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Autore: LionConway    16/05/2020    7 recensioni
New York, estate 1977. Il Bronx è in fiamme, le imminenti elezioni del prossimo sindaco prevedono guerra aperta contro i graffiti. Central Park è la casa di eroinomani e spacciatori, Times Square non è un posto per famiglie.
A ventun anni, Leo, un giovane ebreo omosessuale, giunge nella Grande Mela dal Canada con un taccuino su cui scrivere poesie e una valigia piena di sogni e ambizioni artistiche.
Il suo cammino si incontra con quello di Johnny, un ex Marine che ha servito in Vietnam, impulsivo e piantagrane, ma con il fantasma della guerra che ancora grava su di lui. Con Suzy, attivista politica e giornalista del Village, dove gli artisti occupano appartamenti sgangherati e tentano di vivere dei loro sogni. Con Michael, il migliore amico di Johnny che cerca costantemente di tenere fuori dai guai e, nel mentre, progetta l'apertura del proprio ristorante.
E tra quattro peculiari personalità, che non potrebbero essere più differenti tra loro, sboccia un genuino sentimento di amicizia e solidarietà: ben presto si renderanno conto di come ognuno di loro abbia bisogno degli altri per fronteggiare le difficoltà di tutti i giorni, in una metropoli dura e crudele, ma che affascina e fa innamorare.
Genere: Commedia, Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
Capitoli:
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Parte Prima 
 
Anime Solitarie 
 

New York non è ospitale. È molto grande e non ha cuore. Non è incantevole, non è amichevole. È frenetica, rumorosa e caotica, un luogo difficile, avido, incerto. New York non fa nulla per chi, come noi, è incline ad amarla, tranne far entrare dentro il nostro cuore una nostalgia di casa che ci sconcerta quando ci allontaniamo e ci domandiamo perché siamo inquieti. A casa o fuori, abbiamo nostalgia di New York, non perché New York sia migliore o, al contrario peggiore, ma perché la città ci possiede e non sappiamo perché.

Maeve Brennan )


I.
Johnny

 

You grew up riding the subway, running with people 
Up in Harlem, down on Broadway 
You're no tramp but you're no lady, talkin' that street talk 
You're the heart and soul of New York City 
And love, love is just a passing word 
It's the thought you had in a taxi cab that got left on the curb 
When he dropped you off and he stated firm 
Oh oh, you're a native New Yorker

Odyssey - Native New Yorker ] 



 

 

Era un jukebox di modeste dimensioni. Un Rock-Ola in legno, con le rifiniture sul davanti in materie plastiche colorate, un modello vintage risalente alla seconda metà degli anni Quaranta. Il menu di selezione prevedeva ventiquattro dischi e, fondamentalmente, quello era stato il motivo per cui il proprietario del Cafè Bizarre aveva voluto sbarazzarsene, preferendo l'introduzione di una macchina con la selezione di cinquanta dischi leggibili su entrambi i lati. A Johnny bastava poter ascoltare nuovamente la musica nell'appartamento dove lui e Suzy si erano trasferiti ad Aprile. Cosa poi se ne facesse di un jukebox il padrone di un locale che ospitava concerti dal vivo non era affar suo.

Il problema era trascinarlo su per le scale fino al sesto e ultimo piano del condominio. Chiamò Michael per farsi dare una mano e, poco per volta, tra il respiro affannato del suo amico e la precaria forza nelle braccia di due italiani pelle e ossa, si adoperarono per portarlo su. Una rampa e una pausa. Una rampa e una pausa.

«Ehi, tutto bene?»

Dall'alto di due gradini, Johnny si appoggiò a un'estremità del macchinario per osservare Michael, che si era arreso a tirare fuori l'inalatore dalla tasca dei jeans. Era lo stesso, minuscolo apparecchio cremisi che lo accompagnava fin da quando Johnny lo aveva conosciuto, il giorno in cui si era trasferito a casa degli zii a Hester Street, nel cuore di Little Italy. All'epoca, i due amici abitavano a un pianerottolo di distanza.

Michael inspirò dalla bocchetta (che cosa mai ci fosse in quell'affare che riaprisse le vie respiratorie, Johnny non lo sapeva) e si prese qualche secondo per tornare a respirare normalmente. Alla fine, con uno sforzo sovrumano di entrambi, il jukebox venne finalmente trascinato in un angolo del salotto. Accanto agli scaffali che ospitavano l'invidiabile collezione di vinili di Johnny, il Rock-Ola, con il plasticato multicolore illuminato dalla corrente, faceva la sua sporca figura.

Michael si abbandonò in mezzo ai cuscini sparsi sul futon in mezzo alla stanza e fece notare a Johnny che avrebbe avuto bisogno di una monetina per farlo partire.

«Lo so» fu la sua replica, «davvero vuoi spiegare a me come funziona un jukebox?»

«Mi fa solo ridere che ti alletti l'idea di dover pagare per ascoltare della musica in casa tua.»

«Ricky mi ha aperto la cassaforte. Non sono mica scemo.»

Michael alzò le mani in segno di resa. «Ti ha lasciato qualche disco?» chiese, invece.

Suo malgrado, Johnny dovette scuotere la testa. Ma, per quanto gli dispiacesse, gli sembrava anche normale: era già tanto che Ricky gli avesse regalato l'intero macchinario piuttosto che venderglielo.

«No, e tra l'altro dovrò divertirmi a fare una nuova lista. Altrimenti bel casino a trovare il giusto codice!»

Michael ridacchiò, stringendo un cuscino di lana al petto, e osservò che Johnny avrebbe fatto prima a riprendersi il giradischi che aveva lasciato a casa di suo zio. Di rimando, Johnny bofonchiò che l'amico non comprendeva i suoi bisogni estetici.

«Vuoi un caffè?» gli propose. Ne aveva sempre bisogno prima di affrontare una lunga nottata di lavoro, specialmente quando non era contemplata l'opzione di recuperare tutte le ore di sonno di cui avrebbe necessitato per essere al pieno delle proprie energie.

Michael annuì all'offerta e lo seguì in cucina. Mentre lui prendeva posto al tavolo e vi appoggiava i gomiti, Johnny si adoperò per preparare il caffè. L'allaccio dell'acqua non era ancora perfetto e l'acqua singhiozzava un po' prima di scorrere bene dal tubo di erogazione.

«Beh?» disse, una volta che la bevanda fu servita nelle rispettive tazze di ceramica, zucchero e panna compresi, e lui si poté piazzare di fronte all'amico per conversare. 
Michael sollevò gli occhi dalla propria tazza fumante, dentro la quale stava facendo vorticare il cucchiaino. «Beh cosa?»

«Sei silenzioso» gli fece notare Johnny. «E quando sei silenzioso, significa che quel tuo cervellino è intensamente concentrato a elaborare qualcosa. C'entra il ristorante, non è così?»

Non aveva bisogno di far ricorso alle proprie capacità di sensitivo per assicurarsi di avere ragione: erano giorni che Michael non faceva altro che parlare entusiasticamente della location che suo zio gli aveva trovato per far sì che l'attività cominciasse. La prima volta che gli aveva parlato di quell'idea era stato durante un tardo pomeriggio di quattro anni addietro, il primo che trascorrevano insieme dopo il suo ritorno dal Vietnam e prima della laurea di Michael. Aveva l'influenza, quel giorno, e forse era stato per quello che Johnny aveva liquidato le sue parole come gli sbarellamenti di un febbricitante in pieno stress universitario. Invece, per anni aveva persistito così a fondo che, alla fine, suo zio Giorgio si era arreso al volerlo accontentare, esibendo un teatrale gesto dell'ombrello in faccia alla crisi fiscale in cui era sprofondata New York negli ultimi anni. Johnny si domandava cosa provasse Michael ad avere sempre il culo coperto da uno dei più importanti e potenti avvocati della città, se non dell'East Coast, se non di tutti gli Stati Uniti. Avrebbe potuto avere un futuro brillante lavorando nello studio legale dello zio, intascando i soldi di mafiosi e imprenditori che lo avrebbero pagato fior di quattrini per essere difesi in tribunale. Avrebbe potuto possedere un appartamento in un palazzo sulla Quinta Avenue, forse un giorno perfino un attico, e frequentare tutti quei bei ristoranti che ostentavano la propria sofisticata caratterizzazione attraverso musica jazz di sottofondo, caviale, champagne e impiattamenti minimali, atti a compiacere prima di tutto gli occhi di belle signore con collane di perle d'avorio che ricadevano sulle generose scollature. Invece, a Michael non fregava niente. Il maggior sfizio che aveva chiesto a suo zio era stato un modesto bilocale nel bel mezzo della Bowery, forse per via della scena punk o forse perché desiderava mostrarsi abbastanza uomo da avventurarsi in zona dopo che il sole era calato oltre le cime dei palazzi. E aveva quel maledetto chiodo fisso del ristorante. Sosteneva che Little Italy avesse bisogno di una nuova generazione di ristoratori che portassero avanti la tradizione culinaria del Bel Paese, cavolate che si inventava per giustificare il fatto che gli piacesse chiudersi in casa e passare ore a spadellare in cucina come una vecchia nonna siciliana. Anche se, Johnny doveva dargliene atto, era davvero molto bravo.

Prima di rispondere, Michael bevve un lungo sorso di caffè, come se avesse bisogno di studiarsi per bene le parole da utilizzare.

«Avrei voluto dirtelo un'altra volta, in realtà» borbottò, infine.

Johnny aveva la sensazione di sapere già quello che Michael stava per dirgli: che Giorgio non voleva saperne di buttare giù quattrini se lui fosse stato ancora incluso nel progetto. Michael insisteva affinché Johnny fosse il suo contitolare. Ma il giovane non favoriva esattamente le simpatie di quel ramo della famiglia di Michael; Giorgio lo considerava un piantagrane e, a dirla tutta, non aveva nemmeno torto. Johnny si sentiva decisamente di troppo: apprezzava il fatto che Michael si rifiutasse di fare alcunché senza di lui, che cercasse di aiutarlo ad avere un lavoro onesto e, possibilmente, redditizio. Ma non voleva vedere il sogno dell'amico andare in fumo per colpa sua.

«Ci mancano mille dollari» sospirò Michael. La mano libera corse tra i propri capelli ribelli e corvini, scompigliandoli ulteriormente. «Tecnicamente, in quanto mio socio alla pari, dovrebbe trattarsi della tua quota.»

Johnny quasi sputò il caffè. «La mia quota?» ripeté, allungandosi per cercare un pezzo di carta con cui ripulirsi la bocca.

«Ho dovuto trovare un compromesso per tenerti nel progetto! Avevo detto a Giorgio che anche tu avresti messo qualcosa. Se ci pensi, alla fine non è neanche giusto che paghi tutto la mia famiglia.»

«Ma è stata una tua idea, Mike!»

Per un attimo, Johnny si domandò se il suo amico non si fosse bevuto il cervello: non aveva abbastanza soldi per permettersi un affitto decente, come poteva pensare che avrebbe potuto contribuire con una tale somma?

Ma un gesto della mano di Michael gli fece capire che non avrebbe dovuto preoccuparsi.

«Calmati» rispose, «mi inventerò qualcosa. Sono certo che ci sarà qualcuno disposto a farci un prestito. Mille dollari, e che sarà mai!»

«Ma sei scemo?» esclamò Johnny: a naso aveva intuito la losca idea di Michael. «Vuoi chiedere agli strozzini? Quelli sono buoni a prestarti mille e poi inventarsi che gliene devi altri duemila di interessi!»

«Ma dai, Johnny, abbiamo più confidenza con gli usurai che con le nostre madri.»

«Ehi, non mettere di mezzo mia madre che era una Santa. Che Dio l'abbia in gloria.»

Johnny si fece il segno della croce e si sbrigò a finire il proprio caffè.

Normalmente, avrebbe lasciato le tazzine a bagno fino a quando non gli sarebbe venuta voglia di lavarle, invece, questa volta, si prese qualche istante per passarvi dentro la spugna e risciacquarle per bene sotto l'acqua calda.

Furono secondi trascorsi a rimuginare sull'idea che Michael gli aveva appena esposto e giunse alla conclusione che sì, per rispondere alla propria domanda di prima, gli aveva completamente dato di volta il cervello. Chiedere un prestito agli strozzini era una cosa da Johnny. Una trovata impulsiva, con zero attenzione riguardo alle conseguenze, perché intanto, con la faccia tosta che si ritrovava, un modo per scamparla l'avrebbe trovato sempre. Erano cose che, inevitabilmente, imparavi quando crescevi sulla strada. Oppure ci sarebbe stato Michael a guardargli le spalle. Non poteva permettergli di invertire i ruoli. Non gli andava a genio che, a forza di andare con lo zoppo, avesse preso a zoppicare pure lui.

«Non andare a indebitarti come uno stronzo per me.»

Johnny afferrò uno straccio per asciugare le tazze e riporle a testa in giù sul lavello. Poi si voltò, gli occhi puntati su Michael ma la mente che si arrovellava per trovare una soluzione. «Aspetta un attimo. Intanto non è che dobbiamo aprire domani. Comunque, posso darti circa trecento pezzi. Li ho vinti un mesetto fa, a una partita di poker al Fascination

«Ma bravo!» esclamò Michael. Il suo tono di voce tradiva tutto il sarcasmo di cui era capace. «Ci mettiamo anche a giocare d'azzardo, adesso?»

Johnny gli riservò un'occhiata storta che voleva dire Non azzardarti a farmi la predica. Michael capì l'antifona e si limitò a stringersi nelle spalle. Era sempre così, tra loro: uno sguardo, a volte, diceva più di mille parole ed esprimeva altrettanti concetti sottintesi, influenzati da storia e condizioni personali.

In ogni caso, il ricordo di quella partita di poker aveva riacceso in Johnny una fiamma che aveva lasciato dissolvere nelle settimane precedenti, causa motivi più grossi di lui. Un tizio gli doveva dei soldi, ma si era fatto pizzicare dagli sbirri con le tasche strapiene di polvere d'angelo -presumibilmente pagata con le stesse banconote che avrebbero dovuto trovarsi arrotolate nella fodera del suo materasso, dove teneva nascosti soldi messi da parte in rare ma preziose occasioni.

Ma a Michael questo lo avrebbe detto un altro giorno, quando il piano che si stava annidando nella propria mente per riprendersi il denaro sarebbe stato maggiormente nitido e avrebbe avuto bisogno del suo aiuto: se c'era una cosa che il suo amico aveva imparato durante gli studi di Giurisprudenza era divenire un ottimo intermediario.

Si spostarono in camera di Johnny. Il suo armadio era un lungo filo per il bucato che attraversava la stanza e sul quale appendeva i vestiti per uscire. Camicie, giacche, pantaloni. La roba per stare in casa e la biancheria intima rimanevano nella sacca che si era portato a casa quando era stato congedato dal servizio militare. A volte, aveva la sensazione che puzzasse ancora di Napalm. Una fila di scarpe dai toni neri e marroncini era allineata contro il muro dalla vernice giallognola scrostata.

«Indovina chi ho incontrato stamattina?» fece Michael, sedendosi sul letto.

Johnny si sfilò la maglietta scura che indossava e passò in rassegna le camicie che aveva a disposizione per andare a lavorare. Alla fine, scelse la sua preferita tra quelle bianche, una con le maniche a sbuffo. «Non lo so» borbottò in risposta. «Cybill Shepherd? Vuoi darmi il suo numero?»

«Ti piacerebbe. No, intendevo Teresa.»

Johnny indossò le maniche della camicia e si voltò verso Michael, la bocca storta in una smorfia di disapprovazione: sua cugina era alla stregua di un argomento tabù, per lui. Non la sopportava -oltre al fatto che non comprendeva come Michael non vedesse la cotta secolare che lei aveva nei suoi confronti. Ma forse era meglio così: ci mancava solo che si mettessero insieme! O l'avrebbe avuta per sempre tra le palle o, peggio, avrebbe impedito loro di frequentarsi. Non che la loro amicizia fosse così fragile. Ma chi poteva dirlo? D'altronde, la storia del mondo era costellata di tragedie in nome della passera.

«Che voleva?» domandò, sforzandosi di mantenere un tono piatto, inespressivo, che celava l'antipatia per quel ramo dei propri parenti.

Seduto sull'orlo del materasso, Michael allungò le braccia intorno alle ginocchia. «Offrirmi un lavoro» rispose. «Sai che lei sta collaborando alla campagna elettorale di Ed Koch, sì?» (No, Johnny non lo sapeva). «Ha detto che hanno un posto libero in ufficio, se voglio.»

«E tu?» chiese Johnny: sapeva che Michael non era esattamente un fan di nessuno dei candidati a sindaco. Per lui, tanto valeva tenersi Abe Beame che aveva portato la città a sforare il debito pubblico per evitare la bancarotta. Forse, sotto l'amorevole figura da bravo ragazzo, si nascondeva davvero uno sporco e rozzo punk che vagheggiava sull'anarchia.

Michael sospirò. «Le ho detto che prenderò in considerazione l'offerta. Pensandoci, sono comunque soldi. Soldi che ci servono. A proposito, quando hai intenzione di venire a dare un'occhiata al locale?»

«Uhm, domani?» provò a dire Johnny, saltellando su una gamba per infilarsi i jeans. «Senti, perché non ti fermi a dormire qui? Tra poco torna Suzy, scommetto che le farà piacere avere un po' di compagnia. Puoi prendere una delle mie magliette.»

«Sì, va bene. Ma tu a che ora torni?»

Johnny finì di allacciarsi le scarpe e si strinse nelle spalle. «Domattina presto» rispose, mentre si spostavano nuovamente in cucina. Prese un bicchiere e lo riempì d'acqua del rubinetto.

«Ma che fai in giro fino a tardi, se il tuo turno finisce alle tre?» domandò Michael.

«Mi fermo in hotel con le ragazze di LaFleur.» Johnny ghignò: «Sono un'ottima compagnia, capisci che intendo?»

Michael sbuffò e alzò gli occhi al soffitto. «Aspetta che Suzy venga a sapere che paghi delle prostitute per i tuoi porci comodi» disse, sedendosi sul tavolo. «Ti avrà detto dell'articolo che sta preparando, no?»

Gliel'aveva detto eccome, quella femminista incallita, così come lui aveva replicato che nessun pappone le avrebbe dato il permesso di avvicinarsi alle loro ragazze. Se, invece, per miracolo, qualcuna si sarebbe mostrata disponibile per un'intervista, dubitava che avrebbero infamato i loro protettori. Rischiavano molto e rischiavano grosso.

«Combatte una causa persa. Farebbe prima ad arrendersi e parlare semplicemente con LaFleur e le sue ragazze. Lei non è un pappone, è più... una madre.»

«Io non ti capisco.» Michael incrociò le braccia sul petto. «Non uscivi con quel tipo del cinema? Jim vattelappesca, il pornoattore.»

«Ci sono andato insieme un paio di volte, non ci uscivo. È una cosa diversa.» Johnny finì di bere e diede una rapida sciacquata al bicchiere. «E poi, ho scoperto che è sposato.»

«Un classico!»

«La moglie lo sa e, a quanto pare, le sta bene così. Lui dice di non essere bisessuale, che non prova desiderio per una donna. Al contempo, non potrebbe mai avere una relazione duratura con un uomo: dice che sarebbe troppo competitivo.»

Divertito, Johnny scosse la testa e prese le chiavi di casa appese al muro della cucina. «Vallo a sapere cosa passa nella testa delle persone. Ci vediamo più tardi.»

Quando scese in strada, era ormai il tramonto. La gente perbene, come la chiamava lui, che in estate aveva il lusso di poter restare all'aperto per qualche ora in più, si stava affrettando a rintanarsi nel sicuro dei loro appartamenti più o meno a norma. Ne erano rimaste ben poche di famiglie, nel Village. Perlopiù si trattava di giovani universitari un po' squattrinati oppure artisti visionari che riuscivano a sbancare il lunario facendo delle proprie passioni un lavoro -o forse erano solo camerieri con il turno in giornata. Suzy, la sua coinquilina, si trovava a metà tra due mondi: era un'onesta fotografa freelance che da poco collaborava con una testata giornalistica, e, solitamente, non rientrava oltre le nove di sera -dipendeva da quante foto dovesse sviluppare; ma era anche nera, quindi per la società rientrava automaticamente sotto la voce trasgressori.

Così come erano tacciati di trasgressione gli innumerevoli rappresentanti della vita notturna gay, che si riversavano in strada al calare della notte, abbigliati in uno stravagante mix di jeans e cuoio. Omoni barbuti, finti poliziotti e motociclisti, travestiti, battevano il West Village alla ricerca di incontri fino al Meatpacking District dove vi era solo l'imbarazzo della scelta di locali dove svagarsi. Ma anche quella era una minoranza, a dirla tutta. C'erano tipi più vaniglia, come li definiva Suzy, che si limitavano a bere qualcosa nei bar o fumare in compagnia di altre persone, passeggiare, conversare giù ai moli fino a quando qualcuno non zompava sull'auto di uno sconosciuto per racimolare un po' di soldi. Molti di loro dormivano sulle panchine o in una tendopoli lì vicino.

Johnny fece un salto in una caffetteria a metà strada tra casa sua e la stazione di Christopher Street. Comprò un altro caffè e un panino imbottito di mozzarella e polpette al sugo, che consumò seduto sulla metro, facendo attenzione a non rovesciarsi la bevanda sui pantaloni ogni volta che il treno sterzava bruscamente.

Lui non aveva mai fatto parte della gente perbene, né si era mai illuso di poter rientrare nella categoria. Era sempre stato povero, sfortunato, mezzo analfabeta e costretto a farsi strada nel mondo con le unghie e con i denti. Alla soglia dei ventisette anni, Johnny portava ancora su di sé la polvere della strada, le nocche arrossate dai pugni e ferite di guerra. Entrare nei marines avrebbe dovuto essere il suo riscatto, ma a quale prezzo? Lo zio Sam prometteva gloria e onore a chi avrebbe servito il proprio Paese. Negli anni Sessanta, improvvisamente, neri, ebrei, latini, italiani erano improvvisamente abbastanza americani da poter andare a morire in Vietnam. E chi, come Johnny, non era morto, era destinato a lunghe notti insonni, chiusi nello squallore dei cinema a luci rosse o in una stanza imbottita di Greystone Park, il sangue avvelenato da alcol, droghe o farmaci prescritti dall'Ente di assistenza ai veterani. Tutte inutili cazzate, perché a nessuno fregava dei poveri scarti da guerra come Johnny. A nessuno importava quando, nel cuore della notte, si svegliava sbraitando convinto che i rumori della strada fossero elicotteri che si abbattevano sul campo e tentava di rifugiarsi sotto il letto. E se zia Carmela aveva mostrato un minimo di apprensione nei confronti del nipote ridotto in quella condizione di costante ansia e vigilanza, zio Tony lo aveva deriso.

«Volevi dimostrare di avercelo grosso» gli aveva riso in faccia, «invece sei andato solo a farti fottere il cervello.»

Johnny avrebbe voluto prenderlo a pugni, ma la sua coscienza, che aveva la voce rauca di Michael, gli aveva sussurrato che farsi sbattere via da casa non sarebbe stata una soluzione particolarmente brillante.

Negli ultimi anni era andato migliorando, anche se aveva ancora bisogno di farmaci dai servizi sociali. Dormiva -o almeno ci provava- dal mattino alle prime ore del pomeriggio, quando la luce diurna era più rassicurante delle ombre claustrofobiche. Nel buio, preferiva muoversi, essere sveglio, attivo. Times Square era perfetta per un cane solitario come lui, con il suo brulichio di animali notturni e le luci al neon, colme di allettanti promesse, che richiamavano potenziali avventori. PEEPLAND in uno sgargiante rosa shocking, PEEP-O-RAMA in rosso e blu. E ancora, sotto le insegne intermittenti: «Porno! Porno!» «Spettacoli a luci rosse!» «Spogliarelli!» «Dieci dollari, la mano; venti, la bocca; cinquanta, servizio completo!»

Puttane che attendevano qualcuno da adescare appena fuori dall'entrata dei cinema, le donne in gonne striminzite e trucco pesante, probabilmente strafatte; gli uomini vestiti da cowboy, sigaretta tra le labbra e sguardo spavaldo. Papponi in abito elegante che sostavano appoggiati alle loro Cadillac dai colori sgargianti o nei vani dei portoni degli hotel con stanze a ore, un mignolo laccato per tirare cocaina e la mazzetta nelle tasche. Tossici nei vicoli troppo impegnati a bucarsi le vene per accorgersi del mondo che formicolava intorno a loro. Barboni agli angoli delle strade che battevano l'elemosina.

Johnny era un po' tutti loro e nessuno di loro. Tutti diversi ma tutti uguali, pronti ad approfittarsi del primo stronzo ingenuo pur di sopravvivere -o a farsi approfittare, perché a volte l'unica soluzione era abbassare la testa e subire, digrignando i denti.

Squallidi, reietti ed emarginati, la vera faccia di chi quell'enorme città lasciava indietro, discendenti e disillusi dal sogno americano e dalle promesse di riscatto di una terra guerrafondaia. Eppure, a chiedere ad ognuno di loro, nessuno avrebbe mai lasciato New York. Forse perché non avevano nessun altro posto dove andare, nessun altro luogo pronto ad accoglierli. Quale ulteriore buco di schifo al mondo era, al tempo stesso, così affascinante e crudele? Lady Liberty era una femme fatale.

Sì, Johnny ci sguazzava bene alla Deuce, la Quarantaduesima Strada, tra gli scarti umani. Quando era tornato dal Vietnam, ci bazzicava spesso. A volte, aveva così fame e così poca dignità che lo succhiava al primo sconosciuto dentro il cesso di un cinema e si faceva pagare dieci dollari per comprarsi la cena. Altre volte, trascorreva intere notti in una minuscola sala che proiettava film a luci rosse, aperta ventiquattr'ore. Passava così tanto tempo lì dentro che, alla fine, il manager gli aveva offerto un lavoro al banco degli snack, probabilmente per pietà. L'anno prima aveva chiuso e Johnny aveva fatto carriera: adesso lavorava al Gaynymedes, che era il più grande cinema gay della zona.

Quella era una cosa che aveva detto solo a Michael. Per tutti gli altri, faceva semplicemente l'usciere in un teatro.

A lui non dispiaceva. Le cose più imbarazzanti erano le pulizie e il dover annunciare il momento della chiusura ai clienti, soprattutto nei bagni, dove gli si era aperto un mondo, ma per il resto doveva starsene alla sua postazione, nel corridoio della galleria, a vendere snack, anelli di dubbia utilità e barattoli di Crisco. Ogni tanto (ogni sera) qualcuno cercava di rimorchiarlo, ma lui poteva tranquillamente liquidarlo con la scusa del lavoro. Nella mezz'ora di pausa che aveva, andava a fumarsi una sigaretta in compagnia di Esther, la bigliettaia, che lo aggiornava sulle ultime news della cronaca nera.

Quel lunedì sera, in particolare, era tutta concitata per via dell'ultimo colpo del Figlio di Sam, avvenuto il venerdì precedente. Non avevano potuto parlarne durante il weekend perché Johnny non lavorava, il sabato. Si rifiutava categoricamente di fare quel turno da quando aveva visto cosa succedesse sulla balconata dell'auditorium, quando il cinema era strapieno di uomini. 

«Lo hanno intravisto!» esclamò la donna, sventolando un ritaglio di giornale sotto il suo naso. «Hanno una sorta di identikit!»

«Sì, ho sentito che la coppia è sopravvissuta» mormorò Johnny, lanciando un'occhiata al disegno stilizzato. Raffigurava una faccia tozza, circondata da corti capelli ricci. «Ti somiglia, Esther! Sicura di non essere tu? Ci nascondi qualcosa?»

«Molto divertente, latticino! Ho di meglio da fare che importunare coppiette di ragazzini bianchi!»

Johnny ridacchiò e uscì dalla guardiola della biglietteria per accendersi una sigaretta. Imprecò quando si rese conto che quello che prese in mano era il suo ultimo fiammifero. A quel pensiero, la sigaretta tra le proprie labbra parve assumere un gusto diverso, come se fosse l'ultima che avrebbe fumato.

Un ragazzo giovane col giubbotto di jeans e gli stivali da cowboy comprò il biglietto per entrare e, per un attimo, Johnny si rese conto di quanto gli sarebbe mancato quel posto una volta che lui e Michael avrebbero sistemato le cose col ristorante. Sembrava tutto così semplice, in quella parte di Manhattan. Tutto genuino, terra terra, tutti troppo impegnati a fare schifo per perdersi in giudizi gli uni contro gli altri. Ma si trattava solo di un'illusione passeggera, lo sapeva bene. Lo sapeva da sempre. 
 



 



 

✨ Angolo Autrice ✨
 

CIAO! Ciao, ciao a chiunque sia arrivato fino a qui! Ciao a chi c'era prima per questa storia e ha deciso di tornare per leggerla completamente revisionata! 
Carissimi, una parte di me ci teneva a finire almeno questo volume prima di modificare tutto. Ma le cose da cambiare erano tante, io sono cresciuta e questa storia è maturata con me, perciò aggiornare ancora sarebbe stato ulteriore lavoro da fare. Quindi, io spero abbiate voglia di restare con me anche in questa nuova avventura per Bridge 💓

- Come vedete, questa volta la storia parte da Johnny. Il motivo è che ho riscritto qualcosina dell'avventura di Leo nel suo primo approccio con la Grande Mela, perciò mi serviva un'infarinatura iniziale con il POV di Johnny prima di tutto. Non temete, comunque: il capitolo di Leo arriverà la prossima settimana, entrambe le parti.

- Inoltre, as you can see, Johnny in questa versione ha già capito da un pezzo di essere bisessuale; un po' mi dispiace aver tolto il suo percorso, ma devo ammettere che il trope dell'etero fino a prova contraria mi aveva un po' rotto. Voglio concentrarmi sul suo PTSD, più che altro, oltre che a un altro tipo di autoaccettazione, che vedremo più avanti.

- Al solito, faccio accenni a luoghi realmente esistiti e fatti realmente accaduti. Mi sono divertita, ad esempio, a fare un gioco di parole tra Gay e il nome inglese di Ganimede, personaggio della mitologia greca, per il nome del cinema dove lavora Johnny. Esso è ispirato all'Adonis, un cinema gay realmente esistito, chiuso negli anni '80 per via delle nuovi leggi sulle prevenzioni all'AIDS ma situato sull'Ottava Avenue anziché la Quarantaduesima Strada. In più, non si può parlare del '77 newyorchese senza citare il Figlio di Sam, ovvero David Berkowitz, killer che terrorizzava la città in quel periodo 💕

Come sempre, ho fatto delle note più lunghe del capitolo, quindi ora vi lascio. 
Un baciones a tutti 💖💖

 

  
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