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Autore: Marty The Phantomess    26/04/2020    3 recensioni
Quando il dolore ci colpisce, tutto ciò che vorremmo fare è dimenticare.
Soprattutto quando, a ferirci, è la persona che amiamo di più.
Ran, però, non ha tempo per lasciarsi tutto alle spalle, perché l'unica cosa che può fare per salvare chi ama è chiedere aiuto proprio a lui, Shinichi.
Riusciranno a risolvere il mistero o sarà il conflitto tra loro a vincere?
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eri Kisaki, Kogoro Mori, Ran Mori, Shinichi Kudo/Conan Edogawa, Sonoko Suzuki | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ciao a tutti! Come promesso (e premesso nel mio account Instagram a_friendly_fangirl), sono tornata con una storia, sempre rigorosamente ShinRan, a capitoli. Una volta, ero la proprietaria dell'account Marty ShinxRan, con cui ho pubblicato la song-fic "In Loving Memory" tanto tempo fa. Ho deciso per un nuovo inizio. Come saprete, se mi conoscete, ,on sono brava a scrivere introduzioni, perciò posso solo augurarmi e augurarvi che vi piaccia. Buona lettura! :)

P.S. : Vi consiglio di ascoltare la canzone di questo capitolo, ovvero Fire Away di Chris Stapleton. 

Capitolo uno: Il sacrificio.
__________________
Well, I wish I could say                         
That I've never been here before           
But you know and I know
That I'll always come back for more
Your love might be my damnation
But I'll cry to my grave

(Be’, vorrei poter dire
Di non essere mai stato qui prima d’ora
Ma tu lo sai ed io lo so
Che tornerò sempre per averne di più
Il tuo amore potrebbe essere la mia dannazione
Ma piangerò sulla mia tomba)
_______________
 
Il ragazzo bevve un altro sorso di caffè dalla sua tazza gialla, lanciando uno sguardo seccato attraverso il fumo biancastro al giornale di quella mattina posto accanto al suo gomito.
I suoi estremamente espressivi occhi blu e le sue labbra rosee impegnate in una smorfia rivelavano tutto il disappunto nei confronti di quest’ultimo e si fece quasi venire un’emicrania a forza di cercare di convincersi che fosse per la posizione in cui l’aveva messo e non per quello che c’era scritto sopra.
Infatti, il povero quotidiano era stato schiaffato sul tavolo in una posizione alquanto precaria, con l’angolo destro che penzolava placidamente dal bordo, sembrando così pronto a cadere sul parquet lucido del pavimento alla minima sollecitazione.
Cos’avesse fatto quell’ammasso di carta per meritarsi un simile trattamento, lo rivelava la sua prima pagina, su cui spiccava a caratteri cubitali il titolo “Detective Kogoro Mouri trasferito al centro di detenzione di Tokyo: schiaccianti le prove contro di lui”.
Quando l’aveva letto, si era quasi lasciato sfuggire una sentitissima risata isterica per la sensazione asfissiante di star perdendo tempo prezioso.
Ma non ne aveva diritto, si era detto subito dopo, voltandosi e preparare la macchinetta del caffè.
Non era compito suo, si era ripetuto, mangiando distrattamente un biscotto.
Avevano rifiutato il suo aiuto, si era ricordato, versando la salvifica bevanda nera nella sua tazza preferita, la cui ceramica scottante l’aveva quasi bruciato.
Ma allora cos’era quel maledetto senso di colpa che lo stava facendo impazzire?
Il giovane sbuffò e smise di guardare il quotidiano, distogliendo lo sguardo quasi con una punta di disgusto, non sapeva se per l’articolo, se stesso o per entrambi.
La luce calda del sole di fine luglio penetrava debolmente attraverso le corte tende della finestra sopra il lavabo della cucina, illuminando piacevolmente la stanza di un bagliore rasserenante.
I lievi raggi, tipici di una mattinata appena iniziata, colpivano dolcemente parte della tovaglia a scacchi bianchi e rossi sotto le sue mani e dividevano in una metà quasi perfetta la credenza sopra il frigo alla sua sinistra, creando un’atmosfera quasi surreale.
I suoi occhi si bearono di una tanto piacevole illuminazione, che non necessitava di rafforzo da parte del lampadario grigio sopra la sua testa.
Aveva passato gran parte della notte in piedi per completare l’ultima ricerca prima delle vacanze estive, alternandosi tra portatile e libri per quasi sei ore di fila, durante le quali le sue cornee si erano fatte via via sempre più rosse, fino a bruciargli tanto da causare la lacrimazione.
Avrebbe dovuto tenere duro solo un altro giorno e poi sarebbe stato tranquillo per sei settimane e si sarebbe potuto lasciare quel lavoro e tutti i suoi predecessori alle spalle.
Era da aprile che non faceva altro che studiare, anche a causa degli esami speciali organizzati solo per lui, che avrebbe dovuto, altrimenti, ripetere l’anno perso a causa della lotta contro gli uomini che avevano trasformato la sua vita in un inferno.
Certo, non era scritto da nessuna parte nel regolamento scolastico che sarebbe stato possibile accettare le assenze per “rimpicciolimento forzato e conseguente vendetta”, ma qualche colloquio dei suoi genitori con il preside e un paio di lettere dall’alto lo avevano salvato da quell’ulteriore ingiusto ostacolo.
Il Federal Bureau of Investigation aveva fatto in modo che le imprese del talentuoso Sherlock Holmes del terzo millennio fossero ufficiosamente comunicate quantomeno al suo liceo.
Considerando che la sua collaborazione non era stata verbalizzata in nessun fascicolo e che, a livello prettamente teorico, lui avrebbe potuto vedere quegli agenti solo in tv, gli era andata decisamente di lusso.
Si faceva per dire, ovviamente.
Le due settimane rinchiuso in ospedale ed in casa le aveva trascorse lamentandosi esclusivamente per la ferita al petto e per le materie lasciate in sospeso da recuperare.
Il patto stipulato consisteva nel prendere un ottimo punteggio ad ogni verifica decisa o ripartire dalla classe seconda.
Per uno orgoglioso come lui, questa prospettiva era stata decisamente poco allettante e avrebbe scelto, come aveva fatto, altre cento volte l’opzione dello studio matto e disperatissimo.
La sua dedizione aveva pagato, se non altro e ora era in pari con tutti i suoi coetanei, i quali lo avevano subissato di domande al suo rientro, inspiegabilmente indignati di rivederlo dopo più dodici mesi di assenza ingiustificati.
Non avendo risposto a nessuno dei ventidue compagni assetati di spiegazioni, questi ultimi si erano lasciati trasportare dalle più bizzarre teorie su come avesse fatto ad essere lì con loro: alcuni pensavano che avesse, in realtà, studiato all’estero in gran segreto, mentre altri, più tendenti al complottismo, che avesse sborsato chissà quale impressionante cifra per far chiudere un occhio al dirigente.
C’erano stati giorni durante le prime settimane in cui la tentazione di mettersi in piedi su una sedia ad urlare era stata fortissima.
Avrebbe voluto gridare che farsi sparare addosso per riprendersi la propria vita non era stato affatto divertente, che aveva avuto paura e che si era guadagnato quel posto.
Ma si era trattenuto, piantandosi bene nella testa che lui si era ficcato in quel casino da solo e che non c’era un’anima che gli dovesse niente.
Eppure, il martellamento di quei commenti era rimasto continuo ed imperterrito persino quando una novantina di giorni era già volata via e lui non ne poteva più. Paradossalmente, voleva solo che lunedì arrivasse il più velocemente possibile per prendere un po’ di fiato.
La sua dose giornaliera di caffeina giaceva ora ghiacciata davanti al suo braccio destro, steso sulla scacchiera colorata con la mano indolenzita abbandonata su di essa a spezzare l’alternanza dei due colori che la componevano.
L’altro braccio era, invece, piegato ad angolo retto  per permettergli di accarezzarsi la barba corta e ben curata, quasi giunta, oramai, ad un centimetro di lunghezza, a cui era riuscita ad arrivare unicamente grazie allo scarso tempo rimastogli per starle dietro.
Tempo che, a voler essere onesti, avrebbe preferito passare allenandosi o riposandosi, visto che erano le uniche attività alle quali si era raramente potuto avvicinare nell’ultimo periodo.
Fu proprio questo pensiero a fargli lanciare un’occhiata all’orologio ticchettante appeso al muro di fronte a lui, consapevole di doversi dare da fare, nonostante la voglia matta di restarsene seduto a rilassarsi.
Erano le nove e ventidue e la lunga lancetta dei secondi parve accelerare la sua corsa ora che la stava scrutando.
Istintivamente, il suo sguardo corse a cercare di nuovo quelle parole da cui aveva tentato vigliaccamente la fuga.
Erano ancora tutte lì, inchiostro nero denso su carta bianca.
Kogoro Mouri in carcere.
Era il massimo che gli entrasse in testa.
Kogoro Mouri, padre della sua amica d’infanzia e ragazza (forse ex, non ne era sicuro), in carcere e lui fuori a poltrire ed a guardare i minuti sprecarsi nella patetica voragine della sua assurda mestizia.
Non era interamente colpa sua se era costretto a starsene là a far nulla, doveva essere onesto.
D'altronde, gli avevano letteralmente sbattuto la porta in faccia, quando, alle sei del mattino, si era precipitato a casa del sospettato ad offrirsi volontario per investigare, senza pretese né inganni ma genuinamente preoccupato.
Tuttavia, il viso pallido e stremato della persona a lui più cara non cessava un istante di tormentarlo.
Aveva bisogno d’aiuto, ma l’orgoglio e l’amore per sua padre, che avrebbe preferito restarsene in galera piuttosto che farsi dare una mano da lui, le avevano impedito di accoglierlo nella sua dimora.
Ma non era in grado di smettere di provare quell’incredibile amarezza, perché, sebbene non fossero i tempi per covare risentimento, sapeva perfettamente di essere stato lo scatenatore di quell’acredine.
Con le sue bugie, con i suoi segreti e le sue scelte azzardate, prese sempre con un pizzico di egoismo per tamponare l’odio e la rabbia.
Avrebbe potuto fare moltissime cose diversamente, come, tanto per cominciare, starsene al suo posto, piuttosto che inseguire due loschi idioti che non promettevano nulla di buono.
Gli rimordeva la coscienza quando ci pensava, perché non ci si dovrebbe mai pentire di aver salvato un altro essere umano, per quanto corrotto o malvagio fosse… ma quell’uomo era stato un mero di più ed in cuor suo ne era consapevole.
Lui era andato dietro a quei criminali per istinto, non per fare un’opera di carità.
Era stata solo una casualità che avesse impedito a quelle bestie di eliminare la persona che stavano ricattando, anche se si trattava di un trafficante d’armi.
Da qualsiasi angolo tentasse di vedere le sue azioni, dunque, non era in grado di trovarne uno che non lo facesse sentire in colpa per un qualche motivo.
Si prese il volto tra le mani, arruffandosi i capelli stretti nella morsa delle sue dita lunghe dentro cui il sangue ribolliva furioso, senza neanche un perché certo.
Gli ronzavano così tante cose brutte per la testa, che scegliere un pretesto più valido di un altro sarebbe stato insensato quanto superfluo, anche contando che ogni ragionamento ne portava di nuovi e di peggiori.
Spense semplicemente i propri pensieri per pochi istanti, facendosi trasportare dalla necessità di affondare le sue unghie nella carne della fronte corrucciata e delle guance smunte.
Non voleva tirarne per forza fuori del sangue, ma semplicemente acquietare quella collera, prima che lo facesse implodere.
Non era mai stato incline a sfogarsi con violenza su oggetti o persone,.
Cosa c’era di liberatorio nel prendersela con chi era innocente, come vedeva spesso fare?
L’idea di rompere qualcosa o ferire qualcuno, seppure non fisicamente, non avrebbe solo peggiorato l’oscurità che già stava divorando l’anima?
Onestamente, non lo sapeva e non voleva scoprirlo. Si sarebbe fatto bastare qualche calcio al suo adorato pallone.
Fece un respiro profondo, inspirando ed aspettando cinque secondi prima di espirare sui suoi palmi freddi ancora premuti contro il suo mento coperto dai peli castani e le sue bocca inumidita dalle restanti tracce di caffè.
Le sue orecchie si rizzarono di colpo al suono inaspettato del citofono della villa e il suo capo rotò di novanta gradi con rapidità impressionante, come se fosse stato in grado di raggiungere il suo misterioso visitatore attraverso le pareti.
Non stava aspettando nessuno né poteva essere qualcuno di rientro, perché, motivo numero uno, avrebbe avuto le chiavi e non avrebbe dovuto suonare e, motivo numero due, aveva ricominciato a vivere da solo da una ventina di giorni.
Il citofono trillò con più insistenza ed una sensazione inspiegabile ma non nuova lo pervase, controllandolo come una marionetta.
La sedia di legno su cui era seduto strisciò all’indietro con un suono grave e vagamente fastidioso su cui lui glissò senza problemi, capendo che avrebbe avuto tempo più tardi per preoccuparsi per il prezioso parquet dei suoi genitori.
Si mise in piedi con uno scatto, risistemandosi la vecchia maglietta azzurra spiegazzata a maniche corte adattata a pigiama.
Con tutti i suoi impegni, trovare un minuto per fare la lavatrice era stata una vera e propria scommessa e si era ridotto a dover usare maglie che non metteva da secoli.
Ah, le gioie del vivere soli sotto esami!
La dimora vuota e quieta fece rimbombare per la terza volta il lamento incessante del campanello.
Lo strazio durò più in questo caso e l’urgenza del gesto gli fece scorrere un brivido lungo la spina dorsale.
Ora perfettamente vigile, senza un briciolo di fatica ad appesantirlo, uscì a passi svelti dalla cucina, incespicando appena con i piedi nudi a contatto con  le pantofole verde acqua, appiccicose a causa della stoffa calda  che spingeva alla sudorazione, già avviata dalla naturale temperatura della stagione.
Il liceale si accostò alle tende grigiastre della finestra che dava sul vialetto di lastre di pietra, da qualche giorno mangiucchiato da ciuffi d’erba ribelli.
Il suo sguardo ne seguì l’andamento, masso dopo masso,  cercando, una volta raggiunto, di giungere fino ad oltre il muro di cinta, parzialmente coperto dai due maestosi olmi dalle fronde poco curate che torreggiavano agli angoli, covando la vana speranza di aver sviluppato una vista così potente da poter scorgere da lì chi lo desiderasse.
Tuttavia, com’era prevedibile, l’essere un umano come tanti altri gli si ritorse contro e dovette ridursi, esattamente come tanti della sua specie, a spostarsi fino al ricevitore saldamente attaccato alla destra della porta d’entrata per venire a conoscenza di chi si celasse dietro la solida barriera di cemento imbiancato.
Premette il bottone per rispondere con l’indice, saggiando sotto la falange la cornetta stampata in rilievo su di esso ed il rumore bianco emesso dal microfono scatenò in lui alcuni ricordi della sua infanzia.
Sua madre, quando era piccolo, gli aveva raccontato di essersi confusa a lungo tra i tre  tasti inseriti nella scatola di plastica di fronte a lui, ritrovandosi ad aprire diverse volte a sconosciuti, fan suoi o di suo padre, che avrebbe dovuto, al contrario, salutare dalla sicurezza delle mura domestiche.
Gli aveva rivelato, per questa ragione, di essere stata lei a volere che vi fossero impressi sopra dei simboli, in maniera da poter distinguere agevolmente cosa avesse quale funzione, pure in condizioni di scarsa luminosità.
Saggia decisione, doveva ammettere.
La casa era grande e gli spazi difficilmente preservabili da ogni tipo di ombra, in particolare con l’avanzare delle ore e con il cambiare della luce naturale che penetrava dai finestroni delle varie aree.
In quel momento, ad esempio, se non fosse stato per l’abitudine, si sarebbe potuto affidare solamente al tatto per ovviare alla semioscurità dell’ingresso.
Non gradiva doversi affidare ad unico senso per compiere un’azione, ma era comunque meglio che affidarsi al caso, pregando di aver trovato il pulsante corretto.
Era più che sufficiente, a suo gusto, pregare in quel frangente, affinché chiunque lo stesse attendendo non gli stesse portando cattive notizie.
“Chi è?” domandò con voce impastata, avvicinandosi un poco alla griglia attraverso cui far fluire il suono.
Dall’altro lato, si udivano soltanto un respiro affannoso ed irregolare ed il cinguettio dei passeri che avevano nidificato nelle vicinanze.
“Ran.”
Il suo cuore perse un battito.
Era Lei.
La melodia vagamente metallica che aveva pronunciato il suo nome era quella della Sua voce.
Ecco cos’era stata quella percezione indescrivibile.
Lei era là e, a giudicare dal suo tono agitato, non si era recata da lui per fare quattro chiacchiere.
I suoi battiti aumentarono senza che lui li autorizzasse ed il suo anulare sbloccò il cancello di sua spontanea volontà.
Era da troppo che non le parlava faccia a faccia, che non la vedeva, se non da lontano e, incurante della scarsa presentabilità del suo vestiario e dei suoi capelli mori scompigliati, si sbrigò ad uscire a sua volta sul porticato per potersi assicurare che fosse davvero chi aveva detto.
Spalancò la porta con fervore e balzò fino alla colonna portante di destra, sostenendosi ad essa con un braccio.
All’esterno, sebbene fosse relativamente presto, fu subito certo che non ci fossero meno di venticinque gradi, tanto era grande la sensazione di soffocamento che avvertì con la prima boccata d’ossigeno.
Eppure, non riusciva ad arrestare i tremori che lo stavano scuotendo impercettibilmente da capo a piedi, mentre fissava una figura femminile a lui ben nota chiudere il passaggio alle sue spalle ed avanzare con determinazione verso di lui.
Era decisamente lei, con le sue lunghe ciocche castane e quegli occhi lilla inconfondibili che incontrarono i suoi per nient’altro che un caso fortuito, prima che lei abbassasse la testa per badare ai propri passi pur di non guardarlo direttamente.
Quel gesto gli fece stringere i denti dalla tristezza, ma resistette alla voglia di correrle incontro per implorare di nuovo il suo perdono, accontentandosi di poterla ammirare più da vicino di quanto non avesse fatto negli ultimi tempi.
Il suo fisico, appurò, era diventato più tonico, grazie all’allenamento più intenso a cui si stava sottoponendo per sua scelta.
Non era mai tornato a contemplarla nel suo karategi, ma capì di essersi perso molte cose in quei mesi, notando i muscoli delle spalle e delle braccia, lasciati scoperti dalla canottiera gialla, guizzare piacevolmente ad ogni movimento.
Anche le sue gambe non scherzavano affatto, com’era intuibile dai polpacci nudi, che sostenevano il suo incedere da battaglia con fermezza mirabile.
Era buffo che si fossero buttati entrambi nello sport per sfogarsi, per provare a smettere di pensare.
Lui era piuttosto in ritardo in questo processo, visto che lei aveva già manifestato quest’abitudine al principio di questo romanzo sin troppo reale, quando le avevano proposto di tirare pugni in un videogioco per allentare lo stress e lei non ci aveva pensato due volte, totalizzando un punteggio spaventoso.
Certo, quei numeri sullo schermo lo avevano impressionato allora, ma solo recentemente ne aveva interpretato accuratamente il significato.
Giocare a calcio, fare flessioni, addominali e squat non erano stati che i veicoli per ragionamenti più lucidi, quando era nel pieno di un lavoro, specie se complesso.
Con la quiete, invece, aveva avuto una straordinaria epifania: allenandosi, poteva sì accendere il cervello, ma anche spegnerlo.
Era stata una rivelazione strabiliante, durante un periodo in cui le uniche cose a ronzargli nella testa erano rimorsi alternati ad equazioni, saggi in inglese e formule chimiche.
Queste gli risultavano particolarmente fastidiose.
Erano tarli che andavano a braccetto con i suoi strazi in una foresta in fiamme.
Una formula chimica lo aveva strappato alla sua vita.
Una formula chimica lo aveva reso una macchina per bugie.
Una formula chimica gli aveva tolto la possibilità di realizzare quel sogno che stava attraversando il suo vialetto senza guardarlo in faccia.
E tutto questo era accaduto con la sua involontaria complicità.
Ah, la beffa!
Lui, che inseguiva i casi come i cani da caccia fanno con le prede, avrebbe voluto il potere di riavvolgere il tempo solo per impedirsi di vivere quell’incubo che si era intromesso nella sua quotidianità a passo di danza, travestendosi da tizi sospetti in completo nero.
Ran era ai piedi dei due scalini ora, su cui salì senza esitazione.
Lui la osservò minuziosamente, il muscolo cardiaco nella sua cassa toracica pronto a saltare fuori per non tornare più.
Com’era bizzarro averla lì!
Qualsiasi cosa volesse da lui, il semplice fatto che avesse volontariamente calpestato il suolo della sua villa sarebbe bastato a ripagarlo.
Per quanto suonasse sdolcinato e stonasse in una persona come lui un tale pensiero, non ci badò affatto in quell’istante.
Cosa poteva farci lui, se quell’avvenimento lo rendeva contento?
La vide toccare il pianerottolo di marmo chiaro con le sue graziose ballerine ed arrestarsi lì, visibilmente indecisa, bloccata da una remora di qualche sorta.
E, poi, inaspettatamente, fu costretto a spalancare le palpebre dallo stupore più puro, guardandola mettersi in ginocchio alla sua sinistra, mentre lui rimaneva impalato davanti al pilastro che gli aveva offerto riparo.
Il suo viso ora era piantato orgogliosamente verso ciò che aveva dinanzi, seppure si mordesse inquietamente l’interno della guancia.
Il suo atteggiamento emanava vero e proprio disagio attraverso la tensione che era dipinta ovunque sul suo corpo.
Avrebbe voluto essere altrove, non v’era dubbio su questo.
Il padrone di casa si girò interamente verso di lei, con gli arti superiori penzoloni lungo i fianchi a strusciare contro il fino cotone, preso in pieno alla sprovvista.
D’un tratto, si accorse di aver assorbito gran parte dell’apprensione dell’altra, avvertendo come fortemente sgradevole il fatto che si fosse prostrata per lui.
La sua bocca si schiuse appena, ma da essa non uscì niente se non anidride carbonica, scioccato.
Il petto di lei si sollevò e si abbassò con lentezza con un respiro profondo e liberatorio, siccome quel che aveva compiuto doveva essere stato molto arduo.
“So cosa ti ho detto qualche giorno fa…” gli disse con imbarazzo malcelato, chiudendo gli occhi per un attimo, cercando i termini giusti per continuare.
I tratti di lui si fecero severi a quelle parole, con le sopracciglia aggrottate e le narici più larghe.
La conosceva troppo bene per non realizzare subito cosa accidenti l’avesse trascinata da lui, nonostante il giuramento fatto a se stessa.
“… ma ho… anzi, abbiamo bisogno del tuo aiuto, Shinichi.” si costrinse a concludere, inalando una gran quantità di aria.
Che forza, quella ragazza!
O che faccia tosta, chi lo sa?
Magari erano entrambe le cose che la stavano riducendo al punto di implorarlo per ricevere la stessa assistenza che lui aveva, in principio, proposto senza risultati.
O meglio, qualche risultato c’era stato, ma non come aveva sperato, poiché non lo avevano preso a pedate solo per risparmiarsi lo sforzo.
Perché, nonostante quel che era accaduto, non era in grado di smettere di ritenerla meravigliosa?
Anche lui aveva una dignità, accidenti!
E lei l’aveva calpestata impietosamente, accusandolo di essere cose che gli facevano orrore.
Eppure, l’idea che stesse mettendo da parte quei sentimenti tanto spiacevoli per amore di qualcun altro era da adorare.
E quello stava facendo, lì, nel fondo della sua anima, zittita pur di non far trapelare il sollievo che stava provando, quello che gli era stato negato dall’orologio meno di dieci minuti prima.
La stava adorando.
Ma tenne duro e la sua espressione non mutò di una virgola.
Avanzò pigramente nella sua direzione, avvicinandosi quel tanto che era sufficiente per torreggiare su di lei.
“Ciao anche a te, Ran. Io sono un po’ stanco, ma sto bene dai. Grazie per avermelo chiesto!” fece del sarcasmo, passeggiandole vicino per fermarsi dall’altro lato con le mani nelle tasche dei pantaloni con cui aveva dormito.
Si curvò lievemente, diminuendo la sua altezza abbastanza da poter notare il tentativo di eliminarlo dal suo campo visivo, dentro cui era entrato nel breve tragitto per cambiare posizione.
Era del tutto inutile, tuttavia, che guardasse a sinistra, perché, là dove lui non arrivava fisicamente,  si stagliava la sua ombra derisoria.
La sua amica d’infanzia si tormentò la lingua con i denti, odiando che fosse riuscito ad infastidirla con un gesto casuale come quello.
Possibile che non avesse modo di rendere la sua visita meno complicata?
Sospirò, rassegnata e, facendosi coraggio, sollevò il suo sguardo per far sì che potesse leggere quelle che erano le sue emozioni.
Era scomodo dover piegare il collo in quella maniera, ma non si rassegnò e piantò le sue pupille su quelle del suo compagno di scuola risolutamente.
Fu lui a semplificarle l’arduo compito, muovendosi in avanti perché fossero quantomeno uno di fronte all’altra, anche se a livelli diversi.
La posa spavalda di Shinichi non subì alcuna trasformazione, giudicandola, apparentemente, senza la minima compassione.
“Shinichi, per favore…” lo pregò con il cuore in mano e calde lacrime ad inumidirle gli occhi.
Quanto detestava la crudezza del suo sofferenza!
L’aveva vista manifestarsi in chissà quanta gente nel corso degli anni, ma nessun altro era stato capace di mozzargli il respiro come lei.
Era genuinamente la persona migliore che avesse mai avuto la fortuna (sfacciata, in questo caso) di incontrare e, se c’era una certezza per lui, era che lei non meritasse di stare così.
Gli sembrava quasi di poterlo afferrare quel cuore in frantumi che gli stava porgendo così dignitosamente attraverso quei lucidi specchi dell’anima.
Era esausta anche lei, spezzata dai colpi che le arrivavano da ogni parte e da cui, sinceramente, non avrebbe saputo come difendersi.
Con un’occhiata svelta ma attenta, le accarezzò le spalle e scese lungo l’arto destro, scivolando lungo la sua pelle candida, fino a posarsi sulle sue nocche rosse, consumate come gomme da cancellare come se le aspettava.
Per quanti pugni tirasse, c’era, forse, qualcosa in grado di battere un litigio con una cara amica, un amore bugiardo e un padre privato della propria libertà?
Il rimorso ricominciò a divorarlo come una tigre affamata, con pari voracità e spietatezza.
Lui costituiva un grande pezzo di quel dolore.
Era una gigantesca catena di cause ed effetti che partiva dalle sue dita.
Se non l’avesse abbandonata, lei non avrebbe dovuto mandare giù quella vagonata di bugie.
Se non l’avesse annientata con quelle, avrebbe creduto in lui dal primo minuto di quella storia.
Se le avesse concesso la possibilità di affidarsi a lui, non sarebbe stata torturata da quel mescolarsi di ansia, paura e rabbia.
“Per favore, Ran? Mercoledì sono stato io a pregarti e tu non mi hai neanche aperto la porta. Mi hai solamente rispedito al mittente, gridandomi che non avresti accettato l’aiuto di un truffatore.
Io, un truffatore… ti rendi conto di cosa mi hai detto?” la interrogò con tono meno rigido, non potendo frenare le emozioni che aveva pensato di essere capace di incatenare.
Che cliché, quello di riversare nell’altro la condanna intesa per sé!
Per quanto le sue accuse lo massacrassero, era sempre stato ovvio che lei avrebbe reagito in quella maniera.
Non si era aspettato mica fiori, cioccolatini ed applausi, dopo aver vissuto sotto il loro tetto a loro insaputa, grazie all’ausilio di un’indesiderata identità di bambino delle elementari .
Non si preoccupò, perciò, di camuffare, almeno a se stesso, il suo sbarazzarsi di un peso con l’essere stato ferito da un giudizio pienamente meritato.
Quando la vide arrossire sotto i raggi solari per la vergogna, però, ottenne unicamente di farsi persino più schifo per essersi sfogato su di lei.
Da impettito che si era fatto per conservare un minimo di fierezza, tornò umilmente nella disposizione di quando l’aveva accolta, afferrando nervosamente la stoffa del pigiama all’altezza delle proprie cosce.
“Hai ragione, non avrei dovuto trattarti come ho fatto, quando hai generosamente offerto per primo di aiutarci.” ammise con un fil di voce lei, annuendo piano per rafforzare il concetto.
“Mio padre non ha nessuna colpa per le mie parole e per le mie azioni, per cui, ti scongiuro, non ti chiedo di farlo per me, ma per lui, anche in onore dell’assistenza  che ti ha inconsciamente fornito.”.
Pronunciò questa frase, supplicandolo e riportandolo ai suoi doveri allo stesso tempo.
L’investigatore si leccò le labbra asciugate dal sole che si era introdotto furtivamente nella loro conversazione, proiettando poeticamente su di loro le ombre del fogliame del bellissimo albero del suo vicino, il dottor Agasa.
“Questo significa che intendi ritirare quello che hai detto su di me?”
Era una mera curiosità la sua, accessoria rispetto al discorso, ma voleva stuzzicarla per analizzare fino a che punto riuscisse a gettare fango sul suo amor proprio.
Perché, in fondo, lui sperava che lei gli desse una lezione, quella che aveva rimandato di continuo grazie alle sue promesse e alle sue dolci frasi e non gli avrebbe fatto per niente piacere, se lei avesse deciso di concedergli un contentino solo per corromperlo, pur non sentendo davvero di volersi rimangiare le sue espressioni avvelenate.
Dopotutto chi avrebbe desiderato ravvedersi in una simile circostanza?
Solo santi ed angeli erano forti abbastanza da agire secondo il principio “Dimentica e perdona” e, per quanto convinto che Ran appartenesse alla seconda categoria, ciò non significava che si sarebbe dovuta comportare come loro.
Aveva tutti i diritti del mondo di fare il contrario e lui si augurò e si aspettò che procedesse in tale maniera, affinché lui potesse sdebitarsi, innanzitutto e, in seguito, se fosse stato tanto benedetto, espiare i suoi peccati per persuaderla che non era il pessimo soggetto che aveva dimostrato di essere.
Non fu deluso.
Lei gli lanciò uno sguardo di fuoco non appena lui ebbe finito di rimuginare e, sebbene fosse indubbiamente adirata, le farfalle nel suo stomaco cominciarono a volare impazzite.
La karateka era, per lui, sempre bellissima, non importava quale emozione esternasse, ma pareva fiorire ulteriormente, come per magia, quando felice o determinata.
Eccola, la vera forza di Ran, quella che gli decantavano da tredici anni e che lui, da deficiente che sapeva di essere, aveva ogni volta frainteso.
Il suo strabiliante potere era quello di sopportare il possibile e l’impossibile, senza mai rinunciare alla propria bontà e senza mai arrendere il suo genuino ottimismo, il quale non era del tipo esagerato ed irritante di alcuni individui, che avrebbero visto del buono anche in un’apocalisse.
No, lei era totalmente di un’altra pasta.
Era di quelle che, quando l’oscurità bussa alla porta, la lasciano entrare e le concedono di inghiottirla, consapevoli che, prima o poi, la luce tornerà a splendere su di lei.
Lei era colei che, dopo una prima indagine che le aveva mollato un sonoro schiaffo per mostrarle l’imprevedibilità dell’animo umano, non aveva vacillato nel ritentare l’esperienza per salvare un’amica.
Lei era colei che, nonostante l’adorato genitore fosse stato praticamente colto sul fatto, si era messa in marcia immediatamente per provare la sua innocenza.
Era colei che, sebbene fosse stata terribilmente delusa dalla persona di cui era innamorata, si era spinta fino ai piedi di questa perché sicura della sua integrità professionale.
Ma per nulla al mondo si sarebbe piegata a ricredersi sotto ricatto.
Quella era un’altra grandiosa sfumatura della sua labirintica personalità, che contribuiva, assieme alle altre, a renderla forte.
Era disposta a concedere seconde occasioni, ma esse andavano lecitamente conquistate e lui si sarebbe messo a saltare dalla gioia a quell’idea.
“Scordatelo.” sibilò, difatti, lei, fissandolo acidamente.
Di colpo, lui le diede le spalle, rinfrancato e con nuovo spunto di riflessione nella mente.
Il suo gesto causò in lei un moto di angoscia, convinta di essersi appena guadagnata un bel rifiuto.
Lo scrutò febbrilmente, in attesa di un qualsiasi cenno, mentre il calore e l’essere in ginocchio iniziarono a pesarle .
Una goccia di sudore scivolò dalla sua fronte alla sua gola secca ed infiammata e lei, impegnata a fissare la salda schiena di Shinichi, evidentemente distratto da qualche ponderazione, cominciò a domandarsi se avesse fatto bene a rivolgersi a lui.
Le aveva mentito, maledizione, ma si sarebbe sul serio spinto fino al punto di ignorare i suoi debiti e, peggio, le sue suppliche?
No, non era possibile.
Non lo immaginava capace di raccogliere la sua intera vita per gettarla via con leggerezza.
E, per quanto avesse compreso di non conoscerlo bene come credeva, era radicata in lei la sicurezza che non l’avrebbe abbandonata in quel momento.
Egocentrico, ma non egoista.
Sarebbe potuto cambiare in mille modi diversi, ma non in quell’aspetto.
Serrò le labbra per non pressarlo, fiduciosa, chiudendo la mano sinistra per dissimulare quel velo di incertezza che era lì a prescindere dall’argomento di quel corto dialogo.
Lui spostò il capo da un lato, volendo guardarla con la coda dell’occhio.
“Sono contento che questa sia stata la tua risposta, sai? E, naturalmente, accetto l’incarico.” le rivelò, tornando a rivolgersi direttamente a lei, che, dapprima, si mostrò assai stupita dalla piega che aveva preso la sua decisione e, poi, fece una smorfia di disapprovazione vicina ad un penoso sorriso.
“Speri, magari, di riscattarti, approfittando della situazione?” inquisì, ristabilendo il contatto visivo tra loro per impedirgli d’ingannarla.
Lui, però, non diede alcun segno di colpevolezza e si limitò a scuotere piano la testa.
“Ci stavo giusto pensando e, sinceramente, no, non è quello che voglio. Ciò che realmente desidero è rendervi il favore e, se arriverà, mi rallegrerò del perdono che mi avrete, eventualmente, concesso.” le spiegò con tono serio, porgendole dolcemente la mano per invitarla a rialzarsi.
Lei aspettò ad afferrargliela, processando le sue parole.
Erano giunti a questo, quindi?
Dover auspicare che si facessero la carità l’un l’altra di non rifiutare le scuse che si sarebbe rivolti?
Perché lei era cosciente di essere tutto fuorché innocente.
Infatti, gli insulti che gli aveva rivolto erano stati intensi come una provocazione, ancor prima che si radicassero nel suo cervello come fondati.
Non era impazzita del tutto né era cieca.
Più tempo si prendeva per osservarlo, con le sue occhiaie e la sua chioma ribelle, più poteva assorbire e rielaborare dei suoi patimenti.
Era consapevole di non aver percepito che un decimo di quello che aveva passato e che molto avrebbe avuto da ascoltare, ma non gliene aveva dato l’opportunità, poiché, francamente, una rabbia del genere lei non l’aveva provata in nessuna occasione.
L’avrebbe massacrato anche nello stato in cui l’aveva trovato, se non fosse stato per quel pizzico di pena che le aveva suscitato.
Sarebbe stato giusto ammettere, quand’era la fine, che fossero entrambi colpevoli di qualcosa, ma, per una volta nel corso della sua esistenza, voleva poter affermare che la ragione l’aveva lei, a discapito di qualcun altro.
Per un minuto, voleva regalare a se stessa la sensazione di anteporre il suo benessere ed i suoi bisogni a quelli degli altri, anche solamente per apprendere come ci si sentisse.
Per qualche giorno, diamine, era stato magnifico... ma dopo?
Dopo averlo sorpreso a rivolgerle occhiate fugaci in classe, ovvero nelle poche ore in cui era sicuro di poterla vedere, com’era stato? Brutto.
E com’era, in quell’istante, essere tanto prossima al suo viso speranzoso in attesa di un accordo con lei? Terribile.
Ma, per quanto sognasse di poterlo accontentare così, su due piedi, semplicemente posando le proprie dita sulle sue, era troppo presto, perché la parte più tormentata di lei, quella che stava reclamando le cure adeguate di cui seriamente necessitava, acconsentisse.
Sapeva benissimo che lui non le stava chiedendo nulla più di un’altra chance.
Eppure, seppure fosse difficile dire di no a quelle iridi blu brillanti, doveva raccogliere tutte le energie rimastele per farlo.
Respirò profondamente e si lasciò sfuggire un sorriso per una sorta di compromesso, non volendo deluderlo del tutto.
Non era un “Mai!”, ma un “Forse…”, cioè il massimo a cui sarebbe volontariamente arrivata.
Quando fu sicura che lui avesse recepito (e, per assicurarsene, le bastò la visibilissima tristezza che gli invase gli occhi), si tirò su da sé, preoccupandosi di farlo lentamente per le gambe debilitate dalla posizione in cui le aveva costrette.
Brevemente, spolverò con le mani i pantaloni all’altezza delle ginocchia, su cui si era formato un alone grigiastro di polvere.
“Grazie.” gli mormorò, accennando un inchino colmo di gratitudine.
Lui infilò ancora le mani nelle tasche, rispondendole con un cenno del capo.
La scelta di Ran lo aveva avvilito, per quanto avesse assimilato cosa avesse voluto comunicargli in realtà.
Se da una parte questo alimentava la fiamma della speranza, dall’altra lo bastonava, perché gli marchiava a fuoco nella mente quanto l’avesse fatta grossa.
Ma si sarebbe dovuto occupare di una cosa per volta e la priorità, a partire da quella mattina, sarebbe stata tirare fuori dal carcere Kogoro.
Finalmente, il pallone da calcio consumato nella sua camera sarebbe servito per vecchi scopi e non per quelli che aveva programmato dianzi, anche se prima si sarebbe dovuto dedicare a raccattare informazioni da quotidiani saggiamente conservati ed internet.
“Posso esserti utile in qualche modo?” lo interpellò, notando come il pollice e l’indice destri si fossero stretti attorno al suo mento barbuto.
Com’era strano con quella caratteristica, in lui nuova ed inaspettata!
Non c’era abituata e non ci aveva neppure pensato nel corso del loro lungo rapporto, ma gli donava per un qualche motivo a lei sconosciuto.
Lo aveva già constato a scuola, ma quella era l’unica situazione in tre mesi durante la quale poteva dilungarsi ad esaminarla ad una distanza accettabile.
Fu contenta per lui, che aveva ereditato quel tipo di geni da suo padre, il quale, pur mantenendo i soli baffi, avrebbe avuto la fortuna di poter far crescere, se così avesse voluto, una barba regolare ed uniforme.
Da sua madre, invece, aveva preso guance e mandibola, sebbene questa, ben definita dall’attività fisica, rispecchiasse un po’ quella squadrata di Yusaku.
Non c’era che dire: Shinichi aveva avuto la sua dose di buona sorte con i suoi genitori.
Si accorse che lui le stava rivolgendo un’occhiata, ragionando sul suo quesito.
“Quanto sai su quello che è avvenuto?” le domandò, giocando l’unica carta a sua disposizione.
“Praticamente nulla. La polizia è stata molto vaga e mia madre non può far trapelare molto. So solo che siamo nei guai.”
Quell’ammissione lo riportò con gli occhi a fissare il pavimento.
“Mi toccherà partire da zero…” sussurrò, più a se stesso che a lei, concentrato sull’organizzarsi una tabella di marcia mentale.
Ran, dal canto suo, l’aveva udito benissimo e quella frase le causò una fitta al cuore.
Sembrava la copia rivisitata di qualcosa che lui aveva già detto in tempi infinitamente migliori.
“Di’ alla regina dell’erba che lo zero è l’inizio di tutto! Senza partire da lì, non può nascere nulla!” le aveva esclamato con il viso color porpora a causa della sua dichiarazione improvvisata.
Non sarebbe stata capace di scordare quel momento nemmeno sotto tortura, figuriamoci se avrebbe potuto farlo in quel periodo.
Ma detestava la reazione che provocavano in lei, nonostante tutto.
Trovava odioso il battito accelerato del suo muscolo cardiaco.
Non sopportava la risata spontanea che doveva sopprimere con ogni oncia della sua energia.
E, soprattutto, non ne poteva più di ripensarci costantemente con tutta quella malinconia.
Lei viveva circondata dall’amore: di sua madre, di suo padre e delle sue amiche.
Che avesse il suo, poco le sarebbe dovuto importare, no?
Ah, quanto avrebbe voluto che fosse davvero così!
Invece, segretamente, agognava, tanto quanto lui se non di più, il momento in cui avrebbe potuto perdonarlo con la sicurezza che se lo fosse meritato.
“Temo di sì.” confermò, portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio sinistro per scacciare quelle riflessioni che reprimeva sempre più spesso.
Pensò, piuttosto, che le rincresceva non potergli fornire spunti di partenza, ma non avrebbe saputo che riferirgli.
Sua madre non le riferiva poi molto di più di quel che sentiva al telegiornale, più per non tediarla che per mancanza di autorizzazioni.
Che lo stato delle cose fosse pesante, lo avrebbe capito anche un idiota, perciò poteva solo intuire a cosa fosse sottoposta sua madre, che era ufficialmente in lizza per la carica di avvocatessa più esausta del Giappone.
Quando Ran la guardava ogni sera a cena, visibilmente provata, sentiva scattare nel suo spirito la voglia di abbracciarla e rassicurarla, pur comprendendo che stare tranquilli fosse impossibile.
Come puoi calmarti quando tutto ciò che puoi fare è cercare un cavillo legale probabilmente inesistente?
Ma quella domenica, da figlia angustiata qual era, la giovane aveva stabilito che fosse giunta l’ora di agire e si era affacciata sulla sola strada, tortuosa ma sicura, che conoscesse, quella che l’aveva condotta sin là.
“Non fa niente, tranquilla. Ora mi metterò subito al lavoro.” la confortò lui con un gesto d’assenso.
Sì, era decisamente il caso che lo lasciasse alle sue elucubrazioni, meditò silenziosamente lei, osservando il sudore che stava formando macchie bagnate un po’ ovunque sulla maglia di lui quanto sulla sua.
“Va bene, allora.” ribadì, concedendosi degli altri istanti per rivolgergli un’ultima occhiata prima di riprendere la via di casa.
“Ci vediamo domani!” lo salutò dopo poco.
Il detective sollevò leggermente l’angolo destro della bocca, rasserenato da quel fugace quanto intenso contatto.
“A domani, Ran.” replicò più dolcemente di quanto avrebbe gradito.
Lei percepì quale sentimento permeasse il suo arrivederci e, per il suo bene, si affrettò ad iniziare a ripercorrere i propri passi, scendendo i gradini bianchi con un peso sul petto, perché, se fossero stati altri tempi, lui le avrebbe chiesto di fermarsi a fargli compagnia e lei avrebbe accettato.
Toccato il principio di quel viale a lei tanto familiare, certa che la stesse ancora guardando, si voltò verso di lui.
E lì lo trovo, come ipnotizzato dal vederla andarsene, probabilmente torturato dalle sue stesse idee, com’era loro solito.
“Buona fortuna, Shinichi. Grazie di nuovo.” gli ripeté e, stavolta, non si arrestò più, dirigendosi fuori da quel luogo a lei immensamente caro.
Lui non le staccò gli occhi di dosso un attimo, seguendo ogni metro da lei percorso fino a vederla sparire oltre il cancello, illuminata gradevolmente dalla luce incandescente di luglio.
Che l’indagine inizi!, pensò, girando finalmente i tacchi per rifugiarsi nel suo incarico, il quale, si augurava, lo avrebbe distolto dall’ immagine di lei incastonata nella sua testa.

 

Yes! Ce l'ho fatta! Questo capitolo è stato pronto per giorni, ma ho dovuto portarmi avanti con il secondo per guadagnare un po' di vantaggio su chi leggerà (sperando che qualche volontario ci sia :P). Vi terrò aggiornati attraverso l'account che vi ho segnalato sopra.

Anticipo già che sto assestando il mio modo di scrivere, perciò potreste notare uno stile leggermente diverso tra le prime parti. Chiedo perdono!
Se notate errori, sarò ben felice di correggerli.
Grazie mille e a presto,
Martina

   
 
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