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Autore: HermioneG    17/08/2009    0 recensioni
Anita è una giovane adolescente di sedici anni con i suoi problemi e i suoi segreti. Un giorno, però, uno strano incontro le cambierà la vita, e da allora non sarà più la stessa di sempre.
Cos'è successo alla dolce Anita?
Tra ostacoli e incomprensioni, riuscirà mai a conquistare il ragazzo di cui è da sempre innamorata e a risolvere i suoi problemi scolastici e privati?
Genere: Romantico, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Vibration


È tutto così silenzioso nella mia stanza, quando dopo ore e ore di meritato riposo mi sveglio per recarmi a scuola.
Di solito questa stanzetta è accesa dalle urla di mia sorella Jasmine o dai battibecchi che nascono tra mio padre e mia madre anche per la più piccola sciocchezza.
Ma oggi percepisco una strana sensazione, come se questa casa sia piena solo d'aria e di nient'altro.
Pigramente caccio la testa fuori dal coprilenzuola. Esitando un po', guardando al mio lato destro e noto l'orario: le sette e mezza. Sbuffo pigramente, pensando a quello stupido istituto dove verrò rinchiusa per cinque ore solo per ascoltare il professore parlare a vuoto.
Eh sì, per me parla proprio a vuoto, perchè quando lo fa, non riesce a farsi capire. Balbetta qualcosa, interrompe la frase che sta per formulare ogni cinque parole per ficcarvici dentro un monosillabo a caso.
Sento la mia testa ribollire come se degli indiani stessero ballando attorno al fuoco posto al centro del mio cervello e sento un groppo alla gola. Perchè mi annoio, e non vedo l'ora di saltare come una cavalletta fuori da quella prigione.

- Certo che non cambierai mai, Domenico! Penso proprio che tu inizi ad aver seri problemi all'udito. Ti avevo detto di andare a prendere Jasmine a scuola, ieri mattina! E tu che hai fatto? L'hai presa con tre ore di ritardo! Ti rendi conto, povera piccola? Tre ore da sola fuori dal cancello della scuola... - udii un tremitio nella sua voce, che mi arrivò dolce come un sussurro all'orecchio. Stavano litigando. Di nuovo.
Ah, per la cronaca: Domenico è mio padre. Ha cinquant'anni. Ovviamente vi starete chiedendo quanti ne abbia io. Ebbene, ne ho sedici, e la mia unica consolazione è la mia sorellina, Jasmine, tredici anni.

- Clarabella, non ricominciare. Me l'hai ripetuto già sette volte. Ho commesso uno sbaglio. Basta! - replica mio padre, sbattendo violentemente qualcosa sul tavolo.

- Anna! Anna! Svegliati e vai a scuola! - urla così forte mia madre che persino una tartaruga in letargo avrebbe potuto svegliarsi.

“Anche se alla mattina non mi sveglio, ci pensano le loro immancabili urla a farlo. Ciò che non capisco è perchè la sveglia non ha suonat...” penso, mentre quello stupido apparecchio inizia a vibrare e suonare in modo assordante, che sono costretta ad alzarmi e spegnerlo immediatamente pigiando il pulsante.
Il mio nome è Annamaria; mia madre per abbreviare mi chiama Anna, mentre i miei amici - e mio padre - Anita. L'ultimo soprannome affibiatomi dai miei cari compagni è decisamente più carino, non trovate?
Insomma, mia madre è sempre stata una frana con i nomi! Annamaria... insomma, non è brutto, come nome... solo che a me non sta bene! Anita, quello sì che è il nome ideale per me.
So a cosa state pensando. Ebbene, il nome Jasmine è una meraviglia. Perchè? È stato scelto da Domenico, mio padre. Infatti, amante del film "Aladdin", ha deciso di chiamare così la sua piccola pargola e mia madre ha acconsentito, confessando un timido "Non sarei mai riuscita a trovarne uno migliore".
Pare che tutti - o quasi - nella famiglia si siano ispirati a film Disney. Infatti mia madre, che si chiama Clarabella, ha ereditato il suo nome dalla mucca Disney "Clarabella". Non è buffo?
Lasciamo perdere, o rischio di finire a mezzanotte...

- Oh, guarda, è tardissimo! - esclamo, premendomi forte le unghie sul cranio; sono solita farlo per rimproverarmi delle mie azioni sbagliate. Volgo un'altra rapida occhiata alla sveglia che, stando ai suoi cubitali caratteri rossi, segna le sette e cinquanta.

In cucina le voci si sono placate e mia sorella ha smesso di cantare - o si dice urlare? - le sue stupide canzoni.
- Anna! - urla nuovamente mia madre, con un lungo prolungamento della "a". - Ti alzi o ti vengo a prendere con un carro attrezzi? Su, dai! - dice frettolosamente, tra un piatto e l'altro.
- Mandami un carr'attrezzi, ch'è meglio. - rispondo, ricadendo sul cuscino e chiudendo nuovamente gli occhi.
Dopo poco mi rialzo, e con rinnovata determinazione mi affaccio alla porta della mia cameretta per comunicare a mia madre che mi sono alzata. (altrimenti chi la sente!)
Nella disperata ricerca della seconda scarpa e tra mille sbadigli sono pronta: capelli castani legati in una comoda coda di cavallo, occhi verdi e profondi ridotti a due fessure per l'enorme stanchezza, una maglietta nera a mezze maniche e un jeans mi rappresentano completamente. Mi guardo allo specchio soddisfatta, accennando un sorriso, girandomi prima su un fianco, poi su un altro.
Tutto perfetto.
Dò un ultima spazzolata alla mia criniera castana di capelli e prendo lo zaino buttato lì, in terra. Me lo carico sulla schiena e sorrido guardando fuori dalla finestra. Non riesco a spiegarmi il perché, ma mi sento...felice.
Felice di andare a scuola? Io?
Okay, ho la febbre.
E ancora con quello stupido sorrisetto sulle labbra mi allontano alla porta.
Percorro il lungo corridoio, pestando per benino le piastrelle corvine che mi ritrovo sotto le scarpe. Tutte le stanze hanno le porte spalancate e, guardando dentro di esse, si scorge un gran caos... specialmente nella stanza della mia sorellina.
Passando davanti la cucina rivolgo un sorriso a mia madre e la saluto con un cenno della mano. Lei ricambia, scostando subito lo sguardo da me all'arrosto.
Mi allontano all'uscita. Giro la maniglia, apro la porta... tutto okay. Respiro l'aria fresca e limpida del mattino, che sa di buono e di freschezza. I miei capelli che si muovono liberamente nel vento spesso mi sono d'impaccio sul viso, ma non importa. Guardo il mio orologio da polso che non tolgo dalla prima volta che l'indossai. Le sette e cinquantacinque.
Accidenti a quella stupida sveglia. Ora, come previsto, devo correre, correre, correre più veloce di un fulmine per arrivare il più in fretta possibile. E chi vuole avere un altro battibecco con la preside, pignola in minuti, secondi e micro secondi?
Se non arrivavi precisa e cronometrata entro e non oltre le 8:00:00:00 non potevi entrare in classe e avevi una nota con firma dei genitori... che seccatura!
Minacciosa e puntualissima, con il suo stupido chignon sistemato lì per bene su quella folta chioma di capelli, e quei denti gialli e minacciosi che sembrano a poco dal morderti.
Guardando l'orologio per tutto il tragitto, senza considerare minimamente di andare a sbattere contro qualcosa o qualcuno, corro all'impazzata con il fiatone in gola. Ogni singolo ticchettio preannunciante un nuovo secondo poteva essere fatale.
E intanto si erano fatte le sette e cinquantotto.
Mi fermai di botto per riprendere fiato, appoggiando una mano su un palo della luce per sorreggermi. Sentii qualcosa andare a sbattere contro il mio zaino e provocare un enorme tonfo. Mi voltai tremante: la mia testa sembra arzilla. Ma...

- Oh, scusami! Sono una sciocca! Non dovevo fermarmi così, di botto! - urlo, guardando shockata la scena.

Oddio, che ho fatto?

- Non preoccuparti, capita spesso. Ci sono abituato! - sorrise, dolorante.

- No, tu non stai affatto bene. Vieni qui, avvolgi un braccio sulle mie spalle. Ti accompagno a casa tua. Dov'è...? - lo guardo colpevole come se fosse successa una tragedia. E infatti per me lo è.

- Ma non disturbarti. Stai andando a scuola, no? Farai tardi.
- Uffa! Ti ho detto di non preoccuparti! - e, velocemente, mi feci un riassunto del discorso, rendendomi conto che non gli avevo imposto di non preoccuparsi. Mi corressi: - Ok, non te l'ho detto, ma te lo dico ora. Avanti, su! Ma guarda, sanguini! Come avrei potuto lasciarti lì a sanguinare?

- E va bene, mi lascerò aiutare. - disse, scompigliandosi la chioma di folti capelli neri e sorridendo non solo con la bocca, ma anche con degli stupendi occhi azzurri.
Se i miei lo avessero saputo mi avrebbero uccisa: questo è sicuro. È la prima volta che marino la scuola e mi sento fortemente disorientata... una parte di me mi incita a proseguire, anche se ormai sono le otto e un minuto esatto. Ma un'altra parte di me non lascerebbe mai quel poveretto lì, a faticare per alzarsi.

- Il tuo nome? - mi domanda lui, mentre si appresta a rimettersi in piedi.

- Uhm? - rispondo io, che intanto stavo pensando all'eventuale punizione che i miei mi avrebbero affibiato.

- Il tuo nome. - ripete.

- Ah! Il mio nome è Annamaria, ma lo odio. Puoi chiamarmi Anita. E tu? - rispondo, tremante.

- Ma stai tremando! Dimmi, hai paura di fare un giorno d'assenza?

- Per lo più ho paura di ciò che diranno i miei!

- Oh, suvvia. Non lo sapranno mai.

- Si vede che non conosci la mia preside. - rido, guardandolo in viso.

- Non me ne parlare. La tua età? Io diciotto li compio a Settembre. E tu?

- Io ne ho diciannove! - affermo fiera, alzando l'indice in alto. Ma questo si piega immediatamente. Cosa ho detto? Non ho diciannove anni! Perchè l'ho fatto?

- Mi sento piccolo. - dichiara, tornando ad aprire quella sua larga bocca per piegarla come una parentesi e sorridere nuovamente.

- Ecco, lo sapevo! - sbotto, alzando gli occhi al cielo.

“Lo sapevo che non mi dovevo alzare, stamattina. Non sono solita dare troppa cordialità ad uno sconosciuto, ma...” penso, guardando quella povera creatura che zoppicava, il sangue che veloce scorreva da quella ferita. “Ecco! Ecco che ritornano i sensi di colpa. Ma chi me l'ha fatto fare a me? Sono troppo una buonacciona!” mi rimprovo, inarcando entrambi i sopraccigli.
E quel misterioso ragazzo che aveva deviato la domanda "E tu, come ti chiami?" ride apertamente guardandomi cambiare più volte espressione.

- Sei una forza, Anita. Ma fai sempre così? A che pensavi?

- Almeno riesco a farti sorridere. - devio come aveva fatto lui prima. - Dobbiamo passare le strisce pedonali? - gli chiedo, mentre ci stavamo avvicinando ad una serie di rettangoli bianchi.

- Esatto, e poi andiamo per Via Sicilia. Ah, non vi ho risposto prima, ma mi chiamo Gerimpro.

“Gerimpro? Che razza di nome è?” inarco nuovamente un sopracciglio e volgo di lato le labbra. Ovviamente, da buon osservatore, mi accorgo che ha notato il mio improvviso cambiamento d'espressione.

- Lo so: è stranissimo come nome. Ma a me piace. Se volete abbreviare, chiamatemi Gerin.

- Eh no, eh! O mi dai del voi, o mi dai del tu. E io preferisco il "tu". Comunque pensavo al tuo nome. Mai sentito! - mi ricompongo, mentre attraversavamo un bellissimo viale di alberi freschi che muovevano i loro rami come se volessero salutarci. Destra sinistra, destra sinistra.

- Scusate... ehm, scusami, Anita. - mi mostra la lingua, facendomi l'occhiolino. - Ecco, ora gira a destra! Caspita, siamo andati velocissimi. Il primo portone che vedrai: è lì che abito. Ho le chiavi, non preoccuparti. E poi vivo da solo. Coraggio, su! Puoi lasciarmi ora!

Gerin zoppica un po', ma alla fine, appoggiato con la schiena al muretto, rovistando nella borsa riesce a trovare le famigerate chiavi.

- Eccole, maldette! Apro il portone. Vieni, sali questo gradino. Non vorrei cadere da quest'altezza, altrimenti son guai.

- Dai, Gerin. Non è tanto alto, da qui!

- Sì, ma anche se è basso, non vorrei cadere lo stesso. Sorreggimi, per favore. E scusa.

Reca le mani sulle sbarre d'ottone del portone, e appoggia una guancia sul vetro, roteando le chiavi nella serratura. E finalmente la porta si apre. Lo sorreggo, ci avviamo verso l'ascensore. Premo il bottone rosso ed è qui in un batter d'occhio. La porta si separa in due e si apre, poi si richiude. Uno specchio giace sulla parete posteriore: mi guardo preoccupata, ma scopro di non avere un solo capello fuori posto. Non voglio parergli una scombinata.

- A che bottone schiaccio? - gli chiedo, mentre porta una mano al ginocchio e tocca la ferita. - Non toccartela! Ti farà più male!

Gli stringo forte il polso e lo rilascio. Lui fa cenno con la mano e mostra due dita. Schiaccio al secondo piano, e preoccupata lo guardo soffrire con le lacrime che gli riempiono gli occhi.

- Non piangere! Mi sento colpevole! - lo stringo forte a me: lui ricambia l'abbraccio. I sensi di colpa svaniscono, la porta si apre: gli scocco un bacio sulla fronte e poi, lentamente, ci avviamo all'appartamento.

Gerin inserisce nuovamente le sue enormi chiavi nella fredda serratura: entriamo, e un divano color pesca attira subito la mia attenzione. Lo aiuto ad arrivarvici e lo lascio lì, in cerca degli oggetti che io chiamo "medicanti".
Mi fermo un attimo a riflettere sulla situazione. Sono a casa di uno sconosciuto con uno sconosciuto ed ho marinato la scuola. Oh, che mi sta succedendo? E se mi fa qualcosa? Ho paura, ma è troppo tardi per pensarci. Sono qui l'ho fatto cadere. Io l'ho fatto e io lo riparerò.
Sento suonare il campanello. Un brivido mi assale. Mi precipito alla porta, ma Gerin mi fa segno di nascondermi in un posto ben isolato. E io esito un attimo con un groppo in gola. Sì, ma dove?
Ho trovato! Quel mobile sembra piuttosto capiente: fa al caso mio!
Mi dirigo verso quell'enorme mobile bianco dove nulla vi è riposto tranne qualche posata. Mi sistemo per benino e poi chiudo l'anta, sperando che tutto fili liscio.
Il campanello suona più e più volte. Sento dei rumori di passi: è Gerin che si sta recando ad aprire frettolosamente. Spero solo non si faccia niente cadendo lungo il tragitto.

- Gerì! Gerì! - urla una voce femminile parecchio accentata, che a prima vista... no, a primo udito sembra quella di un'oca.

- Gigì! Che piacere vederti! Come stai? - esclama "Gerì Gerì", chiudendo la porta.

- Oh, bene sai; Francy è guarito! Che gioia! E io, invece, sono al settimo cielo. Oddio, cos'abbiamo lì? Ti preparo subito qualcosa da mangiare! Sarai affamato, povero tesoro! Ma cosa accade?

- Sorvoliamo, Gigì.

Quindi... questa ragazza vuole preparare qualcosa da mangiare a Gerin.
Aspetta... per mangiare sono necessarie le posate! E le posate... Guardo minacciosamente le posate che si trovano a un millimetro dalle mie ginnastiche nuove. E ora? Mi scoprirà!

- Aspetta, non preoccuparti Gigì! Non prepararmi nulla, davvero. Non ho fame!! - esclama il giovane, allarmato.

- Suvvia! Ti farà bene! - dei tacchi si avvicinarono pericolosamente al mobile dove ero rinchiusa, e pensai che Gerin, dopo (se un dopo ci fosse stato) avrebbe dovuto spiegarmi parecchie cosette...

"Gigì" stava per aprire l'anta del mobile, quando Gerin urlò allarmato.

- No! Non sono più lì le posate! Cosa fai? Sono...sono... ehm! Basta, Gigì! Vieni qui e ti permetti di fare gli onori di casa? Io so prepararmi benissimo le cose da solo!

- Non usare questo tono di voce con me! E ora, se permetti, prenderò le posate. Non solo che voglio prepararti qualcosa! Cosa c'è di strano? Mica sono stregate.

Una mano si stava tendendo per tirare la maniglia ed aprire l'anta di quel mobile, e io desiderai tanto di dissolvermi come polvere nell'aria...
  
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