sa sono così stanco di dover lottare tutto il tempo e tutti i giorni da tutta la vita e per tutta la mia vita ... perché questo è un mondo che non è alla mia portata magari è a quella dei violenti o dei mentecatti ma non alla mia voglio dire sono sempre alla ricerca sempre sempre sempre di qualcosa che non so neanch'io come spiegare dev'essere sempre tutto intenso e perfetto e se non lo è allora è sbagliato ... non riesco a farmi spazio in una società in cui niente e nessuno mi rappresenta e in una società che non capisco né accetto e che per la quale quelli come me son solo disadattati ho cercato così tante volte di mettermi davanti a quel benedetto cavalletto e dipingere la qualsiasi cosa ... un giorno nel parco quello col laghetto chiesi ad una donna che se ne stava lì a dar da mangiare ai piccioni di lasciarsi ritrarre ... giuro le ho detto proprio così scusa ti ho visto e mi hai mozzato il fiato e non ce l'ho fatta dio che stupido ho anche provato a fare degli schizzi per casa o in giro o a disegnare sulle pareti ma mi sento così impedito ogni cosa diventa artificiosa complicata impossibile allora mollo tutto e riprendo e poi mollo di nuovo ... dio non son riuscito neanche a chiedere a quella ragazza se volesse uscire con me ... non so che strada prendere mi sembra un'esistenza di stenti e di sopravvivenza e di un eterno aspettare di vivere davvero e io questa vita voglio mangiarmela capite ... voglio prenderla a morsi e consumarmela e sanguinarci sanguinarci sanguinarci pur di avere il massimo ... in realtà non lo so cosa voglio io ... c'ho questo dolore lancinante che pare muto e vuoto ... non mi sento granché lucido ... ho perso il filo dei pensieri ... a volte penso di voler morire ..."
Tuttavia, ci son soggetti che semplicemente sentono, sentono tutto, loro, s'accorgono di tutto, notano tutto e se lo fanno proprio, se lo infilzano nella carne, e quindi il tutto di tutto diventa un mucchio di caos del quale non si riesce a parlare e ins-
3° giorno: Ci scusiamo per la precedente brusca interruzione. Tornando al nostro paziente: ci spiace informarvi che neanche oggi ha toccato cibo o altro. Inizia ad emettere cattivo odore. Mostra un costante bisogno di dormire, che altro non è che una via di fuga dalla realtà e dai suoi stessi pensieri; il sonno, che è una necessità e una fonte di rilassatezza, è tramutato in obbligo. 
Fatica / spossatezza / vuoto / angoscia / avvilimento / afflizione / irregolarità / logoramento / tristézza tri·stéz·za s.f.: 1. Stato di depressione riconducibile a un particolare dolore o a una diffusa e cupa malinconia: cacciare la t. col vino; sguardo velato di t.
4° giorno: Il paziente è ancora in una fase di psichedelica semi-coscienza. Il suo corpo è ormai tutt'un tremolio, la vista è continuamente annebbiata e confusa, ogni tanto emette respiri violenti. 
Chissà se si alzerà mai, da quel letto. Chissà se in un attimo e in un angolo si troverà mai, sarebbe bello se si trovasse, se almeno qualcuno ci riuscisse.

A volte penso di voler morire.
Era più divertente nella mia testa.
§

I giorni precedenti al 25 dicembre erano stati caratterizzati da un via vai di persone, addobbi, luci, alimenti, due alberi freschi di pino e tutto ciò che servì per realizzare quella serata di festeggiamenti — Dov'è che va questo velluto?, Accomodalo alla bell'e meglio..., Tom, per l'amor del Cielo, un po' di grazia..., Passatemi la statua di porcellana, forza!, Certo che la madre tua..., ... Se soffia il vento se ne vola! 
Ma andiamo per ordine, che è spesso necessario. 
Ci troviamo dunque al 24 dicembre: dopo un fortunato sonno sereno e privo d'incubi, al mattino mi svegliai di buon'ora, e buona parte di esso lo trascorsi riservandomi del tempo e qualche coccola: una buona colazione accompagnata alla lettura dell'ultima uscita dello Strand, un bagno caldo e vestiti puliti. Quando l'orologio a pendolo del salone segnò le undici circa, casa Holmes s'impolpò di persone: chi si occupava dell'albero e delle sue decorazioni, chi delle luci da appendere qua e là; arrivò persino il postino, un grazioso ometto piccolo piccolo.
Comunque, mentre stavo per recarmi in camera di Sherlock, dato che non lo avevo visto a colazione, Violet mi chiamò per delle commissioni che ora, ad essere onesto, ho dimenticato. Così uscito, ne approfittai per recarmi dal mio barbiere di fiducia: mi rasò la barba e sfoltì i mustacchi, poi richiesi espressamente di spruzzarmi un po' di colonia (che m'era anche costicchiata); non son mai stato un tipo che segue la moda o che preferisce il marchio all'efficienza, tuttavia sentivo la necessità di staccarmi un po' dalla mia "zona di conforto", di portare novità in qualsiasi ambito potessi. 
Cambiamenti piccoli. Sono utili. 
Comunque, quella fraganza con note di agrumi, fiori ed erbe era gradita e più che piacevole.
Sempre seguendo il piano di quella mattina, a mezzogiorno mi regalai un pranzo, al Simpson's in the Strand di Covent Garden. 
Pensai molto a Sherlock, forse più di quanto fosse ammissibile. Probabilmente più di quanto fosse ammissibile. Sicuramente più di quanto fosse ammissibile. C'era un vuoto dentro di me che portava il nome suo. Sherlock non solo m'aveva dato conforto e luce, qualcosa per la quale vivere e combattere: lui m'aveva dato tutto, la mia vita non era fiacca perché lui era tutt'altro. Sherlock era una bomba ad orologeria.
In quei pochi mesi sentivo, anche se Sherlock non l'aveva mai dato a vedere, d'aver stretto con lui un legame che andava parecchio più oltre di quello medico-paziente o parente o fratello maggiore o qualsiasi altro rapporto che portasse l'etichetta di un nome: sentivo che quella cosa stava tramutandosi ogni giorno di più in qualcosa di... pericoloso, a tratti: cos'avrebbe detto e pensato la gente, di un uomo invaghito di un ragazzetto di quasi dieci anni minore? 
Io però nei suoi occhi ci vedevo tutta una vita, la mia.
Un sentore di terrore e vergogna prese ad attorcigliarmisi tutt'intorno, così scossi la testa, come se con quel gesto potessi allontanare ogni pensiero che non fosse il piacevole ambiente della sala in cui mi trovavo e il gusto delizioso di ciò che avevo sul piatto.
Poi sbrigai le ultime commissioni che mi rimanevano. 
Il pomeriggio lo trascorsi quindi girovagando per le strade di Londra, che, fredda e palpitante, mi donava un maestoso e candido spettacolo.
Casa Holmes si trovava in una zona non proprio centrale né trafficata, quindi ogni tanto mi sforzavo di intrufolarmi nella civiltà. 
È difficile spiegare, a chi non è mai capitato su questo terreno, Londra: io la descriverei come un museo all'aperto un bambino capriccioso che crede di poter fare come più gli aggrada in qualsiasi momento, dall'umore precario, che certo di essere grande abbastanza, mai stringe la mano di sua madre.
Tuttavia, io mi trovavo in uno stato di notevole agitazione. Animo inquieto. Perduto in una babilonia di opportunità. Che il diavolo mi portasse, ero un lerciume vivente. Eccetera. 
Londra, a quell'ora – circa le diciotto –, pullulava di gente: garzoni che correvano di qua e di là come scalmanati, gatti e cagnetti randagi che s'addentravano in vicoletti bui, uomini in soprabiti lunghi e dai folti mustacchi ai quali si dedicava una vita intera – e uomini che proprio non ce la facevano a farseli crescere e s'accontentavano delle basette –, il chiacchiericcio delle dame che, avvolte in vestiti dai colori chiari e dagli angusti corpetti, sfoggiavano deliziosi sorrisi. A quel tempo si passeggiava tra cappellini più o meno sfarzosi, tra il rumore degli zoccoli dei cavalli che trainavano le carrozze, l'odore del pane e del fumo delle pipe degli uomini, i nasi all'insù degli aristocratici, chi aspettava l'inizio di uno spettacolo teatrale, chi di rivedere la propria famiglia, chi semplicemente se ne stava lì ad aspettare qualcosa. Si passeggiava tra strade che da lì a poche ore sarebbero diventate rigogliose di donne sciagurate e uomini senza pudore, tra strade rigogliose di ricchi borghesi in cerca di fuochi fatui che credevano grandi, tra segreti da custodire e amori da spogliare. Tra gli scambi di saluti gridati, perché altrimenti dall'altro capo della strada mica ci si sentiva, a Londra.
"Buonasera!", "Eh?", "No dico, buonasera!", "Dovete credermi, ma non capisco bene", "Vi duole un rene?", "Le balene? Caro signore, non mi sembra sia questo il luogo adatto per-"
Ad ogni modo, come ho detto poche righe addietro, io mi sentivo smarrito in una babilonia di opportunità. 
La prima faccenda s'era conclusa piuttosto in fretta, lasciandomi sotto il braccio un raffinato pacchetto contenente un tomo sulla botanica, quindi si trattava solamente di portare a termine la seconda e ultima. 
Ma come fare?
A mia difesa m'ero ben presto deciso per un violino, ma neanche a farlo apposta sembrava ce ne fosse la morìa!, ed io ero tutt'un "Abbiate pazienza e venitemi incontro": ad uno, per grazia, mancava una corda, e di certo no, che non si può suonare un Bach senza una corda; questi aveva al cartellino un prezzo da far rammollire le ossa, da far strabuzzare le pupille, da lasciarti a pane e acqua per settimane, eccetera; quest'altri era sì economico, ma Sherlock Holmes meritava di meglio.
Insomma, erano o no i tempi d'oro per la musica?
Ciononostante, la cosa più incongruente, era in realtà Londra nel modo più globale del termine... Mani avanti: è sempre stata la mia culla e la città dove son nato e dove so per certo che morirò, ma solo uno stupido può fidarsi di questa fanciulla, che con quello sguardo cristallino t'abbaglia, col suo profumo eccentrico t'inebria, ma che, dopo averla conosciuta, ti si avvinghia mostrandoti la ferocia del mondo. Ipocrisia, delirio, compromesso. Ci si fida e si rispetta quell'uomo dall'aria solenne e aristocratica, ci si conversa e fa i complimenti alla sua devota mogliettina... macché... di notte quello stesso uomo si spoglia dei suoi ricchi abiti e abbandona i figli per andare a sfogarsi con le donne perdute. Guardiamo quei bambini e ne siamo invidiosi, beati loro che hanno tutta una giovinezza davanti, beati loro che non hanno obblighi né preoccupazioni, ma si badi bene: a quei bambini invece dei giocattoli si son date pale per spalare il carbone nelle fabbriche – acredine, ostilità, disprezzo, noncuranza. Per non parlare degli sviluppi!: le carrozze, la (apparente) modernità di pensiero, l'illuminazione pubblica a gas, le linee ferroviarie, il telegrafo... eppure l'amore tra due uomini veniva punito con il carcere e i lavori forzati – empatia, apertura, ricettività. 
Quel maledetto violino davvero stava diventando un'impresa titanica.
Comunque, una mezz'oretta dopo chiamai un cocchiere e tornai a casa.

Fratelli, sorelle, genitori, nonni, zii, cugini di primo grado, cugini di secondo grado, cugini che vengono chiamati tale per evitare inutili prolisse spiegazioni. C'erano davvero tutti, quella sera in casa Holmes, primo figlio e padre compresi. Eran tutti sorridenti, in quel caldo tepore in contrasto con la neve che fuori scendeva copiosa e libertina, con un leggerissimo sottofondo di musica classica coperto dal chiacchiericcio e dal crepitio del camino acceso, luci giallognole e tanto cibo. 
Poi arrivò Sherlock Holmes, con i suoi capelli color ossidiana sparati in ogni direzione, che con sguardo indagatore e sufficiente scese le scale, raggiunse sua madre, con la quale stavo chiacchierando, annunciò: «Lascio la scuola» e si diresse verso una coppa di dolci.
Fu un momento molto divertente. 
Ovviamente non c'era nulla di spiritoso, tutt'altro, ma io e Violet rimanemmo così impietriti e di stucco che mi è davvero complicato descrivere quella nostra non-reazione. 
Lascerò dunque tutto nelle mani della vostra immaginazione.
D'altro canto, decisi di posticipare quella conversazione al giorno seguente, perché sapevo che qualsiasi cosa potessi dire avrebbe scatenato la sua ira, e, a dir la verità, non volevo rovinarci la serata.
Un altro ospite fece il suo ingresso in sala ed Violet, col suo corpo longilineo e fusiforme vestito d'un delizioso abito megenta scuro, dovette correre a dargli il benvenuto, quindi io, rimasto solo come un cane, decisi di andare a prendermi da bere, all'altro capo del banchetto dei dolci. 

«Non vi ho visto l'anno scorso... alla festa di Natale, intendo.»
«Neanche a quelle precedenti, immagino.» Sorrisi alla donna che mi stava accanto. «Sono un... amico. Un nuovo amico. Storia lunga.»
«Beh, sono qui sotto costrizione di mia madre, quindi direi che ho tutta la serata.» Si riempì anche lei un bicchiere, lanciandomi uno sguardo velato di malizia. «Vi prego, chiunque voi siate, intrattenetemi.» 
Mary Morstan – così si chiamava, quella bellissima creatura bionda – era una di quelle donne che a quei tempi non si vedeva molto in giro: spavalda, libertina, consapevole della propria intelligenza, spiritosa in un modo tutt'altro che stucchevole, difficile da tener testa. Si direbbe fosse la mia donna ideale. Adoravo farla ridere, perché il suo sorriso era ampio e sincero, e quando rideva pareva tornar bambina. Avrei potuto chiederle perfino di sposarmi: un giorno però mi disse che avrei dovuto scegliere tra lei e Sherlock. Non risposi. Lei mi disse qualcosa, forse che avrei fatto meglio a sposare lui, e girò i tacchi, scomparendo per sempre dalla mia vita. Poi me ne andai a mangiare un boccone.
L'avevo detto io, ch'era spavalda.
Tuttavia, ritornando al nostro primo incontro: trascorsi non so neanch'io quanto tempo, raccontandoci di noi, ridendo e scherzando, con la sua piccola mano bianca che ogni tanto mi sfiorava un braccio. 
Mi stava raccontando non ricordo cosa, forse riguardava sua sorella Molly, sembrava un aneddoto simpatico, comunque, uno scialle di cachemire color vinaccia d'una vecchia signora giunse improvvisamente da noi e, afferrando bruscamente una mano di Mary e salutandola vivacemente, se la portò via senza se e senza ma. Tirai su col naso, mi sfregai le mani sulle cosce fasciate in un pantalone in tweed color tortora, mi guardai intorno, vidi la ragazzina lanciare un ultimo sguardo sconsolato a Sherlock, sbuffare e alzare i tacchi. Non riuscii a nascondere un sorrisetto. Tempo prima, dinfatti, avevo notato di una ragazza dall'aria simpatica e genuina, Molly – sì, la sorella di Mary –, avvicinarsi a Sherlock per cercare d'intavolare una conversazione.
Fiato sprecato, naturalmente.
Nella stanza inondata da un luminoso chiarore, osservavo la curva lombare di Sherlock, in quel suo solito atteggiamento dogmatico, finché non sentii una mano, ampia e massiccia, posarsi sulla mia spalla.
«Oh, signor Holmes, salve.» Mi alzai e porsi una mano all'uomo, che strinse con un gesto rigoroso. Mi metteva sempre un po' in soggezione: oltre ad esser di gran lunga più alto e imponente di me, anche se alternava momenti di allegria e gaiezza, era d'un carattere piuttosto schivo, fermo, e aveva spesso l'aria di chi ha un segreto da nascondere. Il suo rapporto con Sherlock era aspro e combattivo: pur trovandosi raramente in città, non erano poche le volte in cui lo rimproverava, lo provocava e poi l'offendeva. Dal canto suo, Sherlock era un dominante che pretendeva che fosse sempre sua, l'ultima parola, ma aveva a che fare con il classico uomo di quel tempo, rigido e austero. Di certo non un allegro e complice rapporto padre-figlio.
«Mi chiami pure Siger» disse con un sorriso, accomodandosi al mio fianco. «Vedo che fate conquiste.» Non era di certo la prima volta che mi veniva detta una frase del genere, ma non sapevo proprio come rispondere, così gli rivolsi semplicemente una risatina accennata. «Vi sta piacendo la festa?» 
«Oh certo, assolutamente.» Mi passò un bicchiere di brandy e lo ringraziai. «Buona compagnia, buon cibo, buona musica.» 
Ora non starò qui a metter nero su bianco quella nostra conversazione, seppur fosse piuttosto interessante – letture in comune, i suoi viaggi frequenti per commerciare sete e oggetti preziosi, le mie esperienze nei paesi di guerra –, perché preferisco far girare la vostra lettura intorno a Sherlock Holmes, così come vorticava la mia vita. 
«Come vanno le cose con Sherlock? Sempre acido e pomposo?» domandò con una risatina ed una bevuta di brandy, come se non stesse parlando di suo figlio ma di qualcuno che disprezzava.
«È un ragazzo in gamba. Molto. Forse fin troppo.» 
«Questo nessuno sembra metterlo in dubbio, ma io credo siano più giochetti, quel che fa lui. Sapete, per attirare attenzione.» 
«Mi permetto di contraddirla.» 
«Ah, ma voi siete un uomo corretto, come me, non parlereste mai male di qualcuno. Nondimeno, permettetemi di dirlo, sembra che voi stiate prendendo il mio ruolo di padre, forse anche qualcosina in più.» 
«Cosa?» 
«Sapete, lui è un ragazzetto complicato e voi siete un uomo già bell'e fatto, reduce di guerra, magari in cerca di qualche...», rispose alzando entrambe le sopracciglia scure, terminando il bicchiere di alcolico, «distrazione.» Strabuzzai gli occhi, sentendomi insultato e profondamente offeso a quell'affermazione, quasi come fossi una poco di buono. Come si poteva esser così viscidi, pur mantenendo quella maschera di uomo per bene, di valore? 
«Non so a cosa vi stiate riferendo, ad esser sincero.» 
«Mah, io credo lo sappiate. Ora, vogliate scusarmi.» E si alzò per andare incontro ad un signore tutt'imbellettato. Oh, George, che piacere rivederti...
Ancora un po' stordito da quella conversazione, decisi di cambiare aria: riempii un piattino di cibo e lo portai a Sherlock, prendendo il posto della fanciulla. 
Quella massa di riccioli neri si voltò verso di me, quegli occhi scuri incatenati ai miei, quelle dita a sfiorare le mie il tempo d'afferrare un disco di porcellana.
«Non t'ho mica detto che era per te.»
«Oh, sta' zitto, non mangeresti mai dolci prim'ancora di buttarti sul roastbeef.» bofonchiò con la bocca piena, facendomi ridacchiare. Come si poteva non amare d'una sfrenata passione, un essere simile? «Che voleva mio padre da te?»
«Nulla, abbiamo solo fatto due chiacchiere. Allora... che mi dici di quella ragazza?» Ovviamente conoscevo l'andazzo dei fatti, ma volevo sentirmelo dire. Volevo sentirmi dire che di quella ragazza dai capelli dorati e dal portamento cordiale non gliene importava nulla. Mi sentivo un deviato, forse lo ero, ma non riuscivo ad evitarlo.
«Quale ragazza?» mi domandò, spostando di nuovo lo sguardo verso la finestra. Era stupefatto, davvero l'aveva ignorata!
«Come, quale ragazza? La biondina di prima, Molly.» 
«Ah, sì... uno strazio. Ogni anno cerca di rivolgermi la parola.»
«Non ti piace? A lei piaci.»
«Che ne sai tu che le piaccio?»
«Oh, andiamo, non l'hai notato come ti guarda, come non ti ha staccato per un momento gli occhi di dosso?»
«Io no, però tu a quanto pare sì.» E mi sbattè alla parete con una sola frase. Secco, spietato, sincero, incurante del male che mi procurava. Forse non si accorgeva neanche di ciò che provavo per lui, delle mie mani che formicolavano dalla voglia di potergli anche solo sfiorare i capelli. «Resta il fatto che è di una noia mortale, un povero cervello lasciato lì in disuso, a far muffa. Non vedevo l'ora che se mi lasciasse solo.»
«Vuoi che ti lasci solo anch'io?» Cercai il suo sguardo.
«Guarda che quella donna, Mary, non è alla tua portata.» Cercai il suo sguardo.
«Guarda che io sono un medico, lei vorrebbe prendere la carriera di agente segreto...» Bevvi un sorso di punch, issando le sopracciglia, «Potrebbe funzionare.» 
«Funzionare?» La cercò con lo sguardo tra la folla, «Taglia 44, miope, disillusa, preferisce i gatti ai cani, amante delle feste, figlia unica, romantica, poliglotta, intelligente, fin troppo, non alla tua portata, bugiarda... bugiarda?» 
«Bug- d'accordo,, come non detto, lasciamo perdere...» Bugiarda? Gonfiai il petto d'aria, spostando lo sguardo di fronte a me, «Tornando alle cose serie: secondo il tuo modestissimo parere anche io lascio il mio cervello inutilizzato.»
Fu allora che incrociò i miei occhi, finalmente. 
Stemmo lì a fissarci uno dentro l'altro per non so quanto tempo (cos'è il tempo, quand'ero con lui?), come a far l'amore. Lui scrutava me per trovare una risposta a quella domanda, ed io scrutavo lui per trovare una risposta alle mie domande. 
«Tu sei diverso.» E si voltò di nuovo verso la finestra.
Diverso.
Non gli chiesi mai perché, cosa intendesse con quel diverso.
Io non ero stupido, lo sapevo benissimo, lo vedevo benissimo che io ero l'unico con cui Sherlock andava d'accordo. Certo, per la maggior parte del tempo m'insultava, discutevamo animatamente e ce ne siam sempre dette di tutti i colori, ma lui era fatto così, ed era evidente che quegli stessi comportamenti, se riservati ad altri, assumevano forme differenti. 
Una rubiconda signora non proprio nel fior degli anni, avvolta in un vestito sfarzoso completo di costosa pelliccia color rosso scuro, d'improvviso ci raggiunse.
Gesù!, quelle continue interruzioni mi stavano innervosendo.
«Sherlock, mio caro, come stai? E lo studio? Come sta andando la vita di quest'ometto?» Sputò una dopo l'altra quelle domande ad uno Sherlock visibilmente stizzito.
«Niente di ché.» 
«Oh, suvvia! Magari non sarà eccitante come quella di tuo fratello che, insomma, serve la regina!», — Seppi, infatti, che il maggiore degli Holmes lavorava per il governo inglese —, «Ma la tua è pur sempre la vita di un giovanotto!»
«Oh certo, che serve la regina e si rimpilza di ciambelle alla festa di Natale.»
Sia io che la signora ci voltammo in direzione di Mycroft Holmes. Ritornammo a Sherlock, e ci fu uno scambio di sguardi che per me non era affatto nuovo. «Oh Signore... Com'è vivere con questi vostri buffi cervelli? Dev'essere così noioso.»
«Sherlock...» pronunciai con tono canzonatorio. Quel nome così altisonante e pomposo gli stava a pennello, non c'è dubbio.
«Il retro della sua camicia è bianco, sì, ma di crema. Difficile sporcarsi la schiena mangiando un dolce, non è così? Si aggira per il vassoio delle ciambelle da quando è arrivato e fino ad ora si è intrattenuto in parecchie chiacchiere, quindi: ha nascosto le ciambelle dietro la schiena quando qualcuno gli si è avvicinato per intavolare una conversazione, per poi mangiarle una volta rimasto solo. Dettaglio più ovvio: l'angolo sinistro delle sue labbra è macchiato di zucchero a velo, e di ciambelle non se ne vede più neanche l'ombra.» 
«...»  
«Tuttavia... zia, credo che fareste meglio a raggiungere vostro marito.» 
«Ah sì? Perché, sta per caso per iscenare un omicidio?» Stava diventando parecchio irritata, la signora. D'altronde, come darle torto.
«No-»
«E da cosa lo intuisci? Dall'unghia del suo pollice destro?»
«No, ma sta uscendo con una donna. Bionda, quarant'anni circa, si tiene sicuramente in forma. Si sono scambiati un bacio furtivo poco fa. Direi di lasciarlo subito e risparmiarvi inutili sofferenze.»
«Io... io!» La signora dal viso paffuto e rugoso sbiancò, per poi marciare a passo spedito e furioso verso la porta.
Incrociai le braccia al petto, «Bravo. Ben fatto.»
«Le ho risparmiato tempo... non è un gesto gentile?»
«Gent- no, no, Sherlock. Questa non è gentilezza.» Sospirò drammatico. «Ma che ti prende?»
«Tu non puoi capire.» rispose, facendo un atto con la mano.
«Va' da lei e chiedile scusa.»
«Chiederle scusa?»
«Mh-mh.»
«Oh, John, non sai quanto t'invidio.» 
Feci schioccare la lingua sul palato, «Tu m'invidi?»
«La tua mente è così placida, sostanzialmente inutilizzata.» Alle sue parole annuivo col capo a braccia conserte, fingendo di assecondarlo. «La mia è invece un motore da corsa fuori controllo, un razzo che va in pezzi intrappolato nella sua rampa di lancio.» 
Sherlock fece per alzarsi, e se non avessi avuto riflessi pronti, se non lo seguissi continuamente con lo sguardo, si sarebbe sfracellato sul pavimento.
Una ragazza, notando la scena, si lasciò sfuggire un urletto, facendo girare tutti.
Sherlock imprecò.
«Ha solo poggiato male un piede, non preoccupatevi! Sbadati incidenti domestici che capitano.» Qualcosa dovevo pur dire, insomma. Mi sforzai di sorridere, comunque.
Violet corse verso di noi, allarmata, ma le bisbigliai di star tranquilla e godersi la serata, che non era successo niente, che, da dottore, me ne sarei occupato io.
Aiutai, non con poche difficoltà, uno Sherlock impassibile a raggiungere il piano di sopra, entrando poi nella mia camera, ch'era la più vicina.
Ce ne stavamo lì, un po' troppo rigidi, un po' troppo tesi, un po' troppo silenziosi, un po' troppo in imbarazzo, il suo dolore e la sua rabbia sulla mia pelle.
 
«È per una donna, non è così?»
«Mh?»
«Quel pacco, John. Ieri ci sei tornato a casa e sembravi soddisfatto, anche se non pienamente. Sai, le sopracciglia aggrottate... a proposito, ti consiglio di smettere con quest'abitudine, altrimenti ti si formeranno delle rughe e sembrerai un vecchio. Ed io non posso farmi vedere con un vecchio.
Dicevamo: il contenuto è consistente e pesante», Scosse e soppesò la scatola posta all'angolo della stanza, «È qualcosa che ti sarà costato un occhio della testa. Con la tua pensione militare vivevi in un quartiere di Londra francamente osceno, quindi va da sé che di certo non pullulavi di denaro, ed era ovvio che avresti accettato di trasferirti qui. Tuttavia, hai vitto e alloggio gratuito e non direi che con me tu faccia un vero e proprio lavoro, dunque la paga non è alta. Questo ci porta a questo regalo: hai speso buona parte di ciò che hai nel portafoglio per  sorprendere qualcuno, fare buona impressione su una donna, suppongo, per questo hai deciso di risparmiare sulla carta che, com'è evidente, è di economica filigrana e senza alcuna decorazione, come se l'avessi avuta sottomano.»
«... Fantastico.» 
«... Davvero?» 
«Straordinario. Assolutamente straordinario.» 
«Non me lo dice mai nessuno.»
«E cosa ti dicono di solito?»
«Fuori dai piedi.»
Risi. 
«C'è un errore, però.» 
«Diamine!... c'è sempre qualcosa.» 
«Non è per una donna, il regalo. È per te.» 
«...» 
«Buon Natale, Sherlock.» 
«...» 
«Aprilo e basta.» 
...
«Uno Stradivari.» 
«Non sapevo cosa regalarti.» 
«...» 
«Ho pensato che, insomma, avessi già tutto.» 
«...»
«Poi ho pensato al tuo violino. Io non sono di certo un esperto, ma lo vedo un po' conciato male... allora ho pensato che un violino nuovo ti avrebbe fatto piacere.»
«...»
«...»
...
...
«Voglio suonarlo. Adesso. Voglio suonarlo per te.»
E così cominciò a suonare, forse per ore, forse per pochi minuti. 
A me sembrò un'eternità, eppure non ne ebbi mai abbastanza.
Così continuò a suonare, mentre quella melodia mai sentita prima aleggiava nella stanza così come il nostro dolore, mentre al piano di sotto decine e decine di individui conversavano fra di loro incuranti dell'universo sopra le loro teste.

Restammo in camera mia, col camino acceso e la musica che arrivava leggera dal piano di sotto: lui odiava tutti ed io stavo bene dove stavo. 
«Ti piace la neve?» Gli chiesi d'impatto, curioso da come fissava quell'alto manto bianco dalla finestra di fronte. Ce ne stavamo tutti e due seduti al bordo del letto, in silenzio, guardando la neve cadere.
«Molto,» Annuì, «Ma mia madre non mi ha mai lasciato uscire, a Natale. Ci credi che ogni santa volta devo passarlo rinchiuso qui con questi stupidi aristocratici nasi?» finì voltandosi verso di me, seccato.
«Perché non vuole che tu esca?»
«Io ho provato anche a scappare, eh, ma poi non trovandomi iniziava a dar di matto. Ripete sempre che lei deve rimanere qui con gli ospiti e che nel mio stato bla bla bla.» Mosse l'aria con un gesto della mano, accompagnandolo con la sua solita leggiadria e teatralità, sbuffando. Inutile precisare che aveva una spiccata idiosincrasia per il genere umano.
Allora mi venne un'idea.
Gli feci segno di seguirmi al piano inferiore. 
Lì cercai Violet, e una volta rassicuratala dello stato di suo figlio, le parlai per un po', lasciando che lui mi seguisse con sguardo interrogativo.
Un paio di minuti dopo, io e Sherlock eravamo all'uscio della porta d'ingresso.
«Dio, John, come hai fatto a convincerla?» bisbigliò mentre si avvolgeva la sciarpa blu al collo. Un collo snello, lungo, pallido. 
«La fortuna di avere un dottore per... amico.» E sorrisi amaro a quell'ultima parola. Che stupido che ero. Sherlock annuì in un modo strano a cui non volli far caso e si fiondò fuori.
Era davvero un terribile, terribile peccato che fosse la prima volta che uscisse la sera di Natale. Voglio dire, la neve se ne sta sempre lì, non scappa mica il giorno successivo o quello precedente, ma quella magia che solo il 25 dicembre ha, quegli alberi del giardino vestiti di lucine e soffice neve, le stelle sveglie che facevano da spettatrici... insomma, era davvero un peccato. 
D'altro canto, io mi sentivo l'anima volteggiare, tra quelle stelle, il cuore colmo d'orgoglio e di gioia per esser stato il primo, il primo a far calpestare a quel ragazzino — al mio Sherlock — la neve della notte di Natale.
E lo ammisi anche a me stesso, ch'era un momento meraviglioso per baciarlo: il verde coperto di bianco, la felicità che gl'illuminava gli occhi color ghiaccio, le sue gote arrossate dal freddo contro la pelle naturalmente pallida, il giorno di Natale, il fatto che non avessi potuto farlo il giorno precedente e non avessi potutto neanche farlo il giorno successivo e dovevo quindi farlo in quell'unico momento.
E c'ero quasi, eh! Ma mi fermai. Mi fermai perché quello sarebbe stato contro ogni valore in cui credessi, avrebbe portato disastri e sicuramente mi sarebbe stato proibito rivedere ancora quelle labbra. E non potevo rischiare.
Mi sarebbe passata, ne ero certo.
Perduto nei meandri dei miei pensieri, non m'accorsi che Sherlock mi stava venendo incontro con una strana cautela, ma disperata, con quelle sue gambe lunghe. Mi sfiorò appena una guancia con le labbra, e poi dalla bocca gli uscì un sospiro che suonava: «John».
Rimanemmo così per un po': il suo capo accasciato sulla mia spalla ferita — la destra — ed io lì inerte.
Tremai, e non a causa del gelo.

La mattina dopo trovai sul comodino un foglio di carta ripiegato con precisione su se stesso,

 
Per il dott. John Watson
"John in Re minore" 
di Sherlock Holmes


§

 
Dopo una notte insonne, spinto da svariati Vi prego, dottor Watson, fatelo ragionare, giunse il fatidico momento — le giornate iniziano e finiscono, e tu non puoi farci proprio un bel niente. 
Argomento: Sherlock Holmes è intenzionato ad abbandonare la scuola.
Obiettivo: fargli cambiare idea. 
Status: la madre ha alzato le mani in segno di arresa. 
Difficoltà: elevata. 
Possibilità di successo: bassa. 
«Sinceramente non vedo quale sia il problema, dato che sono assolutamente in grado di studiare da solo.»
«Sherlock, l'utilità della scuola non è soltanto quella d'imparare, ma è anche un'opportunità per-»
«Socializzare e bla bla bla. Non credi che queste cose mi vengano dette da quando frequentavo le elementari? Sherlock devi cercare d'integrarti di più, Sherlock devi essere meno arrogante o nessuno vorrà esserti amico, Sherlock smetti di fare quello che fai e di essere quello che sei. Beh, lasciate che vi dica la verità: a nessuno interessa chi siete davvero. 
Perché la gente vuole sentirsi dire solo ciò che più gli fa comodo? Perché dovrei fingere che mi stia bene qualcosa, se non mi sta bene per niente? Per non rimanere da solo? Da dove viene questa dannata paura per la solitudine? Resta il fatto che per voi, gente comune, è facile, è facile trovare degli amici, è facile trovare qualcuno che sia sulla vostra stessa lunghezza d'onda, qualcuno con cui condividere interessi. Siete una massa di... di pesci rossi, è ovvio che tutti vi troviate a vostro agio con tutti. In un'ampolla di stupidi pesci rossi. E Dio, anche tu sei proprio come tutti gli altri.»
«No. Io sono diverso, Sherlock, me l'hai detto ieri, ricordi? Me l'hai detto anche con un bacio.»
«Dimostramelo, per l'amor del Cielo! Dimostrami che non sei come tutti questi bastardi, queste menti lente e superficiali che si fanno scivolar via anche il più grande dettaglio, come un elefante in una stanza. E voglio andarmene da quest'inferno! Odio questa casa, dove ogni ridicola cianfrusaglia è ritenuta sacra e guai a tenere in disordine. E odio mia madre!, lei e i suoi “Perché ti comporti così?”, “Sherlock, perché al tuo compleanno non organizziamo una festa ed invitiamo qualche tuo amico?”, “Sherlock, ti ho detto mille volte di non suonare il violino di notte”.
Dimostrami che per te non sono quello strambo, il disadattato, quello che non ride mai e che intimorisce tutti. Dimostramelo, altrimenti significherà che altro non sei che uno di loro.»
Sputò tutto d'un fiato, con lo sguardo di lame taglienti incastrato nel mio.
«Vieni con me.»
«Mh?»
«Vieni con me, Sherlock. Prendiamo un appartamento al centro. Stai con me. Nessuno ti darà fastidio e potrai suonare il violino quando più ti aggrada. Studierai in casa, e se non vorrai più studiare mi andrà bene ugualmente.»
«Se è perché hai pietà di m-»
«Sarai pure un genio, ma diamine se non ci arrivi con quel tuo cervellone. Io a te ci tengo, lo capisci? Non prederei mai in considerazione di andare a vivere con un insopportabile presuntuoso.»
«...»
«Troverò un lavoro, magari al Bart's. Il ritorno. Magari ti lascerò giocare con qualche cadavere dell'obitorio.»
«...»
«Scherzo. Ci prendiamo due poltrone.»
Il suo viso, distorto dal dolore, si distese un poco. Pareva interessato, curioso e sorpreso dalle mie parole, e in realtà lo ero anch'io, sorpreso, perché non avevo idea da dove mi fosse partita quell'idea. 
Forse volevo solo che lui fosse felice. Possibilmente assieme a me. 
Dopo un po' di silenzio vegetativo — lui guardava me senza neanche sbattere le palpebre, io fissavo lui interrogativo —, dalla gola di Sherlock uscì la più bella delle parole. 
Sì [avv. Ha il valore di ‘risposta affermativa’ o di ‘voto favorevole’.]

 
§

Le neve s'abbatteva copiosa e leggiadra sulla terra così come affondavano le mie certezze. 
All'inizio non fu facile, per niente, ma ciò significava pur sempre ch'era la cosa giusta da fare. In fondo, il mare calmo non rende bravo il marinaio, no?
Violet, dopo averle raccontato la mia brillante e geniale idea, divenne diffidente. 
Sherlock, dal canto suo, pure. 
L'aria s'era sera fatta secca e gelida e non potevo sfuggirne, perché era ovunque. 
Che porti gioia o distruzione, l'inverno arriva sempre. 
Interessante, no? È un evento che è incontrollabile nelle nostre mani. 
Una stagione è l'intervallo di tempo che intercorre tra un equinozio e un solstizio e che cadenza il nostro passaggio su questa terra; così distinguiamo la nostra esistenza in quattro stagioni: primavera, estate, autunno e inverno. Ciascuna di esse ha una durata di tre mesi ed è ben definita nel corso dell'anno, indipendentemente dalla latitudine e dalla collocazione geografica.
Indipendente dalla nostra volontà di sbarazzarcene o di tenercela stretta.
Violet mi ripeteva che non era ancora pronta a staccarsi dal suo bambino. Sherlock cercava per qualche motivo di evitare l'argomento. 
Tuttavia, sapevo che infondo erano bloccati da tutt'altro: sospetto, forse. 
La donna aveva il timore che potesse succedere qualcosa a suo figlio, che io gli potessi far qualcosa. 
Lui credeva che l'avrei ferito. 
Io non sapevo darmi una motivazione oggettiva, ma dopo la notte di Natale e il mio invito a lasciar casa per andare a vivere con me, il comportamento di Sherlock nei miei confronti aveva preso una piega circospetta e scostante. 
Mi cercava insistentemente e poi mi spingeva via, io tornavo — non puoi non tornare da Sherlock Holmes —, lui sembrava rinascere, e poi mi respingeva di nuovo. 
Il nostro balletto. 
A volte credevo d'interessargli. 
D'interessargli in quel senso. 
Per come mi guardava — infinito e bellissimo —, per come si faceva toccare durante gli esercizi di fisioterapia — da me, sempre e solo da me —, per come reagiva quando, per una manciata di volte, ero uscito con Mary. Tuttavia, la cosa mi sembrava fin troppo miracolistica e sconsiderata da essere anche solo pensata. Mi resi conto poi, in seguito e inoltre, ch'era paura che lui potesse ricambiare ciò che sentivo — qualunque cosa fosse. 
§
 
Ero così perso nei miei pensieri che quasi mi sfregiai la pelle sopra il labbro superiore, e quando mi voltai il rasoio mi scivolò dalle dita.
«Sherlock...» pronunciai quel nome con un sussurro sorpreso.
«Ti radi a quest'ora?» 
«Non riuscivo a dormire. Che ci fai qui?»
Prese l'asciugamano posato sul lavandino e mi ripulì, attento e delicato, da qualche residuo di schiuma da barba ancora presente sul lato delle basette e del mento, per poi accasciarsi con la guancia destra sulla mia spalla. Strabuzzai gli occhi sorpreso da quel gesto inaspettato, ma subito dopo gli avvolsi i fianchi stretti con le mie braccia, azzerando ogni centimetro di distanza tra i nostri corpi.
Perché dovevo negare a me stesso la possibilità di respirare?
Chiusi le palpebre, cullato dal suo respiro che s'infrangeva sul mio collo, dal suo dolce tepore, dalla sensazione corporea delle sue ossa e della sua pelle e dei suoi organi tutti interi e tra le mie braccia.
«Posso dormire con te, John?» biascicò spezzando il silenzio, «Domattina prima che gli altri si sveglino tornerò in camera mia e fingerò di dormire e che non mi sia mosso per tutta la notte. Inoltre, sei il mio medico, vieni pagato per prenderti cura di me.» Come sempre, mi aveva letto nel pensiero, e, come sempre, non potevo resistergli né negargli nulla.
Io, John Watson, ero un uomo estremamente abitudinario, non incline ai cambiamenti: bevevo sempre lo stesso tè, leggevo sempre il Times alla mattina e dormivo sempre sul lato destro del letto.
Quella volta Sherlock si lasciò aiutare a distendersi, lo coprii con la coperta bianca ricamata, feci il giro del letto e mi coricai al suo fianco, facendo attenzione a non sfiorarlo neanche per sbaglio.
Ero terrorizzato, ma eravamo troppo vicini.
Lo fissai per non so quanto tempo, finché non alzò quasi con violenza il mio braccio sinistro per poggiare il capo sul mio petto e lasciarsi abbracciare.
«Si sta stretti qui sopra.» biascicò dopo qualche secondo, ed io scoppiai a ridere. E non per isterismo.
Quella notte dormii sul lato sinistro del letto e non ne fui mai stato più felice.

 
§

Gli esseri umani — e non — arrivano su questa Terra che lo vogliano o no, se siano pronti o meno, privi di conoscenze e senza un libretto d'istruzioni. Sarebbe quindi carino, mentre stiamo per uscir fuori, poter dire: “Un attimo, diamine!”, ma invece usciam fuori comunque, e iniziamo a vivere. 
In fondo se non viviamo, che senso ha starci, su questo pazzo mondo?
Se non ci fossero cadute su bucce di banana e cadute da lacci sciolti, se non ci fossero sogni, se non ci fossero propositi — e non quelli d'inizio anno che ci si lascia poi indietro —, se non ci fossero mete da raggiungere con tutto il cuore, allora che senso ha, esistere?
Siamo già fin troppi. 
Arrivederci!
Una vita spoglia fino alla radice di ciò di cui è fatta davvero, un pozzo avido dal quale proviene solo un tombale ed eco vuoto. La vita di chi non si pone troppe domande o non se le pone affatto, di chi esiste alla giornata, di chi esiste solo nel momento in cui seduce, che s'abbiglia e imbelletta convinto di poter così riempire le sue mancanze. 
Forse, il pozzo di quest'ultimo ha qualche decorazione. 
Voglio dire, ogni tanto lasciarsi vivere è sacrosanto, non affrettare la clessidra, non forzare niente ma lasciare che accada. Semplicemente lasciare che accada.
La felicità, però, lei vuol'essere afferrata. La felicità, quella vera, non si concede se la si continua a guardare da dietro, come i bambini nei romanzi di Dickens o un uccellino in gabbia. La felicità arriva come un incendio inafferrabile e inarrestabile, che fa tremar le ossa e ripaga lo spirito. 
Si ha troppo poco tempo per esser mediocri, per essere ciò che qualcun altro vuole che tu sia. 
È forza e coraggio, saltare al di là del lago rimanendo illesi dal coccodrillo. 
... Chiedo scusa, a volte la mia mente afferra un pensiero staccandosi da quello principale, seguendo poi tutt'un suo percorso. 
Fatto sta che ben poche certezze hanno gli uomini, se non che dopo l'inverno c'è sempre la primavera, e così arrivò il primo sole, su Londra e su John Watson, e la natura riprese colore e la mia vita riprese a girare.




 
Presto

 

«221B di Baker Street?» 
Si scoprì che le stanze d'un appartamento situato in una delle zone più di lusso della città erano in quel momento in affitto. La donna, vedova e proprietaria della struttura, era una lontana parente degli Holmes.
Io ovviamente non lo sapevo.
Fatto sta che una sera, mentre ancora stavo spazzolandomi i denti, la testa ricciuta di Sherlock comparve nella mia stanza, dietro la porta. 
«Incontriamoci domani sera alle sette. L'indirizzo è il 221B di Baker Street. Buonanotte.»

 
§
 
La signora Martha Hudson, proprietaria dell'appartamento, era un'allegra e longanime signora, sempre pronta a preparare una buona tazza di tè e con una pazienza da non crederci. Con Sherlock Holmes, un eccentrico giovane dalla vita irregolare, era più che semplice lasciarci il senno, ma lei sapeva come gestirlo, come lasciarlo a secco di parole. O comunque, ci riusciva spesso. 
Sherlock era un inquilino terribile. 
Partiamo dal fatto che dovunque andasse lasciava ben poco gradite tracce del suo passaggio: terreno, sabbia, acqua, briciole di biscotti, pezzi di carta, cavi, fili, e qualsiasi cosa folle che voi possiate immaginare. A mettere a dura prova la clemenza e la tolleranza di un comune essere mortale e a rendere Sherlock Holmes il peggior inquilino di Londra, non mancava la sua dipendenza dalla musica alle ore più incivili — come un neonato, non si rendeva conto di molte cose —, l'incredibile e il perenne disordine, il non essere d'aiuto alcuno in nessuna faccenda domestica, i suoi assidui e spesso maleodoranti esperimenti scientifici; dovevi infatti ritenerti fortunato se, invece di una fresca e recente testa umana, nella credenza trovavi una rana morta. Neanche ti trovassi a casa del fisico Luigi Galvani. 
Aggiungerei che, come un neonato (anzi, peggio), metteva il broncio se non lo si assecondava, dava di matto quando si annoiava (e succedeva spesso), così come nel dormire, non c'era verso di farlo mangiare in modo decente e ad orari decenti (anzi, spesso non c'era proprio verso di farlo mangiare), la maggior parte del tempo se gli parlavi neanche ti stava a sentire.
Ciononostante, la padrona di casa gli riservava un profondo rispetto e lo lasciava fare, quasi come una madre. Qualche tempo dopo, d'altronde, la signora Hudson divenne una vera e propria costante nelle nostra vita, e Sherlock, a modo suo, le è sempre stato estremamente affezionato.
Con il trasferimento scoprii uno Sherlock nuovo, rimanendone estremamente meravigliato, e il nostro rapporto divenne ancor più ambiguo.
Lui era un tipo che guai ad intaccargli le sue abitudini, e ad un certo punto io era diventato una di loro: lo Stradivari, gli insetti imbalsamati, gli insulti che si beccavano i quotidiani e le riviste, i suoi libri; io non ero come lui, nessuno lo era, ma ero una pietra per affilare la sua mente. Almeno così diceva. Lo stimolavo, diceva. Gli piaceva pensare ad alta voce in mia presenza.
Col tempo, mentre alcune sue abitudini si rafforzarono, altre presero tragicamente piede: il tabacco e l'oppio. Tuttavia, preferisco trattare di vicende più allegre.
Come ho scritto pagine e pagine fa, Sherlock era un grande appassionato di scienza forense, aveva un intuito mostruoso e una capacità di deduzione unica al mondo. Capitò un giorno che, tornando a casa, m'imbattei in un uomo sulla trentina, che seppi essere un vecchio inquilino che la signora Hudson stava aspettando per un tè ed una chiacchierata — quella donna era incredibilmente amabile, facilmente entrava nel cuore e difficilmente ne usciva.
«Oh, eccovi!» La signora Hudson raggiunse l'ingresso e abbracciò l'uomo con un gran sorriso. «Dottor Watson, ci siete anche voi! Vi va un tè?» E senza neanche avere il tempo di aprir bocca mi ritrovai nel salotto sottostante a quello mio e di Sherlock. «Non scappate voi due, torno subito con il tè!» 
Rimanemmo così io e quello sconosciuto, in piedi uno accanto all'altro.
«Beh, io sono Gregory Lestrade. Ho vissuto nell'appartamento fino a due anni fa.»
«John Watson, attuale inquilino.» Sorrisi e ci stringemmo la mano, prendendo subito un'amichevole conversazione. 
Gregory era un uomo dal fisico massiccio e dalle basette castane tenute lunghe e folte, ma bastava guardarlo negli occhi per rendersi conto di come fosse un bravo ragazzo, simpatico e un po' imbranato. Fu anche per questo che poco dopo il nostro primo incontro iniziammo ad uscire insieme, per una birra e quattro chiacchiere o per assistere ad una partita di rugby. Il primo motivo, invece, riguardava Sherlock.
«Eccoci qua» esclamò la signora Hudson, tutta un sorriso, mentre sul tavolino in legno posava un vassoio con tre tazze di tè fumante e un piattino di biscotti. «Vi siete già presentati, voi due?» 
«Sì. Gregory-» 
«Chiamami Greg!» 
«Allora Greg, mi ha detto che viveva qui, prima.» 
«Sì sì, un ragazzo meraviglioso, mai dato un solo problema!» Bevve un sorso di tè e continuò, «Sapete dottor Watson, Greg è un ispettore, uno dei migliori uomini di Scotland Yard. Non a caso è sempre sui giornali. Un omicida seriale si aggira per la città? Gregory Lestrade ne scoprirà l'identità. Una bambina scompare misteriosamente? Gregory Lestrade risolverà il caso.»
«Oh, signora Hudson, non esageriamo! Mi mette in imbarazzo...» Sorrise bonario grattandosi il capo. 
«Dico solo la verità.» Rivolse un sorriso a entrambi e ci offrì i biscotti. «Mangiate, dottore, che con il signorino Holmes vi serve energia.» Risi di gusto e addentai un biscotto al burro. 
«Quindi lavorate per Scotland Yard.» 
«Eh già, mi ritengo molto fortunato, poi di questi tempi c'è parecchio materiale, diciamo...» 
«Cosa bolle in pentola, al momento?» 
«Guardate, c'è un caso che mi sta dando non pochi problemi: la morte di un uomo di ventotto anni è stata denunciata tre giorni fa-» 
«Sì, l'ho letto stamattina!» 
«Sembra un caso non diverso da tutti gli altri, tuttavia non riusciamo a raccapezzarcene.» 
Finii il mio tè e mi venne un'idea. 
«Sapete, Greg, conosco qualcuno che forse potrebbe darvi una mano.» 
Mi alzai abbandonando quell'odore di pulito — e non di esperimenti chimici finiti male —, e salii i diciassette gradini che portavano all'ingresso adiacente, con il cuore che mi batteva forte in petto. Quella poteva essere una grandiosa svolta. 
Mi guardai intorno e trovai Sherlock così come l'avevo lasciato tre ore prima: rannicchiato sul divano, le gambe contro il petto, il viso contro lo schienale. 
«Dormi?»
«...» 
«Peccato...» Ovviamente sapevo ch'era sveglio. Sveglio e incredibilemente annoiato. «Sai, dalla signora Hudson ho conosciuto un ispettore di Scotland Yard... mi ha detto che ha un caso davvero inquietante e complesso da risolvere. Ho fatto il tuo nome, ma dal momento che stai dormendo...»
Come una saetta si voltò di colpo e s'alzò agile e rapido. Mi guardò fisso negli occhi per una manciata di secondi, disse: «Watson, il gioco è iniziato.», e corse via.

Così iniziò un nuovo capitolo della nostra vita, fatto di corse affannate in ogni angolo di Londra, notti in bianco, pericoli costanti, fumi, indizi, ma soprattutto adrenalina e sangue che scorrevano bollenti nelle vene.
E sì, la mia vecchia pistola d'ordinanza aveva di nuovo motivo di esistere.
Non si poteva certo dire che le mie osservazioni fossero brillanti, ciononostante, nelle nostre indagini ero in qualche modo utile: potevo analizzare un caso dal lato medico, accellerandone quindi la risoluzione e, spesso, quando la metodica lentezza della mia mente faceva esasperare Sherlock, quell'esasperazione trovava la sua utilità nel far lampeggiare la sua, di mente. Non ci volle molto affinché diventassimo "il detective Sherlock Holmes e il suo fido assistente, il dottor John Watson" su tutti i giornali del tempo.
"Oh, per l'amor del Cielo... non sono un detective, ma un consulente investigativo! Ho inventato io la professione!"
Ovviamente il protagonista acclamato era sempre lui, ma non avrei rinunciato a quel ruolo da "spalla" per niente al mondo. 
Sherlock, che andava divagando di qua e di là ad ampie falcate, con quelle sue gambe disgraziatamente lunghe, che potevano cedere da un momento all'altro. Sherlock che poi, come colto da un fulmine, si fermava, in preda da chissà quale folgorazione che avrebbe risolto quel certo caso.
Io che avevo condiviso mezza vita con la morte, che le combattevo contro e allo stesso tempo pareva l'inseguissi; io che pensavo di morire e non m'importava, che amavo sfidare la morte e poter prendere vite e salvarle, che avevo visto uomini mai più far ritorno a casa e crollarmi davanti come foglie d'autunno; io ch'ero andato a cercare il sole dove regnavano le macerie delle tenebre, per poi vedermi obbligato a tornare indietro, e quel dannato sole non trovarlo lo stesso; io che poi avevo trovato la mia luce nel buio di un ragazzo, che m'aveva trascinato e che senza remore m'ero fatto trascinare in un acchiapparello all'indietro con la morte.
E tuttora mi domando se se ne sia mai reso conto, se magari, in tutto quel genio, in tutto quel suo capir tutto quanto da sé senza che il suo interlocutore avesse neanche il tempo di formulare un pensiero, se ne sia reso conto. Almeno per un istante, almeno per ipotesi. Se se ne sia reso conto, di quell'amore.

Ovviamente, quel caso del 1897, Sherlock lo risolse.
L'ispettore Lestrade non si fidava di far entrare un ragazzino sulla scena del crimine, — come dargli torto, in effetti —, ma dopo tanti miei sforzi e l'egocentrismo di Sherlock, si vide costretto a dargli una possibilità. Quella fu la prima che segnò una lunga lista — lunghissima.
Bernice Hall e Augustus Smith, nati lo stesso giorno, nella stessa casa, e cresciuti insieme per via del legame d'amicizia tra i rispettivi genitori, non avevano mai parlato con qualcuno se non tra di loro, finché uno di loro non morì. Almeno questo è quello che mi disse sua madre, dalla quale mi recai da solo, dato che Sherlock all'ultimo minuto scese dalla carrozza e ne prese un'altra.
La donna, trattenendo a stento le lacrime, mi raccontò di come si fosse resa conto che, da bambini, i due avevano alcune difficoltà di linguaggio, che frenavano la comprensione di chiunque e, di conseguenza, anche qualsiasi rapporto con altri individui. Bernice e Augustus si rifiutavano di parlare, di scrivere — la madre mi mostrò una pagina, scritta da loro, riempita di caratteri minuscoli, tant'è che fra una riga blu e l'altra dei fogli trovavano spazio quattro righe di testo —, di leggere — mentre a casa erano avidi divoratori di libri —, vivendo in una bolla personale dietro un'impenetrabile parete che li separava dal mondo.
Tornato a casa, tremendamente scosso e confuso, trovai uno Sherlock agitato come non mai: fasciato di... adrenalina? Urlava: «Dati, dati! Mi servono dati! È un errore capitale, elaborare delle teorie prima di conoscere i fatti!⁴» E s'agitava per tutta la stanza violentando l'aria con gesti delle mani: ora se ne stava stoicamente sull'attenti, ora saltava in piedi sul divano, ora s'appuntava qualcosa su un foglio qualsiasi, ora sedeva sulla sua poltrona reggendosi sui talloni e, con aria meditabonda, univa le mani a mo' di preghiera sotto il mento.
Gli infilai il mio taccuino nero tra le mani e affondai di malo modo sulla mia poltrona. 
«Un'amicizia silenziosa? Sul serio?» 
«Non ti piace?» 
«...» 
«Comunque... Hai scoperto qualcosa?» Si alzò e prese di nuovo ad andare su e giù per il salone.
«Augustus e Beatrice-» 
«Bernice.»
«Come sicuramente saprai, avevano sviluppato un linguaggio incomprensibile agli altri, detto criptofasia, un linguaggio segreto che alcuni bambini possono sviluppare nei primi anni di vita. Tuttavia, erano appassionati di libri e di scrittura, che utilizzavano come secondo e ultimo mezzo di comunicazione. Grazie a questo, ho trovato uno dei loro diari.» Mi lanciò un quadernetto smunto, dalla copertina sbrindellata e dalle pagine ingiallite.
«Sher- Si può sapere dove diamine l'hai preso?»  
«Aprilo.» Per disperazione feci come mi aveva detto, ma quella scrittura era incomprensibile. Parole d'inchiostro nero attaccate l'un l'altro, minuscole. Sherlock sbuffò e me lo sfilò di mano. «Fin dall'inizio avevano pattuito che se uno di loro fosse morto, l'altro avrebbe rotto il patto del silenzio, avrebbe cominciato a parlare e vissuto una vita normale. Affinché fossero libere, era necessario un sacrificio: che uno di loro morisse. Piccoli crimini compiuti a quattordici anni, di cui Scotland Yard non si è attualmente preso la briga di controllare, culminati in due episodi di incendi dolosi appiccati alla loro scuola.» 
«Gesù Cristo... La madre di Augustus mi ha detto che a scuola venivano continuamente presi di mira persino dall'insegnante...» 
«Vennero reputati pericolosi, così furono rinchiusi per quindici anni nel Bethlem Royal, un ospedale psichiatrico a Beckenham, incontrandosi soltanto in orari stabiliti. Nel pomeriggio del 7 febbraio sono stati spostati in un altro ospedale, dove sarebbero stati sottoposti ad un regime più libero. Nel pomeriggio del 7 febbraio è arrivata la denuncia della morte di Augustus.» Sherlock si avvicinò all'appendiabiti, s'infilò il costoso Bellstaff e prese ad allacciarsi la sciarpa blu al collo. «Allora?» 
«Allora cosa?» 
«Lestrade mi ha permesso di vedere il cadavere.» 
«No, non l'ha fatto.» 
«Beh, non m'interessa. Vieni o no?» 
«Sherlock...» 
«Sei un medico militare, John! Una volta mi hai detto di aver visto morti violente e tragedie sufficienti per una vita intera e anche di più, ma guardati ora, e senti l'adrenalina che ti scorre nelle vene e dimmi che non vuoi vederne altre.» 
Dopo un elettrocardiogramma, una misurazione dei marcatori cardiaci ed una diagnostica cardiaca, venne fuori che la causa della morte del ventottenne Augustus Smith era da attribuire ad una miocardite acuta, un'infiammazione del muscolo cardiaco. Secondo gli anatomopatologi, possono esserci circa quaranta motivi diversi per una tale infiammazione, eppure non avevo mai visto un cuore così severamente infiammato senza alcuna ragione evidente.
Il giorno dopo, Sherlock, all'oscuro della polizia, riuscì a rintracciare Bernice.
Decine e decine di successivi casi risolti insieme, Sherlock continuava ad attribuirmi un certo ruolo: lui era colui che risolveva i casi, io colui che salvava le vite.
Il caso finì sui giornali, come un giovane che aveva superato Scotland Yard ed un medico militare che aveva impedito il suicidio di una donna.
§

«È per me?» domandò Sherlock, guardandomi con uno sguardo che mai avevo visto prima di allora, afferrandomi il polso, «Il tuo battito cardiaco che accellera ogni volta ti tocco o sfioro. È sempre stato per me?» Così indifeso, vedevo nelle sue iridi una graffiante e innocente voglia d'amore, ma in quel momento non riuscivo che ad autoconvincermi che fosse solo curioso, o peggio, disgustato.
«I-Io...»
«Vorresti baciarmi, John?»
«Sh-Sherlock...»
«Quando il cervello capta una situazione anomala data da una forte emozione come ansia, paura o agitazione, comunica al cuore di pompare più ossigeno aumentando quindi la velocità e la frequenza dei battiti. Ma tu questo già lo sai.» Trattenni forte il respiro. «Vorresti baciarmi, John?»
«Sh-Sherlock, sono il tuo medico, e noi non...»
«Dio, John, mi sembra che quel tuo ruolo abbia fatto il suo tempo, ormai. Ma facciamo come vuoi tu: se non lo fossi? Se non fossi il mio medico, John, mi baceresti?»
Lunghe dita bianche viaggiarono sulla mia pelle fino ad arrivare ad aprire il palmo della mia mano, intrecciandone le dita.
Il piede sinistro in avanti e un paio di labbra piene e tiepide mi investirono in pieno. 
Sherlock Holmes spandeva un profumo che m'attraeva a lui senza ritegno — voluttà, innocenza, candore.
Era un continuo balletto, il nostro. Sfuggente, tuttavia indissolubilmente suggellato. Un tira e molla continuo, un allontanarci e riafferrarci. Sherlock ed io litigavamo, lui mi dava dello stupido, io mi allontanavo per non gettare altro fuoco sulla situazione, ma poi mi reclamava e tutto tornava come non fosse mai successo niente.
C'era qualcosa d'agrodolce, in quei passi.
C'è qualcosa d'agrodolce, nella danza degli amanti. 
“Sherlock, devi dirmelo. Devi dirmi cosa vuoi, cosa significa per te tutto questo perché io non ci riesco. Io non so dedurre, non so buttarmi a indovinare, non so far proprio niente, in realtà, e adesso più che mai sei per me un libro chiuso — chiusissimo." 
Avrei dovuto dirgli qualcosa del genere, invece bofonchiai un rauco buonanotte e girai i tacchi.

[Quella notte sognai la guerra.]



 
Prestissimo
 

La seconda volta che ci baciammo fu lì, nell'appartamento di Baker Street, e quando l'ossigeno s'era ormai esaurito, mi staccai di malavoglia dalla sua bocca, ma non lo lasciai andare. Non l'avrei mai più fatto. 
Stavo lì, con le labbra contro la sua guancia calda, a respirargli addosso, le sue dita attorcigliate nei miei capelli, i miei pollici a scavargli le guance.
Qualche minuto dopo mi sorpresi con le ginocchia piantate sul morbido materasso e ai lati del bacino di Sherlock, che m'osservava.
Lui m'osservava con quel suo sguardo magnetico ed elettrico, in quel momento un po' spaventato, ed io mi sentii così sporco da lasciarmi sopraffare.
Pronunciò il mio nome, in quella sua maniera dolcissima.
«Se cerchi di legare l'emoglobina a molecole di ossido nitrico, il procedimento è giusto. Se cerchi di legarla al titanio, non ci riesci. Lo sai?» Lo guardai stranito, non riuscendo proprio a capire dove volesse andare a parare e cosa diamine c'entrasse la chimica in quel momento. «Io so cos'è sbagliato nella chimica, John, so cosa funziona e cosa no, ma di quelli che vengono chiamati sentimenti non so nulla. Io posso dirti che quando tu ti prendi cura di me nessun esperimento si riversa al suolo. Niente esplode e quindi non siamo sbagliati. Io e te, intendo.» Rimasi senza fiato, con le labbra semichiuse e i suoi zigomi tra le mie mani, «Emoglobina e titanio insieme sì che lo sono.»
Due dita della sua mano destra iniziarono a percorrere l'inizio e la fine di ogni mia lieve ruga, e sembrò che solo in quel momento Sherlock si fosse accorto della nostra differenza d'età. Un tocco delicato ma pressante, che pareva dire: tutti questi anni, tutta la tua vita e tutta la mia: dove sei stato, dove sono stato?
Mi allungai per premergli un lieve bacio sulle sue labbra morbide, che ancora mi facevano smettere di respirare.
«Mia madre continuava a far entrare in camera mia medici su medici, e non ha mai capito che non ne avevo bisogno.»
«Si preoccupava per te, Sherlock.» sussurrai guardandolo negli occhi e sfiorandogli il plesso solare in lievi carezze.
«Erano degli incompetenti. E quando suonavo m'ignoravano.» Era serio, e mi dispiaceva anche!, ma non riuscii a trattenere un sorriso.
«Avevi solo bisogno di qualcuno che ti ascoltasse suonare?» Risuonava tanto come un'affermazione, in verità. 
Sherlock indirizzò le pupille al soffitto, e i suoi pensieri erano così rumorosi che riuscivo a vederli galleggiare sopra il suo naso, ma troppo veloci e contraddittori perché io potessi acciuffarli. E quanto avrei voluto esserne in grado, quanto avrei voluto sgozzare uno per uno ogni pensiero che lo ferisse, ogni preoccupazione, ogni dubbio, ogni incertezza. 
E promisi a me stesso che da quel momento in poi mi sarei sobbarcato ogni sua amarezza.
«Non voglio altri medici.»
«Non ne avrai. Mai più.» 
Indelebile nella mia memoria e nei miei sensi è il ricordo delle sue mani ben serrate sui miei fianchi, mentre con passione e delicatezza gli baciavo il pomo d’adamo. 
«Cartilagine tiroidea», enunciai piano, mentre una lacrima minacciò di cadere. Premetti sulla pelle, la punta della mia lingua si muoveva lenta. 
Sherlock aveva la testa buttata all’indietro, nudo di ogni difesa perché si fidava di me, ed io potevo percepirlo. Dio, se potevo. 
Insicurezze, timori, ansie e qualsiasi sensazione negativa veniva abbassata, messa da parte finché lui non sarebbe andato via. Ed io stavo lì a baciargli ogni sua incertezza, e i suoi sogni, le sue domande e tutte le sue paure.
«Omoioideo.»
...
«Platismo.»
Ho gli occhi chiusi e sono così preso da non accorgermi quasi d'aver intrappolato un lembo di pelle tra i denti. Sherlock sospira bruscamente, mentre io, su di giri, gli lascio un piccolo bacio sulla punta del naso scultoreo per poi sussurrare cartilagine alare con un lieve sorriso, fissandomi in quei due specchi d'acqua come fosse l’ultima volta. 
Arrivai al suo stomaco, che baciavo e leccavo, finché non udii il mio nome.
Spaventato d'essermi spinto troppo oltre, d'aver fatto un gesto sbagliato, poggiai un piede sul pavimento: non avrei mai immaginato, però, che sarei stato catturato da Sherlock e dalle sue dita fredde che s’infilarono timide e inesperte sotto la mia camicia, la pelle che bruciava e le sue labbra a premere con forza sulle mie mentre mi spogliava degli ultimi pezzi di stoffa rimasti.
Era così che lui parlava d'amore.
Quando percepii il tocco concentrico dei suoi pollici, sentii indistintamente il mio cuore perdere un battito, per poi riprenderne altri cento facendomi girare la testa. 
Bellissimo.
Io che gl'infilai una mano in quel cespuglio boccoloso mentre lui, come un riflesso involontario consequenziale, artigliò le dita nella carne della mia schiena. Lasciai le mie mani vagare sul suo busto sodo e tiepido, pronunciando ogni muscolo e ogni osso le mie dita o le mie labbra toccassero; mi piaceva toccare i punti in cui lo sentivo fremere, mordicchiare quelli più carnosi e soprattutto quelli in cui potevo sfiorare le pulsazioni, perché sapevo che Sherlock era lì con me ed era vivo.
Continuai a divorarlo come un affamato, finché Sherlock non rovesciò indietro la testa e mi pressò le mani sulle spalle e mugolò, col fiato corto e la voce bassa: «Io conosco tutto, John. Perché questo non lo capisco?» 
Mi inumidii le labbra e posai la fronte contro la sua.
«Cosa non capisci?»
«Quello che sento. Non so dargli un nome, un'origine, una causa.»
«Dimmi solo come ti fa stare.» sussurrai sfiorando la punta del mio naso contro il suo, e non ci furono più parole. 
Le pupille si dilatarono e il suo petto prese ad andare su e giù così violentemente, e non riuscii a completare il suo nome che schiantò le labbra sulle mie, ancora, in un bacio frenetico e vertiginoso che implorava di non lasciarlo e di non chiedere, ancora, lui che mi succhiava le labbra, che sembrava non se ne saziasse mai, finché non smise. Smise e prese a respirarmi addosso, mentre una sua mano scendeva giù.
Oscar Wilde aveva così dannatamente ragione, quando scrisse: "Adesso constato che l'amore è la sola spiegazione possibile della somma straordinaria di dolore che esiste nel mondo."
Far l'amore con Sherlock, per quanto non si concedesse spesso, era devastante / disperato / passionale / intenso / bollente / fervente, e non ne avevo mai abbastanza. 
Eravamo un equilibrio esatto, io e lui, anche in questo: ci prendevamo cura ognuno dei bisogni dell'altro, conoscevamo ogni punto, ci prendevamo quello che volevamo, senza freni, senza remore. Veglia e sonno, acqua e fiamme.
Ed io impazzii. Impazzii quando lui si fece prendere, quella sera, in cui mi diede tutto di sé e s'abbandonò alle mie attenzioni e al mio folle amore, col nome mio, così piccolo e banale, che usciva dalle sue labbra come la preghiera di un fedele.
La mia mente mi riportò per un attimo indietro a quel ragazzino a cui il mondo intero aveva voltato le spalle, intento ad inseguir le api, e poi a quel giovane uomo, che s'era fidato di un reduce di guerra, raggomitolato sulla sua poltrona, le ginocchia tirate al petto, e che avvolto dal fumo della pipa, già stava iniziandosi ad annoiare dopo l'esaltazione d'un caso da risolvere.  
Gli afferrai un polso, con quelle mie mani ruvide abituate a premere, a tirare, a stringere un fucile, e ne baciai le pulsazioni come se tra le mani non avessi che un uccellino — l'amore della mia vita sotto di me, sopra di me, ovunque, che per un attimo smise di respirare e che mi guardava come se prima di quel momento nessuno l'avesse mai toccato in quel modo. Lo sfrenato e smisurato amore della mia vita, l'unico che io abbia mai avuto, che si contorceva sotto i miei tocchi e cercava d'appigliarsi alle mie braccia o alle lenzuola, che ostentava la ragione eppure aveva scelto me.
Avrei voluto che quel momento fosse eterno, ne avrei barattato la mia anima al diavolo; mi pareva un sogno, e lo scriverei, se non fosse per il fatto che ho vivido nella mente il momento in cui i miei muscoli pelvici stavano contraendosi ed io feci per uscir fuori dal corpo bollente di Sherlock, ma dalla sua gola uscì un gemito strozzato mentre si tormentava le labbra e mi strinse un polso tirandomi a sé ed io percepii le ossa delle sue cosce vibrare e la mascella serrarsi e fissarmi languido negli occhi, bagnato e bellissimo, mentre lasciava che io, io, lo legassi a me indissolubilmente.
E fuori albeggiava.

[Il 16 settembre del 1896 dormii profondamente, e nei miei sogni c'erano solo tè alla cannella e il calore di due soffici labbra.]

 
§
 
Così ci amavamo in segreto, tra una liquefazione di un idrocarburo, un misterioso omicidio e uno sguardo ch'era la sostanza di tutto.
Lo amavo, sempre, da sempre, immensamente e non ho smesso mai.
Lo amavo, quando reprimevo i miei sentimenti davanti agli altri per timore di venir separato da lui.
Lo amavo, quando sentivo i polmoni stringersi per non poterlo sfiorare e quando finalmente han potuto liberarsi.
Lo amavo, quando suonava il violino, e anche se non me lo diceva a parole, con lo sguardo urlava che il fine d'ogni nota ero io.
Lo amavo, quand'era troppo orgoglioso e arrabbiato con se stesso per lasciarmi entrare nel suo cuore e nella sua mente, così mi sbatteva la porta in faccia e smetteva di parlarmi e di uscire dalla sua stanza per qualche tempo, chiudendosi in lunghi silenzi meditativi. Eppure,  a me andava bene lo stesso.
§
 
Sherlock sparò alla parete con un colpo deciso, e gli strilli della signora Hudson sembravano già perforarmi i timpani. 
«Sherlock,» rimproverai, sfilandogli la rivoltella dalle mani, «Sherlock, per grazia, ti sei reso conto che sono le otto del mattino?» 
«Elementare, mio caro Watson.» E mi baciò.
Da lui non sarei mai più fuggito.



 
Larghissimo
 

Sherlock Holmes morì il 4 dicembre del 1918, causa affezione polmonare⁵. 
Se ne andò la guerra come se ne andò lui.
Ancora mi domando se sia possibile andarsene così.
Io non so dove andranno a finire queste mie memorie, che ho preso a scrivere credendo di non aver nulla da dire, ma che poi ho dovuto dimezzare. Memorie che altro non sono che il racconto di un dottore, di un uomo, che non è mai tornato dalla guerra e che ha trovato la propria casa in un ragazzo che ha lasciato la propria per lui. Memorie che altro non sono che una celebrazione al più grande consulente investigativo che il mondo abbia mai ospitato, e all'uomo migliore e più saggio che io abbia mai incontrato. Quel ragazzo che è diventato uomo tra le mie braccia, e che per sempre vedrò e sentirò rannicchiato sulla poltrona di fronte alla mia, in quest'appartamento in disordine, al 221B di Baker Street, Londra. 
24 settembre 1921
John H. Watson




³ Dato che il poliziesco sta a me come l'eterosessualità sta ad Anthony J. Crowley, ho preso ispirazione al caso realmente accaduto delle gemelle Gibbons. Non me ne vogliate.
Cit. di Sherlock nell'episodio "The Second Stain" della serie tv "The return of Sherlock Holmes" del 1986. 
Lo so, canonicamente parlando, il personaggio canon Sherlock Holmes nasce nel 1854-95 circa e muore dopo il 1891 (e non per un'infezione polmonare), mentre quello della BBC... insomma, lo sapete. La pagina di Holmes su Wikipedia scrive che ha aiutato l'Inghilterra nel corso della prima guerra mondiale come agente del governo; tuttavia, questo racconto è stato una sorta di esperimento per me, e stare alle date (tante e incerte) e descrivere del suo aiuto in guerra, non mi avrebbe giovato. Comunque, nel 1919, questo Sherlock ha 45 anni, mentre John su per giù 52.




 
 La mia ultima fanfic, scritta già tempo fa.
Un viaggio durato anni.
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