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Autore: AdelaideMiacara    07/09/2020    0 recensioni
«Prova a sforzarti, Benjamin» disse la donna seduta sulla poltrona, poco protesa in avanti, attenta a scrutare da dietro le sue lenti l'uomo per cogliere anche la minima espressione facciale, «che cosa è successo la notte del 13 luglio?».
Sulla poltrona davanti a lei sedeva un uomo poco più che trentenne, nel pieno della sua bellezza, lo sguardo vacuo verso la finestra alla sua destra. Apparentemente rilassato e a proprio agio, il piede destro sul ginocchio sinistro come se fosse seduto nel salotto di casa propria, l'unica cosa che lo tradiva erano le mani: la sinistra stringeva con forza il bracciolo della poltrona, mentre con il pollice destro si accarezzava il labbro inferiore, in un vano tentativo di sostituire un gesto alle parole. Ma Ben non era mai stato abituato a parlare apertamente delle proprie emozioni, nonostante fosse un tipo abbastanza estroverso. A cosa serve essere espansivi, si chiedeva, se quando hai bisogno di mostrare la tua anima non ne hai il coraggio?
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"Oltre,

non è un posto per chiunque"

Luca Albani.

 

Ben non sentiva Deva da due giorni e pensò che dovesse essere così indaffarata a Brighton da non avere un attimo libero per chiamarlo, con tutto il lavoro che le aveva lasciato Nesbitt. In effetti, non poteva essere arrabbiato con lei, perché anche lui non aveva avuto pace tra amministrativa e clienti.

Quel pomeriggio a Londra pioveva così forte che fu emanata un'allerta arancione in tutta la città e i suoi distretti. I passanti investiti dal temporale trovarono rifugio nella hall dell'albergo, dove Ben e Dan distribuivano coperte e tè caldo e avvertivano ospedali e polizia ogni volta che arrivava una persona nuova. Il numero dei dispersi aumentava ogni ora e lui era sollevato al pensiero che la sua ragazza fosse fuori città. Gli sembrava ancora così strano chiamarla la sua ragazza...

Vide entrare dalla porta principale una ragazza colata dalla testa ai piedi, i corti capelli biondi bagnati sul viso spaventato, le sembrò conoscente. Si avvicinò portandole una coperta, quando la riconobbe: Amelia. L'aveva incontrata al Wilde qualche settimana prima, e avevano passato la notte insieme nella sua suite.

«Ho dovuto scegliere tra l'imbarazzo di entrare un'altra volta qui e la possibilità di morire lì fuori, quindi sii gentile» gli disse la ragazza, avvolgendosi nella coperta calda.

«Non avevo alcuna intenzione di non esserlo» rispose Ben sorridente. La situazione non lo imbarazzava quanto avrebbe dovuto, anche perché Amelia era un po' diversa da come se la ricordava. L'ultima volta che l'aveva vista vestita portava un tubino azzurro striminzito, mentre in quel momento indossava un elegante completo da lavoro blu notte, rovinato dalla forte pioggia.

La condusse fino a un divanetto libero e, dopo averle offerto il tè – che lei rifiutò in cambio di un caffè – si sedette insieme a lei.

«Dimmi, Amelia» iniziò, porgendole il caffè preso da uno dei carrellini che giravano per la sala, «di cosa ti occupi?».

«Non avevi tutto questo interesse in me quando mi hai cacciata dalla tua stanza alle sette del mattino».

La ragazza non sembrava né arrabbiata né rancorosa, anzì sembrava piacevolmente divertita da quella situazione.

«E tu sembravi troppo interessata per non farti vedere più. E infatti eccoti qui...» rispose Ben a tono.

«Ti piacerebbe» replicò la ragazza ammiccando, «proprio non vuoi accettare l'idea che una donna possa non volere niente da te?».

Ben rise tra sé e sé: Amelia aveva indovinato, ma non voleva darglielo a vedere. La ragazza si tolse la giacca da sotto la coperta e si mise comoda sul divanetto, allungando i piedi sul tavolino accanto.

«Sei una specie di agente segreto? Perché non mi racconti la tua storia?» la invitò ancora una volta, proteso verso di lei con le braccia poggiate sulle ginocchia.

«Perché è lunga».

Ben guardò fuori dalla finestra la pioggia che continuava a cadere violenta e i pochi alberi mossi dal vento, poi si rivolse di nuovo ad Amelia.

«Ho tutto il tempo».

Amelia era stata un chirurgo dell'esercito americano. Aveva lavorato per cinque anni sul campo, tra le bombe e gli spari e centinaia di corpi di militari e suoi colleghi. Gli mostrò una cicatrice sulla scapola sinistra, dovuta a un proiettile che l'aveva presa di striscio durante un assalto al campo medico. Mentre raccontava la sua storia era all'apparenza impassibile, ma Ben riuscì a leggere nei suoi occhi tutto il dolore nel ripercorrere quei momenti. Dopo il congedo, si trasferì a Londra per intraprendere la carriera d'ufficio: adesso lavorava per le Nazioni Unite, in difesa dei diritti umani.

Di tanto in tanto partecipava a qualche missione umanitaria nel Medio Oriente, specialmente in Palestina, dove la situazione diventava ogni giorno più grave.

«Sai, Ben, alcuni dicono che non avrei mai dovuto lasciare l'esercito, altri che non avrei mai dovuto arruolarmi. Da chirurgo, pensavo che l'unica arma che dovessi tenere in mano fosse il bisturi, ma purtroppo lì non serve la maggior parte delle volte» commentò quando finì di raccontare.

Ben era sconvolto e decisamente sorpreso. Ancora una volta, la vita gli diede la dimostrazione del detto "non giudicare un libro dalla copertina", incarnato da Amelia stessa. Si sentì in colpa per averla giudicata superficiale e insignificante, quando invece si trovava davanti una donna immensamente forte.

«Posso darti dei vestiti asciutti?» le disse d'impulso, accorgendosi del suo tremare. La ragazza annuì sorridendo e insieme si diressero verso l'ascensore. Entrarono nella suite e Ben le diede un suo pantalone di una tuta, una maglietta e una felpa.

«Sembro uno spacciatore» commentò, quando uscì dal bagno con i suoi vestiti larghi addosso.

Amelia era molto più simpatica di quanto Ben ricordasse, o meglio, di quanto sapesse. Lo trattava con distanza ma allo stesso tempo con dolcezza ed educazione, e lui sapeva che lo faceva per non fare fraintendere la situazione. Possibilmente lei sapeva già che Ben avesse una nuova ragazza, e che la cosa fosse abbastanza seria. Fu in quel momento che Ben si rese conto che quell'ora passata a parlare con Amelia fu la prima in cui non pensò a Deva neanche per un istante. Si era così immerso nella conversazione che aveva dimenticato di non avere notizie dalla sua ragazza da qualche giorno.

Lasciarono la suite e presero l'ascensore per tornare giù, dove Ben avrebbe provato a rintracciare Deva. Ma quando tutto sembrava tranquillo, all'improvviso il blackout: l'ascensore si fermò di colpo sussultando e facendo cadere i due ragazzi all'interno. Restarono qualche secondo per terra prima di realizzare cosa stesse succedendo. Ben si avvicinò a un piccolo pannello vicino i pulsanti, da dove accese la luce d'emergenza, molto più fioca, e anche Amelia scattò in piedi.

Dentro l'ascensore non c'era campo e non potevano chiamare nessuno, l'unica possibilità era il pulsante rosso delle emergenze. Dovettero aspettare qualche minuto prima di sentire voci in lontananza avvicinarsi a loro.

«Ben, stai bene?» disse la voce di Daniel.

«Sì, facci uscire Dan!».

«Siete bloccati tra il sesto e il settimo piano, bisogna aspettare che torni la luce».

Se c'era una cosa che Ben odiava e non riusciva a tollerare erano gli spazi stretti: ogni volta che ci si trovava più a lungo del dovuto iniziava a mancargli il respiro e andava nel panico. L'unico modo per resistere era distrarsi, e l'unica fonte di distrazione in quel momento era Amelia.

«Ti va di raccontarmi perché hai chiesto il congedo?» le chiese di botto, sbottonandosi la camicia e mettendosi a sedere. Tanto valeva mettersi comodi. La ragazza, inizialmente incerta, lo imitò e si sedette di fronte a lui.

Allungò verso di lui la mano destra e lentamente girò il polso fino a scoprire una lunga cicatrice verticale. Ben si chiese come aveva fatto a non notare prima tutti quei segni sul suo corpo...

«Un altro proiettile mi ha fottuto un nervo della mano dominante. Non posso più operare».

«Sono certo che tu sia stata un ottimo medico» rispose comprensivo, sempre più mortificato.

Passarono un'altra mezz'ora chiusi nell'ascensore a chiacchierare delle proprie vite. Ben le raccontò il periodo più bello della sua vita, dai venti ai trent'anni, e di tutti i casini in cui si era cacciato con il suo migliore amico deceduto, Josh. Parlare con Amelia era piacevole e rincuorante in quella situazione strana, ma Ben non fu triste quando la luce tornò e poterono liberarsi dall'ascensore.

Nella hall ancora piena di gente, si accorse che la pioggia era diventata più sottile e meno violenta. Le persone parlavano tranquille tra di loro, solo un uomo dal viso familiare giaceva su una poltrona con lo sguardo terrorizzato, che non appena vide Ben scattò in piedi e gli si avvicinò svelto.

«Signor Barnes, sono Luke Thompson. Il fratello di Deva» si presentò stringendogli la mano, e finalmente Ben ricordò di averlo visto insieme a lei qualche settimana prima al parco. L'uomo estrasse dalla tasca una busta aperta e la porse a Ben, che ne estrasse una lettera.

 

Non vi resta molto tempo. Il signor Barnes saprà cosa fare.

 

Erano queste le uniche parole scritte su quel foglio di carta, ma più Ben le rileggeva meno ne capiva il significato.

«Dov'è mia sorella?» disse Luke, lo sguardo infiammato puntato contro Ben.

Ben estrasse dalla tasca della giacca il telefono intento a chiamare subito Deva, ma questo stava già squillando: numero sconosciuto.

 


 

   
 
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