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Autore: breezeblock    31/08/2020    5 recensioni
La prima volta che lo vide entrare nella stanza per la seduta, perse un battito. Aveva vinto la guerra, doveva esserne soddisfatta, felice, doveva varcare i corridoi della scuola con aria trionfante, partecipare alle nuove attività scolastiche e recuperare le lezioni, cominciare la sua brillante carriera al ministero, stare con Ron. E invece era stata ricoverata in ospedale in mezzo ai pazzi e agli idioti. Con lui.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger | Coppie: Draco/Hermione
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da Epilogo alternativo
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Questa storia è nata una sera d'estate. Il mio ragazzo è un amante sfegatato di Harry Potter, forse più di me e il che è tutto dire. L'unica differenza tra me e lui è che invece che Serpeverde è un Corvonero. Stavamo parlando di una possibile one shot Dramione che avrei potuto scrivere e questo è il risultato. Spero che vi piaccia. 
È ambientata subito dopo la battaglia di Hogwarts, le lezioni ricominceranno a breve ma ci sono alcune cose irrisolte per i nostri amati personaggi.
Ho modificato alcuni dettagli per la narrazione, vi accorgerete di quali. Altra piccola precisazione, le frasi in inglese che vedrete sono dei rifacimenti di canzoni o altre lyric proprio fedeli. Molte sono dei Coldplay, una è un mash up con i Lumineers e una ispirata a Taylor Swift.
Ora vi lascio alla lettura.
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Fiori e Fango
 
 
 
 
Negazione
 
I know you don’t listen to me
‘Cause you see straight through me, don’t you?
 
 
 
Hermione osservava le gocce di pioggia scendere lungo il vetro. Qualche minuto prima aveva appannato quella superficie fredda con il suo respiro, per poi passare un dito sopra alla condensa e creare forme astratte. 
I solchi intorno agli occhi erano così profondi che quasi facevano male a lei e a chi la osservava per più di due minuti. Il viso scavato creava ombre sugli zigomi appuntiti e sul mento, di quelle nere, profonde, che macchiarono indelebilmente la sua innocenza e purezza.
“Hermione, ti va di dirci come ti senti?”
Come si sentiva? 
Era come se le torture inflittale non fossero mai finite. Ogni giorno si alzava ed era come se mille bacchette appuntite si fossero insinuate sotto i vestiti e la maledissero continuamente. Una maledizione Cruciatus infinita, indelebilmente stampata sulla pelle e le ossa. 
Era come non sentire più odori, né vedere la vita a colori, tutto procedeva al di fuori di lei, non si sentiva più parte di niente, era stata un’arma quasi per tutta la sua infanzia e adolescenza, e adesso che la sua funzione era compiuta, aveva smesso di esistere. Come un fucile di qualche epoca ormai lontana adesso appeso al muro. Solo che si sentiva ancora carica. Piena di proiettili, di mine rimaste inesplose che andavano consumandosi e arrugginendosi sotto la pioggia. Persino le sue lacrime sapevano di ruggine. Tutti quei colpi inesplosi bruciavano in ogni fibra del suo corpo, la rabbia compariva ogni mattina appena apriva gli occhi e le impediva di respirare. 
Si ancorò alla sedia di plastica bianca mezza rotta. Dopo la guerra, il San Mungo dovette arrangiarsi con quello che era rimasto. Troppi i feriti che non riuscivano ad avere un buon letto e coperte calde. Alcune ali dell’ospedale erano state completamente buttate giù e con la lenta ripresa delle attività il personale si era dovuto arrangiare con mezzi di fortuna. 
Spostò la visuale dalle gocce d’acqua sulla finestra e li riportò al centro della stanza. Altre sedie formavano un cerchio ampio. C’era Neville, che con i suoi tic all’occhio e le unghie consumate sembrava si stesse avviando sulla strada della pazzia, c’erano altri ragazzi con cui aveva scambiato sì e no una parola durante i suoi anni ad Hogwarts.
Hogwarts. La sua scuola. La sua casa. Andata distrutta.
Chissà se l’avevano già riportata al suo antico splendore. Chissà come stavano Harry e Ron. Erano mesi che non si facevano sentire. 
Un nodo alla gola le bloccò il respiro, che riuscì a tornare parzialmente regolare dopo qualche colpo di tosse.
“Hermione?”, la psicomaga la incalzò dolcemente. 
Era convinta di non piacerle, che si trovava lì per svolgere il suo lavoro ma che in realtà non provava alcuna simpatia nei suoi confronti.  
Lui la fissava in attesa di una risposta. La guardava con occhi cupi, più grigi del solito. Qualche lacrima gli aveva bagnato il viso e inumidito le labbra, sempre serrate. Non muoveva un muscolo. Se non fosse stato per il battito regolare delle ciglia, Hermione avrebbe pensato fosse morto. 
Ma l’erba cattiva non muore mai.
La sua presenza lì era ingiusta, se non l’ennesima tortura. Era la prova vivente di come in realtà, da quel Manor non era mai fuggita.
“Perché mi state facendo questo?” Non ricordava nemmeno quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che aveva parlato. Forse dall’ultima seduta di tre giorni prima.
Neville sollevò lo sguardo e la supplicò di non esplodere come l’ultima volta, con solo la forza delle sue espressioni contrite. Hermione si congratulò silenziosamente con lui per la sua capacità di mostrare ancora emozioni. 
Non come quello schifoso che aveva davanti. 
“D’accordo, prenditi il tuo tempo.” Concluse pacata la guaritrice, involutamente assegnata a quel gruppo di sopravvissuti.
Hermione si considerava più una criminale sanguesporco che una superstite. 
“Draco, vuoi continuare tu?
“Tutto questo è assurdo”.
La prima cosa su cui la trovò d’accordo.
 
 
Rabbia
 
Can anybody stop this thing
Before my head explodes
?
 
 
 
La prima volta che lo vide entrare nella stanza per la seduta, perse un battito. Aveva vinto la guerra, doveva esserne soddisfatta, felice, doveva varcare i corridoi della scuola con aria trionfante, partecipare alle nuove attività scolastiche e recuperare le lezioni, cominciare la sua brillante carriera al ministero, stare con Ron. E invece era stata ricoverata in ospedale in mezzo ai pazzi e agli idioti. Con lui.
Cominciò tutto con l’insonnia. Era tornata a casa a Londra. Quella rimasta vuota dopo la partenza improvvisa dei suoi, quella che lei stessa aveva causato e che non aveva ancora avuto il coraggio di risolvere. Non chiudeva più occhio. A volte ci riusciva, ma ad un certo punto si svegliava di soprassalto urlando a squarcia gola, senza che ci fosse nessuno a calmarla. 
Ron aveva deciso di passare del tempo con la sua famiglia, a rimettere insieme i cocci dopo la perdita di Fred. Quel suo ritiro era lecito e lei non obiettò neanche una volta. Harry fece lo stesso, voleva essere di supporto per Ginny. E lei, che avrebbe potuto seguirli non lo fece. Il dolore degli altri era fin troppo da sopportare, unito al proprio. Aveva deciso che li avrebbe raggiunti dopo, che in quel momento ricominciare ad unire tutti i pezzi del puzzle le richiedeva fin troppa energia e una vitalità che sentiva di aver perso del tutto.
Solo che le cose erano peggiorate. Aveva smesso di mangiare, aveva dolori in tutto il corpo e un freddo nelle ossa che non riusciva ad allievare nemmeno stando vicinissima alle fiamme del camino. La ferita inflittale da Bellatrix continuava a bruciare, si era persino infettata e lei l’aveva lasciata imputridirsi. Era più profonda di quanto credesse, non ricordava quanto sangue avesse perso. Ricordava solamente che Ron ed Harry erano chiusi in cella e non avrebbero potuto salvarla senza l’aiuto di Dobby. Ricordava i volti inespressivi dei Malfoy. Quello indecifrabile del mancato erede dei Serpeverde. 
Era rimasto lì a guardare, a sentirla gridare di dolore mentre sua zia pazza la torturava. 
La prima volta che lo vide entrare nella stanza per la seduta, perse un battito e le mancò il respiro, e senza nemmeno pensarci una volta lo attaccò. La bacchetta le era stata sequestrata il primo giorno di ricovero. Ogni mago che entrava lì, doveva praticamente dire addio, forse per sempre, alla magia. 
Erano mesi ormai che non la praticava.
Quindi lo attaccò con le mani, le braccia, con quel briciolo di forza che pensava di possedere. Solo che non fece molti danni. Gli si avventò prima ancora che gli altri se ne accorgessero e potessero allontanarla. Ma lo slancio le richiese così tanta energia che si accasciò praticamente subito dopo, abbandonandosi non volutamente sul suo petto e tra le sue braccia.
Draco riuscì a sostenerla, chiese aiuto agli altri pazienti, tra cui un Neville a dir poco terrorizzato.
“Dovevi morire, insieme a tutti gli altri, insieme al tuo Signore”.
“Non ti avrebbe pianto nessuno, io no di certo”.
“Non sei stato bravo nemmeno a morire”.
“Piton doveva ucciderti insieme a Silente, o potevi gettarti dalla torre di Astronomia da solo, scommetto che lo hai pensato tante volte”.
Queste e molte altre furono le cose che Hermione gli riuscì a dire mentre la stavano portando via di peso. Non riusciva ad opporre resistenza, e l’idea che fosse caduta proprio tra le sue braccia la fece infuriare ancora di più.
“Ti va di approfondire questo concetto? Assurdo in che senso?”
Draco sorrise amareggiato e spostò lo sguardo sulle sue ciabatte bianche. Odiava i vestiti che li obbligavano a mettere addosso. Ci trovava molta ironia dietro quella parvenza di purezza e pulizia. Sembravano ancora parte di un esercito, con quelle orribili divise bianche addosso che uccidevano qualsiasi spiraglio di individualità, diversità, come se anche l’abito fosse il primo passo verso un ritorno alla purezza. I guaritori combattevano con le stesse armi dei Mangiamorte. La purezza era stata la cosa che lo aveva fatto finire lì, che aveva causato tutto questo. 
Sarebbe rimasto volentieri sudicio e rotto.
Quella divisa le stava malissimo. Non la ricordava così magra e spezzata. Da quei pochi ricordi che aveva, lei era sempre stata una colonna portante ad Hogwarts, la spalla su cui potevi piangere, ridere. 
La prima volta che la vide lì, lei gli piombò addosso in un attimo, voleva fargli male e lui lo sapeva, per questo non si era spostato di un centimetro. Voleva che lei gli facesse male. Dopotutto, era un mostro. Però poi lei quasi non svenne e si arpionò alle sue braccia per non cadere del tutto, e fu lì che capì quanto prosciugata fosse. Quanto scarnita, arida fosse diventata. 
Per un attimo si sentì uguale a lei. Entrambi sporchi, irrecuperabili, impuri, selvaggi e rabbiosi, non civilizzati.
“Non dovrei essere qui. Ci mettete nella stessa stanza per torturarci, è evidente”. 
“Draco, tocca a te”.
“Fare cosa?”
“È tua, facci quello che vuoi ma falle male”.
“No”.
“Non è così, Draco. Vi mettiamo insieme affinché possiate confrontarvi e trovare conforto nella sventura che vi accomuna. Avete combattuto tutti le vostre battaglie, non importa su che fronte”.
“Conta invece”. Neville interruppe la psicomaga con voce grave. 
Draco sorrise ancora.
“Lo vede? La Guerra non è finita”.
“Ti stai per caso rifiutando?”
“Non serve torturarla, non cederà mai”.
“Non conosci il mio potere”.
“Conosco lei”.
Quei ricordi riaffiorarono all’improvviso. La guaritrice era passata avanti. Aveva posto la stessa domanda che poneva a tutti ogni volta che iniziava una nuova seduta. Nessuno stava facendo caso a lui. Sentiva la voce del ragazzo accanto parlare della battaglia ad Hogwarts, ma le parole gli arrivavano come sbiadite, appannate. Cominciò a respirare pesantemente, aveva il fiato corto.
No, non di nuovo.
Si accasciò a terra con la sensazione di soffocare, si aggrappò alla sedia con scarso successo. In un attimo la psicomaga fu accanto a lui, un suo assistente guizzò subito al suo fianco con una fiala di pozione calmante. Gli altri ragazzi lo guardavano apprensivi.
Lo sguardo colmo di panico lampeggiò un secondo su Hermione, che non si era scomposta dalla sedia, ma che anzi, lo guardava come svuotata. Nessuna emozione dietro i suoi occhi umidi. 
“Non..resp..” si toccava ossessivamente la camicia bianca. Non gli opprimeva il collo, il modello serviva proprio per evitare simili inconvenienti, ma lui sentiva un peso lo stesso. 
La maga gli slacciò la camicia. I presenti emisero esclamazioni di stupore nel constatare quanti tagli e cicatrici avesse sul petto e sullo stomaco. Neville contrasse la mascella, teso. Smise per un secondo di torturarsi le mani e iniziò a cercare un senso dietro quello che stava vedendo. 
Draco svenne. L’ultima immagine che gli rimase in testa fu il volto della Granger irrigidirsi impercettibilmente alla vista del suo corpo inerme.
 
 
Contrattazione
 
Oh and I don't have a soul to save
I sin every single day

There you will be like an old enemy
 
 
“Perché sei ridotto in quel modo?”
“Neville, se puoi rispondi alla mia domanda. Cos’è che non ti fa dormire?” Era il secondo tentativo che la psicomaga faceva per cercare di distogliere le attenzioni di Neville e degli altri pazienti da Malfoy. 
Bellatrix lo aveva preso da parte, chiudendosi la porta alle spalle. Erano in una camera da letto qualsiasi, una di quelle riservate agli ospiti che raramente visitavano il Manor. Era da tempo che non veniva più nessuno. La loro casa era diventata il covo dei Mangiamorte e del Signore Oscuro, che la sera banchettavano con le loro vittime, e Nagini faceva scomparire gli avanzi.
Giusto qualche giorno prima aveva visto morire la Burbage sul tavolo da pranzo, aveva visto il serpente nutrirsi di quel corpo ancora caldo, massacrarla proprio davanti a lui.
Non toccava cibo da giorni, vomitava quasi ogni mattina e aveva continui mal di testa. Bellatrix e Voldemort si divertivano a torturarlo di tanto in tanto, infliggendogli pesanti attacchi di Legilimanzia senza dargli nemmeno il tempo di capire cosa stesse per succedere. Si erano infiltrati in ogni suo ricordo, distorcendone la verità, al punto che ormai gli restavano solo quelli peggiori e aveva iniziato a confondere il vero dal falso. Sperava che sua madre non fosse a conoscenza di ciò che subiva, ripeteva a sé stesso che ne fosse sicuramente ignara, altrimenti avrebbe fatto qualcosa. Lui scelse comunque di non dirle nulla, consapevole che rivelarglielo avrebbe incrinato le cose al Manor e probabilmente le stesse torture sarebbero state inflitte anche a lei. Doveva proteggerla. Ad ogni costo.
“Tuo padre ha già fatto danni irreparabili. Non peggiorare le cose”. 
“Sai cosa facciamo ai bambini che si ribellano”, continuò sua zia. La voce viscida e incrinata, gli occhi selvaggi che balzavano come saette da una parte all’altra in cerca di un altro strumento da usare a suo vantaggio. 
Aveva iniziato con la frusta della sua bacchetta, i segni erano penetrati così in profondità da provocargli un bruciore disumano. Soffriva stando in piedi, seduto o sdraiato. Soffriva continuamente. A volte lei lo frustava senza nemmeno un motivo apparente, ma solo per puro divertimento. Di solito lo ricattava, metteva in mezzo sua madre, minacciandolo di infliggere lo stesso dolore a lei, e così acconsentiva a quelle torture solo per soddisfare la fame della sua pazzia. Aveva trovato il modo di averlo in pugno. 
Soldato, pedina, vittima. 
“Ho detto che non lo farò. Torturarla servirebbe solo ad aizzarla ulteriormente contro di noi”. Mentì. Probabilmente l’astio che la Granger covava nei loro confronti era già abbastanza da riuscire ad ucciderli tutti. 
“Crucio”.
Erano passati due giorni da quel violento attacco di panico. Si sentiva ancora uno straccio però. Ogni tanto, dal suo letto, intravedeva la Granger passeggiare nei corridoi mentre era attaccata a una flebo di liquidi. Rifiutava ancora i pasti. Lui lo sapeva perché la sentiva mandare via il carrello del cibo dalla sua stanza. I muri erano così sottili che la privacy praticamente non esisteva. Era arrivato a conoscerla di più in quel posto da incubo che in sei anni a scuola.
Sorrise al pensiero di quando la mandò in infermeria a curarsi quei denti enormi che le aveva fatto crescere con un incantesimo. 
Quel problema all’epoca sembrava gigantesco, insormontabile.
Adesso la vedeva camminare per i corridoi come un fantasma. Si sentiva responsabile della sua rovina. 
Infondo, lo era.
“Chi ti ha torturato?”
La voce di Hermione lo ridestò. La guaritrice, interrotta di nuovo, sospirò ormai sconfitta. 
Il tono della Granger era piatto, severo. Gli occhi erano puntati fissi su di lui. I presenti si voltarono verso Draco incuriositi, in attesa di una confessione. Lì in mezzo era l’unico Mangiamorte e l’astio era ancora nell’aria, sentiva di dover una risposta un po’a tutti più che a sé stesso.
“La stessa persona che ha torturato te”.
Hermione si aggrappò alla sedia e strinse i pugni.
“Perché”.
“Draco, non sei obbligato a rispondere, potremmo arrivarci per gradi. Hermione, perché non...”
“Perché mi sono rifiutato di fare quello che mi aveva ordinato”. 
“Cosa ti aveva ordinato?”. 
Cosa sai che io non so?
“Di fare qualsiasi cosa di orribile che mi venisse in mente per violentare una persona e distruggerla nel profondo”.
“Draco”.
“Si, dottoressa? Sto solo dicendo la verità. Mi sto aprendo, non vede?” iniziò a sorridere.
Un brivido corse lungo la schiena di Hermione.
“Chiedimi chi avrei dovuto torturare”. 
“Draco”.
“Chiedimelo”, di nuovo il fiato corto.
“Chi?”
Stringeva i pugni così forte che a momenti si sarebbe bucato le mani con le sue stesse unghie. La Granger si dibatteva e urlava, mentre la bacchetta di Bellatrix si faceva strada nella sua carne. Lo aveva obbligato a guardare, “se non vuoi che giri il coltello nelle piaghe che hai sulla schiena”, lo aveva minacciato. I suoi genitori erano spettatori della stessa scena, ma ignari di tutto quello che succedeva nel suo cuore. Ad ogni grido disperato, si sentiva come scavare con la stessa bacchetta e lo stesso incantesimo punitore. Era tutto sbagliato. Non era così che si aspettava sarebbero andate le cose. Credeva ingenuamente che sarebbe stato più semplice, che il Signore Oscuro avrebbe potuto vincere con facilità, senza il bisogno di violentare nessuno, talmente era potente. Invece, quegli atti spregiudicati evidenziarono solamente la sua debolezza. 
Ci mise poco ad accorgersi che alcuni segni comparvero sul suo polso nello stesso momento in cui la Mangiamorte profanava la pelle della Grifondoro. 
Leggevano “Traditore”. 
Soldato, pedina, vittima, traditore. 
L’unica definizione che iniziò a suonargli bene. 
La sua ferita leggeva “Mezzosangue”. L’insulto che lui aveva usato con lei. Il confine che aveva tracciato fin dal primo anno, invalicabile.
Fino a quel momento.
Gli venne la nausea, lasciò la stanza ed Hermione nemmeno se ne accorse. 
Quella sera Bellatrix si vendicò per quell’affronto e perché aveva finto di non riconoscere un Harry affatturato, si vendicò anche solo per il gusto di farlo.
“Te”.
 
Hermione adorava l’odore di pulito. Gli ricordava quando in estate aiutava la nonna a stendere i panni all’aperto, su una corda che avevano attaccato da un albero del giardino a un altro. Le piaceva nascondersi tra le lenzuola bianche, passarvi le mani e constatare come lo stesso odore fosse poi anche sulla sua pelle. 
Passava il suo tempo libero fuori, nel giardino dell’ospedale. Lì non c’erano panni stesi, ma solo un prato verde e alcuni alberi tra le cui fronde filtrava la luce del sole. Ogni volta che usciva fuori immaginava sua nonna stendere i panni puliti in quella luce. 
“Perché non me lo hai mai detto?”
Draco era seduto sulla panchina accanto alla sua. Osservava le gocce della flebo scendere lente e scivolare nel tubicino attaccato alle vene di Hermione.
Vederla così era la sua punizione per averle inflitto tanto male.
“Mi avresti mai creduto in altre circostanze?”
“No, penso di no”.
“Cosa ti ha fatto?” continuò.
“La stessa cosa che ha fatto te, più altre cose che puoi tranquillamente immaginare, e anche la Legilimanzia, ma questo piaceva più a Voldemort, non sopportava il contatto fisico”.
“Per questo sei qui?”
Lui annuì.
“Sai, a volte non riesco a distinguere cosa è reale e cosa non lo è”.
Hermione si voltò alla sua destra per guardarlo. Aveva il viso rivolto verso il basso, i capelli biondi gli coprivano gli occhi.
Si alzò e si mise a sedere accanto a lui.
“Io so solo che il dolore è l’unica cosa reale”.
Senza pensarci, mise una mano sulla sua, poi spostò la visuale su un punto indefinito in lontananza.
Draco guardava le mani unite ed ebbe un brivido di freddo. Ma passò in un attimo.
“Tu sei reale, Hermione”. Lo disse più a sé stesso, che a lei, sembrava quasi una domanda.
Hermione non rispose, poi lui spostò lo sguardo dove si estendeva il suo.
Rimasero lì seduti per un po’.
 
 
Depressione 
 
marked us like a bloodstain
 
 
Una notte dopo quell’insolito scambio sulla panchina in giardino, Draco le portò il suo budino al cioccolato. Non sapeva spiegarsi come, ma da quella confessione aperta davanti a tutti si sentì più leggero. Le sue colpe erano ben chiare, non cercava in alcun modo di negarle o di mentire per ciò che non poteva cambiare, ma almeno cominciò a raccogliere i suoi stessi pezzi sparsi in ricordi di cui aveva dimenticato il sapore e il colore.
Hermione lo aiutava a ricordare alcuni episodi a scuola, il Ballo del Ceppo, il Torneo tre Maghi, la sua prima volta sulla scopa, le gite ad Hogsmeade. In ogni suo ricordo lei non c’era, per questo glieli raccontava come se ne fosse stata una silenziosa spettatrice. Questo però era meglio che non avere nessun ricordo. 
Perciò, avevano cominciato a spendere le loro notti a parlare, lei sdraiata nel suo letto, ancora troppo debole per potersi alzare o stare in posizioni troppo scomode, lui seduto sul ciglio accanto a lei.
La prima volta che assaggiò il budino per poco non vomitò. Draco desiderava che lo mangiasse. Le aveva persino detto, con occhi sconsolati e carichi di dolore: “ti prego, Hermione” e lei non se lo fece ripetere due volte. Un po’ perché non voleva più vederlo supplicarla con quegli occhi umidi e lucidi, un po’ perché tutto quel parlare le mise appetito. L'aveva chiamata Hermione.
Constatando la fatica della ragazza nel prendere anche dei piccoli bocconi, Draco le sfilò dolcemente il cucchiaino dalla mano, senza staccare un attimo gli occhi da lei. 
Prese una cucchiaiata e la indirizzò verso la sua bocca.
“Perché lo stai facendo?” Il tono carico di odio con cui Hermione gli si rivolgeva cambiò sfumature, si fece più dolce, comprensivo. 
Erano tutti e due delle bambole di pezza usate e destinate alla pattumiera. 
“Non lo so”. C’era poco pensiero a dettare le sue azioni, ma la Granger era così magra che persino un mostro come lui si rese conto che i metodi utilizzati in ospedale non potevano funzionare con una come lei. Per convincere la Granger a fare qualcosa ci voleva mano ferma. 
E un cucchiaino.
“Se non vuoi che ti imbocchi posso andare via, ma tu mangia, per favore”.
Hermione allungò la bocca verso il cucchiaino. 
Quella sera finì il suo primo budino al cioccolato. 
“Avevi un vestito rosa, la sera del Ballo del Ceppo. È vero?”
“Vero”.
 
 
“Hermione, come ti senti stamattina?”
Aveva paura a dire che si sentiva meglio. Si era talmente abituata a sentirsi uno schifo, che quasi gli dispiaceva allontanarsi da quella sensazione di auto commiserazione e dolore. Eppure, c’era qualcosa di diverso. E non era dovuto solo al fatto che Neville avesse smesso di massacrarsi le mani, ma anche al fatto che più mangiava, più aveva appetito, e con questo arrivava anche quello strano senso di positività e felicità che era in grado di riempirla persino più del cibo.
L’aria aperta poi, le faceva bene. Per alcuni momenti si dimenticava di tutti gli angoli bui di Hogwarts. Dimenticava i volti dei ragazzi torturati dai Carrow, le condizioni precarie in cui erano costretti a vivere durante quella tirannia. Dimenticava i mesi trascorsi a fuggire da un luogo all’altro, il terrore che aveva provato affrontando Nagini a Godric’s Hollow, la morte di Dobby, la separazione dai suoi genitori.
“Come va la ferita?” la psicomaga la incalzò. 
A quella domanda, Draco sollevò la testa e rimase in attesa.
“Meglio”, disse, dopo aver preso un respiro profondo. Balbettò un po’, ma alla fine ci riuscì.
Di fronte a quell’ammissione sorrisero tutti, Draco la osservò attentamente, poi sospirò e lei annuì, come per confermargli la veridicità di quello che aveva sentito. La dottoressa invece, le chiese di approfondire.


La notte stessa, Hermione riuscì a sgattaiolare dal suo letto con meno fatica rispetto alle altre sere. Evitò i guaritori di guardia ed entrò nella stanza di Draco, che aveva tenuto la luce accesa affinché le servisse da guida nel buio.
Gli raccontò dei suoi, gli mostrò la ferita inflittale da Bellatrix e lui le mostrò la sua, sulla quale posò un dito e ne seguì i contorni. Per tutta la durata di quell’esplorazione, Draco, semisdraiato sul letto, tenne gli occhi chiusi e quasi non respirò.
“Sul serio stai meglio?”, le domandò.
“Ci sono giorni in cui mi dico che riuscirò ad uscire da qui senza avere paura che un attacco di panico mi blocchi per strada e mi faccia soffocare. Altri in cui ancora, vorrei soffocare”.
“Che cosa ci hanno fatto?”, disse Draco buttando la testa indietro sul cuscino. Hermione, che fino a quel momento era seduta sul bordo del letto, si sistemò accanto a lui, riposando la testa sul cuscino. Il ragazzo non si allontanò di un centimetro, né lei si imbarazzò nell’accomodarsi accanto a lui. Avevano raggiunto quello stadio del loro rapporto per cui si conoscevano abbastanza come nemici, essendosi odiati per tutti quegli anni ad Hogwarts e anche dopo, durante la battaglia, ma si conoscevano altrettanto bene in quanto fuggitivi, vittime, superstiti, assassini. Non poteva esserci imbarazzo in un rapporto profondo come quello. 
“Ci hanno usato e poi lasciato marcire qui”.
“Fortuna che dalla putrefazione nascono fiori”.
“E tu, tu come ti senti?”
“Mai stato più fiero di questa cicatrice sul braccio”.
 
 
 
Accettazione
 
 
I’ll be waiting in line,
always
 
 
“Signorina Granger! Sono felice che questo sia il suo ultimo giorno qui. Ha ripreso peso, il polso è rinvigorito e anche gli incubi sono andati scemando”. Il suo guaritore la salutò quella mattina stessa dopo una visita veloce. 
“Direi di si, grazie”, disse lei timidamente.
Quella del giorno, sarebbe stata la sua ultima seduta. Erano rimasti ormai in pochi.
Neville era uscito una settimana prima, era tornato da sua nonna, le scriveva però tutti i giorni inviandole il suo gufo, che forse non aveva mai volato così tanto in vita sua. Era arrivato a scriverle le cose più ovvie, inviandole una lettera al giorno le cose da dire finirono presto. La divertiva seguire i pensieri a volte sconnessi del suo amico, ma rideva ancora di più quando le descriveva alcune scene quotidiane in cui la nonna era protagonista.
Hermione capì sempre di più perché al terzo anno immaginò Piton con i suoi vestiti.
Draco era uscito tre giorni prima. Si salutarono con un abbraccio frettoloso, un po’ perché non erano i soli in corridoio, un po’ perché nessuno dei due sapeva bene come dire addio, perciò risultarono un po’ impacciati. 
Draco le lasciò un budino al cioccolato sul letto e un biglietto che leggeva solo D.M.
“Allora Hermione, vuoi condividere ancora qualche ultima cosa con noi, prima di andartene?”
 
Il Ministero aveva dato a lei e agli altri superstiti una sorta di risarcimento danni in denaro che all’inizio, indignata, voleva rifiutare. Grazie alla McGranit - che era andata a trovarla qualche volta- riuscì a farsene una ragione e per quanto quel gesto non fu affatto gradito, si convinse a sfruttarlo. Con una parte dei soldi quindi, acquistò una casetta non troppo lontana da Londra, l’altra parte la rimandò indietro, con una nota che diceva a chiare lettere a cosa voleva che i suoi soldi sarebbero stati destinati. Compì così il suo primo passo verso l’attivismo in difesa delle creature magiche.
A piccoli passi, stava rinascendo. Proprio come le aveva detto Draco.
 
“Non ho molto da dire. Stamattina il sole splende, è la prima estate in cui si può dire faccia veramente caldo a Londra e non vedo l’ora di camminare in un luogo che non sia un corridoio d’ospedale, magari a piedi nudi”.
 
Non aveva assolutamente idea di come fosse finita in un negozio di fiori. Ricordava solo di essere rimasta incantata dagli asfodeli esposti in vetrina ed entrò senza ulteriore indugio. 
Non sapeva se gli piacessero i fiori, né se fosse il caso di spedirgliene uno. Più ci pensava e più le sembrava un’idea assolutamente stupida e fuori luogo, però poi si ricordò le sue stesse parole dette solo qualche settimana prima e si decise a spedirli.

“Non credo che supererò mai tutti i traumi subiti in questi anni, sono così tanti, dalle piccole umiliazioni alle torture di ogni sorta, che quasi ho perso il conto. Osservando la cicatrice risanarsi ho capito solo una cosa. Che non andrà via, esattamente come quelle alle ginocchia che mi procurai con i pattini quando avevo nove anni. Sono diventate presto parte di me senza che nemmeno me ne accorgessi.”
 
Come ogni domenica, Hermione aveva deciso di pulire la casa da cima a fondo, proprio come faceva con i suoi dopo aver fatto colazione con del cappuccino e delle uova strapazzate. Decise di mettere da parte la bacchetta e di fare tutto con le proprie mani, non le importava quanto tempo avrebbe perso. Mise su un po' di musica. In radio passavano i successi dei Coldplay.
 
“E con questo non dico che qualunque tipo di taglio o ferita sia ben accetto, se si riesce ad evitarli ben venga. Ma nel corso della vita capiterà una volta o due di farsi male, veramente male, e che si debbano raccogliere i pezzi sparsi sul pavimento. Non so se sono riuscita a recuperarli tutti, sicuramente ho perso qualcosa lungo la strada, una parte di me che non potrò riavere mai più”.
 
Il campanello suonò all’improvviso, facendola sobbalzare. Istintivamente, passò le mani sui jeans come a volersi sistemare, poi le mise tra i capelli e sciolse la coda di cavallo scuotendoli a destra e a sinistra. Si chiese chi potesse essere di domenica in quel quartiere così tranquillo e indisturbato. 
Il campanello suonò nuovamente, stavolta più a lungo. Spazientita e ormai consapevole che non avrebbe potuto sistemarsi meglio, corse ad aprire.
 
“Però insieme a quella che se ne va, c’è anche una parte nuova che arriva, una da scoprire e scartare dall’involucro che la avvolge come se fosse un oggetto nuovo e inestimabile, da trattare con cura per non farlo scalfire. E probabilmente non sarà come lo avevi immaginato, i libri non possono contenere tutte le risposte, non importa quanti se ne leggono. A volte devi lasciarti governare dal caso”.
 
Draco sostava di fronte alla porta con un mazzo di quegli stessi fiori che lei gli aveva mandato, nell’altra mano il bigliettino che aveva allegato con il nome del suo indirizzo nuovo e con un piccolo messaggio che leggeva: “Ti direi che li ho presi dal mio nuovo giardino, ma se lo facessi ti direi una bugia perché qui è ancora tutto da sistemare. Li ho comprati dal fioraio in centro, quello vicino Piccadilly. Spero che l’odore ti piaccia come è piaciuto a me. Sai, posso sentirli di nuovo.” H.G.
 
“A volte va male. Magari ci vuole un po’ affinché quel pezzo funzioni con tutto il resto, affinché sembri una cosa sola con tutto quello che già c’era. Ci vogliono un po’ di sacrificio, di lacrime, di accettazione. Però a volte va bene. La nuova parte di te non è come l’avevi immaginata ma è ancora meglio, e scoprirla giorno dopo giorno è una cosa che non ti annoia, anzi, che ti spinge a continuare a vivere. In quelle volte, accettare è più semplice, è come lasciarsi un po’ andare e vedere come va a finire.
Credo che questa volta mi sia capitato il secondo caso”.
 
“Sei terribile a scrivere bigliettini”, fu la prima cosa che gli venne in mente. Non riusciva a smettere di sorridere.
Hermione era ancora sconvolta perché non si aspettava di vederlo davvero sul suo vialetto di casa, in un giorno qualunque, anzi, proprio in quello in cui aveva scelto di darsi da sola del filo da torcere con aspirapolvere e ferro da stiro. 
“Mai quanto te, D.M", scherzò lei.
Draco lasciò cadere tutto a terra, la baciò e la strinse forte, a volte rischiando di inciampare sui suoi stessi piedi. Le mani erano frenetiche, era come tornare a respirare di nuovo. Hermione si aggrappò alle sue spalle e intrecciò una mano nei suoi capelli, Draco la strinse altrettanto possessivamente, sostenendo l’impeto dei loro corpi con una mano ben aperta dietro la sua schiena. 
Era ancora troppo magra, ma la tempesta era passata. L’esito che stavano vivendo sembrò ad entrambi l’unico possibile. Hermione spostò le mani dalle spalle al petto e Draco la strinse così forte da sollevarla da terra. Le labbra non si staccarono un attimo. Ogni cicatrice gridava una storia diversa, ma ce n’era una che cantava la stessa canzone. 
Avevano smesso di fuggire. 
Dal giardino spuntarono delle margherite.
Come per magia.


 
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