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Autore: Dark_ Rose2000    24/04/2020    0 recensioni
In questa ff Pan, ci descrive come passa le sue giornate lontana da tutti avendo come unico alleato Trunks
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Pan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La depressa consapevole: le mie giornate al buio
 
Mi sento protetta dietro questo schermo che mi consente di non temere l’affollamento che c’è là fuori e mi sento anche disponibile a spogliarmi e parlare di me.

Mi viene in mente che probabilmente c’è un gran numero di persone che se ne fregano di quello che provo io, in questo tempo di totale indifferenza e di mancanza di solidarietà tra chiunque.

Leggo spesso di mostri che vanno in giro a parlare male di chi è povero, disagiato, malato.
 
 La malattia mentale è uno dei motivi per cui puoi essere presa in giro.
 
 Poi dicono che non dovremmo vergognarci e che dovremmo esporci e fare coming out mettendoci la faccia.
 
Per chi ha voglia di ascoltare la mia faccia è questa.
 
Al momento è screpolata, piena di increspature, perché la depressione a me fa questo effetto. Mi abbruttisco ed è immobile anche la pelle, a quanto pare, al punto che la pelle vecchia resta sulla nuova e per farla rinascere devo grattare via quello che è superfluo.
 
 
Oggi ho cambiato posizione più o meno sei volte.

Letto, cesso, divano, cucina, cesso, divano.

Mi sono lavata a malapena e per essere più a posto con me stessa, come se voi poteste vedermi, ho cambiato il pigiama vecchio di una decina di giorni. Ho pinzato i capelli come faccio di solito, senza pettinarli.

 Ho preso le mie medicine e dopo un po’ è passata l’ansia.

Mi sveglio così male, certe volte, dopo aver fatto degli incubi pazzeschi.

 Potessi guadagnarci venderei i diritti a Hollywood. Sono storie avvincenti e quasi sempre c’è chi mi vuole assassinare e fare del male o sono io che urlo tanto perché litigo, durante il sonno.

Trunks dice che mi sente parlare e litigare senza che però riesca a distinguere nulla a parte suoni senza senso.
Il momento più difficile della giornata per me è quando, come stamattina, qualcuno suona il campanello e devo rispondere. Solo avvicinarmi a quella porta mi immobilizza, mi spaventa.

Allora resto a contare per un po’, sperando che si tratti del postino o qualcuno che ha sbagliato citofono, così gli aprirà quella al piano sotto oppure sopra al mio. Non gli aprono e quello insiste.

Rispondo al citofono ed è il postino che deve lasciare una cosa che richiede una firma.

 Vorrei dirgli di passarmela sotto la porta ma non c’è abbastanza spazio. Devo aprire la porta e così tento di calmarmi dicendo a me stessa che ce la posso fare. Non succederà nulla. Forza, Pan, ce la fai.

 Un passo alla volta guardando il pavimento. Non devo guardare la porta perché quella la affronterò quando sto lì davanti.
 Passo dalla camera da letto e indosso una vestaglia.

Guardo il mio viso allo specchio e penso di essere orribile.

Terrò gli occhi bassi non voglio che il postino mi guardi. Potrebbe scoprirmi e capire.

 Potrebbe vedermi per la malata che sono e poi sfottermi. Potrebbe, e sono mie paure, paranoie proiettate sul resto del mondo.

Un passo alla volta, sono già alla porta. Sento il postino che bussa impaziente. Con un filo di voce dico “un momento, sto arrivando”.

La mano sulla maniglia, e uno due tre quattro, respiro a fondo, cinque sei sette otto, ancora un respiro, apro la porta lentamente, e come per i carcerati in isolamento quando vengono liberati subisco uno shock per la luce troppo intensa.

 Mi paro gli occhi con la mano e poi mi chiedo se il postino avrà notato che ho spento le luci, in casa mia, e ci sono le finestre con le serrande semi calate, perché io non distingua la notte dal giorno.

 Il giorno mi terrorizza, perché c’è sempre tanto movimento, il vociare per le scale, il casino che fa la mia vicina e il traffico delle automobili, il telefono che squilla, e sono televendite, per lo più, ma per ogni squillo il cuore batte forte e io sono terrorizzata.

Il postino mi porge la lettera e poi il modulo da firmare.

 Mi passa una penna e firmo velocissima.

Saluto a malapena, senza attendere che lui ricambi, e chiudo subito il mondo fuori da me, dalla mia vita, da tutto quello che conosco, pochi metri quadri e le mie cose.

Mi chiama al cellulare il mio compagno e dice che al cinema c’è un film che sicuramente mi piace.

 Lui sa che non andrò ma ci prova sempre, non si rassegna. Dico di no. Lo vedrò in streaming, nella mia postazione protetta.
Mi telefona un’amica. Mi chiama ogni tanto. Ormai sempre più raramente.

Non sono mai riuscita a dirle quel che vivo. Mi vergogno troppo. Allora per le prime volte che voleva venire a trovarmi o mi invitava fuori avevo scuse plausibili.

Poi lei mi scrisse una lunga mail dove chiedeva cosa avesse fatto per provocare quella mia freddezza, e io avrei voluto tanto dirle la verità, spiegarle che le voglio bene tanto quanto prima ma non so dirlo.

 La voce resta intrappolata non so dove e anche le dita non riescono a digitare sulla tastiera per comporre una mail che lei possa leggere.

Mi vergogno. Mi vergogno troppo. E una voce dentro di me mi dice che è colpa mia e che sono una fallita che non sa fare altro che commiserarsi e non sa essere diversa da così.

La psichiatra è l’unico essere umano che vedo a parte il mio compagno e a volte qualcuno dei miei familiari.

La vedo perché mi accompagna Trunks.

 Mi sorregge se sto per inciampare.

 Mi permette di camminare tenendo il viso basso e di coprirmi a sufficienza per proteggermi da tanta luce.

 Lei dice che dovrei fare uno sforzo, cominciare proprio dalla mia amica e io piango perché non riesco a spiegare quanto sia difficile per me e quanto sia dura vedermi sfuggire i rapporti, uno dopo l’altro, fintanto che anche le persone alle quali vuoi molto bene non smettono di chiamarti.

 Io so che basterebbe alzare la cornetta del telefono e chiamare. Potrei almeno solo scrivere una mail.

Invece niente. Le mani restano immobili e la voce muore al solo pensiero. Perciò anche oggi mi ha chiamato invano la mia amica (forse ex?) che immagino si sia rotta le palle di chiamare senza mai poter contare su di me.

So che se le dicessi quello che penso lei si arrabbierebbe molto.

Perché penserebbe che non ho fiducia in lei o che la sottovaluto. Penserebbe che considero l’amicizia come qualcosa che non è reciproco e per quante volte le sono stata vicina io così potrebbe volere fare lei con me.

Ma che diritto ho io di chiederle di venire a condividere con me il silenzio, il buio, la mia vergogna che non riesco più a dissimulare?

Ieri sera Trunks si è avvicinato per abbracciarmi.

Mi ha accarezzato e poi mi ha detto che è da un bel po’ che non facciamo l’amore.

 I farmaci hanno portato la mia libido a zero.

Potrei farti un pompino, dico scherzando. E lui ride, un po’ sollevato, perché vede che Pan, quella che ero prima, è ancora dentro di me.

Ci sono ancora. E il punto è che nessuno può tirarmi fuori, a meno che io non voglia, e io non sono sicura di volerlo.

 Così è la mia vita del cazzo. A chiedermi cosa ho fatto per meritarmi tanto affetto.

Perché la verità è che mi sono persa. E non sono più capace di ritrovarmi.
 
   
 
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