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Autore: Haemoglobin    14/08/2009    5 recensioni
Capitolo 14
- Allora.
Disse Jack qualche ora dopo, mentre sedevamo in un bar, aspettando il pranzo
- Qualche commento a caldo?
- Che sono impazzito.
- Oh, grazie.
Disse con un sorriso stupito dipinto in viso. Scossi la testa
- No, non intendevo in quel senso. Intendevo impazzito nel senso di “Cosa ho fatto, come l’ho fatto”…
- … “Finirò all’inferno”…
- No, quella fase l’ho superata già da un po’.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Nuovo personaggio, Tyki Mikk
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Nota dell’autrice

Salve. In questa storia avremo sì Tyki, sì un nuovo personaggio, sì una storia ma… Questo nuovo personaggio sarà uomo.
Mi ero un po’ stufata di vedere che di solito i nuovi personaggi sono sempre donne che conquistano il cuore del maschio di turno… Quindi io qui ho un ragazzo che suderà per convincere il maschio di turno e per conquistare il cuore del maschio di turno!
In questo primo capitolo ho voluto concentrarmi del tutto su Jack, per permettervi di “visualizzarlo” nel corso della storia. Tranquilli, arriverà il turno di tutti dal prossimo capitolo, non parlerò sempre e solo di lui… Come ho detto, avevo bisogno di introdurlo.
Buona lettura, spero che vorrete lasciarmi qualche commento per spronarmi o per affossarmi.
Se questa è un’idea del cazzo ditemelo, non mi offenderò. In teoria è una delle prime volte in questa sezione in cui il Nuovo Personaggio è un maschio che avrà una storia con un personaggio fisso… Farò del mio meglio, se mi dite che è una buona idea.
Grazie mille.













Il mio nome è Jack Kelton e sono uno scrittore.
In realtà, se andiamo proprio a cercare il pelo sull’uovo, sono un cameriere che nel tempo libero si diletta nella scrittura… E agli uomini. Amo le donne come semplici compagne di conversazione, ma loro tendono a non amare me; in realtà, non sono neanche un gran divoratore di uomini. Dicono che rendo la gente nervosa, e questo principalmente perché provoco le persone che non mi piacciono finchè esse non reagiscono. Spesso, purtroppo, sono persone non solo il doppio, ma a volte il triplo o addirittura il quadruplo di me… Essendo io alto a malapena un metro e sessanta, è raro che trovi uomini da provocare che siano della mia stazza.
Oltre che ad essere piccolo, sono anche magro ed emaciato. Aggiungiamoci un colorito che (per fortuna) è di un bianco perlato, eburneo, occhi grigio-verdi e una chioma tinta di nero corvino che mi sfiora la base del collo con ciuffi ribelli che schizzano da tutte le parti, ed avremo una discreta immagine d’insieme della mia androginissima persona.
Sembro vagamente una donna, ma non mi piace comportarmi come una donna: non rido con tono acuto o isterico come le oche da discoteca, non indosso mutande di pizzo, tanga o cazzate varie, ma tendo ad avere atteggiamenti femminili. Cose di cui spesso non mi accorgo, come una postura, un modo di guardare, un atteggiamento, che ogni volta che ho tempo tento di correggere: non voglio essere l’immagine tipica della checca isterica.
L’unica cosa tipicamente femminile di cui mi beo è il trucco, leggero, ovviamente: una passata di matita, di mascara e di eyeliner, et voilà, les jeux sons fait. Il mio ultimo uomo era francese, quindi immagino che molte frasi qui saranno in francese: cercherò di controllarmi anche in questo.





Una volta, al lavoro (lavoro in un pub vicino a Camden Town), un collega barista mi allungò una rivista sghignazzando sotto i baffi, e mi disse di andare a pagina 80. Organizzandomi goffamente sul momento ed incastrando il vassoio sotto l’ascella, andai a pagina 80, e per poco non lasciai cadere la rivista: era un intervista a Brian Molko, leader dei Placebo (tentai di ascoltare qualche canzone, ma non mi ci trovai proprio, per cui lasciai perdere), con tanto di foto.
Ci somigliavamo in maniera strabiliante, non tanto nei lineamenti (lui era certamente più affascinante e femmineo di me), ma nel fisico e nel modo di conciarsi, per dirla come me la mise giù il barman, lì sicuramente sì.

- E allora?
Chiesi arrossendo al mio collega; lui mi guardò attentamente e mi disse semplicemente
- Non dirmi che non lo invidi!
Io chiusi seccamente la rivista e gliela restituii, badando bene a stropicciarla nel breve tragitto che dovette compiere da un lato del bancone all’altro. Mi fiondai in cucina per prendere un’ordinazione che non avevo dettato, furibondo per non so cosa: era vero, lo invidiavo eccome! Perché lui poteva mostrarsi come ciò che era e io no, perché lui non aveva paura di essere sé stesso e io sì. In ultimo, probabilmente, gli avevo invidiato anche il conto in banca che gli aveva fruttato conciarsi in quel modo.
Da quel momento il mio collega, con grande divertimento, cominciò a chiamarmi Jack Molkon; fortunatamente il soprannome non venne capito da una buona parte dei camerieri (o forse non piacque), per cui cadde dopo poche settimane.
Tanto, nell’ambito pubblico, rimanevo sempre il Nancy Boy * del Keepal Pub.




La sera in cui, in un certo senso, la mia vita cambiò fu la sera in cui entrarono nel pub una compagnia mai vista. Erano in otto, e mi rimasero impressi tutti: il piccoletto (ahimè, mai piccoletto quanto me) con i capelli da vecchio, il guercio con i capelli rossi, la ragazza che sembrava cinese con i capelli neri, piccola ed aggraziata come io non riuscivo ad essere, il ragazzo che sembrava anche lui asiatico (coreano? Giapponese? Non sono mai stato bravo a riconoscere gli orientali. Con la ragazza cinese ho tirato a caso perché mi sembrava vaghissimamente Mulan) con l’aria truce e uno sguardo da boia dell’Imperatore (ecco, mettiamo che fosse giapponese)... E poi quello con l’aria da secchione con degli occhiali improponibili, il gigante di ferro praticamente pelato con le cuffie addosso, la ragazza con i capelli mossi e le occhiaie, per arrivare al pezzo forte: il latino alto almeno il doppio di me (sigh), bellissimo. Affascinante.
Di solito quelli che sono rispetto a me giganteschi sono già automaticamente segnati come odiosi: infatti mi stava già antipatico il gigante di ferro, ma il latino no. Buffo, uhuh.
Guardai con voglia struggente quel tavolo: il numero nove. Controllai poi i tavoli a me assegnato per quella sera: numeri pari, dal due al dieci. Tipico.
Sospirai pesantemente e mi diressi malincuore verso Kessy, una mia collega di pochi anni più vecchia di me, fissata con il cancro della pelle e con una passione sfrenata per le lampade; no, non si può essere più cretini, immagino.




Kessy ce l’aveva a morte con me, e a ragione, aggiungo io: ci fu un periodo in cui saltava continuamente il salvavita, al pub, e rimanevamo costantemente senza elettricità nei momenti migliori: durante i rigori delle partite, mentre in cucina stavano usando il forno e, ovviamente, mentre entravano i controllori della sanità.
Kessy si stava lamentando ad alta voce, preoccupata dall’idea, alquanto improbabile, di trovarsi con dei vetri rotti per terra mentre la luce era andata via. La scelta di mettere dei fottutissimi mocassini di camoscio che si bucavano anche con un ago di pino, ovviamente, era sua, e in più non era neanche lei che doveva sempre sfrecciare nel buio più totale per la stanza, poi, sempre nel buio più totale, affrontare le scale della cantina (da noi volgarmente chiamata dispensa) e cercare infine a tentoni i tappi del salvavita per tirarli prima su, poi giù, poi ancora su, sperando che il buio più totale sparisse: non era lei che lo faceva, ero sempre io.
Dopo cinque minuti buoni di filippica ininterrotta, io intervenni acidamente, sebbene non stesse parlando con me
- Tranquilla Kessy, da oggi in poi ti mettiamo al sole per un paio d’ore ogni giorno: ormai con i raggi UVA il sole farà di sicuro reazione, sono certo che anche una lieve fosforescenza ti permetterà di vedere i vetri.
Da quel giorno Kessy stava ben attenta a fregarmi sempre i tavoli migliori, a provarci con i clienti che vedeva che mi piacevano e, soprattutto, a lasciar cadere i capelli nei piatti che io portavo ai tavoli. Che schifo.





- Per favore?
Tentai, con un filo di voce. Lei tirò su col naso con aria snob e mi fissò
- Perché?
Bella domanda: se le avessi detto la verità non mi avrebbe mollato quel tavolo neanche morta. Occorreva una storia, ma io le storie non sono molto bravo ad inventarle sul momento
- Perché con quello del tavolo sei ho scopato due settimane fa e gli ho attaccato qualcosa di strano.
Dissi, colto da ispirazione, a cui subentrò subito la disperazione: attaccato cosa?
- Oddio.
Sul viso di Kessy si dipinse una smorfia disgustata.
- Cosa?
- Penso un fungo. Di quelli che si prendono in piscina… Tranquilla, è già passato.
Lei riflettè per un infame minuto, poi mi allungò la sua lista di tavoli. Io la guardai incredulo.
Il miracolo si era avverato, e con un po’ di nervosismo mi diressi verso il tavolo nove.




- Salve.

Esordii, mettendo mano al taccuino e alla penna che tenevo nella tasca dei jeans.
Immediatamente, sedici occhi si posarono su di me. Mi sento sempre a disagio quando i clienti mi guardano per la prima volta, perché fanno come gli scanner: zzz, zzz, mi guardano da cima a fondo come se fossi un quadro… Tuttavia li capisco, perché se a servirmi fosse il sosia di Charles Manson farei molta attenzione alle mie portate e terrei sempre in mano il coltello.
Tuttavia, per fortuna, io non sono il sosia di Charles Manson; forse non sono esattamente rassicurante, ma il timore maggiore che si può avere nei miei confronti è che cada una ciglia finta sulla pietanza. Spero.
Feci un sospiretto veloce quando la scannerizzazione finì
- Volete ordinare o torno tra un pò?
Il rosso fece un mezzo sorrisetto e studiò la carta plastificata che si trovava davanti, attentissimo a non guardarmi in faccia. E, ovviamente, quando uno fa un mezzo sorrisetto, anche gli altri lo fanno.
Alzai le mani in segno di resa
- Torno tra poco. Quando il menù sarà meno divertente.



-----



- Lo hai visto, Tyki? Lo hai visto?

Chiese Lavi mentre il… Ragazzo? Si allontanava. Gli osservai con attenzione i fianchi e decisi che era decisamente un uomo.
- L’ho visto.
Confermai, staccando a fatica lo sguardo dalla piccola figura che si stava dirigendo velocemente a un altro tavolo. Aveva un che di ipnotico il modo in cui muoveva i fianchi… O, meglio, il modo in cui non li muoveva: sarebbe stato impossibile per lui sculettare, visto che aveva il fisico di un barattolo; un barattolo molto sottile e proporzionato, certo, ma sempre un barattolo.
- Spero che non fossero sbavature di kajal quelle che aveva sotto gli occhi.
Aggiunse tronfio, con un sorrisetto di sufficienza che gli attraversava il viso.
- Sono sicuro che qui abbiamo di meglio da fare che parlar male del cameriere.
Dissi tranquillamente, studiando la carta plastificata che spacciavano per menù: carne, carne, carne. L’unica traccia di verdura che ci fosse erano le insalate (tre, per la cronaca). Niente verdure grigliate.
Sospirai scontento e girai il menù per vedere che vini c’erano; lì la scelta era molto più ampia. Sollevando lo sguardo, vidi Linalee aggrottare le sopracciglia
- Cosa c’è, Linalee?
Le domandai. Lei alzò lo sguardo e chiese a bassa voce
- Cos’è la costata alla Kerouac?
Io constatai l’effettiva esistenza del piatto e ricambiai lo sguardo confuso di Linalee, quindi mi schiarii la voce a mi strinsi nelle spalle
- Chiediamolo al cameriere quando torna.
Linalee girò istantaneamente lo sguardo alla ricerca del ragazzo, che era a un paio di tavoli di lontananza dal nostro e sorrideva esitante mentre chiacchierava con un cliente che, visto il grado di familiarità, era un habituè.
- Ha l’aria di uno che ti sputa in faccia se gli chiedi la spiegazione per un piatto.
Notò Marie, dall’alto della sua posizione; Miranda alzò lo sguardo
- No, secondo me è carino. Di modi, intendo.
- Secondo me..
Cominciò Jhonny, probabilmente intenzionato a fare una filippica che avrebbe compreso anche la psicologia del soggetto, se Allen non l’avesse bloccato
- Ha l’aria di un ragazzo che sta facendo il suo lavoro, arriva a un tavolo e vede che un commensale ride di lui.
Guardò di sottecchi Lavi, con aria di rimprovero.

- Esattamente.
Annuì Jhonny, agitando una mano per chiamarlo, invano, mentre ci sfrecciava accanto.
Arrivò dopo pochi minuti, mettendosi a posto i capelli lisci e ribelli con la mano libera dal taccuino e dal pennarello rosso.
- Ditemi pure.
Esclamò, impugnando correttamente taccuino e pennarello; indicò con quest’ultimo Linalee, che aveva aperto la bocca per parlare
- Cos’è la costata alla Kerouac?
Lui spalancò gli occhi e aggrottò le sopracciglia, guardando fisso davanti a sé e mordendosi il labbro inferiore.
- Mi pare che sia una costata con un sugo particolare. Ma è un sacco che nessuno la ordina, quindi potrei sbagliarmi.
- E’ ovvio che c’è un sugo particolare, ma vorrebbe sapere che sugo è.
Intervenne Lavi, guadagnandosi uno sguardo di disprezzo dal ragazzo. Lo sguardo durò meno di un secondo, ma conteneva abbastanza odio da farmi venire voglia di indietreggiare.
- Trattandosi di Kerouac
Disse con un tono acido molto diverso da quello che aveva usato con Linalee
- Potrebbero anche fargliela mangiare in mezzo alla tangenziale, non trova?*
- Come?
Soggiunsi, non capendo. Lui mi sorrise brevemente e non rispose, rivolgendosi a Miranda, che stava chiedendo un’insalata.
Aspettai fino alla fine per ordinare, e chiesi senza troppe speranze cosa fosse una Cobbs
- E’ un’insalata con pezzetti di mela, bacon, noci e formaggio cremoso.
Mi informò il cameriere
- Posso chiedere di togliere alcuni ingredienti?
- E’ il nostro passatempo preferito. Dica pure.
- Allora, la vorrei senza bacon e noci, con condimento a parte.
Lui annotò e continuò
- E da bere?
- Per me…
Comiciò Allen, quando la luce cominciò a tremolare per poi sparire del tutto
- Accidenti.
Sentii il cameriere dire con calma.
- Kelton!
Esclamò una voce abbastanza lontano da noi
- Corro!
Esclamò a sua volta il ragazzo. Sentimmo un tuc! sul tavolo e lui che si allontanava in fretta; andando a tentoni con la mano, sentii che aveva mollato lì taccuino e pennarello.
Dopo una decina di secondi, con un bzz! deciso tutte le luci e la TV si riaccesero, e il ragazzo stava chiudendosi alle spalle una porta. Visto di profilo, era davvero sottilissimo. Tornò al nostro tavolo lisciandosi i capelli

- Kelton è un nome strano.
Disse Kanda, che non aveva quasi aperto bocca per tutta la sera. Lui fece un sorriso debole
- E’ strano perché è il mio cognome. Mi chiamo Jack.
- Piacere.
Dissi senza pensarci. Lui mi guardò con aria interrogativa
- Bè, eravamo rimasti alle bibite.
- Giusto.
Approvai. Finimmo di ordinare, e dopo circa dieci minuti ce lo vedemmo tornare al tavolo, quasi sepolto da piatti e bibite.
- Eccomi.
Distribuì i piatti e i bicchieri per tutto il tavolo e alla fine si asciugò la fronte con la manica della felpa rossa che indossava.
Mentre si allontanava verso le cucine, si tolse il maglione, rimanendo con addosso una t-shirt bianca. Alla vista di quelle braccine sottili e quel fisico esile, qualcosa scattò in me.
- Dopo pago io.
Annunciai, cominciando a mangiare.





Il pagamento era una buona scusa per parlargli a quattr’occhi, ma, ahimè, non era una buona cosa per il mio potafoglio.
- Vorrei pagare.
Dissi a Jack quando ci passò vicino con i piatti vuoti del tavolo accanto al nostro. Lui mi fece cenno di seguirlo alla cassa e, una volta liberatosi del vassoio, si mise a digitare alla cassa, veloce ma un po’ imbranato.
Alla terza volta in cui sentivo un suono acuto provenire dalla cassa, con sue conseguenti scuse perché aveva digitato un dato sbagliato, repressi un ghigno

- Scrivi più lentamente
Gli consigliai. Lui mi guardò per un secondo e annuì
- Sono un po’ imbranato con la cassa.
Si giustificò, concentrandosi sulla cassa e arrossendo un poco: una sfumatura rosa era passata sulle sue guance bianchissime. Che fosse imbarazzato, invece?
- Perché sei imbarazzato?
Gli chiesi a bruciapelo
- Io non sono imbarazzato.
Rispose automaticamente.
- Guardami.
- Cosa?
Replicò lui, senza staccare gli occhi dal display

- Ho detto guardami.
Lui alzò il viso e potei –finalmente- guardarlo in faccia: non aveva una brutta struttura ossea, anzi: i lineamenti del viso erano dolci, gli occhi grandi, le ciglia lunghe.
Il labbro superiore era troppo sottile rispetto a quello inferiore, le sopracciglia erano troppo distanziate e i denti, notai quando mi sorrise esitante, erano troppo piccoli, ma nell’insieme era comunque carino.
- Cosa c’è?
Chiese, riuscendo finalmente a darmi il conto.
- Sono sessanta sterline e trenta.
- Niente.
Risposi, porgendogli il bancomat e digitando poi il codice. Quando mi diede la ricevuta da firmare, scrissi anche in piccolo il mio nome con la mia e-mail.
- Ti risponderò in fretta
Dissi, in risposta allo sguardo corrucciato ma soddisfatto che fece nel vedere l’indirizzo e-mail
- Ma solo se scrivi a orari decenti. Non ti scrivo il numero di cellulare perché mi sembra un po’ troppo, per averti parlato per dieci minuti.
- Uomo avvisato…
Replicò lui, piegando la ricevuta e mettendosela nella tasca dei jeans. Notai che gli brillava lo sguardo
- Non farti troppe illusioni.
Lo avvisai, non molto convinto neanche io.
- No, certo… Perché avresti voluto metterti in contatto con me da solo, se non per darmi illusioni?
- In effetti.
Risposi laconico, girandomi e tornando al tavolo, dove tutti si erano già messi le giacche.
- Ci sentiamo.
Sentii che diceva dietro di me. Annuii, tra me e me
- Sì, ci sentiamo.
Gli risposi.










Note:
* Nancy Boy: è un modo di dire inglese che significa “Checca”, “Finocchio”. Insomma, è un modo dispregiativo di descrivere un giovane ragazzo omosessuale. Mi sembrava adatta come titolo perché Jack è effettivamente un Nancy Boy, e poi perché, insomma, avevo tirato in ballo Brian Molko… Tanto valeva ballare del tutto!
* Potrebbero anche fargliela mangiare in mezzo alla tangenziale, non trova? : qui ho voluto fare un gioco di parole un po’ del cazzo, se me lo consentite, giocando sulla costata alla Kerouac (scrittore del romanzo Sulla Strada) . Sulla strada, appunto, quindi sulla tangenziale. Ahah.







Mi duole annunciare che la costata alla Kerouac esiste veramente, l’ho trovata io stessa in un pub di Camden Town, un locale in cui la luce saltava in continuazione, i menù erano letteralmente dei fogli protocollo plastificati e c’era effettivamente un cameriere molto simile a Brian Molko. Quel posto è diventata un po’ la mia ispirazione, così come quel cameriere (di cui non conosco nulla). Era un pub accogliente e lui era una persona gentile, e questo mi ha portata a pensare molto al luogo e alla persona, anche una volta tornata a casa.
Diciamo che questa storia è dedicata un po’ a lui, un po’ al locale.

  
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