1.
Settembre
2019 – Clearwater
Bell’affare,
essere una Geri. Era costretta a svegliarsi alle cinque del mattino per
occuparsi dei suoi corvi, fare colazione ancora mezzo addormentata per
poi
parcheggiare il didietro sul pick-up del fidanzato di sua cugina per
farsi
scarrozzare fino a scuola.
Non
che farsi vedere in giro con quel Marcantonio di Devereux Saint Clair
non fosse
piacevole; tutte le ragazze della sua età lo guardavano con
la bava alla bocca,
e guardavano lei piene di invidia.
Il
punto era che Dev, oltre quel bel faccino e quel fisico spettacolare,
era un
autentico dittatore sotto molti punti di vista, ivi compresa la scuola.
Vivere
a casa Saint Clair si era rivelato qualcosa di molto simile alla vita
in una
caserma, almeno agli occhi di Liza, abituata com’era ai ritmi
più blandi del life style
di una teen-ager di L.A.
Devereux
era inflessibile in merito all’ordine che doveva regnare in
casa ma, a detta di
Chelsey, ciò non dipendeva dal suo nuovo naso di licantropo,
ma da una sua
consolidata mania “da straccio e
candeggina”, come la chiamava la figlia.
Inoltre,
per quel che riguardava gli studi, era dittatoriale.
Esigeva da loro il massimo impegno e, per ottenerlo, era
disposto a
qualsiasi compromesso.
Iris
si era rivelata identica, in tal senso, e Liza non aveva potuto che
adeguarsi,
trasformando poco alla volta il suo personale caos primordiale in
qualcosa che
incontrasse maggiormente i favori del padrone di casa.
A
ogni buon conto, Liza doveva ammettere che, alla fine, Dev si era
dimostrato
anche un ospite davvero simpatico e gradevole. Si era messo subito a
sua disposizione
per sistemare la stanza che Liza avrebbe occupato, trasformandola nel
modo a
lei più congegnale.
Il
risultato lasciava spesso senza fiato la ragazza, pur se erano ormai
mesi che
dormiva in quella camera. I legni levigati alla perfezione, di una
calda tinta
color ciliegio, ben si erano sposati con gli arredi che lei aveva
portato da casa.
Inoltre, Dev le aveva aggiunto un paio di prese per il computer e per
internet,
così che lei potesse lavorare agevolmente con il PC anche
dalla sua stanza.
Il
fatto che, all’interno della camera da letto, vi fossero uno
stereo di ultima
generazione e un computer dallo schermo gigante, era irrilevante. A
Liza
piaceva un sacco abitare in quel luogo così immerso nel
verde della foresta, e
in una casa che ricordava gli chalet di Aspen che tanto amava.
«Terra
chiama Liza… ci sei?» domandò Devereux,
risvegliandola dal suo sogno a occhi
aperti.
Liza
sbadigliò sonoramente, annuì distratta e,
curiosandosi una mano – dove Muninn
l’aveva becchettata per avergli servito per secondo la
colazione – borbottò
contrariata: «Dovrò scambiare due parole con
Branson, per sapere se i suoi
uccellacci sono così invidiosi l’uno
dell’altro. Muninn mi ha sgridata,
stamattina, e per una cosa davvero assurda!»
Dev
ridacchiò di quel commento all’apparenza senza
senso – se loro fossero stati
una famiglia qualunque, per lo meno – e, rallentando per
avvicinarsi
all’ingresso della scuola, chiosò: «Ho
idea che due maschi, alle prese con una
femmina affascinante e premurosa, saranno sempre
e comunque invidiosi. Anche se sono di specie diverse dalla
tua.»
Liza
lo ringraziò per il complimento, stampandosi in viso un
dolce sorriso tutto
fossette e Devereux, tra sé, si chiese cosa sarebbe successo
quando, un domani,
la ragazza avesse messo gli occhi su qualcuno.
Avrebbe
dovuto chiamare Richard, o se ne sarebbe dovuto occupare lui? Di
sicuro, con
due occhietti grigi così vispi, un visino dolce come il suo
e due labbra a
cuore del color delle ciliege, Liza avrebbe sempre attirato su di
sé parecchi
sguardi.
Certo,
sarebbero bastati due minuti scarsi di conversazione, per ricredersi
sul suo
apparente stato di bellezza delicata e senza nervo. Liza poteva
frantumarti le
ossa anche solo parlando… figurarsi se avesse messo in campo
ciò che sapeva di
arti marziali miste.
Da
quel che Rock gli aveva detto, se lui non fosse stato un licantropo,
avrebbe
collezionato diversi lividi, a causa della bravura di Liza
nell’imparare quelle
tecniche di difesa.
La
ragazza appariva come un pacchetto regalo finemente confezionato ma, al
suo
interno, non era detto che una persona interessata avrebbe trovato
quanto
immaginato. Liza era fuoco e fiamma, non era solo un bel visino di
porcellana.
«Sarà
anche vero, ma dovrò spiegarmi. Non voglio perdere
un’unghia, una di queste
volte, e solo perché uno dei due si sente sminuito»
brontolò la ragazza, succhiandosi il dito arrossato dalla
beccata.
Chelsey
assentì comprensiva, dal sedile posteriore del pick-up,
replicando: «Se vuoi,
farò loro un discorsetto da lupa a corvo. Sono sicura che
capiranno.»
Le
due ghignarono complici subito dopo, e Dev lanciò una
preghiera mentale per i
due poveri corvi. Avrebbero avuto male alle orecchie per giorni, dopo
la
ramanzina di Chelsey.
Arrestato
il pick-up nei pressi del parcheggio della scuola, Dev spense il motore
dell’auto e, immancabile, lo sguardo corse alla piccola Smart
ForTwo di Iris,
parcheggiata nell’area riservata agli insegnanti. Un mezzo
sorriso gli si
dipinse spontaneo sul volto, mentre Chelsey e Liza sghignazzavano
impunemente
di fronte a quell’occhiata piena di desiderio malcelato.
Essendo
un’insegnante della Secondary High School di Clearwater, dove
anche Liza
avrebbe iniziato a studiare da quel giorno - ripetendo il primo anno di
liceo -
Iris aveva preferito non metterla in imbarazzo accompagnandola a scuola.
Sarebbe
già stato ironico incontrarsi lungo i corridoi o a lezione
di musica; giungere
nel parcheggio assieme a lei, avrebbe messo inutilmente altra carne al
fuoco.
Il
problema di fondo, per Liza, era però solo uno; essere
sbattuta giù dal letto
le dava assai noia. Per lei, la scuola avrebbe dovuto iniziare dopo le
due del
pomeriggio. Punto. A tutto il resto, poteva soprassedere.
«Allora,
ricordate tutt’e due. Nonna Betty vi aspetta in negozio, e
lì passerà poi a
prendervi Iris verso le cinque e mezza» sottolineò
per la decima volta
Devereux, fissando sia Chelsey che Liza come se avesse avuto a che fare
con due
criceti.
Sospirando,
Liza fece un cenno esasperato a Chelsey perché scendesse e,
dopo averlo fatto, si
accostò al finestrino aperto di Dev, guardò
l’uomo con aria di sufficienza e
disse: «Sono sopravvissuta a L.A., Devereux. Possiamo farcela
ad arrivare
illese alla porta della scuola. Dista circa… quaranta metri,
no?»
«Sei
sotto la mia tutela, ragazzina, finché starai a casa mia,
perciò ti stresserò per
tutto il tempo che riterrò necessario, credimi»
sottolineò per contro l’uomo,
ghignando furbo. «E lo
farò, posso
assicurartelo.»
«Oh,
non avevo dubbi in merito, davvero» ribatté Liza,
levando ironica le
sopracciglia. «Ma dammi retta, non c’è
bisogno di tutte queste raccomandazioni.
Ho già chi ci sorveglia.»
Ciò
detto, indicò verso il cielo e Devereux, seguendo la
traiettoria del suo dito,
storse il naso e borbottò: «Quegli uccellacci sono
peggio di una zecca
attaccata al…»
Scoppiando
a ridere, Liza si allontanò dalla portiera prima di poter
sentire il termine di
quell’elegante affermazione e, nel passare dinanzi al pick-up
mano nella mano
con Chelsey, salutò ironica Dev e infine si diresse verso la
scuola.
Tutta
ridente, Chelsey disse: «Papà non lo
ammetterà mai ma si diverte un mondo,
quando lo punzecchi così.»
«Uomini
come lui non ti diranno mai che ti vogliono bene. Ma in qualche modo te
lo faranno
sempre capire» chiosò lei, scrollando le spalle.
«A
me, papà lo diceva» borbottò Chelsey,
prima di aggiungere: «Ora, però, molto
meno. Ma mi piace anche questo nuovo sistema, perché
come… beh, come papà è
molto affettuoso.»
Mordendosi
la lingua per mascherare la gaffe a malapena evitata, Chelsey
salutò poi Liza
per dirigersi verso le classi inferiori, dove lei avrebbe iniziato il
nuovo
anno.
Non
doveva essere facile, per una ragazzina ciarliera come Chelsey,
limitarsi nel
parlare per non ammettere con tutti la sua doppia natura, ma lei ci
stava
riuscendo alla grande.
Liza
era ammirata dal suo coraggio e dalla sua forza d’animo
– in fondo, quando si
era trasformata per la prima volta, nessun’altra ragazzina
della sua età era
stata come lei – e, in cuor suo, fu lieta che ora non fosse
più sola.
Lo
smantellamento del branco di Logan e Julia per merito
dell’intervento di Lucas
, Dev e Iris, aveva lasciato orfane diverse famiglie, così
come molti lupi
solitari. Tra loro, Darren – fratello di Logan – si
era prodigato più di tutti
perché questo vuoto di potere non portasse a conseguenze
tragighe.
Scoprire
di essere stati soggiogati per anni dalla Voce del Comando di Logan,
aveva
portato i licantropi dell’ormai deposto branco a chiederne la
morte, e così era
infatti avvenuto. Questo, però, li aveva anche resi insicuri
e privi di una
guida.
Darren,
quindi, aveva chiesto aiuto a Lucas, che si era dichiarato disposto ad
accogliere a Clearwater chiunque lo avesse desiderato.
L’arrivo
di queste nuove famiglie di licantropi, aveva quindi consentito a
Chelsey di
conoscere tre nuovi ragazzi suoi coetanei; due femmine e un maschio.
Non era
molto, forse, ma era stata un’autentica fortuna, per la
ragazza, non essere più
sola in quel mondo popolato in gran parte da adulti dotati di pelo e
zanne.
Concedendosi
un ultimo sorriso all’indirizzo di Chelsey, Liza
sbirciò il suo foglietto con
gli orari per la settimana e, di buona lena, raggiunse il piano
superiore dello
stabile, dove cercò l’aula di Storia e, con essa,
la sua nuova classe.
Controllando
uno a uno i cartelli appuntati al muro, la ragazza andò
quasi a sbattere contro
un giovane incappucciato e dalla schiena incurvata. A Liza diede
l’idea di una
persona tesa e preoccupata, non necessariamente debole, ma pronta a
subire un’aggressione
da un momento all’altro.
La
sua reazione, per lo meno, glielo fece credere perché, non
appena la sua ombra
sfiorò quella del ragazzo, questi sobbalzò e la
squadrò, irritato e guardingo,
con i suoi immensi occhi di smeraldo.
Preferendo
non prenderla sul personale – era chiaro che quel ragazzo era
reduce da frequenti
atti di bullismo, per avere timore anche di un’ombra
– lasciò perdere e si
stampò in faccia un sorriso.
Scusandosi
con un risolino, Liza sollevò il cartellino con gli orari e
chiosò: «Scusa,
sono nuova di qui. Stavo cercando l’aula di Storia e, per
poco, non facevo
diventare entrambi storia antica, avanzando a testa bassa come stavo
facendo.»
Il
ragazzo, allora, accennò un sorrisino timido e, forse
tranquillizzato dal fatto
che lei fosse solo una ragazza, mostrò il proprio, di
cartellino, mormorando:
«Siamo in due, allora.»
Ringalluzzita
da quella novità, Liza avanzò di un passo verso
di lui per controllarne gli
orari; lei era si sentiva a proprio agio con tutti, anche con un
perfetto
sconosciuto, perciò la vicinanza con gli altri non le era
mai pesata.
Il
ragazzo la lasciò fare, in parte sorpreso da tanta
intraprendenza, in parte
colpito da quella ragazza dai chiari occhi color del ghiaccio e dalla
folta
chioma castana, che sembrava così padrona di sé
nonostante fosse, al pari suo,
un nuovo studente.
«Oh,
abbiamo quasi tutte le materie insieme… possiamo perderci in
coppia, allora»
rise divertita Liza, allungandogli poi una mano con fare
intraprendente. «Io
sono Liza Wallace, tanto piacere.»
«Ah…
Mark Sullivan. Piacere mio» balbettò lui,
accettando la sua stretta, che trovò
forte e sicura. Trattandosi di una ragazza, aveva preferito non essere
incisivo,
nello stringere, per timore di farle male ma, quando avvertì
la sua forza, poté
rispondere in modo più sincero a quel saluto.
«Hai
parenti Nativi in zona, per caso? O degli amici? Te lo chiedo
perché volevo
cominciare Storia Tribale, visto che è nel programma di
studi. Io conosco una
donna che fa parte di una tribù di Piedi Neri e so che
molti, nell’Alberta e
nella Columbia Britannica, hanno parenti di quella
tribù» si informò a quel
punto Liza.
Mark
sbatté le palpebre per la sorpresa, ben poco abituato a
persone così ciarliere
e, ancor meno, a ragazze
così
ciarliere e dirette e che lo trattavano con educazione. Nei suoi molti
viaggi
in giro per gli States e per il Canada, lui era sempre stato il forestiero, quello da tenere in
disparte, il pel di carota raccomandato
e nerd. Quello da prendere di mira per scherzi e battute idiote.
Da
quando suo padre, il professor Donovan Sullivan, si era imposto di
scoprire le
reali cause della morte del fratello e della sua famiglia, la vita di
Mark era
drammaticamente cambiata.
Erano
ormai dieci anni che lui, suo padre e la sua matrigna vagavano da un
angolo
all’altro del Nord America, seguendo chimere ogni volta
diverse e tentando –
sempre invano – di scoprire chi avesse annientato Derek
Sullivan, sua moglie e
sua figlia in modo tanto terribile.
A
nulla erano valsi gli sforzi della polizia di fargli comprendere che si
era
trattato di un triste, drammatico atto di omicidio-suicidio. Suo padre
non
aveva mai accettato che il fratello avesse trucidato la famiglia per
poi
spararsi un colpo in testa.
Lasciando
perdere la sua carriera alla Columbia, si era messo quindi in viaggio
con il
piccolo Mark e la sua prima moglie, Adele, mandando all’aria
tutto, in primis il suo matrimonio.
Mark
aveva seguito questo infinito e obbligatorio pellegrinaggio con sempre
minore
convincimento, arrivando addirittura a minacciare i genitori di
abbandonarli per
raggiungere i nonni paterni ad Atlanta.
Il
padre, però, si era strenuamente rifiutato di accontentarlo
e, complice la sua
minore età e il rispetto che, comunque, Mark continuava a
portare per il padre,
il ragazzo aveva ingoiato il rospo e aveva ceduto ogni volta.
All’ennesima
trasferta in una nuova città, Adele aveva pensato bene di
usare il vecchio
sistema del ‘scendo a prendere un
pacchetto di sigarette’. Peccato che la donna non
avesse mai fumato.
Semplicemente,
un giorno non era più tornata a casa, lasciando il figlio ad
attenderla invano
dinanzi all’entrata della scuola. Quando il padre se
n’era accorto, era andato
su tutte le furio, ma non si era stupito di ricevere, due settimane
dopo, le
carte per il divorzio.
Quella
era stata la prima, vera tempesta affrontata in famiglia,
dacché erano partiti
da New York, ma non era certo stata l’unica, né
l’ultima.
Ve
n’erano state diverse – come la richiesta di Adele
di rivedere Mark perché
conoscesse i suoi nuovi fratellastri – ma, alla fine, Mark vi
aveva fatto il
callo.
Certi
tipi di tempeste, però, non erano facili da tenere a bada
con le sole parole, o
una pazienza infinita, e Mark aveva il sentore che Liza Wallace fosse
quel
genere di tempesta. Una tempesta, tra l’altro, niente affatto
sgradevole, per
una volta.
«No,
mi spiace. Niente parenti in zona. Vengo da New York»
mormorò spiacente Mark,
facendo spallucce.
Liza
sgranò lentamente gli occhi, a quella notizia e, con un
fischio modulato,
esalò: «Miseria ladra. Sei ancor più
lontano da casa rispetto a me!»
Levando
un sopracciglio con evidente sorpresa, Mark le domandò:
«Perché? Da dove
vieni?»
Lo
squillo della prima campanella fece rabbrividire Liza che, afferrato il
polso
di Mark, lo trascinò con sé lungo il corridoio e
disse: «Te lo spiegherò dopo.
Adesso è vitale che troviamo l’aula, o faremo la
classica figura degli idioti!»
Mark
la lasciò fare – sempre più sorpreso
dall’intraprendenza di quella ragazza – e,
assieme a Liza, cercò la fantomatica aula di Storia,
trovandola ovviamente alla
fine del loro lungo peregrinare per i corridoi.
Catapultandosi
dentro praticamente come una carica di cavalleria, attirarono
inevitabilmente
l’attenzione, ma Liza non vi badò affatto. Avendo
passato l’intera primavera ed
estate a Clearwater, la ragazza conosceva bene o male quasi tutti i
giovani
della zona. Non trovò quindi strano incrociare qualche
faccia conosciuta in
quel mare di volti sorpresi e, levata una mano a mo’ di
saluto, esclamò: «Ehi,
ciao a tutti!»
«Ciao,
California!» ciangottarono in coro due ragazze dalle chiome
corvine, mentre una
terza – biondo platino e dai chiari occhi azzurro
lapislazzulo – le strizzò
l’occhio con complicità.
Trascinandosi
ancora dietro Mark – rimasto in religioso silenzio e e con lo
sguardo ben
piantato verso terra –, Liza si avvicinò a un paio
di banchi ancora liberi, vi
gettò sopra la propria sacca ed esalò sgomenta:
«Stavamo per perderci… e dire
che questa scuola è molto più piccola di quella
che frequentavo prima!»
«Stavamo?»
ripeté la ragazza corvina più
alta, indirizzando uno sguardo curioso al nuovo arrivato, che teneva
ancora
caparbiamente il cappuccio della felpa ben calato sul capo.
«Hai appena
cominciato e già fai conquiste, California? Io sono Marianne
Colby, comunque… e
tu?»
«Mark
Sullivan» replicò telegrafico il ragazzo, lo
sguardo fisso sul banco.
«Ci
pensi? Arriva da New York!» esclamò eccitata Liza,
attirando così l’attenzione
dei presenti.
Mark
la fissò a metà tra l’esasperato e
l’imbarazzato ma, grazie a Liza, nel breve
decorrere di un minuto, - e per la prima volta in vita sua -
passò dall’essere
il ‘ragazzo tappezzeria’
all’ ‘autentico interesse
della scuola’.
L’arrivo
dell’insegnante di Storia interruppe il terzo grado della
classe e, quasi con
gratitudine, Mark si sedette al suo posto, aprendo il suo nuovo libro,
con il
suo nuovo quaderno e il suo nuovo astuccio.
Non
avevano portato nulla, con loro, da quando erano partiti da New York
dieci anni
addietro, a parte una cosa, e di quella avrebbe ben volentieri fatto a
meno.
L’ostinazione di suo padre, in effetti, avrebbe ben
volentieri voluto gettarla
nel primo lago disponibile, ma ovviamente non poteva.
Quando,
però, si rese conto di chi fosse il suo insegnante, si disse
che dopotutto
avrebbe fatto volentieri a meno anche di qualcos’altro.
«Buongiorno
a tutti, ragazzi. Io sono il vostro nuovo insegnante di
Storia…» esordì un uomo
alto, robusto e dalla folta e ordinata barba rosso scuro.
«…sono Donovan
Sullivan, e non vedo l’ora di cominciare questo nuovo anno
assieme a voi.»
Come
un’onda di piena, gli studenti della classe si volsero in
direzione di Mark e
lui, tra un’imprecazione sibilata tra i denti e molte di
più urlate mentalmente,
calò maggiormente il cappuccio sul viso e pregò
di sparire.
***
Di
comune accordo – o meglio, prendendo l’iniziativa e
lasciando ben poche
possibilità di replica a Mark – Liza e Chelsey
decisero di accompagnare a casa
il loro nuovo amico.
A
Mark non restò altro che appaiarsi alle ragazze, non avendo
trovato nulla di
abbastanza valido per scantonare l’autoinvito delle sue due
nuove conoscenze.
Con tutta probabilità, già dal giorno seguente i
ragazzi della classe lo
avrebbero preso debitamente in giro, ma in fondo a Mark poco importava.
Se
si fosse trovato lì a Clearwater per restarci, si sarebbe
anche preoccupato un
poco ma, per come si era sempre comportato il padre in quegli ultimi
dieci
anni, dubitava che sarebbe rimasto tanto a lungo da doversi agitare per
qualche
chiacchiera.
La
sua vita era una continua giostra tra una città e
l’altra, tra una ricerca e
l’altra e, quando l’argomento era saltato fuori,
quella mattina, lui aveva
nicchiato di fronte a qualsiasi tentativo di trovare dei lati positivi
in una
simile esistenza.
Naturalmente,
Liza Wallace era stata colei che più di tutti si era opposta
al suo modo di
vedere chiuso e limitato, ma lui l’aveva lasciata dire senza
replicare. In
fondo, si era anche divertito a sentire le sue lagnanze in merito al
suo poco
interesse provato per i tanti viaggi da lui intrapresi.
E,
naturalmente, se avesse conosciuto
bene Liza, avrebbe dovuto capire che un simile argomento, lasciato
senza un
potenziale finale, non avrebbe mai potuto essere accantonato dalla
ragazza.
Da
questo, in buona parte, era giunto l’autoinvito di Liza ad
accompagnarlo a
casa, a cui si era unita anche la piccola Chelsey.
Camminando
appaiati lungo il marciapiede di Park Drive, in direzione
dell’Old Caboose Pub
e del vicino negozio per parrucchieri di proprietà della
nonna di Chelsey, Liza
chiosò cocciuta: «Secondo me sbagli. Lamentarsi
perché i nostri compagni di
classe trovano interessante la tua storia, mi sembra assurdo. La tua
vita è stata interessante,
almeno fino a qui.»
Sospirando
per la centesima volta, Mark la guardò si soppiatto da sotto
il cappuccio della
felpa, chiedendosi se dovesse davvero
tornare sull’argomento o se fosse meglio farlo morire per
mancanza di spunti
ulteriori.
Durante
quella prima mattina a scuola, così piena di interrogatori e
domande sibilline,
Liza si era districata alla grande tra le mille e più
domande dei loro nuovi
compagni di classe. Con una calma olimpica e una marea di frasi
spigliate,
aveva spiegato a tutti della sua parentela con Iris Walsh, la nuova
insegnante
di Musica.
A
ciò aveva fatto seguire un monologo senza sosta sulla sua
precedente vita a
L.A., condita da commenti, buffi anedotti ed espressioni facciali
più eloquenti
di un’intera enciclopedia.
Mark
non ne sarebbe mai stato in grado.
Le
poche volte in cui la discussione era invece gravitata su di lui, Liza
aveva
saputo trarlo d’impaccio con classe, bacchettando verbalmente
i più maliziosi e
dando peso solo al lato più avventuroso dei viaggi compiuti
da Mark.
A
suo modo di vedere, però, lui trovava difficile definire
interessante la propria
vita, passata a fare e disfare bagagli di anno in anno, cambiando
sempre
destinazione e sempre compagnie. Trovava piuttosto che vivere la
propria vita
in un unico luogo fosse di gran lunga preferibile.
In
uno dei rari momenti in cui aveva potuto parlare con Liza senza essere
interrotto, Mark aveva fatto notare a Liza quanto, dal suo punto di
vista, la
vita vissuta a L.A. dalla ragazza fosse stata invidiabile.
Lei,
però, era sembrata del tutto indifferente al suo passato
losangelino,
trovandolo addirittura una perdita di tempo e preferendo di gran lunga
parlare
del suo primo approccio con Clearwater.
«Credo
che, alla fine, sia interessante ciò che non si è
mai sperimentato, ti pare?»
replicò a quel punto lui, facendo spallucce e dandole
finalmente corda.
La
ragazza parve soppesare il suo dire e, dopo qualche istante,
assentì con
vigore. «Verissimo. Anche se credo che aver visitato tanti
posti, e tutti così
diversi, sia più stimolante che aver vissuto nella stessa
via per sedici anni
di fila, finendo con il massacrarsi tutti gli anni, negli stessi
negozi, durante
il Black Friday. Almeno, tu avrai potuto viverlo in ambienti sempre
differenti,
calpestando sempre persone diverse.»
Chelsey
rise sguaiata di quel commento, al pari di Liza che si
asciugò gaie lacrime
d’ilarità, e Mark non poté che fare
altrettanto, seppur in modo più garbato.
Senza
alcuna fatica, comunque, si immaginò la grintosa Liza
Wallace alle prese con i
saldi di fine stagione e con le sue già perdenti –
pur se agguerrite –
avversarie. Aveva la vaga idea che avrebbe davvero
potuto calpestare con foga qualcuno, pur di ottenere ciò che
voleva.
Raggiunto
che ebbero lo svincolo con Murtle Crescent, Mark si fermò e,
indicando la modesta
casa di legno bianco in fondo alla via, disse: «Io abito
lì. Ci si rivede a
scuola, allora.»
«A
presto!» esclamarono in coro le due ragazze, tornando poi ad
avviarsi lungo la
via per raggiungere l’atelier di Betty.
Non
appena furono a distanza di sicurezza, Chesley lanciò
un’occhiata all’amica e
chiosò: «Ha un buon profumo.»
«In
che senso, scusa?» domandò la giovane, fissando la
dodicenne con aperta curiosità.
«Sa
di maschio pulito e sano. Non è un fanatico degli aromi
artificiali, e il mio
naso apprezza molto» le spiegò la lupetta, facendo
spallucce. «Inoltre, sa di buono
nel senso più puro del termine. Mi
sembra un bravo ragazzo.»
«Beh,
immagino sia un buon metro di giudizio, per determinare la buona
volontà di una
persona» sbatté le palpebre Liza prima di
scoppiare a ridere con l’amica.
«Lo
trovo anche molto carino, se proprio vuoi vederla in un altro
modo» celiò
Chelsey, prendendo sottobraccio l’amica mentre, insieme,
balzellavano
all’unisono lungo il marciapiede.
«Anche
questo è un buon metro di giudizio»
annuì Liza, trovandosi d’accordo. I suoi
occhi verdissimi ben si sposavano con la carnagione chiara, le efelidi
sul volto
elegante e i capelli rosso carminio. Quel che la disturbava, in
realtà, era la
sua espressione perennemente corrucciata e triste.
Le
spiaceva che il peregrinare suo e della sua famiglia lo avesse reso
infelice e,
peggio ancora, potesse aver reso tesi i suoi rapporti col padre. Da
come si
erano comportati in classe, le era parso di vedere due estranei a
confronto, e
non padre e figlio.
Lei,
al contrario, aveva battuto il cinque con Iris a fine lezione,
dichiarandosi
più che felice di prendere lezioni dalla cugina.
Sembra
un giovanotto guardingo, a
giudicare dalla camminata.
Sobbalzando,
Liza lanciò un’occhiata verso l’alto e,
dopo aver inquadrato la figura di un corvo
a diverse decine di metri sopra di lei, borbottò: “Ci stavi spiando?”
Niente
affatto, Geri, ma è mio compito controllare che non
ti
succeda niente, e a questo mi attengo.
“Sei
un cucciolo, Muninn. Cosa pensi di
fare, anche quanto?”
Sarò
anche un corvo giovane, ma il
potere conferitomi da Madre mi da qualche vantaggio in più,
rispetto ai miei
simili, replicò
con sussiego Muninn, facendola sorridere per diretta conseguenza.
“Le
mie più sentite scuse, allora…
comunque, Mark mi sembra un tipo a posto, e Chelsey mi fa degna
guardia.”
Hai con
te le tue armi?
“Sempre.”
Le
piacesse o meno quella parte del suo ruolo, Liza aveva deciso di
prendere molto
seriamente il suo impegno come Geri e, ogni volta che usciva da casa,
aveva con
sé almeno uno dei suoi giocattolini in argento.
Che
fosse un piccolo stiletto, o una più efficace cerbottana dai
dardi avvelenati
con ioduro d’argento, non usciva mai di casa disarmata. Le
pistole nichelate
che Branson le aveva regalato erano, invece, per le missioni ufficiali
e, per
quanto segretamente le piacessero, Liza pregava sempre che non
dovessero mai
uscire dalle loro fondine di pelle bianca.
Non
voleva fare del male a nessuno ma, se Lucas l’avesse mandata
in missione,
avrebbe messo tutto il suo impegno per non deluderlo. Sentiva di essere
nel
posto giusto, e con le persone giuste, e non si sarebbe di certo
risparmiata,
pur di adempiere al
suo ruolo.
Lei
era Geri del branco di Lucas. Non avrebbe mai dovuto dimenticarlo.
N.d.A.: facciamo la conoscenza di Mark, il nuovo arrivo nella classe di Liza, e scopriamo che suo padre sarà il nuovo insegnante di Storia per entrambi. Per ora sembra tutto normale, ma durerà? (Torno a sottolineare che la storia è un Crossover con la Saga dei Fomoriani, così che siate preparati per il futuro)