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Autore: Chamelion_    17/08/2009    4 recensioni
Storia di una ragazzina che divenne adulta senza crescere mai.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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NOTE [pignole] DELL'AUTRICE [perfezionista]

Interpretare liberamente i personaggi narrativi sarebbe un diritto del lettore, ma una delle cose su cui sono fissata è la pronuncia dei nomi, e nel presente caso specifico quello della protagonista è veramente orrendo, se pronunciato come è scritto. Perciò avverto che va pronunciato all'Inglese: Lìsia.
Sempre parlando del suo nome, il primo che indovina "il trucco" vince.
Chiedo al lettore pazienza per questa mia precisazione puntigliosa e gli auguro una buona lettura.






play "Oxygen"




Licea era seduta con leggerezza sulla battigia e giocherellava con la sabbia con apparente noncuranza delle onde del mare alle sue spalle, così come del cielo nebuloso che la sovrastava. Con le mani aperte s’insinuava sotto i granelli chiari, scuri, bluastri, e osservava quei rivoli azzurrognoli disegnare scheletri e schizzi sui suoi palmi, ascoltandone il suono grezzo, come di sottili fili di stoffa, mentre scivolavano.

Sotto i passi in avvicinamento di Collin, i sassolini sfrigolavano, parevano bollicine frizzanti che scoppiettavano sotto le orecchie di Licea. Finse di non accorgersene e attese che lui si fermasse dietro di lei, per poi chinarsi, stringerla in un abbraccio e schioccarle tre baci consecutivi su una tempia. Lo sentì sorridere e spontaneamente allungò una mano per accarezzargli la nuca.

Qualcuno – ne sentì il rumore – immortalò la loro immagine: lei seduta, lui inginocchiatole dietro; allacciati stretti, in una polaroid destinata a fare da soprammobile accanto alla collezione di conchiglie del fotografo.

Soffiandole una risata, che altra ragion d’essere non aveva se non di essere un’espressione di spensierata felicità, Collin le si strinse ancora di più, mentre il vento grigio le spazzava i capelli sfibrati fin dentro la bocca sorridente.

Talvolta Licea si domandava che profumo avesse; il più delle volte si rispondeva che il proprio odore dovesse somigliare a quello delle creme per neonati, anche se meno stucchevole. Chissà che cosa glielo suggeriva, poi. Forse la pienezza delle sue labbra perfettamente rosee e la morbidezza della pelle fragilissima delle sue guance? Forse le ciglia leggere e svolazzanti? Le cose ovvie, insomma?

I palmi di Collin si posarono sul dorso delle mani di lei e le loro dita si intrecciarono così. Gli occhi di lei, inspiegabilmente, guizzarono altrove, catturati dalla vista di una piccola cavità tra i sassolini in cui si era timidamente annidata un po’ d’acqua, naufragata dopo il passaggio di un’onda tanto temeraria da spingersi fin lì. Acqua tutt’altro che tranquilla ospitava quella pozza, dall’aspetto pesante e opaco. La superficie sussultò e Licea, catturata da quel movimento, divorò la distanza che la separava dalla cavità piena per osservarla più da vicino.

Collin parve non accorgersi che lei fosse sgusciata via carponi, e continuò ignaro ad abbracciare la propria ombra; il suo sorriso era ancora più felice.

Licea nel frattempo si era accovacciata sul bordo della piccola pozza e aveva avvicinato il viso alla superficie liquida, che ora vibrava in agitazione. Affamata di curiosità, si accostò ulteriormente mentre i capelli già sfioravano i movimenti nevrotici dell’acqua, finché col naso non toccò la superficie. A quel punto, con il rumore di un tappo che venga rimosso dal fondo di una vasca da bagno, venne risucchiata.

Tre lunghe e nauseanti sorsate dopo, aveva l’acqua di mare ovunque: cercò di scrollarsene via un po’ di dosso, e quando finalmente ci riuscì, la vide raccogliersi e formare un soffitto cangiante, guardando attraverso il quale, sforzandosi, riusciva quasi a scorgere la sagoma di Collin, ancora intento ad abbracciare il nulla.

Licea si trovava ora in una grande grotta che odorava di salsedine e di carcasse di pesce, rischiarata dalle luci cupe filtrate dal soffitto d’acqua; stava già indugiando sul paradosso che quella pozza, così piccola vista da fuori, fosse all’interno così spaziosa, quando un rumore furtivo la scosse.

Voltandosi individuò senza difficoltà che cosa lo aveva provocato: un enorme topo bianco con il pelo ispido e irregolare e di costituzione rachitica, due buchi incredibilmente vuoti al posto degli occhi e i denti grigi, spezzati. La bestia stava in un angolo della grotta e non dava segno di accorgersi di Licea, che lo osservò perplessa mentre cominciava a correre. L’andatura storta lo portava sempre più lontano dalla ragazza, lungo un corridoio che partiva dalla grotta e che pareva non avere fine: il topo lo imboccò e Licea stette ferma a guardarlo mentre veniva inghiottito dal buio. Quando l’eco ormai distante delle sue zampe che correvano si affievolì fino a sparire, tornò il silenzio.

Licea, non sapendo bene che fare, decise di ammazzare il tempo lanciando sassolini che trovava all’interno della grotta contro il soffitto d’acqua, che, disturbato, si agitava leggermente per poi ricomporsi con un borbottio. Ma poi, inaspettatamente, sentì di nuovo il rumore di zampe in movimento, questa volta prima da lontano e poi più distintamente. Non fece in tempo a realizzare che il ratto canuto stesse tornando, che voltandosi lo vide già davanti a sé, con gli occhi vacui fissi su di lei.

«Be’?» proferì la sua voce ruvida e gutturale, in quello che pareva un tono stupito e insieme di rimprovero. «Che fai lì impalata?»

Licea distese le labbra in un’espressione più stupita di quella del topo, e non seppe che cosa rispondere.

«Non dovresti rincorrermi?» fu la seconda domanda della bestia.

Licea ci capì ancor meno di prima, ma non voleva essere maleducata, quindi disse: «Prego?»

Il topo inclinò il muso di lato, come se cercasse di indovinare la ragione di chissà quale fatto inspiegabile. Stette in silenzio per molti secondi, poi, con la voce a metà tra l’incredulità e il sarcasmo, le scoccò: «Sennò perché diavolo saresti entrata qui dentro?»

Licea ci pensò su, perché per qualche strana ragione sentiva che la risposta che le sovveniva spontaneamente non bastasse. Non riuscendo però a pensare ad altro, decise di dare l’unica che avesse: «L’acqua della pozza si muoveva…»

Si sentì subito a disagio e in imbarazzo, perché il topo la guardò ancora più incredulo; evidentemente, non la considerava una motivazione sufficiente.

Le due bestioline si squadrarono a lungo in silenzio, ognuna cercando di capire l’altra, senza successo. Il topo cominciò a respirare nervosamente, accigliandosi, e infine esclamò, con un tono che rasentava la frustrazione: «Ma com’è possibile che tu non abbia voglia di rincorrermi? Non sei… curiosa di sapere dove sto andando? Che cosa ci sia…» si volse indicandole il lungo corridoio cieco «…alla fine di questa strada?»

Restò in attesa di una risposta che non arrivò: Licea era confusa, basita, incapace di spiegarsi la situazione. Senza alcuna logica, ma presa dalla disperazione di capire, si guardò intorno, come se una delle pareti della grotta potesse suggerirle la risposta giusta; ma niente, nient’altro che rocce la circondavano.

La voce secca, ansiosa del topo richiamò la sua concentrazione. «Hai idea di ciò che ti perderesti a non seguirmi? Un paese di meraviglie, dico sul serio!». E riprese a correre, quasi senza accorgersene, freneticamente su e giù per la grotta, inciampando nelle sue stesse zampe, senza però mai imboccare il corridoio buio. Mentre scorrazzava, il ticchettio delle sue zampette scattanti sembrava incrementare la sua frenesia.

«Tutto ciò che impareresti!» ripeteva correndo. «A ballare; a cantare; a fumare; a giocare a carte e a croquet: a vincere, e a perdere. Ed è tutto laggiù, oltre quel corridoio. Conosceresti individui straordinari, mangeresti e berresti in loro compagnia e ascolteresti le loro storie; loro potrebbero insegnarti tante cose importanti, come a guardare le cose grandi con occhi piccoli, e le cose piccole con occhi grandi. Con il loro aiuto sapresti ritrovare il sole ed i prati verdi anche nel momento in cui le piogge dovessero prevalere…»

«Ma perché non mi mostri tutte queste cose?» lo interruppe Licea.

Il topo si fermò all’istante.

Il silenzio improvviso che colmò la grotta fu talmente pesante e tombale che Licea ebbe all’istante voglia di scappare, come un bambino che sia stato colto sul fatto e fare qualcosa di sbagliato. Quando il topo girò il muso deformato da una smorfia incredula verso di lei, si sentì in obbligo di fornire altre spiegazioni.

«Voglio dire: che bisogno c’è che ti rincorra? Mi… piacerebbe molto vedere tutte queste cose, ma perché per farlo devo correrti dietro?»

Il topo fremette, shockato.

Con voce sempre più debole, e sempre meno convinta, Licea aggiunse: «Non puoi semplicemente condurmi in questo bel posto?»

Qualcosa parve cambiare nelle cavità che erano gli occhi dell’animale: assunsero il colore – e l’aspetto – del legno, e l’espressione si fece sprezzante. Quando parlò, lo fece con voce cupa, rantolante.

«Sudicia feccia» disse il ratto. «Credi di poter vedere le meraviglie senza doverle cercare, rincorrere?»

Licea continuò a non capire: vedendola tacere, il topo di adirò ancora di più.

«Come pensi che si arrivi da questa grotta al prato verde che ti attende al termine di questo corridoio buio, se non attraversandolo di corsa, affannosamente, inevitabilmente inciampando qualche volta, e magari patendo anche un paio di intossicazioni alimentari per aver mangiato i funghi sbagliati? Come credi di imparare a distinguere i funghi commestibili, se non avvelenandoti con quelli non commestibili?»

Licea perse la concentrazione quando cercò di capire che cosa c’entrassero i funghi con quel discorso, ma il topo continuò imperterrito a sputarle addosso parole furenti e striscianti, in un tono di voce che andava via via aumentando di volume.

«Vorresti affondare i denti in quello che stai cercando senza dover sudare per arrivarci? Vorresti essere condotta per questo corridoio buio come se stessi piacevolmente passeggiando, magari intrattenendo un’amabile conversazione? Vuoi che sia io a servirti su un piatto d’argento le meraviglie, senza doverti scomodare?»

Il respiro irregolare e affaticato del topo spaventò la ragazza, che pensò con ansia a che cosa rispondere. Intuiva che la risposta che il topo si aspettava fosse un “no”, e benché dentro di sé sentisse spontaneamente un “sì”, balbettò: «…N-no… Ma no, certo che…»

Ma il topo non se la bevve, ed anzi: fu come se l’ipocrisia delle parole di Licea avesse confermato le sue intuizioni.

«Allora, parassita,» soffiò sdegnoso. «Non vai da nessuna parte. Illusa

Senza oltre indugiare le voltò le spalle e si lanciò deciso nel corridoio buio, lentamente ma con regolarità. E Licea lo stette a guardare, a bocca aperta, finché non svanì nel buio. Fu soltanto quando vide l’ultimo ciuffo di peli bianchi sparire che si riscosse, rendendosi conto che con il topo se n’era andata ogni possibilità di vedere tutte le meraviglie che aveva decantato. Comprese davvero che, per conoscerle, era necessario rincorrerlo – anche se non comprese la ragione di ciò. C’era un motivo, un perché?

Non lo sapeva, ma all’improvviso la curiosità e il desiderio di vedere quelle meraviglie fu così impellente che decise di provare a raggiungere la bestia, per quanto lontana. Mosse i piedi, prima con esitazione, poi con slancio verso il punto in cui il topo aveva imboccato il corridoio…

Si fermò in tempo, appena prima di sbattere contro un muro di roccia che aveva sigillato – quando? – l’apertura. E per quanto fondamentale fosse il ruolo che quel corridoio scuro aveva rivestito nello spazio scenico di quella grotta, agli occhi di Licea il muro che ora bloccava l’accesso appariva così saldo che si sarebbe detto che fosse sempre stato lì. Mentre ne saggiava l’imponenza, per un attimo si domandò se non fosse proprio così, e se non avesse semplicemente sognato.

Eppure un accesso, una via, c’era, prima. L’aveva vista: c’era.

Ciononostante, capì che, pur ricordandola perfettamente, l’accesso al corridoio che l’avrebbe condotta alle meraviglie ora non c’era più: sigillato. La grotta era chiusa.

Con un urlo di disperazione, Licea cominciò a graffiare il muro fino a farsi sanguinare le dita, cercò di abbatterlo con i pugni e con i calci, ma tutto fu vano. Aveva avuto una sola possibilità di imboccare quel corridoio che tanto incuteva timore, e avendola sprecata, ora gliene era negata una seconda.

In preda all’angoscia, Licea sentì i propri occhi gonfiarsi dolorosamente, e non riuscì a impedire che una lacrima cadesse dalle sue ciglia e con un tintinnio si gettasse sul pavimento della grotta. Non appena la goccia toccò terra, il soffitto d’acqua crollò.

Licea fu sovrastata da una quantità d’acqua che non avrebbe mai sospettato: era stata ingannata dai bei colori del soffitto, che l’avevano indotta a credere che la superficie fosse sottile. Invece la cascata che la investì con violenza fu di una portata tale che credette che non sarebbe mai riuscita a riemergere.

Mentre annaspava per non affogare, l’acqua salata riempì la pancia della grotta sempre più rapidamente, come se sgorgasse da una diga distruttasi; trascinò Licea su, lontano dal muro insondabile, verso la superficie. E quando la raggiunse, tanto in fretta che non fece in tempo a formulare il pensiero di stare per morire, fu accolta da una luce bianca abbagliante, che cancellò tutto ciò che poteva vedere…



Le occorse qualche istante per accorgersi di non stare più lottando contro i flussi impazziti, ma che tutto il suo corpo – ad eccezione del viso, completamente bagnato – fosse stabile, e all’asciutto. Il suo corpo si fermò, risparmiato dagli spasmi, e Licea alzò istintivamente la testa: dal suo viso grondò altra acqua salata. Quando fu in grado di riaprire gli occhi, realizzò di essere carponi, rannicchiata sopra la pozza da cui prima era stata risucchiata, dove il suo viso era stato immerso fino a qualche secondo prima.

Si guardò intorno, scuotendo il capo per scacciare via le ciocche bagnate dalle guance, e rivide lo scenario in cui si trovava prima del risucchio: la medesima spiaggia illuminata da una luce lattiginosa, senza sole; il mare più grigio che blu che si muoveva pacatamente; e un uomo anziano, in piedi a guardare le onde, con l’espressione di chi guarda senza vedere veramente. Tutto pareva identico a com’era quando aveva visto la pozza d’acqua scura, tranne per il fatto che sembrava come invecchiato.

Prima che la mente di Licea le comunicasse la sua intuizione – chi fosse quell’uomo –, egli si voltò e le rivolse un sorriso stanco, di quelli abitudinari e unicamente formali.

«Hai trovato un’altra conchiglia, Liz?» le domandò. Sia il soprannome che usò per rivolgersi a lei – tipico da parte di una sola persona – sia il timbro vocale stesso di quella voce, che, per quanto reso più roco dalla vecchiaia, restava inconfondibile, fecero capire a Licea che si trattava di Collin.

Era vecchio, si disse, così come tutto attorno a lei. Così come lo era lei stessa.

Guardò dritta dentro la pozza d’acqua sotto di lei per vedersi riflessa, e si riconobbe identica a come era prima di esserne risucchiata: le stesse labbra piene, gli stessi capelli sottili e un po’ secchi, la stessa pelle fragile. Probabilmente, però, il suo odore non era più quello delle creme per neonati: doveva essere cambiato. Perché ora lei era vecchia. Il suo corpo era quello di un’adolescente fresca e chiara, ma sentiva, sapeva di essere invecchiata.

I suoi occhi tornarono all’uomo inconfondibile, eppure irriconoscibile, che le restituì lo sguardo di chi ha davanti qualcosa che ha visto ogni giorno per molti, molti anni. Lui non sembrò affatto stupirsi del fatto che, malgrado l’età avanzata che – indubbiamente – aveva, sembrasse ancora una ragazzina. I suoi occhi totalmente disincantati la guardavano in un modo che non sembrava poi così diverso da come facevano una volta (moltissimi anni prima; una vita prima), quando si erano trovati insieme su quella stessa spiaggia.

Licea tornò a guardare la cavità da cui era stata risucchiata e sperò con tutta se stessa di poterci cadere dentro di nuovo. Prima di riuscire a trattenersi, sprofondò nuovamente il viso nell’acqua torbida e cominciò a leccarla come un cane, e a ingollarne sorsate su sorsate, nel tentativo di farla sua. Il liquido le saturò le vie respiratorie e dovette smettere, sentendosi mancare l’aria.

Rotolò sulla sabbia agonizzante, percependo il bisogno che aveva il suo corpo di espellere quella sostanza nociva, eppure rifiutando di farlo; ma alla fine il suo stomaco riuscì a contrarsi, e Licea vomitò fuori tutta l’acqua che era riuscita a bere.

Stremata, rimase sdraiata sulla sabbia a lungo, aspettando che il suo petto smettesse di agitarsi. Quando rialzò il viso, vide che Collin si era avvicinato alla pozza e che vi stava guardando dentro; rivolgendo i suoi occhi ansiosi verso lo stesso punto, vide che la pozza era vuota: tutta l’acqua era sparita.

«Non ci sono conchiglie, qui» disse Collin con voce inespressiva, quasi annoiata.

In quel momento, un’onda si abbatté con veemenza sul bagnasciuga e ricoprì la cavità ormai vuota; Licea emise un singulto, preoccupata, ma quanto l’onda si ritirò e constatò che aveva livellato tutta la battigia, cancellando ogni rientranza, si lasciò semplicemente cadere sulla sabbia. E Collin, con il sospiro di chi sente il peso di una vita intera alle spalle, ritornò a guardare il mare.

  
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