“Non ti voglio nella mia testa” (T. Lisbon)
 


Mi ha dato appuntamento qui, in questo bar panoramico da cui si domina tutta Sacramento. Lo aspetto, seduta a un tavolino da due, mentre ingurgito il mio sesto caffè della giornata. Oggi ne ho particolarmente bisogno.
Bella vista da quassù, ma non riesco ad apprezzarla; e poi ho un sacco di cose da fare, non capisco perché dobbiamo vederci qui, visto che avremmo potuto parlare benissimo in ufficio. Sarà l’ennesimo trucchetto manipolatore di Jane. Ma non ci cascherò.
Finalmente arriva, di fretta, con la giacca in una mano, e l’altra affondata nei suoi capelli ricci, mentre cerca, invano, di domarli.
Anche questa non è male come vista, devo ammettere mio malgrado, ma continuo a non riuscire ad apprezzarla.
Il mio consulente si siede di fronte a me e comincia ad osservarmi, in una maniera piuttosto irritante.
Alle mie lamentele riguardo il tempo perso e l’inutilità di questo appuntamento al bar risponde, con il suo solito tono saccente, che pensava mi avrebbe fatto piacere uscire per sfogare la mia rabbia liberamente.
Sciocchezze.
“So che hai mentito riguardo il tuo alibi. Non so che cosa hai fatto martedì sera”, attacca, con il sorriso sornione di un gatto e un lampo furbo negli occhi, “ma di sicuro non hai guardato la tv”.
“Non ho mentito, ho cucinato il risotto”, contrattacco io, sfoggiando una sicurezza che non provo e che non so fingere.
La verità è che non mi ricordo niente di quella sera. Il vuoto totale. Buio assoluto. Avrei potuto ballare la lap-dance mezza nuda in discoteca o fare bungee-jumping dal ponte di Brooklyn. Avrei potuto anche uccidere un uomo.
Jane ha capito che sto mentendo. Non so come faccia, ma capisce sempre tutto. E non mollerà. Tanto vale arrendermi. Intanto lo scoprirà comunque, che io lo voglia o no. Maledette le sue doti da mentalista!
Gli rivelo che non ricordo nulla,  ma lui non mi sembra particolarmente turbato, e mi ringrazia per avermi detto la verità. Sembra sincero, e, in qualche misterioso modo, mi rassicura.
Poi, però, mi propone di ipnotizzarmi, ipotesi che, ovviamente, rifiuto con fermezza. Ecco dov’era l’inghippo.
Mi alzo, per andarmene in fretta e furia. Non è una buona idea. Non mi va di perdere il controllo delle mie facoltà mentali. Non voglio Jane nella mia testa, piuttosto preferirei finire in prigione.
Vedrebbe troppe cose.
Forse vedrebbe pensieri strani e incomprensibili che nemmeno io voglio ammettere.
Sarebbe troppo pericoloso.
Molto più che essere accusata di omicidio.