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Autore: D a k o t a    20/07/2020    2 recensioni
[Scritta per The Mystery Wheel Challenge del gruppo Hurt/Comfort Italia]
[Early!Stanford era perché sì]
Dean sta passando un brutto periodo e si mette in pericolo.
Bobby lo salva e fa quel che può per confortarlo.
"Era cominciato tutto con il ragazzo, il dannato ragazzo, che lo aveva chiamato al telefono per sapere altre informazioni sui Vetala, oltre a quelle che aveva trovato nella stramaledettissima agenda di suo padre - padre che era sempre in qualsiasi altro fottuto buco dell’America tranne quello in cui sarebbe dovuto stare. Ora Bobby presumeva che quell’idiota a ventitré anni avesse davvero passato la fase della pubertà e degli ormoni impazziti, ma era stato costretto a ricredersi, quando la telefonata si era conclusa con un suo “Bobby, ti richiamo tra dieci minuti” a malapena udibile, coperto da risatine femminili. Peccato che dieci minuti si erano trasformati in ore, in un giorno: non aveva nemmeno potuto dirgli che quei maledetti cacciavano in coppia, oltre al fatto che – Bobby ne era sicuro - si era fatto raggirare nel modo più stupido in assoluto – e non importa davvero che Dean sta passando un brutto periodo, è un comportamento troppo idiota persino per lui."
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bobby, Dean Winchester, Sam Winchester
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Vetala.

Bobby ha quella parola nella testa mentre vede la strada nascondersi sotto le ruote della sua auto e, maledizione, spera solo di arrivare in tempo, spera che ci sia tempo, spera solo di uccidere quei dannati, maledetti bastardi prima che possano anche solo torcere un altro capello a uno dei suoi ragazzi, perché davvero, se fosse successo qualcosa a Dean, non se lo perdonerebbe mai e -

Era cominciato tutto con il ragazzo, il dannato ragazzo, che lo aveva chiamato al telefono per sapere altre informazioni sui Vetala, oltre a quelle che aveva trovato nella stramaledettissima agenda di suo padre - padre che era sempre in qualsiasi altro fottuto buco dell’America tranne quello in cui sarebbe dovuto stare. Ora Bobby presumeva che quell’idiota a ventitré anni avesse davvero passato la fase della pubertà e degli ormoni impazziti, ma era stato costretto a ricredersi, quando la telefonata si era conclusa con un suo Bobby, ti richiamo tra dieci minuti” a malapena udibile, coperto da risatine femminili. Peccato che dieci minuti si erano trasformati in ore, in un giorno: non aveva nemmeno potuto dirgli che quei maledetti cacciavano in coppia, oltre al fatto che – Bobby ne era sicuro - si era fatto raggirare nel modo più stupido in assoluto – e non importa davvero che Dean sta passando un brutto periodo, è un comportamento troppo idiota persino per lui.

Con gli occhi fissi sulla strada, preme sull’acceleratore quel che basta perché raggiunga il ragazzo in tempo prima che gli squarcino la gola, con la preoccupazione a fior di pelle di chi ha sentito e insultato la sua segreteria telefonica dieci, venti, trenta volte di troppo.

 

***

Essere incatenato ad un muro non è che sia l’esperienza più traumatica che Dean abbia mai vissuto, ma ha la sensazione che di ciò possa incolpare solo sé stesso. Quando apre gli occhi e realizza, ricorda solo i loro denti che affondano nella carne – una, due volte - e pensa a come Maggie, che aveva una scollatura niente male e faceva la cameriera in un bar per pagarsi gli studi in Infermieristica, si fosse rivelata il prototipo della Barbie bionda psicopatica, con tanto di Ken del cazzo comparso alle spalle. Ma davvero, era stato ingenuo e quella - con quei denti affilati nella sua carne, accompagnata dal sibilo della vita che esce dal corpo - non sarebbe stata nemmeno morte eroica, ma una morte da idiota. Può quasi vedere Sam o papà davanti a lui - un’aria vaga di giudizio nello sguardo del primo e pura disapprovazione nello sguardo del secondo.

Pensa a loro, pensa a quello che rimane. A come Sam non capisca quello che sta succedendo, a come non voglia capire. Pensa a come la famiglia sia tutto quello che conta e a tutte le volte che glielo ha ripetuto – a come darebbe la vita per loro e di come gli manchi la sicurezza del contrario.

Il vago tentativo di alzare la testa, di riprendere il controllo del suo corpo, si traduce in un’ improvvisa fitta di dolore che sembra percuoterlo dalla testa ai piedi, mentre il tintinnare delle catene si trasforma nel ricordo perduto nel tempo di come suo padre gli avesse insegnato qualche trucchetto riguardo all’aprire un lucchetto senza chiave quando aveva nove anni, trucchetto che ora risulta totalmente inutile.

E’ da solo ed il veleno è così paralizzante da fare male, dolore che viene accentuato ancora di più da ogni fibra del suo corpo che non può fare a meno di opporsi, di resistere. A pochi metri di distanza, il suo cellulare vibra. Non riesce chiaramente a metterlo a fuoco, ma sente i muscoli attorno alle ossa delle dita contrarsi per il desiderio di raggiungerlo e di uccidere quei figli di puttana che presto sarebbero tornati per fare merenda e finire il lavoro. Quando sente dei passi, un altro pensiero va a Sammy e a papà – si chiede se quello stupido del suo fratellino si sarebbe macerato nei sensi di colpa per quei mesi di silenzio e se suo padre si sarebbe chiuso nel contegno doloroso ma discreto di chi ha perso uno dei suoi soldati in una guerra.

“Dean?”

Una mano lo tocca all’altezza del collo e sussulta. In un primo momento pensa che sia la fine e sente in quel tocco la prefigurazione del dolore – caldo e indescrivibile – che verrà. Rantola, incapace di aprire gli occhi e di riuscire a trasformare in delle parole quel lamento. Quando però la fine non arriva e non assume la forma di zanne che gli trafiggono la gola, usa tutta la forza che gli rimane per aprire gli occhi, mentre tutto il fiato che ha nei polmoni si traduce in un unico, breve sussurro apprensivo.

“Sammy?” chiama e c’è qualcos’altro, oltre all’apprensione, a spezzare quel sibilare – speranza, forse? -, quel suo aggrapparsi a quella parola.

Dall’altra parte, arriva un borbottio che è accompagnato da un sospiro di vago sollievo.

“Beh, più o meno. Con trent’anni di più, forse” risponde il cacciatore più anziano, non proprio sicuro di avergli fatto un piacere a rivelargli la verità; ma si dice che ci sarà tempo – tempo per trattare l’elefante nella stanza e tempo per guarire, in tutti i sensi e non solo dai segni che quei denti hanno lasciato sul suo collo.

La prima reazione di Dean a quelle parole è sollievo, il sollievo di chi riconosce finalmente quella mano che gli si posa sulla spalla, in un gesto che una volta aveva significato il desiderio di dargli più infanzia di quanto fosse pronto ad accettare. La presa sulla sua spalla, quel vago tentativo di conforto, sa di casa, sa di Bobby; sa della fermezza di chi ha affrontato tutto nella vita e ha deciso di prendere solo il buono, di chi conosce tutte le insidie di quell’esistenza bastarda e grama che aveva fronteggiato e aveva deciso di trasformarle in una storia divertente, masticata con qualche insulto.

La seconda reazione è solo colpa – perché davvero, era stato così stupido, incosciente e -

“Sono in due, Bobby” afferma in un respiro urgente, senza che ce ne sia bisogno. “Dio, persino questi maledetti bastardi cacciano in due”

La mano di Bobby si fa più pesante, più corporea sulla sua spalla, come un’ancora fatta di dita e calore.

“Grazie per aver scoperto l’acqua calda, idiota” dice, ma non lo pensa fino in fondo.

O se lo pensa non gli impedisce di masticare un “idiota” che strappa sempre a Dean un sorriso fatto di vulnerabilità nascoste e nostalgie confuse. Interrompe bruscamente il maggiore dei Winchester, quando tenta nuovamente di parlare.

“Non c’è tempo per le chiacchiere adesso, ragazzo.” borbotta, concentrandosi su come trovare un modo veloce per aprire il lucchetto delle catene e trascinare via il ragazzo da lì. “Dobbiamo andarcene subito, Dean.”

“Vattene, Bobby” mormora, in un moto di rinnovata stanchezza, perché spera davvero che non lo faccia – non anche lui. “Dico sul serio, torneranno a momenti. Maledizione, io non riesco nemmeno a camminare e ...”

“Risparmia il fiato, idiota” ripete, tornando ad armeggiare con il lucchetto. “Se non riesci a camminare, significa solo che dovrò trascinare il tuo culo fuori da qui”

Dean lascia andare la testa contro il muro, senza rispondere, perché è un esercizio lento e ci vogliono giorni, settimane, anni; è un esercizio lento imparare che se anche i tuoi genitori sono stati delle stelle cadenti, fatti di luce lontanissima e già fredda, nella tua vita, non per questo vuol dire che ogni forma di affetto ti è preclusa. Si lascia andare ad un mugolio di vana e oltraggiata protesta e nonostante il dolore al collo, ringrazia mentalmente che Bobby lo abbia trovato prima che gli recidessero la carotide o la giugolare, prima che fosse troppo tardi, mentre le sue labbra si incrinano involontariamente in una smorfia troppo dolorosa per somigliare davvero anche solo all’imitazione di un sorriso.

***

“Come mi hai trovato?”

Seduto sul sedile anteriore del passeggero, si tocca insistentemente il collo – ultimo ricordo di un giorno e mezzo di luci a neon a ferirgli gli occhi e denti a penetrargli carne. Bobby non lo vede ma quel tono gli ricorda quello che aveva usato una volta quando, durante una sbronza triste appena Sam se ne era andato, lo aveva chiamato e gli aveva parlato della solitudine, attraverso la linea disturbata dal freddo del Minnesota.

“Ringrazia il GPS e il fatto di non essere stato così stupido da spegnere il cellulare” risponde, mentre Dean protesta con una smorfia indignata.

Bobby sbuffa, prendendo la prima uscita possibile dell’autostrada. Il maggiore dei Winchester alza lo sguardo su quel cielo grigio di pioggia e sulle strade bagnate e respira a pieni polmoni quell’inverno, quella solitudine, lascia che gli penetri nelle ossa e lo riempia come un barattolo fino a fargli realizzare che maledizione, non fa poi così male.

“Dove stiamo andando?”” chiede, girandosi improvvisamente verso Bobby nel notare quella deviazione improvvisa.

“Al parco giochi” risponde, mentre Dean, per tutta risposta, inarca le sopracciglia in una smorfia di disapprovazione, mentre si tampona il collo con una vecchia maglia di Bobby, trovata nel cruscotto.

Dall’altra parte, arriva una pesante scrollata di spalle.

“Dove vuoi che stiamo andando, idiota?” afferma poi, spazientendosi leggermente. “All’ospedale. Hai una ferita al collo e cammini a malapena. Io non ho intenzione di recuperare un passeggino.”

Dean risponde con un grugnito, un grugnito di chi è troppo in imbarazzo e troppo esausto per tirare su una vera protesta. Si sente improvvisamente molto stanco.

“Okay, sei arrabbiato” afferma alla fine e non è una domanda. “Oh, andiamo, non sto morendo. Quei maledetti bastardi sono precisi nel mordere, svolgono lentamente il loro lavoro. Hanno fatto solo due spuntini e non sanguina nemmeno più”

Fa per mostrargli le tracce del suo sangue sulla sua vecchia maglia, ma la mascella di Bobby rimane serrata, gli occhi fissi sulla strada, mentre per un attimo cerca di autoconvincersi che sia il caso di lasciarlo parlare, e di non pensare a quanto sia stato maledettamente stupido e imprudente e a come – maledizione! - quel minimizzare riesca solo a farlo incazzare ulteriormente.

“Non dire stronzate. Saresti potuto morire!” lo sgrida, incapace di trattenersi.

“E’ un rischio del mestiere” afferma, con una fermezza che ha imparato a imitare studiando quella di suo padre, ma che – Bobby ne è certo – non è affatto la sua.

“Idiota! Essere avventato non è un rischio del mestiere, Dean!” ribatte, girandosi per un attimo a guardarlo. “Ti richiamo fra dieci minuti? Dean, dannazione!”

La voce di Bobby è secca, ma non per questo ferisce. E’ un entrare dentro alle persone di cui all’inizio, da bambino, Dean non sapeva che farsene, ma che ora è quasi salutare.

“Mi dispiace che tu abbia dovuto fare tutta questa strada per me” afferma, sincero, e può vedere gli occhi di Bobby sulla strada roteare come vecchie pale eoliche.

“Non fare finta di non capire cosa volevo dire” ribatte, con quel tono ruvido che vuol dire che non importa, che sì, okay, sei un coglione ma lui verrebbe a recuperarti altre cento volte.

Dean torna ad osservare la strada, mentre Bobby si chiede se sia il caso di avvertire John Winchester del fatto che magari lasciare quello scemo a cacciare quando ha la testa in California – in California, sì, in tutti i sensi – non sia proprio una buona idea, maledizione. Non importa quanto poco quell’idiota sia in grado di fare il genitore, Bobby ha questo vizio – questo maledetto vizio – di affezionarsi alle persone e considerarle sue, parte della sua tribù, anche quando, come John Winchester, non gli piacciono poi così tanto quando gli stanno vicine.

“Poteva sempre andare peggio, Bobby” risponde.

Da Bobby arriva un grugnito di risposta.

“Oh, certo, come no. Potevano ammazzarti, ma non mi sembra un buon metro di paragone” borbotta, premendo più forte sull’acceleratore, nel notare il volto sempre più pallido del giovane.

Un debole sorriso arriva dall’altra parte.

“Dannazione, Dean. Se tuo padre fosse qui te ne direbbe quattro e non sono sicuro che lo fermerei, questa volta”

Dean si volta, appoggiando la testa sul sedile, per guardarlo.

“Ma non c’è” dice semplicemente.

C’è un grazie che non si sforza di celare nel tono che utilizza.

 

***

Ha davanti l’immagine di quei denti, spaventosi e affilati, che affondano nel collo di Sam – una, due, tre, quattro volte. Sam non urla, sussurra. E’ lui ad urlare, lui ad urlare per lui.

“Sam!”

Bobby vorrebbe che la smettesse. Sarebbe più facile arrabbiarsi con lui per la sua totale assenza di istinto di preservazione, se non sembrasse così vulnerabile in quel momento – vulnerabile di quella vulnerabilità che Dean, quando sta bene, rifugge come se fosse altro da sé. Sarebbe più facile se non lo conoscesse, se non percepisse il peso di quell’assenza che gli curva le spalle e gli spezza la voce, a volte. Sarebbe più facile se le sue lentiggini non sembrassero oggi un po’ più scure contro la sua pelle.

“E’ un incubo, Dean” ribatte, seduto al suo fianco.

Sarà anche un incubo, ma Dean si augura comunque che Sam si ricordi puntuale ogni sera di mettere il sale alle finestre. Il giovane si guarda intorno e ci mette un po’ a rendersi conto che sono in un dannato ospedale, che ha una garza – una garza vera: non una maglia – a coprire i morsi sul suo collo. Come diavolo ci sono arrivati?

Bobby aspetta per un lungo momento, il tempo necessario perché il respiro di Dean torni sotto il suo controllo.

“Ti sei addormentato in macchina e dannazione, non ti svegliavi” Bobby lo guarda, strofinandosi le mani, per poi lanciargli un’occhiata che è diversa dalle solite, è più pesante, più carica di preoccupazione. “Il dottore ha detto che il sangue si stava coagulando internamente e che probabilmente avevi già avvertito una certa stanchezza.”
C’è un’accusa nel modo in cui pronuncia l’ultima frase, c’è un “Ma perché diavolo non me l’hai detto?” a cui si sente in dovere di rispondere.

“Ringrazia Capitan Ovvio. Pensavo fosse normale avvertire una certa stanchezza dopo essere stato lo spuntino dei Vetala per due giorni, Bobby” borbotta.

Oh, Bobby l’ha sentito tante volte rimproverare Sam perché il minore dei Winchester non riusciva proprio a stare zitto, ma non è che lui sia poi tanto diverso. Fa in tempo ad aprire la bocca per rispondere, forse per masticare uno dei suoi “idiota” che sanno di casa e di famiglia, ma non ad articolare alcun suono, perché il suo telefono comincia a squillare.

“Papà si fa sentire?” chiede, una nota in più di accusa di quella che vorrebbe far trapelare.

“Non è tuo padre” risponde, guardando il display e facendo roteare gli occhi. Conosce quell’ombra negli occhi di Dean. John Winchester l’ha deluso più volte di quante possa contare, da quando aveva quattro anni.

Bobby però esita un attimo di troppo a rispondergli.

Dean capisce. Sam.

“Sam ha sempre avuto un tempismo di merda” borbotta per tutta risposta, fissando improvvisamente la parete, bianca e immacolata, davanti a sé. “Come sta il mio fratellino? Non ha chiamato molto, ultimamente.”

Il cacciatore più anziano lo osserva, mentre il telefono continua a squillare. I primi giorni, Dean era stato arrabbiato, anzi no: furioso. Un tempo era stato ferito da quella distanza che animava le stanze di motel in cui erano cresciuti e che il maggiore dei Winchester non aveva saputo più come colmare. Quando erano più piccoli, l’anziano cacciatore aveva visto Dean con i suoi occhi cercare di sopprimerla, cercare di renderla più tollerabile per riuscire a divorarla con la mano e lasciare che le sue ossa la digerissero; Dean aveva provato a capirne il motivo, a ridurre l’attrito immaginando per Sam una storia in cui suo padre era a volte un eroe, a volte un soldato, a volte uno dei cavalieri della Tavola rotonda in quelle dannate favole che gli leggeva da bambino. Era bastato il rumore di una porta che si chiude e di quelle del più comune sogno borghese americano che si aprivano per comprendere che non sarebbe bastato, che nulla sarebbe mai bastato.

“Perché non lo chiedi a lui invece di chiederlo a me?”

Bobby gli passa il telefono meno gentilmente, con quel modo di chiedere che ha che no, non ricorda affatto gli ordini di suo padre, ma allo stesso modo sembra più un’ingiunzione che una vera richiesta. Dean fissa il telefono, che continua a vibrare, con l’istinto di premere la cornetta rossa e la voglia – incredibile, trascinante, necessaria – di premere quella verde.

“No. Sam non se lo merita” afferma, allontanando il telefono da sé. Si sforza di mantenere un tono neutro e Bobby non ha bisogno di sentire l’altra parte della frase per capire, perché la può ricordare in maniera nitida; è una frase che Dean ha detto spesso, non importa quanto si fosse fatto male a caccia e quali fossero le varianti - “Sam non deve sapere”, “Sam non merita di rovinarsi qualsiasi cazzo di festa di confraternita a cui sta partecipando solo perché mi sono fatto male, non ho sei anni”.

L’uomo preme sulla cornetta rossa con un sospiro e davvero, conosce il ragazzo come le sue tasche, abbastanza da immaginarsi quello che sta per accadere.

“Dannazione, cosa fai, non rispondi?” si gira e l’accusa nella sua voce è resa flebile solo dai punti sul suo collo, dall’intervento appena subito, perché altrimenti sarebbe ancora più netta. “Bobby, potrebbe essere un’emergenza”

L’altro risponde con una smorfia, che non è un sorriso, ma l’espressione di chi ha vissuto più a lungo di te e ti ha visto quando avevi quattro anni, non dicevi una parola e piangevi se sentivi odore di bruciato. Dean chiude per un secondo gli occhi, aspirando.

“Richiamalo, okay? Ma non dirgli che sono qui” chiede, ma la voce gli esce più strozzata e persino patetica di quanto vorrebbe. “Sto bene. Davvero, sto bene e non voglio il mio fratellino che si preoccupa dei miei casini.”

Il cacciatore più anziano risponde con un brontolio, con un insulto masticato fra i denti, ma ricompone il numero di Sam.

“Bobby?” chiede Dean, ancora prima che il telefono cominci a squillare.

“Cosa c’è ancora?” risponde. Si chiede se per caso Dean abbia cambiato idea, se per caso -

“Non dire che sono qui, ma metti il vivavoce.”

E’ così, a volte, l’amore per suo fratello: disperato e straziante, disposto a tutto pur di colmare certi vuoti. Bobby è quasi sul punto di dirgli che non ha sei anni e di darsi una svegliata, che è assurdo, che -

“Maledizione, voi Winchester siete così fottutamente testardi!” afferma, in un moto di frustrazione, prima di concludere e osservare la ferita coperta, sotto il collo, pensare che c’è mancato poco, che -

Gli punta un dito contro, in una minaccia che da piccolo sarebbe bastata ad intimidirlo e ora gli strappa solo un lieve sorriso.

“Dannazione, ragazzo! E’ la prima e ultima volta che faccio qualcosa di così dannatamente ridicolo per te.”

 

 

***

“Sam, allora?”

Se c’è una cosa che Bobby sa per certo, è che ogni tanto Sam lo chiama. Non sembra esserci un calendario preciso dei momenti in cui si fa sentire, forse è quando realizza che è bello avere qualcosa – una famiglia – da chiamare come fanno i suoi compagni di corso, forse è quando vede qualche tentativo di flirt a qualche festa, che gli fa irrimediabilmente pensare alle lentiggini di Dean, lentiggini che nessuno sa da dove sono spuntate perché né lui né sua madre né suo padre le possedevano.

“Non è successo niente di che. Mi sto preparando per i midterm” risponde, con cautela.

Bobby deve zittire un sonoro “Che noia” di Dean, anche se non vuole zittirlo – Cosa c’è?” “Lo sai bene cosa c’è.” “Non ho fatto niente” “Piantala”.

Dall’altro lato, mentre ascolta la voce di Bobby, Sam pensa che per mesi, prima di partire, si era preparato alla nostalgia, si era ingiunto di essere saldo, si era ingiunto di nascondere le mancanze. Di ingoiarle come, dopo mesi di guerra, aveva imparato a fare con il cibo, ma Stanford era stata una boccata di aria fresca. Una sorpresa che Sam non si era aspettato.

La città che lo ospita è perennemente soleggiata, di quel tempo che ti fa realizzare quanto possano essere stati lunghi gli inverni passati in un posto in cui, certi giorni, l’unica luce che vedi è quella di una lampada in uno squallido motel. L’aria di quella città gli rende incredibilmente facile il respirare e il camminare e Sam crede che sia perché in quella città nessuno sa nulla di lui. Può essere chiunque gli piaccia. Può indossare la pelle di un ragazzo che non ha nessun ricordo di occhi gialli e mostri, nascosto fra le sue costole. E’ più facile dimenticare la tua vita quando la tua università, la strada che fai ogni mattino, i tuoi nuovi amici ti sorridono e non ti ricordano di ogni volta in cui hai cambiato istituto, ogni volta che sei scappato e hai ricominciato da capo senza riuscire a staccarti veramente dalle interiora del ragazzino che sei stato.

“Beh, farai meglio a fare il culo a tutti, allora” gli risponde Bobby, dall’altro lato del telefono.

Un sorriso involontario gli piega le labbra, perché è qualcosa che direbbe -

“Sarà fatto” risponde, prima di esitare a continuare la frase. Una pausa di silenzio. “Bobby, hai sentito Dean? Come sta?”

Dall’altra parte vi è una lunga esitazione, un lungo silenzio interrotto solo da un “Dannati stupidi testardi” troppo soffuso perché Sam lo senta. Dean lo guarda serio e bisbiglia qualcosa che Bobby interpreta con un Maledizione, Bobby, me l’hai promesso”.

“Sai come sta” borbotta, arrendendosi e guardando il maggiore dei Winchester dritto negli occhi. “Si comporta come uno stupido idiota testardo troppo orgoglioso per ammettere che gli manchi. Potresti chiamarlo uno di questi giorni”

Dean rotea gli occhi in una smorfia di pura protesta.

“Già” risponde Sam e c’è tutto un mondo in quel già. “Possiamo sentirci domenica?”

Bobby non ha bisogno di insistere per capire – come se avesse bisogno di capire - che Dean non è l’unico Winchester testardo e che è bastato un nonnulla a spezzare l’alchimia.

 

***

“Hai intenzione di continuare a fare finta di nulla?”

Bobby gli posa una mano su una spalla, prima di alzarsi in piedi e allontanarsi quel tanto che basta.

“Fare finta di cosa?” ribatte, piccato, in un improvviso moto di stizza. “Sam non ha bisogno di sapere che persino i fottuti Vetala cacciano in due adesso, maledizione! Sta vivendo il periodo più bello della sua vita e non lascerò che faccia casino a quegli stramaledetti midterm solo perché io non sono stato attento!”

C’è una punta di dolore nel modo in cui dice che Sam sta vivendo il periodo più bello della sua vita, una punta di dolore che assume il retrogusto del rancore. Segue una pausa di silenzio in cui Bobby guarda la ferita al collo e si maledice per averlo fatto agitare.

“Dean” gli dice. Il ragazzo si sposta leggermente, a disagio. “Hai fatto un buon lavoro, ragazzo.”

Per un attimo non risponde.

E’ chiaro che Bobby non si riferisca alla caccia, perché è in ospedale ed è cristallino che abbia davvero fatto un gran casino con quella caccia.

“Io e papà abbiamo fatto un buon lavoro” lo corregge, come se fosse doveroso. “Tu hai fatto un buon lavoro”

Bobby alza gli occhi al cielo.

“Non c’è dubbio su da chi abbia preso, ma starà bene” gli dice ancora.

Perché ha bisogno di sentirselo dire.

Perché ha bisogno anche di crederci.

Perché ha bisogno di saperlo.

Perché fa male quanto e più di un coagulo interno.

Dean lo guarda per un lungo momento, stringendo in un pugno le lenzuola dell’ospedale che gli coprono le gambe.

“Maledizione, è solo che..” inizia, indeciso su come continuare la frase.

“Lo so, ragazzo” mormora e annuisce, accompagnando quel movimento con una leggera pacca sulla spalla. “Lo so.”

Dean ha già fatto una lista di tutto quello che dovrà fare dopo – alzarsi e costringere Bobby a credere che sia abbastanza solido da tornare sulla strada, recuperare l’Impala, abbandonare gli abiti distrutti che ha addosso, chiedere a Bobby se si fosse occupato dei Vetala e sparire nella notte – ma fino ad allora, decide che può prendersi un momento da quella sua personale guerra. Si lascia andare contro la mano dell’uomo sulla sua spalla e esala un sospiro. Intorno a loro non c’è nient’altro che odore di disinfettante e bianco.

Improvvisamente Bobby lo sente di nuovo irrigidirsi, sotto la sua mano.

“Non hai del lavoro da fare? Dei cacciatori che aspettano che confermi il loro alibi con la polizia?” gli chiede, incapace di resistere.

Bobby risponde con una scrollata di spalle.

“Ho del lavoro da fare, Dean” risponde semplicemente, e Dean prima che concluda sta già per chiedergli se si tratti di un Wendigo, di un Dijin oppure -

“Maledizione, me ne sono dimenticato: devo andare a chiamare l’infermiera. Mi aveva detto di chiamarla non appena ti fossi svegliato”


NDA
Scritta per la #TheMysteryChallenge, con prompt "
X ritrova Y incatenato ad un muro privo di sensi."
Le recensioni sono sempre gradite. 

   
 
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