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Autore: Katekat    25/07/2020    1 recensioni
Ogni volta che pronunciava il suo nome, era come se volesse spezzare un osso nel suo corpo.
[Sirius/Bellatrix]
Genere: Angst, Dark, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Sirius Black | Coppie: Sirius Black/Bellatrix Black
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Brevi note iniziali:
* Il titolo, chiaramente, non appartiene a me ma al genio di Baudelaire 
** I "contenuti forti" sono motivati dalla violenza fisica che rasentano alcune scene erotiche e dalle analoghe fantasie di omicidio/suicidio che frullano per la mente del povero Sirius. Buona lettura!  









I fiori del Male
 
 
 

 
Ogni volta che pronunciava il suo nome, era come se volesse spezzare un osso nel suo corpo.
 
[Sirius/Bellatrix]
  

 
*** 

 
“Ogni tanto mi chiedo cosa mai stiamo aspettando.”
Silenzio.
“Che sia troppo tardi, madame.”
 
A.Baricco, Oceano Mare

 
 
 
 
 
 
A volte gli mancava.
 
Gli mancava come manca un braccio – o una gamba – a un mutilato.
Aveva il sapore delle cose sempre agognate – mai avute, irrimediabilmente perdute.



 
***
 
 
 
“Meglio regnare all’Inferno che servire in Cielo”
John Milton, Il Paradiso Perduto
 
 
 
 
Black Manor, tanto tempo fa
 
 
“Andremo all’Inferno per questo, lo sai?”

 
 
 
– Andremo all’Inferno per questo, lo sai? – disse il suo Inferno.
Era lì sulla Terra – davanti a lui, sopra di lui.
Socchiuse gli occhi, abbagliato dal riflesso delle candele sui capelli di lei che si spezzava a ogni spasmo, a ogni sussulto.
Il corpo chiaro ondeggiava dolce come una nenia nell’aria.
Spostò lo sguardo sull’ombra che danzava sulla parete accanto al letto. Sembrò sorridergli grottesca; quando accelerò i movimenti perse la capacità di pensare. 
Il suo Inferno sorrise un sorriso di trionfo, sogguardandolo dall’alto con uno scintillio liquido negli occhi di tenebra.
Chiuse i suoi per non vederla.
Per illudersi di non star commettendo nessun peccato, e che non sarebbe stato punito – non per quello, almeno.
 
 
- E’ ora che tu prenda una decisione. O con noi o contro di noi, Sirius. Scegli: la tua famiglia o i tuoi amici.
- E così avrei la possibilità di scegliere, madre? La vostra generosità è commovente.
- Smettila di scherzare e pensaci bene... Sei sempre stato così avventato…
- Avventato?... Non ho bisogno di pensarci, ho già deciso. Da sempre.
- Quindi questa è la tua ultima parola?
- Sì… madre.
- …. Non sei più mio figlio.
- Ed io non sarò mai più così orgoglioso di non esserlo.
Sciaff.
Bruciante calore prima, rossore di vergogna dopo.
Quello schiaffo non l’avrebbe mai più dimenticato.
 
 
E poi – non ricordava quando – era finito.
Il calore di lei gli era scivolato di dosso, lasciandogli una striscia di pelle d’oca sul ventre.
L’eco della sua risata l’aveva ridestato dai ricordi d’infanzia– accarezzato come il fremito di un vento freddo, indugiando sulla sua pelle fino a rivestirla di altri brividi.
Il corpo di lei, invece, bruciava ancora come un incendio contro il suo – un rogo.
 
 
Quasi come quello schiaffo. E il sangue dal labbro spaccato, dopo.
Kreacher aveva tentato di medicarglielo – chiaramente gli era stato ordinato – ma lui l’aveva scansato, con disprezzo.
“Spezzare così il cuore della povera madre, nossignore…”
La sua vocetta grigia si era accartocciata in un rantolo compassionevole quando l’aveva inchiodato al muro per la gola.
Era solo per pietoso orrore che non l’aveva ammazzato quel giorno.
 
 
Calda contro il suo corpo, lei si muoveva pigramente cercando la sua pelle.
Un sottile lembo di seta separava il suo fianco dal suo – anche nel buio, non poteva dimenticarsi di lei.
Anche senza guardarla, la sapeva abbandonata sul ventre, il declivio liscio della schiena – curva di marmo – risalire verso rilievi più pieni, sotto la seta.
Pelle increspata dal freddo.
Lei scivolava contro il suo fianco, innocente come Satana in persona, liscia come le acque di un fiume.
Dove la sua lingua lo lambiva, scottava e perdeva pezzi di se stesso.
(Li sentiva distaccarsi in silenzio, fare male senza far rumore, sanguinare senza voce)
Come la muta di un serpente che lascia la propria pelle, allo stesso modo lei lo spogliava di se stesso, delle sue convinzioni; lo faceva rinascere a un nuovo se stesso – o a quello che era sempre stato.
 
 
Bellatrix somigliava più a Walburga che a Druella.
Non poteva guardarla senza riconoscerle nell’espressione quell’altra – più vecchia, più ostile.
Così simile, così odiata.
 
 
Stare con lei era come essere intrappolati nel cuore di un incubo, paralizzato al centro di una voragine nera e immobile: sapore acre di agonia – e intorno nessuna via di scampo.
 

 
 ***
 


Black Manor, poco prima
 
 
“Avresti voluto che non lo facessi?”
 
 
 
In giardino, le rose nere ciondolavano le grevi teste sugli steli. 
Il nettare roteava nei calici di cristallo – bagliori rosso sangue vi annegavano.
Sorrisi glaciali, bianco-azzurri, sfarfallavano nella penombra.
Odiava le feste dei Purosangue quasi quanto quelle dei Mangiamorte. Lo stesso lezzo di morte, lo stesso odore acro e stantio di putrefazione.
“Mister Black, aspetti!... Sirius Black!”
Ignorò le voci che lo chiamavano – le lasciò disperdersi alle sue spalle in un’eco di rammarico e mormorii di delusione. Ne aveva abbastanza di servili adulazioni, di ipocrite riverenze.
Marciò verso il lungo tavolo da buffet allestito, per ordine di Druella, sotto il mastodontico cedro sul lato nord del giardino – l’angolo della tenuta da cui si godeva la vista più spettacolare sui boschi circostanti. Ma si era fatto tardi e, a dispetto della miriade di fuochi fatui galleggianti in lampade di vetro infrangibile per rischiarare i recessi più lontani dall’illuminazione centrale, non c’era molto da rimirare nel buio.
Uno spreco inutile, dunque. La maniacale cura di Druella Black per i dettagli più superflui lo disgustava. Come tutto il resto di Druella, d’altronde.  
Ponderò, con apatico disprezzo, il bianco abbagliante della tovaglia che avvolgeva il tavolo in un impeccabile sudario. Una gocciolina di vino incautamente versata non avrebbe avuto il tempo di intridere la spessa stoffa che immediatamente uno degli Elfi adibiti a tale compito si sarebbe precipitato a farla sparire, sostituendola con una nuova.
Ma sarebbe comunque stato punito dopo, per quello. Per una colpa non sua.  
Afferrò per il collo la prima bottiglia che trovò sottomano, scansando i patetici tentativi di un Elfo balbettante di occuparsene. Si servì una dose generosa di vino – lo guardò salire nel bicchiere, colorarlo fin quasi all’orlo di un rosso brillante. L’odore frizzante gli punzecchiò le narici. Lo mandò giù in due sorsi poderosi e si sentì subito un po’ meno afflitto.
Afflitto non era il termine esatto: avrebbe voluto strapparsi la pelle di dosso, se avesse potuto.
Il calore gli saliva a ondate verso le guance. Si allentò la cravatta, sbottonò il colletto della camicia. Trattenne un sorrisino al pensiero di quell’ignobile infrazione all’etichetta.
 “Ehi, ma quello lì non è il primogenito di Orion e Walburga Black?”
“Chi? Il Grifondoro?!”
“Il traditore…”
I sussurri alle sue spalle lo inchiodarono nell’atto di versarsi un secondo bicchiere.
Strinse i denti, il corpo un coagulo di marmo e di ira. Pensò a James, e a Remus – anche a Peter – per distrarsi. Si sforzò di ignorarli – pensò a Lily. Al Quidditch. Pensò a… no, a lei no.
“Mi meraviglio che i suoi non l’abbiano ancora buttato fuori di casa…”
“Come sopportano di restare sotto il suo stesso tetto?”
“Dicono che Orion ci abbia provato, ma che poi sia tornato sui suoi passi per compassione…”
Bevve. Le mani gli tremavano, i nervi scoperti pulsavano dolorosamente, titillati da quella curiosità indesiderata che lo inseguiva molesta per poi attaccarglisi addosso – una patina dalla quale era impossibile liberarsi. Accadeva ogni volta che era costretto a presenziare a una di quelle orribili cerimonie: per questo le aborriva così testardamente e faceva di tutto per evitarle.
Ma quella sera era stato vittima della sua stessa pigrizia, di quel fatalismo che ogni tanto lo afferrava e lo sommergeva. Ci era andato – pur continuando a pensare dentro di sé “Scappa finchè puoi, imbecille” ci era andato lo stesso. Sapeva, ancor prima di mettervi piede, che se ne sarebbe amaramente pentito.
– Il Signore vuole dell’altro vino?
Non guardò nemmeno la minuscola Elfa dai tristi occhi, grandi come scodelle, che protendeva verso di lui una brocca color amaranto – un sorriso sdentato che era una supplica ad accettare. Si allontanò con un gesto della mano, costeggiando il bordo del tavolo; evitò di incrociare qualsivoglia sguardo o volto. Sentiva le orecchie e la faccia tutta bruciare. Immaginava quanto patetico e infelice apparisse – aggrappato al suo bicchiere. Un animale in trappola.
Occhi – odiava tutti quegli occhi immobili, fissi su di lui. Gli si inginocchiavano servilmente quando li incrociava, per poi strisciargli velenosi di rancore alle spalle. Sussurri nell’ombra insinuavano dubbi come pugnalate. Ne carpì qualcuno rasentando un capannello di eleganti sconosciuti trasudanti malignità.
“Dicono sia un po’ strano… sicuramente non all’altezza del suo nome…”
“… ad Hogwarts mangia alla stessa tavola con dei Babbani, lo credete possibile?”
Inspirò, riempiendosi i polmoni di quel distillato di odio puro come alcol incandescente. Lo percepiva tutt’intorno a sé – gocciando, scavava crateri insanabili, ferite letali. Come un Distillato della Morte Vivente: ecco di cosa avrebbe avuto bisogno, per sfuggire a quel tormento. Peccato non aver mai prestato troppa attenzione alle lezioni di Pozioni…
Torse improvvisamente i passi verso il viottolo ghiaioso che si allontanava dallo spiazzale principale, sparendo al di sotto di una siepe incurvata ad arco. Sperò che nessuno lo notasse. Quando fu al riparo della siepe, si accorse di star stringendo il calice tra le dita come a volerlo frantumare. Le gocce sottili imperlavano l’orlo, scendevano in basso rigando il cristallo in una lenta agonia. Chissà come sarebbe stato se avesse potuto annegare sé stesso in un bicchiere di vino… 
 (Ma quegli occhi gli ricordavano che erano lì, continuamente. Che non poteva scappare…)
– Stai cercando di filartela? Non puoi.
Si voltò.
Il sorriso freddo di lei. Reggeva, come lui, un calice mezzo vuoto tra le dita sottili; il vino aveva lo stesso colore del suo rossetto.
La guardò avanzare come una Nemesi verso di lui – scivolare sul prato di velluto verde scuro, inesorabile come il Destino in persona; fermarsi vicina, troppo vicina.  
– E’ esattamente quello che sto facendo, invece – ringhiò. – E non sarà di certo nessuno di voi a impedirmelo. 
Le aveva voltato le spalle, svuotando il bicchiere in un sol sorso e piantandola in asso sotto i rami fruscianti degli aceri; imboccato quello che gli era sembrato il viottolo meno frequentato tra filari di alberi e sontuose siepi intagliate. Ad ogni alito di vento una pioggia di sottili foglioline giallastre si spandeva sulle spalline della sua giacca. Qualcuna gli s’impigliava tra i capelli – crocchiava sotto la suola delle lucide scarpe.
Se ne strappò una dalle ciocche; ne rigirò il picciolo fragile tra pollice e indice. Profumava.
Poi un altro, ben più violento aroma, lo colpì. Passi leggeri sul tappeto erboso – eco dei suoi.
La sua voce lo aveva richiamato, beffarda: – Non è quella l’uscita. Idiota
Di nuovo si era voltato, trattenendo a stento l’impulso di mollarle uno schiaffo.
– Nessuno ti ha chiesto niente. Torna da dove sei venuta. 
All’Inferno.
Lei lo guardava con la testa inclinata di lato. Continuava a sorridere e il suo sorriso era macchiato di vino. Ruotò lentamente la lingua a ripulirlo; gli occhi di lui seguirono quel movimento.
– Dovresti ringraziarmi che sono l’unica della famiglia a preoccuparsi per te. Gli altri sembrano evitarti come la peste, non l’hai notato?... A quanto pare, il marchio delle cattive compagnie ti segue ovunque tu vada, cugino.
Lui aveva riso senza gioia, stringendo gli occhi in uno sguardo di odio.
– Proprio tu mi vieni a parlare di cattive compagnie? Sanno tutti con chi te la fai, Bellatrix. Le tue amicizie illustri non sono più un segreto per nessuno, ormai.
I suoi occhi saettarono verso il braccio sinistro, coperto dalla manica del vestito nero che Bellatrix indossava. Lei notò il suo sguardo: il suo volto si contrasse in un ghigno feroce; si strinse impercettibilmente nelle spalle, come un animale minacciato. Il vino rimasto nel calice ondeggiò pericolosamente.
– Come mai non c’è nessuno dei tuoi amichetti Grifondoro alla festa? Mammina non ti ha dato il permesso di invitarli?
Sirius strinse i denti, i pugni. Il suo tono riecheggiò quello di lei, velenoso e soave. 
– Non vedo nemmeno qualcuno dei tuoi, Bellatrix. O forse senza cappuccio non li riconosco più, può darsi…
Bellatrix lasciò spegnersi la sua risata molto lentamente, bevendola fino in fondo. Si portò l’orlo del bicchiere alle labbra e lo inclinò quel tanto perché il vino le scorresse in gola.
Non gli tolse gli occhi di dosso, mentre rimuginava in sé un pensiero nascosto.
– Mi annoio – sbottò all’improvviso. – Questa festa è un mortorio. Vuoi giocare con me, cugino?
– Preferirei annegarmi nel laghetto dietro casa, cugina.
Lei rise di nuovo; sembrava divertirsi un mondo.
– Il mese scorso non la pensavi così.
– Il mese scorso ancora non sapevo cos’avessi sul braccio.
– Lo sapevi benissimo, invece; non cercare di giustificarti. Mi hai vista nuda… e non una volta sola. Sapevi del Marchio.
Mentre lo diceva, si strinse istintivamente l’avambraccio tra le lunghe dita pallide. Come proteggendo un segreto non suo.
Aveva ragione lei. Sì, l’aveva vista – e aveva visto quello, ma era stato troppo tardi per fermarsi. Lei lo aveva risucchiato come un buco nero, e lui era stato perduto. E ora lo guardava con trionfo – e con quell’apatia, quel distacco, che provava verso tutte le cose del mondo.
– Non parli più adesso? Il gatto ti ha mangiato la lingua? 
– Sta’ zitta.
Avrebbe voluto chiuderle quegli occhi – per sempre.
(Una mano intorno alla gola – o il suo sangue caldo a sgorgare a fiotti dallo squarcio di una lama)
Invece l’aveva baciata. Lì, davanti a tutti. 
Con due falcate secche le era stato vicino e poi addosso. Poi, aveva solo dovuto allungare le mani a prendere ciò che aveva davanti. Quasi strappandole le ciocche elaboratamente intrecciate sulla nuca, tanta la foga con cui l’aveva attirata a sé e le aveva scaraventato la testa all’indietro per imporlesi con arroganza.
L’aveva sentita soffocare una risata fredda contro la sua lingua – non era eccitata, solo blandamente divertita dalla sua intraprendenza – e un fiotto di rabbia gli era zampillato nel cervello, perché ancora non riusciva a domarla.
Strappata la bocca dalla sua – un gemito che era pura disperazione e frustrato desiderio –  l’aveva morsa; rivestita di lividi lungo tutto il collo liscio, fino all’attaccatura della spalla.
La sua pelle aveva un sapore che non gli piaceva. Poco lontano, il Marchio; il suo veleno scorreva profondo, sotto la superficie – e ora anche nella sua bocca. Era contaminato.
Fiori violacei sbocciavano già sul velluto candido della sua pelle. Se n’era ritratto disgustato – da se stesso, da lei. Dalla prova visibile, tangibile, del mostro in cui Bellatrix lo trasformava secondo i suoi capricci e desideri. 
– Sei solo una bestia – gli aveva sussurrato lei. Ritta in piedi davanti a lui, pallida, muovendo appena le labbra.
Il rossetto le era colato giù per il mento; di riflesso Sirius aveva alzato una mano a strofinarsi la bocca – un sapore di rossetto e sangue gli impastava la lingua. Altro moto di nausea.
Gli occhi di lei brillavano, freddi e attenti. Scrutando impassibili il susseguirsi di nervose emozioni sul suo volto.
Sei solo una bestia.
D’un tratto si sentì tremendamente pieno di vergogna.
Aveva perso il controllo. Ed era colpa di lei – era sempre colpa di lei; lei faceva diventare pazzo chiunque.
Se solo ci fosse stato un minimo di empatia su quel volto bello e feroce. Qualcosa che gli facesse capire che esistesse un’umanità, dietro la spietatezza di quella maschera. Se solo…
Bellatrix aveva curvato le labbra, sbattendo molto lentamente le palpebre. 
– Non avresti dovuto dare spettacolo qui, davanti a tutti. Non dico che non abbia apprezzato, ma… i nostri parenti potrebbero non condividere lo stesso piacere… 
Sirius si era lanciato una rapida occhiata intorno. Il cuore gli rimbombava sotto il tessuto sottile della camicia sul petto. Raddrizzò il nodo della cravatta, fingendo un contegno che non aveva. 
– Poco male. I nostri parenti si accoppiano tra di loro; saranno ben abituati a vedere due cugini scambiarsi un innocente bacio…
Bellatrix aveva inarcato un sopracciglio; una vaga ilarità spaziava sul suo viso. In due passi gli si era avvicinata, sospingendolo contro un tavolino alle sue spalle, tagliandogli ogni via di fuga, come poco prima lui aveva fatto con lei.
– Quello non è stato… innocente – gli soffiò incandescente sul viso, scandendo ogni sillaba.
Ciocche nere le piovevano ai lati della faccia; scendevano in basso a sfiorare i segni violacei sulla scollatura.
– Dimmi, avresti voluto che non lo facessi? – la provocò. – Sai essere una bugiarda migliore di così, Bellatrix. 
La scrutava negli occhi, così vicini. Lo stesso nero nelle pupille di lui, di lei. 
E di nuovo quelle labbra tese – curva di un sorriso vibrante come un dardo scoccato nel buio; scintillio di denti candidi.
– O magari vorrei che tu lo rifacessi, solo un’altra volta.
Una voce in lontananza li aveva richiamati. La festa in giardino continuava ancora, ma il loro mondo, in quei minuti, si era retratto nelle pieghe del tempo.
Druella avanzava verso di loro, facendosi largo in un mare di sussurri smorzati e risatine. La veste le frustava le ginocchia; i suoi zigomi alteri erano bianchi di rabbia.
– Uh-uh… qualcuno dev’essere corso ad avvertire la zietta… - Rise sotto i baffi.  
– Per di qua. – Senza perder tempo, Bellatrix gli aveva artigliato il polso con unghie affilate, tirandoselo dietro fra tronchi e cespugli. Voltandosi solo per una frazione di secondo, un sorriso che era rovina e promessa insieme.
– Vieni. Ti mostro io l’uscita.


 
***
 
 
Dopo…
 
 
 
Il suo corpo era stato destato con un brivido; il vento entrava dalla finestra lasciata aperta. Sbatteva a intervalli ostinati contro il muro – sordi rintocchi che rimbombavano dolorosamente al centro della sua coscienza ovattata.
Un quieto, pervicace monito a tornare in sé, a far presto, chè qualcuno avrebbe potuto sapere e scoprirli.
La tenda bianca sbatacchiava e schioccava come un fantasma impazzito, impennandosi furiosamente sul buio al di fuori della finestra. Il vento irrompeva dallo spiraglio in una corrente continua di gemiti e fischi. Nelle ultime ore si era levato più minaccioso e intenso che mai e ora i vetri nell’intelaiatura tremavano, in un tintinnio di pietà.
Le stesse mura, seppur spesse e solide, sembravano precarie, in bilico, sul punto di crollare sotto quell’impeto furioso.
Si sentiva ancora un po’ rintronato, avvolto da un’aura morbida e ottundente di sonnolenta confusione, ma stava rapidamente tornando in sé, risalendo a ritroso gli innumerevoli gradini della coscienza.
Ruotò la testa sul cuscino. I suoi occhi misero a fuoco la candela gialla sul comodino. La fiamma plastica – protetta dal vento da un Incantesimo – si allungava liquida verso il soffitto, perdendosi in filiforme lingua di fumo.
I confini del mondo sparivano oltre il cerchio di luce, inghiottiti nel buio. Aldilà del labile alone tutto cessava d’esistere: loro stessi – e tutto quello che una volta aveva contato.  
Sprazzi di conversazioni – sussurri e singhiozzi – e flash di immagini folgoravano la sua memoria a tratti, trafiggendolo insieme a fitte al costato che lo facevano sussultare.
 
Una in particolare lo ossessionava.
 
- E’ successa una cosa strana, prima…
L’espressione nel fondo degli occhi di lei, per una volta, era seria, pensosa, quasi diffidente.
- Cosa?
- Mi hai chiamata con un altro nome, prima…quando mi hai stretto la gola.
- Beh, per quanto tu sia molto brava a letto, cugina, non ti illuderai mica di essere la mia migliore conquista…
- Era il nome di tua madre.
 

Un nome.
Cosa mai può significare un nome.
 
(Niente.
O forse tutto.)
 
– Perché non lo dici mai?
– Cosa?
– Il mio nome. Non mi chiami mai per nome, nemmeno quando stiamo…
 
Odiava il suo nome. Il nome che era anche quello di lei.
E odiava che lei glielo ricordasse continuamente, ostinatamente. 
Sirius Black. Ricordati chi sei, cugino. Ricordalo sempre.
Sapeva che era ancora lì, al suo fianco; che non se n’era andata. Ne sentiva il calore attraverso le lenzuola scompostamente raccolte attorno al suo corpo. Non aveva idea se fosse sveglia o se stesse veramente dormendo; se fingesse soltanto, com’era sua abitudine fingere un sacco di altre cose.
La odiava.
La odiava perché lei era se stesso – tutto ciò da cui non riusciva a scappare.
Prima di averla sotto di sé non si era mai reso conto di quanto lei intrinsecamente brillasse.
L’aveva sempre e solo sogguardata da lontano, fingendo spregio beffardo, distratta casualità – ma tutt’altro diceva la spietata, feroce devozione con cui i suoi occhi correvano, ribelli segugi, a cercare la sua figura ogni volta.
Nera e vacillante nel vento; così l’avrebbe sempre ricordata.
Sottile, disumana, livida di astio e forza di volontà marcita dall’interno. 
Di quanta luce ci fosse, intrappolata nel fondo di quegli occhi bui e spietati, non si era mai reso davvero conto – prima di averla.
Perché nessuno mai riuscisse a tirargliela fuori, se lo sarebbe sempre chiesto.
Ha il nome di una stella, ma non può che brillare di luce riflessa – è una femmina
Si sbagliava, Druella, quando l’aveva detto.
– Farò in modo che non ti dimenticherai tanto facilmente del tuo nome. Ti piacerebbe, non è vero? Se nasci Black, lo rimani per la vita. 
Sapeva bene che era la cosa che lui più odiava – il suo nome; gliel’avrebbe fatta scontare con gusto, quanto a lei era stato fatto scontare il fatto di nascere femmina.
 
– Sirius.
Era rimasto in silenzio.
Aveva freddo, tremava dal freddo. Era stato quello a svegliarlo.
Avrebbe dovuto chiudere la finestra. Avrebbe dovuto alzarsi e chiuderla.
Tirare le tende, spegnere il moccolo triste ma perseverante.
Solo buio doveva esserci. E il rintocco del Destino nelle stanze vuote della sua coscienza.
– Stanno venendo a prenderci secondo te, Sirius? 
Ma c’era qualcos’altro in quel buio: pulsare di vita, soffio di morte e veleno, rilucere di gemma che brilli di luce propria.
Qualcun altro – lei.
 
In quel momento lei voltò la testa. Era perfettamente sveglia. Chissà da quanto tempo.
Nelle sue pupille lui vide quella luce lontana di stelle morte nella notte, inghiottite da un buco nero.
Secoli di giorni bui, in quegli occhi neri.
Sirius tastò sul pavimento alla ricerca della bacchetta – era rotolata via mentre loro precipitavano tra le lenzuola. La trovò; con un gesto la finestra si richiuse, la tenda smise di contorcersi e il gelo si riassorbì lentamente nelle mura della stanza.
Silenzio. Come alla fine di ogni loro amplesso, nulla si muoveva per ore. 
La testa di lei era reclinata sul cuscino – i suoi capelli come rivoli di inchiostro macchiavano le coltri. Alla luce pallida della luna sembravano vene di sangue sparse in macabra aureola tutt’intorno al suo capo. Teneva le braccia sollevate, a pancia in giù, a circondare il cuscino. I suoi occhi erano fissi su di lui, immobili – immobile lei stessa, predatrice in attesa. 
Come gocce dense scorrevano i minuti.
Nell’aria aleggiava ancora quell’odore vellutato – qualcosa di inafferrabile e penetrante, che lo riempiva fino in fondo al suo ultimo segreto. Parlava a quella parte di sé che non sapeva di custodire.
Era un po’ l’olezzo delle rose marce, un po’ il sentore corposo del vino elfico. E quello denso del sangue, mescolato al sapore pastoso del rossetto.
– Cosa stai guardando? - chiese a sua volta, invece di risponderle.
I suoi occhi continuavano a scrutarlo freddi e distaccati. 
Non si mosse, non parlò. Sollevò l’indice sottile e gli sfiorò brevemente il labbro inferiore. Lo ritrasse subito dopo; l’indice si accartocciò, come scottato, su se stesso. Allontanò la mano, tornò a nasconderla sotto il cuscino. Il mutamento della sua espressione avvenne improvvisamente. I lineamenti si pietrificarono; ora lo guardava con occhi di bambola, senz’anima.
Sirius si chiese se non fosse uno dei suoi incubi, diventato realtà. Aveva sognato così tante volte di vederla morta che forse stavolta lo era davvero.
– Credo che dovremmo rivestirci.
Si sforzò di far trapelare un minimo di razionalità, di riacchiappare un misero contatto col mondo, con la realtà. La sensazione di estraniamento era più forte di tutto e lottava per il sopravvento contro il suo istinto di conservazione.
– Mi hai sentito? Dobbiamo andare, non possiamo restare qui.
Solo dopo qualche minuto buono lei si mosse. Rotolò a pancia in su; le sue dita si avvolsero lentamente intorno all’orlo del lenzuolo, tirandolo sotto il mento.
– Non voglio tornare alla festa.
– La festa sarà finita da ore, ormai. E’ notte inoltrata. Dobbiamo andare, prima che a qualcuno venga in mente di cercarci in tutte le stanze del palazzo. Qualcuno tipo tua madre.
Si scostò il lenzuolo di dosso, si mise a sedere sul materasso. Raccattò i suoi vestiti sparsi un po’ qui, un po’ lì, prese a indossarli il più velocemente possibile, lottando contro il freddo. I denti sbattevano gli uni contro gli altri.
Quando fu quasi del tutto coperto, le lanciò un’occhiata da sopra la spalla.
Non si era mossa; giaceva ancora lì, catatonica nel suo bozzolo di tepore. Fissava il soffitto, il vuoto, sbattendo di tanto in tanto le palpebre.
Allungò una mano e la toccò. Non riuscì a frenarsi.
La sua intenzione – forse era stato riscuoterla – naufragò miseramente nel calore indicibile con cui la sua pelle gli si stampò sotto i polpastrelli, modellandosi sotto i suoi palmi l’attimo stesso in cui le avvolse i fianchi con le mani, tirandola a sé.
Incontrò medesima avidità. Lei lo spinse inesorabile contro le proprie labbra decise. Su di esse lo stesso odore, scuro e inafferrabile, delle lenzuola.
I suoi zigomi erano lisci e freddi – sentiva l’osso premere sotto i suoi pollici come a voler bucare la pelle. La sentiva tendersi verso di lui con uno spasmo di tutto il suo essere.
Le labbra combaciavano con le sue, lo circondavano come a risucchiarlo, con un’avidità che era fame di qualcosa di più profondo della pelle.
Bellatrix contrasse le dita sulla sua nuca; lui ne sentì le unghie scavargli la pelle, imprigionandolo contro il suo viso.
Non andare via.
Non sapeva se l’avesse detto davvero – se l’avesse solo immaginato: la neonata sua lucidità era andata in frantumi.
La fiamma della candela diede un guizzo languido e morì, come rispondendo a una tacita ingiunzione.
Allora fu buio totale.
Allora poterono di nuovo dimenticare se stessi.
Fingere di non star commettendo nessun peccato.
E che non sarebbero stati puniti. Non per quello, almeno.
 
Ancora.
 
Si era illuso di averla dimenticata.
 

 
***
 
 
– Sei sempre così aggressiva…– Seduto sul letto, esaminando la scia di lividi sanguinanti dalla propria gola all’interno del braccio.
Alzò gli occhi e studiò il suo viso.
Lei rise. Guardò con trionfo i segni che aveva lasciato su di lui. 
– Anche tu lo sei… Ti piaccio così, no?
Gli trascinò le unghie sulla pelle, non così forte da marchiarlo, ma abbastanza da fargli sentire il monito.
Seduto sul letto, lui passava i polpastrelli sui graffi purpurei e paralleli che gli rigavano l’avambraccio.
Si voltò appena; la guardò da sopra la spalla. 
– Mi piaci?... – ripetè, corrugando la fronte. – Non so se mi piaci.
Lei rise più forte, come se si fosse aspettata esattamente quella risposta.
Si sporse a baciarlo. Urtarsi  di denti per la troppa foga; labbra spaccate.
Gli tenne fermo il volto contro il suo finchè non ne ebbe abbastanza di invadergli la bocca; allora lo lasciò andare.
– Se non ti piacessi mi lasceresti fare questo?
L’afferrò improvvisamente per il viso, immobile nella sua stretta; uno sguardo fisso scorse sui suoi lineamenti. Mortalmente serio.
– Tutto in te mi ricorda ciò che sono, ciò che sarei dovuto essere. Tu sei folle, Bellatrix.
La guardò serio; cercò di non sprofondare nelle promesse vellutate dei suoi occhi folli e disperati.
– E tu non lo sei forse quanto me? 
Sussurro, quasi una richiesta implorante di rassicurazioni.
Dimmi che non sono la sola. Dimmi che non sono diversa. O dimmi, almeno, che lo siamo insieme.
Lui rabbrividì dentro. Per un attimo, aveva trovato la risposta nel fondo degli occhi di lei.
Che forse aveva ragione.
Lui non era come lei.
Lui era lei.
Erano una cosa sola.
 
«Siamo una cosa sola.»
«Sì… per sempre.»
 
Erano bambini.
Poi erano cresciuti.
Ed erano finiti a letto – lui dentro lei, lei intorno a lui.
Era stato orribile, da allora
 
Per sempre… Te lo ricordi?
La vide irrigidirsi, raddrizzare improvvisamente la schiena, il collo.
La sua testa si voltò lentamente – lentissimamente – verso di lui.
Erano occhi quelli che brillavano nella selva di capelli? Non erano forse pugnali d’acciaio?
Immaginava non le avrebbe fatto piacere rivangare il passato.
Il buio divenne ancora più buio l’attimo dopo, quando lei lo attirò a sé.
Una lunga mano sottile, avidamente affondata nei suoi capelli. Li tirava, strappava, scrollava. Mentre le sue labbra lo cercavano, affamate. Scivolavano sulle guance, disperate, cercando di indurlo ad aprire la bocca per lei.
Con uno strattone verso l’alto liberò il viso, sottraendosi alle sue mute richieste. Stavolta furono le labbra di lui a schiudersi in un sorriso. Beffardo. Crudele.
La feriva e poi la respingeva, proprio come faceva lei con lui.
 
Giocavano.
Così si dicevano.
Ma non erano bambini; non lo erano più da un sacco di tempo, ormai.
 

 
        ***
 
– Non credevo ti piacesse baciare i tuoi amanti, Bellatrix.
– Infatti non li bacio, Sirius.
Ogni volta che pronunciava il suo nome, era come se volesse spezzare un osso nel suo corpo.
– Perché baci me, allora?
– Perché tu non sei il mio amante. Sei il mio amato.
 L’Inferno non era mai stato più ricco di promesse come in quel momento.
Si liberò dalle sue mani. Salì a stringergli il collo tra le braccia. La cascata di capelli gli sfiorò il petto nudo. Brividi lungo la schiena. Sussurro caldo all’orecchio.
– Ti ricordi quando dicesti che sarebbe stata l’ultima volta? E invece… invece siamo ancora qui. Sei ancora qui, Sirius. Sono più forte io.
Forse era vero.
Ma non gli era mai piaciuto perdere, o ammettere la sconfitta, qualunque essa fosse. Era abituato a lottare fino alla fine, proprio come lei.
Inspirò avido quell’odore, nell’inarcarsi dei suoi fianchi ad incontrare i suoi. Fusa soffici dalla sua bocca quando gliel’aprì con la lingua.
Una gatta, sotto il suo peso. Serpe velenoso e tenero micio al tempo stesso, solo lei. Sapeva giocare all’uno e all’altro, mai stancarsene.
Provocare, colpire, ritrarsi, nascondersi, fuggire.
Mostrarsi e poi celarsi, come la luna tra le nubi.
Bianca tra il nero.
Sembrava così bianca sotto le sue dita così nere.
Pura e pallida, faceva sentire lui sporco.
Rimuginò sulle sue parole – lei gli lambiva la conchiglia dell’orecchio con la punta della lingua, soffiava via la concentrazione dai pori della sua mente. Tutto svaniva, restava solo lei.
La strinse a sé, con forza. Beatitudine, la pelle liscia – appena increspata dal freddo – dei suoi fianchi, ondeggiare dell’oceano sotto le sue dita. Spire sinuose di un cobra che si prepara all’assalto.
Ma non le avrebbe dato il tempo. Avrebbe attaccato lui per primo.
– Sei ancora la più forte, adesso?
La guardò dall’alto, pressata, ansante sotto di sé, i polsi inchiodati sopra la testa.
Brillio negli occhi, le sue labbra non avevano perso la loro curva indisponente.
– Sì, perché tu non puoi fare a meno di me. Non puoi fare a meno di questo.
Mosse i fianchi contro i suoi. Lui la sentiva; sapeva che sarebbe bastato così poco. Una spinta – e l’avrebbe trovata già pronta, aperta, ricettiva. Gli si sarebbe chiusa intorno calda  e umida, si sarebbe contratta elastica spremendo fuori da lui il piacere e la vita.
Quella promessa di vita sprecata che sarebbe andata persa tra le lenzuola o sulla pelle liscia del ventre di lei ancora ansante.

 
«Quando saremo sposati voglio avere un bambino» aveva detto Rodolphus, guardandola negli occhi.
L’espressione in quelli di lei non era cambiata.
«Un bambino?» Aveva sorriso dolcemente. «Certo. Quello puoi farlo con qualsiasi puttana, Lestrange. Ma non con me.»

 
Sirius la contemplò in silenzio per qualche istante ancora. Poi gettò il capo indietro, allontanandosi le ciocche dagli occhi; imitò il suo ghigno irriverente.
– Povera illusa. Posso andarmene quando voglio, Bellatrix.
– Provaci.
Lo guardò sorniona staccarsi dal proprio corpo e sollevarsi.
Continuò a guardarlo senza dire nulla mentre si rivestiva, adagiata di fianco, su un gomito.
Era quasi alla porta quando lo fermò.
– Sposerò Rodolphus Lestrange.
Lui si fermò, la mano sulla maniglia. Il tempo di ricomporre lo stupore che l’aveva trafitto in una maschera di compassata freddezza, poi si voltò.
– Vuoi le mie congratulazioni o le mie condoglianze?
– Forse dovresti farle a lui le condoglianze, non credi?
Labbra increspate d’un sorriso pungente. Uno sforzo distogliere lo sguardo dalle sue gambe nude: con finto pudore raccolte davanti a sé, ma socchiuse quel tanto da lasciargli indovinare la promessa di un paradiso a distanza, quello che aveva appena lasciato. Ne sentiva ancora il calore, formicolava e pizzicava su tutta la sua pelle. Voleva urlare. Quel paradiso che era il suo Inferno.  
– Hai ragione. Non siete ancora sposati e già è cornuto.
Lei gettò indietro la testa e rise nel gesto che le era abituale.
Lui vide la sua gola muoversi al ritmo di quella risata e desiderò affondarle i denti dentro. Stringerle una mano sulla nuca, godere mentre quella risata si spegneva in un gemito. Qualcosa si agitò scomodamente nel fondo del suo stomaco e tra le sue gambe. Il sangue battè più forte nelle orecchie.
Quando si trattava di lei, era un coacervo di istinti ferini e poco più.
– Verrai al matrimonio?
– Questo è un invito ufficiale?
– Fai sempre parte della famiglia, dopotutto.
– Non più, lo sai.
– E tu sai che io adoro far arricciare il naso ai nostri noiosissimi, integerrimi parenti.
– E’ per questo mi vuoi alle tue nozze?
– No, non per questo.
Si alzò, lasciò cadere le lenzuola dal suo corpo, intorno ai suoi piedi, come un fiore di seta. 
Si incamminò verso di lui, curve sinuose e calore irradiante. Nuda, splendeva nel buio. Avorio scolpito.
Non guardarla.
– Per questo.
La ebbe di nuovo sul petto, contro i fianchi, nella bocca.
Di nuovo invaso, posseduto come da quel profumo malsano. Continuava a sentirlo nelle narici. Come liquido, si infilava in tutti buchi – non riusciva a tenerla fuori.
Liberò la bocca il tanto necessario a infliggerle l’ultimo colpo.
– Vuoi dirmi che intendi tradire il tuo sposo il giorno delle nozze?
– E anche il giorno dopo, e quello dopo ancora…
Il suo delizioso accanirsi – selvaggia dedizione – lungo la linea della mascella gli tolse temporaneamente le parole.
Su fino all’orecchio, pelle liscia dietro, dove lui era più sensibile. Lì la sua volontà vacillò, come fiamma al vento.
Fu sul punto di perdere di nuovo se stesso, quando le sue mani scivolarono tra le sue gambe. E fu caldo di nuovo ovunque. 
Le afferrò i polsi, la tenne a distanza. Tornò il freddo, allontanate le mani bollenti da sé.
La guardò negli occhi per assicurarsi che capisse.
– Questa è l’ultima volta che ci vediamo, Bellatrix. Dico sul serio.
L’aveva chiamata per nome.
Lei gli guardò le labbra, affascinata dal modo in cui se ne erano appropriate.

(Il nome è tutto.
O un nome non è niente?)

– Dillo di nuovo.
– Smettila di scherzare.
La scosse leggermente, riportò gli occhi nei suoi.
– Hai capito cosa ho detto?
Silenzio nello sguardo per un momento. La fuga di un gorgoglio dalla sua gola, esplosione di una risata selvaggia.
– Quante volte te l’ho sentito dire… Non sei mai stato in grado di mantenere la parola. Sei debole, non sei un vero Black, l’ho sempre pensato.
Ma aveva sempre detto il contrario.
La spinse via da sé con un ringhio. Si voltò, cercando la maniglia.
– Dunque non ci vedremo più? – La voce improvvisamente dura e seria, una sferzata. – Non ti credo. Bugiardo.
Lo sibilò con tutto il veleno di cui era capace.
Un sospiro, voltandosi per l’ultima volta verso di lei.
La guardò negli occhi. La guardò tutta, per un istante, per l’ultima volta.
Non avrebbe mai dimenticato quel momento.
La sua figura bianca e nera modellata dall’ombra della stanza e dei suoi incubi.
Mai più lei avrebbe avuto quella luce calda – rovente – negli occhi mentre lo guardava. Da quel momento solo odio, per lui.
– Bugiardo – ripetè lei, sottovoce. E stavolta la sua voce vibrò liquida, disperatamente sincera.
Non cercò di farle cambiare idea. O di consolarla.
Cercò di non pensare al dolore, mentre il cuore moriva.
La vita se ne andava con piedi alati, la felicità che sarebbe potuta essere.
– Addio, Bellatrix.


 
***

 
Non aveva mai saputo del bambino mai nato. Quel segreto era morto con Bellatrix, tanti anni dopo.
Ma Rodolphus... forse Rodolphus, chissà…
(– Perché non vuoi un figlio, Bellatrix? Rispondimi…) 
Forse Rodolphus da sempre aveva intuito.
 



***
 



Perché anche Sirius Black aveva amato, una volta.
E ne era stato consumato, e mai più era tornato ad amare.
 
 
 

 
Fine 

 
  
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