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Autore: parsefeni    08/07/2020    11 recensioni
Si dice che prima di morire si riesca a rivivere la propria vita in un lasso di tempo molto breve.
Non è chiaro come, né perché, né quanto duri effettivamente questo processo.
Probabilmente è ciò che accade per i sogni: un’alterazione del tempo talmente drastica da farci credere che ciò che avviene normalmente in cinque minuti possa protrarsi, nei sogni, per almeno un’ora.
Tuttavia, secondo alcune tradizioni questo flusso di ricordi è una valutazione. Un modo per il defunto, forse, di riesaminare le scelte chiave che lo hanno condotto a quella vita; un modo per perdonare gli altri, o per perdonare sé stessi. Credi che sia di questo che si tratta, Jamie? Sto cercando il tuo perdono in una manciata di minuti?
[James/Sirius BrOTP]
Storia partecipante al contest “Old generation VS Contemporary generation VS New generation” indetto da Zukiworld sul forum di Efp.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: I Malandrini, James Potter, Sirius Black | Coppie: James Potter/Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
- Questa storia fa parte della serie 'The Marauders' Tale'
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Storia partecipante al contest “Old generation VS Contemporary generation VS New generation” indetto da Zukiworld sul forum di Efp.
 
H o m e
 
18 giugno 1996
 
Si dice che prima di morire si riesca a rivivere la propria vita in un lasso di tempo molto breve. Non è chiaro come, né perché, né quanto duri effettivamente questo processo. Probabilmente è ciò che accade per i sogni: un’alterazione del tempo talmente drastica da farci credere che ciò che avviene normalmente in cinque minuti possa protrarsi, nei sogni, per almeno un’ora. Tuttavia, secondo alcune tradizioni questo flusso di ricordi è una valutazione. Un modo per il defunto, forse, di riesaminare le scelte chiave che lo hanno condotto a quella vita; un modo per perdonare gli altri, o per perdonare sé stessi. Credi che sia di questo che si tratta, Jamie? Sto cercando il tuo perdono in una manciata di minuti?
 
***
 
1° settembre 1971
 
«Chi vuole diventare un Serpeverde? Io credo che lascerei la scuola, e tu?» chiese James al ragazzo mollemente abbandonato sul sedile di fronte al suo.
«Tutta la mia famiglia è stata in Serpeverde» rispose.
«Oh, cavolo» commentò James. «E dire che mi sembravi a posto!» Sirius ghignò.
«Forse io andrò contro la tradizione. Dove vorresti finire, se potessi scegliere?»
James alzò una spada invisibile.
«’Grifondoro…culla dei coraggiosi di cuore!’ Come mio padre».*
 
Ricordo chiaramente di aver scosso la testa esasperato. Avevo i soliti capelli ricci, scuri e troppo lunghi che mi solleticavano il collo ogni volta che muovevo la testa. È buffo pensare a quanto vivide siano quelle sensazioni che ho dato per scontato tanto a lungo. Avresti mai immaginato che alla fine avrei capito che i miei capelli erano l’unica carezza che potevo permettermi? Pensai che fossi un perfetto idiota mentre osservavo te, un ragazzino con gli occhiali che inscenava una battaglia contro un nemico invisibile in piedi sul sedile imbottito dell’espresso per Hogwarts. Il solito sbruffone con una sfilza di antenati Grifondoro convinti, sicuramente, di essere il piedistallo su cui si ergeva la grandezza del mondo magico. E nonostante questo, nonostante gli ideali inculcati per anni nel mio cervello, nessuna parte di me riusciva a disprezzarti. Per me non è una novità ripensare a quel momento come al primo ricordo felice mai avuto.
Potrei dire, in effetti, che la mia vita sia iniziata in quello scompartimento insieme a te e proprio per questo non ho avuto paura quando il cappello ha urlato ‘GRIFONDORO’ davanti ad un’intera sala particolarmente sorpresa di non avere l’ennesimo Black tra i Serpeverde.
Sono sceso da quello sgabello consapevole di avere lo sguardo di tutti addosso, ma in mezzo a quella folla ho trovato solo il tuo sorriso raggiante ed i pollici alzati. Hai mimato con le labbra un imbarazzante “ti diserederanno” ed io mi sono seduto a quel tavolo rosso-oro con l’ansia che mi ha mangiato vivo finché il Cappello Parlante non ha smistato anche James Potter tra i Grifondoro.
 
-           -           -
 
6 dicembre 1971
 
L’inizio di dicembre aveva portato con sé un freddo piuttosto secco e piovoso, senza neve. Il sole, filtrato dalle pesanti nuvole scure, appariva spento e opaco. Dava a tutto un tono giallastro e antico, nemmeno fossimo i protagonisti del mondo ammuffito del professor Rüf. Non amavo particolarmente quei colori, mi ricordavano casa mia. Cupa e senza vita; speravo nella neve perché avrei potuto finalmente giocarci. Non ci sarebbe stata mia madre a ricordarmi che un Black non si comporta in questo modo. “Un Black non si abbassa mai”, avrebbe detto, “nemmeno per fare palle di neve”.
«Pensi che abbia qualche problema?» Pronunciai quelle parole assorto mentre lasciavo penzolare una gamba dal muretto del cortile interno su cui ero seduto. Avevo seguito con lo sguardo il centro della tua attenzione e avevo trovato un ragazzino del nostro anno seduto in disparte a leggere un libro.
Era magro e molto pallido. Sulla sua pelle chiara rilucevano sottili cicatrici biancastre che correvano lungo il collo per sparire sotto la camicia bianca della divisa. I suoi capelli, di un biondo piuttosto sabbioso, ricadevano in ciocche lisce sulla fronte aggrottata per lo sforzo di capire concetti di magia ben più avanzata rispetto a quella affrontata durante il primo anno scolastico.
«Anche tu hai problemi, Sir, ma nessuno te lo fa notare in modo così aperto», la tua risposta pacata ma pungente meritò una gomitata tra le coste che ti costrinse un po’ a ridere e un po’ ad imprecare. Tornai a mangiare la mela che avevo sgraffignato dalle cucine ma tu eri già tornato con lo sguardo al ragazzino. «Sta sempre solo. Sta nel nostro dormitorio da tre mesi e non so nemmeno come si chiama. Dovremmo parlargli». Dannati Grifondoro e la loro mania di essere i paladini della giustizia. Ho pensato spesso che il Cappello con me avesse sbagliato; io non ce l’avevo tutta quella voglia di salvare il mondo dalle piaghe sociali. «Ma il bisogno di fare amicizia con i casi umani da dove arriva? Non ti basto io?» Mi hai ovviamente ignorato e non ho avuto altra scelta se non seguirti con uno sbuffo spazientito. Ripensandoci ora, credo di essere stato geloso. Devi capirmi, non ho mai avuto un amico, non ho mai saputo cosa volesse dire e nemmeno pensavo se ne potessero avere due o più contemporaneamente. Nella mia testa probabilmente aspettavo il momento in cui avresti realizzato quanto io fossi sbagliato. Perché in fondo io ero sempre stato quello sbagliato.
«Ciao!» Da parte mia ci fu un inquietante silenzio spezzato dall’ennesimo morso dato ad una povera mela diventata vittima del mio odio.
L’altro, invece, sobbalzò appena rischiando di far cadere il grosso libro che teneva sulle ginocchia nodose. Alzai gli occhi al cielo mentre lui si ricomponeva frettolosamente e ricambiava il saluto con un’espressione che pareva spaventata. Lo trovai curioso, sembrava volesse guardarsi alle spalle e scappare il più lontano possibile da noi.
«Io sono James, James Potter. Lui è Sirius, ma sicuramente lo conosci visto che ha da poco vinto il premio come “disgrazia familiare dell’anno”». Il mio sguardo torvo non ti ha scalfito minimamente, anzi. Iniziavo già a sentirmi fin troppo ignorato e non fui affatto felice quando il bambino terrorizzato decise di onorare la sua Casa trovando il coraggio per risponderti. «Io sono Remus. Remus Lupin».
«Già, Remus, perché sembri appena uscito da una lotta a mani nude con un Avvincino?»
Non credo avessi davvero intenzione di essere così cattivo. Lo spero, almeno. Mi ero sentito escluso e trascurato e non volevo qualcuno che ti portasse via da me. Mi rendo conto ora di quanto fosse egoista come ragionamento, ma vuoi davvero biasimare un ragazzino di dodici anni con la sindrome dell’abbandono? Non so cosa ne pensi ora, ma in quel momento mi hai guardato come se fossi un esperimento riuscito piuttosto male. «Cosa? Non dirmi che non te l’hanno mai chiesto».
«Dio, Sirius, hai il tatto di un Troll di montagna».
«Oh, andiamo! Te lo stavi chiedendo anche tu, non fare l’ipocrita».
«Certo, ma non ti presenti alla gente chiedendo perché abbia la faccia sfregiata cazzo».
«Non sono bravo a fingere, va bene? Ho solo fatto una domanda».
«Ed io che pensavo che voi altolocati provenienti da famiglie babbanofobe foste un minimo educati sui modi e le maniere».
«Come avrai notato da solo, Mr-famigliaperfetta-Potter, io e la mia famiglia non siamo esattamente sulla stessa lunghezza d’onda».
Remus non ascoltò davvero la tua risposta. Allora non lo potevo sapere, ma avevamo davanti una delle persone più pacate e pazienti che si potessero incontrare. Tu hai visto in lui ciò che io non volevo vedere. Hai trovato l’oro senza cercarlo. Perché in fondo è così che si trovano i tesori più belli: per caso. E Remus lo era. Si sciolse in un sorriso dolce che mi fece sentire avvolto in una coperta. «In effetti ha quasi ragione», commentò interrompendo la vivace discussione per poi stringersi nelle spalle incurante della sciarpa rosso-oro che gli scivolava sulla spalla «Era uno Kneazle selvatico, non un Avvincino». Il silenzio che seguì la sua affermazione colmò il breve lasso di tempo che mi serviva per capire che avevi avuto ragione. Di nuovo. Sapevamo tutti e tre che Remus stava mentendo, ma nessuno disse niente. Quello sarebbe stato il primo degli innumerevoli segreti che avremmo lasciato raccontare solo ai nostri sguardi.
 
-           -           -
 
13 aprile 1975
 
«Quante possibilità abbiamo che non funzioni?»
«Una».
«Quante possibilità che invece funzioni?»
«Sempre una».
«Rinfrescami la memoria, cosa succede se sbagliamo?»
Ora posso dirtelo, le tue risposte mi terrorizzavano James. La scoperta che Remus fosse un Lupo Mannaro aveva scatenato in noi le reazioni più disparate, ma nemmeno per un attimo abbiamo pensato di voltargli le spalle. Certo, Peter all’inizio era spaventato. A pensarci ora, forse lo è sempre stato. Quante volte credi abbia finto? Quante volte ha sperato di vederci sbranati dal nostro stesso amico? Non avrei mai detto che sarebbe stato lui a sbranarci alla fine, eppure tu sei morto ed io ho passato dodici anni ad Azkaban a causa sua. A volte provo a ricordare il suo viso a scuola: la pelle chiazzata da lentiggini chiare, gli occhi azzurri come il cielo, i capelli biondissimi ad incorniciare le guance paffute. Ho cercato di darmi una spiegazione tante e tante volte James. Mi sono chiesto se è sempre stato un traditore o se lo è diventato. Se abbiamo sbagliato qualcosa, se non siamo stati abbastanza attenti. Ma come potevamo immaginare che lo stesso ragazzo timido che stava mettendo la sua vita a rischio per diventare un Animagus sarebbe stato la causa di tanta sofferenza? Avevamo passato gli ultimi anni a capire come trasformarci in sicurezza e di colpo la prospettiva che qualcosa andasse storto sembrava incombere come una spada di Damocle sulle nostre teste.
«Non lo vuoi sapere».
Cos’è che non voglio sapere? Cosa sarebbe successo se avessimo sbagliato o cosa sarebbe successo se Peter avesse sbagliato?
«D’accordo. Non voglio. Perché hai scelto un cervo?»**
«È un animale rispettoso!» Ricordo il tono della tua voce assorto, il modo in cui ti passavi distrattamente la mano tra i capelli quando eri costretto ad aprire la tua mente a qualcuno. «I branchi di cervi sono costituiti da femmine, cerbiatti e giovani maschi. I maschi adulti se ne stanno per conto loro, formano piccoli branchi a sé stanti». Ti fermasti per riflettere un attimo, come a soppesare le tue stesse parole. «E poi sono molto venerati nella mitologia celtica. Il Dio di tutti gli animali della foresta era rappresentato con una testa di cervo».
Sapevi che quell’affermazione mi avrebbe fatto ridere e infatti mi hai guardato quasi in attesa prima che io chinassi la testa in un’ironica riverenza. «Non mi avevi detto di essere divino, Jamie.»
«Cretino. Tu perché hai scelto un cane?»
«Perché è grosso. Ed è figo. Ed è nero», hai alzato gli occhi al cielo, carico di rassegnazione. Non hai mai insistito con me, nemmeno una volta. Hai preso la mia pessima abitudine di scherzare per nascondere i miei sentimenti e l’hai accettata senza condizioni. In genere ero io poi a decidere autonomamente di parlartene, qualunque fosse il momento o l’argomento, alla fine usciva fuori. Ma la risposta a quella domanda non l’avresti mai sentita pronunciata. Forse l’hai semplicemente capito, come tutto ciò che non riuscivo ad esprimere a parole e che capivi dai miei sguardi, ma James… come avrei potuto spiegarti che il cane è simbolo della lealtà ceca che provavo nei tuoi confronti? Non ti avrei mai detto che qualunque cosa fosse successa, qualunque decisione avessi preso, io sarei stato al tuo fianco. Non ce n’era bisogno, perché lo sapevi.
 
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23 febbraio 1979
 
«Sei ancora convinto?» Osservavo divertito la tua gamba; sembrava percorsa da una continua scarica elettrica che ti impediva di tenerla ferma. Premevi sulla punta del piede portando il tallone su e giù mentre ti mordevi distrattamente le pellicine dell’anulare destro seduto al tavolo della cucina di casa Potter. «Certo che sono convinto!» Mi avresti ucciso con lo sguardo se avessi potuto. Eri indignato. O forse determinato. Difficile a dirsi con te. Indossavi quell’abito scuro ed elegante che, a detta di tua madre, ti faceva risaltare i fianchi. Ti ho preso in giro almeno per un anno sul tuo vitino da vespa, ma dentro ero d’accordo con lei sul fatto che tu fossi assolutamente perfetto. Tranne per i capelli. Non ti davano tregua nemmeno quel giorno e alla fine, nonostante innumerevoli tentativi, erano rimasti indomabili e sparati in giro. Credo che alla fine sia stato meglio così, non saresti stato tu senza quella massa di capelli che ogni tanto scompigliavo per divertimento. Come in quel momento. «Smettila, Pad!» Hai allontanato la mia mano con un gesto veloce ma i tuoi occhi ridevano. «Oh, andiamo Prongs. I tuoi capelli non possono peggiorare ancora».
Hai scosso la testa ed io ricordo chiaramente di aver pensato che ero l’ultima persona a poter parlare di capelli. I miei, lunghi più di quanto non volessi ammettere, erano stati legati da una categorica signora Potter che mi aveva vietato di stare al tuo fianco sull’altare se non avessi fatto qualcosa. «Non puoi essere così agitato. Che ne è della culla dei coraggiosi di cuore?» Commentai mentre sollevavo le mani nel tentativo di dare un senso alla coda bassa senza troppo successo.
Ci hai pensato tu, con un gesto veloce della bacchetta, prima di ricadere disperato con la testa sulla superficie scura del tavolo. «Ah, fanculo la culla».
«Incredibile. James Potter si trasforma in un cervo cornuto per affrontare un lupo mannaro ma se la fa sotto al suo matrimonio», Remus fece il suo ingresso con un giglio bianco tra le dita. Me lo porse ed io, da bravo testimone di nozze, cercai di sistemarlo nell’occhiello; il fiore continuava a ricadere in modo piuttosto strano e tu sembravi finalmente troppo occupato a giudicare la mia opera per pensare che Lily non si sarebbe presentata. «Si chiamano palchi, non corna», hai corretto punto sul vivo mentre sollevavi un sopracciglio di fronte alla mia titanica impresa. «Moony, perché ti ostini a far fare a Sirius cose che richiedono una delicatezza di cui è palesemente privo?»
Prima che potessi darti una capocciata dritta sul naso, Remus mi ha tirato indietro ed io ho quasi ringhiato nella tua direzione. Hai detto qualcosa come “stupido cane” ed è solo grazie alla calma di Remus se non ti ho preso a cazzotti il giorno del tuo matrimonio.
«Andrà tutto bene, James», mormorò il lupo mannaro nei suoi soliti modi pacati. Mi ritrovai malgrado tutto ad annuire per metterti una mano sulla spalla con fare rassicurante. «Tu e Lily vi amate molto, si vede».
E vi amavate sul serio, era chiaro a chiunque. Ti ho osservato per anni mentre facevi di tutto per conquistarla, per dimostrarle chi fossi. Ti ho visto crescere per lei e diventare l’uomo che alla fine ha scelto di avere al suo fianco per tutta la vita.
Non dimenticherò mai il modo in cui respiravi sull’altare, né la patina lucida che ti illuminava gli occhi mentre osservavi Lily Evans camminare verso di te raggiante nel suo abito bianco.
Ho ripensato spesso a quel momento chiedendomi se mai qualcuno nella vita mi avrebbe guardato con quel tipo di sguardo. Mi sarebbe piaciuto, forse, tuffarmi nelle iridi di una persona per trovare solo il mio riflesso. Non il resto del mondo, non i problemi, il dolore, la paura, niente. Solo io per lei e lei per me. Sarebbe stato bello, ma forse non era destino che io mi innamorassi. Alcune persone stanno bene da sole, suppongo. Io ho imparato ad essere il mondo per me stesso.
Sembrava che tu non fossi in grado di percepire la tua posizione nello spazio, ma poi ti sei girato. Uno sguardo veloce che sembrava urlare “guardala, è perfetta”, e sei tornato a fissare la tua futura moglie lasciandomi con l’espressione di un bambino incredulo.
Persino nel momento più bello della tua vita, James Potter, hai deciso di ricordare al tuo migliore amico, a tuo fratello, che avrebbe sempre fatto parte del tuo mondo.
 
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25 dicembre 1979
 
Il primo Natale dei coniugi Potter è sfociato in un caos piacevole e rassicurante. Lily aveva voluto organizzare una cena a casa con tutta la famiglia e, ovviamente, quando si parlava di famiglia erano compresi i Malandrini. Sei stato su di giri per tutta la cena, tanto che persino tuo suocero babbano è riuscito a batterti a Sparaschiocco. Non vedevi l’ora di aprire i regali, sembravi un bambino di sei anni che aspetta Babbo Natale col naso premuto contro il vetro della finestra e le mani che indicano le stelle in cerca di qualcosa che si muovesse. Lily, invece, era più bella del solito. Ho sempre pensato che fosse una donna meravigliosa, ma la sua pelle sembrava splendere come se avesse fatto il bagno nel diamante liquido. Nel dopocena, mentre sorseggiavamo dell’ottimo amaro portato dai tuoi suoceri, non hai più resistito. Mi guardavi speranzoso ed io mi sentivo quasi in colpa per la calma con cui stavo gustando il Limoncello, così alla fine ho alzato gli occhi al cielo e ti ho concesso la vittoria.
«Dio, Prongs! Va bene! Apriamo i tuoi dannati regali!» Non te lo sei fatto ripetere due volte e così sei sparito per tornare poco dopo con un cestino di vimini pieno di pacchettini dalle carte colorate e vivaci. In comune avevano solo un nastro, un intreccio rosa e azzurro che li avvolgeva. Abbassai lo sguardo sul mio pacchetto ed inclinai la testa di lato mentre leggevo il biglietto di auguri.
 
‘ Natale 1979
Auguri zio Sirius!
Con affetto, James e Lily’
 
I miei neuroni impiegarono un po’ di tempo per produrre una sinapsi efficiente ma Moony, accanto a me, aveva ovviamente già capito.
«Zio Remus? Ma cosa- per la barba di Merlino! Lily, sei incinta?»
Mi feci male al collo a causa della velocità con cui la mia testa scattò verso l’alto. Lily annuiva con le lacrime agli occhi incapace, anche volendo, di trattenere il sorriso. Tu le stringevi dolcemente i fianchi con un braccio mentre la mano libera era posata sul suo ventre per accarezzarlo piano. Tutti attorno a me si alzarono per andare ad abbracciare la futura mamma ma io guardavo te con la bocca incredibilmente asciutta e la strana sensazione che le gambe tremassero troppo per reggere il mio peso. Mi sentivo sopraffatto da mille pensieri e sì, James, lo ammetto. Anche dalla paura. Perché l’idea di perderti non è mai stata tanto reale come in quel momento, quando ho realizzato che con un figlio il tuo tempo per me sarebbe finito. Il solito egoista. Tu eri un marito e futuro padre. Io ero ancora il ragazzino di dodici anni che aveva paura di rimanere solo. Tu sembravi aver letto il terrore nei miei occhi ed hai fatto un semplice cenno del capo verso il pacchettino che tenevo ancora tra le mani. «Aprilo».
Le mie dita sfilarono con una certa difficoltà fiocchi e carta da regalo. All’interno di una scatolina verde smeraldo trovai quella che sarebbe diventata, ancora a mia insaputa, la ragione della mia intera esistenza. Mi stavi dando, senza poterlo nemmeno immaginare, lo scopo che mi avrebbe tenuto in vita negli anni successivi. Un’ecografia, un puntino appena visibile che avevi cerchiato con un pennarello rosso ed una scritta.
“Ehi, zio, vuoi essere il mio padrino?”

 
 
-           -           -
 
31 luglio 1980
 
Harry James Potter si è catapultato nelle nostre vite come un temporale in una calda giornata di fine luglio. Tirava un venticello leggero ma terribilmente afoso ed io sono rimasto fuori dalla sala parto tutto il tempo mentre stavi accanto a tua moglie. Il travaglio di Lily è durato ore, si è protratto durante la notte ma alla fine il piccolo di famiglia è venuto al mondo ruggendo come un vero leone con le prime luci dell’alba. Harry è nato col sole.
Una volta accertate le condizioni del bambino mi è stato permesso di entrare a conoscere il mio figlioccio. Sentivo i brividi lungo la schiena mentre attraversavo i corridoi asettici, sembravano infiniti. Di colpo la tua idea mi è sembrata un’enorme stronzata. Come potevo io, io, essere una guida ed un modello per un bambino? Lily dormiva esausta e tu, di colpo uomo nonostante i tuoi vent’anni, tenevi tra le braccia tuo figlio con una naturalezza che sicuramente non mi aspettavo. Gli rivolgevi uno sguardo d’amore puro che forse non si sa di possedere finché non si diventa genitori. Harry era bellissimo; aveva una zazzera di capelli neri che, era palese, sarebbero stati folti ed indomabili come i tuoi. I suoi occhi, quasi sempre chiusi, avevano quel colore indefinito tipico dei neonati. Avrebbero impiegato qualche mese per assestarsi ma il verde delle iridi di Lily sembrava fare già capolino dietro ogni riflesso. Il piccolo sbadigliò tra le tue braccia e si arrotolò verso il tuo petto agitando i pugni in aria. Aveva già trovato il suo porto sicuro in te mentre io non riuscivo a dire niente. Per la prima volta in vent’anni non avevo nessuna battuta da fare, nessun commento sarcastico da lanciare. Ti sei alzato quasi a rallentatore e quando ho capito cosa stessi per fare ho istintivamente fatto qualche passo indietro alzando le mani.
«No, ehi, fermo!»
«Andiamo Pad. Prendilo! Devi conoscere tuo nipote».
«Tienilo tu».
«Non è la stessa cosa».
«Ma io non-»
«Smettila».
«E se mi cade?»
«Ti aiuto io».
«Ma potrei romperlo!»
«Sirius!»
Di nuovo silenzio. Osservavo quel fagotto fin troppo delicato mentre pensavo a quante cose mi fossero inavvertitamente cadute. Quante scope avevo rotto, quanti libri avevo strappato, quanti oggetti avevo lanciato con noncuranza. Quel bambino era mio nipote. Il mio figlioccio. Non potevo certo rompere anche lui. Ma tu eri determinato, come al solito. Prima o poi ti avrei seriamente dato un cazzotto in faccia per provare almeno a scalfire quella tua dannata sicurezza. Ti fidavi di me più di quanto io mi sia mai fidato di me stesso, eppure quello sguardo fu abbastanza da convincermi ad avvicinarmi per tendere le mani. Imitai goffamente la tua postura e di colpo, quasi senza che me ne rendessi conto, mi ritrovai Harry Potter tra le braccia. Ho trattenuto il respiro per quindici secondi, li ho contati. Me lo ricordo perché avevo paura che il movimento della cassa toracica potesse disturbare il bambino, ma lui sembrò adattarsi alla perfezione alle linee del mio corpo. Sbadigliò di nuovo e si rigirò con totale indifferenza limitandosi a stringere le dita minuscole attorno ad una ciocca di capelli che mi era sfuggita dalla cipolla frettolosa fatta sulla testa.
«Visto? Non morde», annuii ma non risposi. Tenevo lo sguardo basso perché non avrei mai avuto il coraggio di farti notare quella singola lacrima che, piuttosto invadente, si era infranta tra le mie labbra schiuse nel più ebete dei sorrisi.
 
-           -           -
31 ottobre 1981
 
«Sirius Black, con i poteri conferitimi dal Ministero della Magia la dichiaro in arresto con l’accusa di omicidio preterintenzionale per l’assassinio di Peter Pettigrew e per aver causato la morte di dodici babbani. È inoltre accusato di utilizzo improprio delle Arti Oscure, tradimento e persecuzione dei nati babbani per ordine del Signore Oscuro. Sconterà la sua pena ad Azkaban. Per il resto dei suoi giorni».
Quelle parole rimbombarono nella mia testa in modo ovattato, come se mi trovassi mille metri sotto l’acqua. L’auror che le aveva pronunciate teneva la bacchetta puntata verso di me con uno sguardo fermo, deciso e piuttosto disgustato. Intorno a lui i suoi colleghi lo imitavano accerchiando me, quel ragazzo di nemmeno ventidue anni che di colpo, agli occhi del mondo, aveva abbandonato la maschera di abile membro dell’Ordine della Fenice per indossare quella di Mangiamorte e servo di Voldemort in persona. Avevo la sensazione di trovarmi nel peggiore dei miei incubi. Volevo urlare, volevo dire la verità e correre dietro a quel topo schifoso che avevo l’impressione di poter sentire mentre squittiva e scappava lontano da lì. Lontano da me. Sentivo le lacrime secche tirare leggermente la pelle delle mie guance, le dita ancora sanguinanti per aver spostato a mani nude i massi che avevano sepolto il corpo senza vita di mio fratello. Il mio sguardo rilassato tradiva il turbinio di emozioni che si stava impossessando lentamente di me e non potevo fare niente per controllarlo. Avvertivo la consapevolezza risalirmi lungo le gambe come fossero piccoli animali striscianti. Si arrampicavano verso l’alto nel tentativo di trascinarmi con loro negli abissi più spaventosi: quelli costruiti sul mio senso di colpa. Perché sì, avevo capito. Avevo realizzato di aver causato la tua morte e di non essere nemmeno riuscito a vendicarti. Il traditore, quello vero, aveva appena fatto esplodere una strada in pieno centro. Aveva ucciso dodici babbani. Aveva finto la sua morte in modo magistrale. Aveva incastrato me.
A quel punto i piccoli insetti striscianti erano giunti al mio collo, mi si erano infiltrati sotto la pelle, nelle giugulari. Sentivo il bisogno di grattarmi, di strapparmi la pelle a mani nude e farlo smettere perché nessun dolore sarebbe stato grande come quello che provavo quando realizzavo che non c’eri più. Quei sottili filamenti di follia raggiunsero la mia mente dolorante, li avvertivo spandersi come un cazzo di cancro, raggiunsero ogni fibra di me stesso e mi illuminai di colpo. Il piccolo, debole e patetico Peter Pettigrew mi aveva fregato. E nell’attimo esatto in cui ne compresi il vero significato gli insetti mi tirarono la testa all’indietro e l’isteria mi assalì in un attacco tanto violento da portarmi inesorabilmente a schiudere le labbra in una lunga e raccapricciante risata.
 
***
 
18 giugno 1996
 
«Pad?» La tua voce è reale. L’ho sentita molte volte nella mia testa, ma sempre con quel filtro tipico di un ricordo che sbiadisce. Sempre con quel terrore di dimenticarla, di aver sostituito il suono originale con quello a cui avevo disperatamente bisogno di aggrapparmi. Ora invece è limpida, chiara, ti sento alle mie spalle. Vorrei cercarti. Vorrei distogliere lo sguardo dalle pozze verdi che mi fissano con quella disperata confusione che precede una verità terribile.
Non riesco a smettere di guardare Harry, in piedi, con la mano che tiene la bacchetta abbandonata lungo il fianco. Ha l’espressione di chi sta per perdere ogni cosa e lo sguardo di chi implora un Dio in cui non ha mai creduto di non portargli via anche quell’ultimo barlume di famiglia che gli è rimasto. Vorrei dirgli di non avere paura, di essere forte, ma non riesco a muovere un muscolo. Mi sento paralizzato, incapace di tendere la mano per scompigliare un’ultima volta i capelli di James.
Di Harry.
I capelli di Harry.
Dio, Prongs. Ho sbagliato tutto. Me ne rendo conto solo adesso. Tuo figlio ha portato il mondo sulle spalle da quando è nato ed io, che dovevo proteggerlo, ho aggiunto il peso di non essere te. Ho cercato così disperatamente te in lui da aver completamente dimenticato che è solo un bambino. Il tuo bambino, lo stesso che hai deciso di affidarmi nel caso in cui ti fosse successo qualcosa.
Harry, non piangere. Da quanto tempo sto cadendo dietro questo dannato velo?
La mia mente ha percorso inesorabilmente la mia vita, breve e piuttosto miserabile, riportando a galla sempre e solo te. Sempre e solo James. Il mio migliore amico. Quello che non sono stato in grado di salvare. Di colpo sento il petto che si stringe e mi manca il respiro. Il dolore esplode nel mio corpo e mi viene da pensare che forse è proprio questa l’essenza stessa della mia morte.
Non uno sparo, un incantesimo, una coltellata, quanto piuttosto il rimorso di aver lasciato Harry ad Hagrid senza remore, troppo occupato a guardare la casa distrutta col terrore di cosa ci avrei trovato dentro. Il rimpianto per non aver pensato a lui prima che a vendicare te. Il senso di colpa per aver abbandonato ogni pensiero razionale quando sono caduto in ginocchio, stremato, accanto al tuo corpo riverso sulle scale.
Tu hai dato la vita per proteggere tuo figlio ed io l’ho lasciato a sé stesso accecato dall’odio.
«Pad, va tutto bene. Non è stata colpa tua», questa volta non ho bisogno di cercarti. C’è una distinta pressione sulla mia spalla e ti sento. So che sei esattamente dove sei rimasto per gli ultimi quindici anni. Accanto a me, sempre.
Il tempo sembra finalmente tornare a scorrere in modo normale e mi concedo un ultimo momento per guardare Harry. Spero che capisca che sono fiero di lui, che è amato e che non lo avrei mai davvero lasciato. Che non deve sentirsi in colpa, non deve flagellarsi l’esistenza nell’idea di aver causato la mia morte. A quel pensiero un’amara consapevolezza si fa strada in me. Ho condannato involontariamente Harry al mio stesso destino. Un tormento agonizzante e terribile che lo terrà sveglio per anni senza dargli tregua. Ora capisco le tue parole, James. Non è stata colpa mia. E non è stata colpa tua, piccolo. Non lo è mai stata.
«Un giorno capirà anche lui. Sei stato bravo, Sirius».
Le urla di Harry mi giungono lontane mentre chiudo gli occhi esausto. Il tuo braccio mi avvolge le spalle, i tuoi capelli mi solleticano la guancia e avverto il calore che provavo quando tornavo l’estate a casa Potter. Ho pregato per anni che qualcuno venisse a salvarmi e alla fine sei arrivato. Sono a casa.
 
. . .
 
*Citazione tratta dal libro “Harry Potter e i Doni della Morte”.
 
**Non ho trovato informazioni riguardo il vero motivo per cui James e Sirius abbiano scelto il cervo ed il cane come loro forme animalesche, quindi ho dato sfogo alla fantasia. Nel caso in cui ci fosse un reale motivo e me lo fossi perso per favore, oltre a perdonarmi, fatemelo sapere perché mi incuriosisce molto!




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Ringrazio di cuore chi è arrivato fin qui. Scrivere questa storia non è stato semplice, per niente.
Ho cercato di immaginare gli ultimi istanti della vita di Sirius e per quanto sia doloroso ho 
sempre pensato che il suo rimorso più grande fosse nei confronti del suo migliore amico.
Spero di avervi trasmesso le emozioni che ho provato mentre la scrivevo e, se ne avrete voglia,
vorrei davvero un parere. Critiche costruttive sono assolutamente bene accette!
Un bacio grande, Parse
 
 
   
 
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