Il
Giardino Delle Parole
Prologo
Il rombo del
Tuono
Nel cielo
Nuvoloso
Forse pioverà.
E quando accadrà resterai
Con me?
(Man’yoshu,
Volume 11, verso 2513)
Tokyo era una
città frenetica, un’esplosione di colori al neon, cartelloni pubblicitari con
studentesse pettorute e gonne troppo corte, una pachinko gigante, dove si vinceva senza entusiasmo, per perdere
ancora, imbambolati da ipnotiche luci intermittenti.
In Giappone esistevano
più di duecento gusti diversi di KitKat.
«E due lattine di birra.»
Ma non sarebbero
bastati a sfamare l’ansia sociale della perfezione, di una vita costellata da
tappe necessarie: scuola, università, lavoro; senza tempi morti nel mezzo.
Né l’onta si
sarebbe spenta rintanandosi in casa, o si sarebbe corso il rischio di essere etichettati
come reclusi, paradossalmente degli “outsider”. La vita andava affrontata di
petto.
«Prego.»
In una città così
grande non c’era spazio per gli stranieri. L’occidente era “pop”, ma i suoi
imbarazzanti stereotipi, l’informalità spiccata erano meglio in vacanza o cantati
al karaoke. «Un pacchetto di sigarette gusto fragola, grazie.»
Difficile anche
stringere amicizie sincere. Con Olong aveva preso una cantonata: si era
rivelato un vero maiale. Con Blue, invece, era andata anche peggio: non aveva
capito fosse uno dei professori!
Era dunque storia
già scritta che, dalla peculiarità della sua chiassosa persona, non ci si fosse
aspettato che una sciocca, senza che nessuno avesse avuto la grazia di
difenderla o andare oltre.
Lei, i bei voti,
non se li procurava flirtando!
La stagione delle
piogge si addiceva al suo pessimo umore. Aveva un effetto lenente osservare le
gocce increspare la superficie del lago e diventare un tutt’uno con esso. Il
cielo che si trasformava in acqua, accarezzato dalle fronde degli alberi, e le
foglie, tremanti, rispondere al vento, in attesa del tuono.
I giorni di
pioggia gli piaceva passarli sotto un’azumaya
del parco Shinjuku, a leggere sulle fronde del lago, tra gli alberi di ciliegio,
in quel periodo ancora verdi. Era lì che i suoi pensieri sbocciavano,
esplodevano insieme ai tuoni per poi…sciogliersi in un nulla di fatto. Il modo
giusto di replicare non aveva importanza, se arrivato in ritardo.
Vegeta era dotato
di loquacità e grande intelletto; poca cosa contro di loro. Avrebbe forse
dovuto cedere, e accettare senza pensarci troppo?
«Ehi!» La lattina di
birra si arrestò ai suoi piedi, saltellando sui gradini del pergolato in legno,
rotolando sul sentiero bagnato. Bulma si chinò a raccoglierla, con un po’ di
difficoltà nel reggere la borsetta, la spesa e l’ombrello trasparente, con i
tacchi che le affondavano nel pietrisco fangoso.
«Non si getta
spazzatura per terra, non te l’hanno insegnato?» E si avvicinò al ragazzo che
l’aveva gettata, per restituirgliela.
Il quale sollevò
appena la testa dal libro che non stava neanche più leggendo per guardarla
confuso: una straniera dai capelli verderame; talmente concentrato su se stesso,
non si era accorto del suo approcciarsi.
Allora Bulma, il
braccio ancora allungato verso il ragazzo, ripeté la frase in giapponese, ma
con un terribile accento americano.
Lui le sorrise
senza bontà e lei, naturalmente, si stizzì, restituendogli la lattina in
grembo. Poi, senza altre cerimonie, gli si sedette accanto. «È un giardino
pubblico, mi siedo dove voglio.» Aggiunse, notando la sua espressione dura
sciogliersi in una breve inflessione di fastidio.
Che peggiorò,
quando la sconosciuta tirò fuori un pacchetto di sigarette dalla borsetta e
iniziò a sbuffare vapori dolciastri al profumo di fragola.
Vegeta avrebbe
preferito restar solo, Tch, gaijin!
Raccolse la
propria roba e restituì i passi alla breccia; il sentiero coperto da una nebbia
di pioggia.
Nelle belle
giornate, la luce del sole si rifletteva contro le finestre del Politecnico. Il
prato del cortile si riempiva di studenti e qualcuno, dalle panchine, disegnava
il chiaroscuro delle pareti di cemento.
All’interno
l’edificio era bianco, luminoso. Sembrava una serra, con le scalinate laterali
che, nei giorni più limpidi, parevano ti portassero in cielo.
In quel bianco
asettico, da ospedale, Goku pensava a Vegeta. E allenava i propri ricordi ritrovando
il suo volto tra le nuvole, che lentamente scorrevano nel cielo, sopra i
grattacieli, oltre la finestra della classe.
Non lo vedeva da
tempo; l’ultima volta non era stata piacevole.
«Non penso che
cambierà mai.» Crilin aveva rispettato il suo silenzio fino a quel punto, prima
che la conversazione s’infiacchisse e lui sbandierasse la penna per iniziare a
prendere appunti. Non condivideva il desiderio di Goku. «Vegeta è un caso
perso.»
«So bene che ha la
testa dura!» Aveva già provato a scalfirla. Il sorriso, però, tornò ad
illuminargli il volto. «Ma riuscirò a convincerlo, ne sono sicuro.»
«Mi dispiace di
essere giunto in ritardo.»
Vegeta guardò Goku
dal rubinetto del bagno su cui era chino. Raccolse un po’ di acqua fresca e
iniziò ad umettarsi uno zigomo prima che si gonfiasse. Aveva ricevuto un pugno
da Recoome, il vicino di casa che gli dava sempre il tormento, Vegi-chan! Vegeta in certe occasioni non
riusciva mai a starsi zitto.
«Non importa, non avevo
chiesto il tuo aiuto, né eri stato invitato.»
Goku gli sorrise. «Già,
avresti potuto sbrigartela da solo.» Nonostante la notevole differenza di
altezza e di forza.
Vegeta richiuse il
rubinetto. «Che c’è? Pensi che non potrei prenderlo a calci in culo,
quell’idiota?» Si asciugò con il bordo della maglietta, con movimenti nervosi,
scattosi. «Figurati se devo aspettare che tu
mi difenda.» Suo fratello minore. Uscì dal bagno.
«E comunque perché
ce l’ha tanto con te, che gli hai fatto?» Goku lo seguì grattandosi la folta
zazzera. Ma Vegeta non rispose e la notò allora la scatola di dolcetti lasciata
sul tavolo, «E questi?»
«Ai fagioli
rossi.»
«So benissimo cosa
sono. Che diamine me li hai portati a fare?»
«Per rifocillarti
lo spirito. Non puoi mangiare sempre ramen precotto!»
«E pensi che
cambierò idea solo perché sei carino
con me?»
«Andiamo, Vegeta, dammi
un po’ di tregua!»
«Tanto tu te ne
andrai via.» In Europa. Mentre lui sarebbe rimasto a fare i conti col resto.
Lanciò un’occhiata al cesto della lavanderia che non era riuscito a
raggiungere; Recoome aveva voluto rubargli le mutande. «Poi cosa diamine ci vai
a fare, in Europa?»
«Farà bene al mio
curriculum accademico…migliorare l’inglese.»
«Non ho avuto
bisogno di andarci per imparare l’inglese.» Era bastata la sua determinazione.
«Né per migliorare il mio curriculum.» Il suo destino, in fondo, pareva essere
stato già scritto, mentre Goku era libero di fare ciò che volesse. Ma lui non
avrebbe permesso ad altri di decidere per lui la sua sorte: l’avrebbe spuntata!
«Non sono una
talento naturale come te!» Goku cercò di lusingarlo per ravvivare il suo buon
umore. «Ho bisogno di studiare.» E tanto anche. Vegeta, invece, capiva sempre
tutto al volo. «Ma neanche il talento riuscirebbe a salvarti, questa volta.»
«Che intendi
dire?»
«Gira voce che il
posto di Blue lo daranno ad un esterno.»
«E non è quello
che volete tutti?»
Pensava alle rose
del giardino francese del parco Shinjuku, alle perle d’acqua tra gli steli
spinosi, ai petali profumati, gialli come soli bagnati, rossi come fuoco
intriso di incenso, rosati come le labbra che tutte le invidiavano. I fiori
erano più belli e vibranti sotto la pioggia.
Nemmeno a Bulma
dispiaceva il maltempo. Aveva seguito lo sfarfallio degli aironi tra i timidi riflessi
del sole; gli uccelli nascondersi tra i rami, nei loro nidi, ai primi accenni
di pioggia. Si era lasciata abbracciare dagli aceri nodosi e sormontare dagli
altissimi liriodendri, lungo i sentieri all’inglese dove erano sbocciati i suoi
pensieri, blu come il mare del suo sguardo, finché non aveva trovato riparo,
sotto l’azumaya, nella parte giapponese.
Non era abituata a
non essere amata: nessuno pareva capirla sul serio.
Si accese una
sigaretta; spire di fumo alla fragola volteggiarono nella sua bocca, prima di
essere espirate.
Bulma le scompose
con dita sottili e curate, inspirò un’altra boccata.
«Qui non è
permesso fumare.» Vegeta posò il proprio zaino per terra, deciso a sedersi,
dove preferiva sempre sedersi: all’angolo del pergolato, rivolto al lago.
«Come non è
permesso gettare spazzatura per terra.»
«Non l’avevo
gettata. Mi era caduta.»
«Ma poi non l’hai
raccolta.» Gliela aveva lasciata accanto. Non capì il ghigno che le rivolse.
«Vieni sempre qui?»
«Potrei fare la
stessa domanda, e chiarire, se è il caso che io torni o meno.»
Sbuffò
sfacciatamente un’altra nuvola di fumo dolciastro. «Non un amante della
compagnia.»
«No.» Tirò fuori
un libro dallo zaino. Iniziò a leggere.
«Cosa leggi?»
Tirò fuori anche
gli air pod.
Alcuni uccelli spiccarono
il volo da un ramo di ciliegio; scoppiarono coriandoli di pioggia.
Era un libro
sottile, dalla copertina rigida e rossa. In bianco, sulla costa, a caratteri
cubitali c’era scritto Soyuz, “An Insight into Russia’s flagship
spacecraft, from Moon missions to the International Space Station”.
Il modello che
cercava lo avrebbe trovato a pagina 17: la navicella spaziale Vostock,
“Oriente”. La sua capsula di rientro era sferica, monoposto.
Avrebbe tanto
voluto studiarla. «Ehi! Quello è il libro che sto cercando!»
Goku si volse
verso la ragazza che aveva parlato. Una straniera dai capelli color ottanio.
«Dici a me?»
«A chi
altrimenti?» La biblioteca era vuota. Erano rimasti solo loro due in una jungla
di libri. Il sole tagliava gli scaffali con la sua ultima luce morente.
«Mi dispiace, ma
l’ho preso prima io.» E se lo ficcò nello zaino.
«Potresti almeno
lasciarmi fare delle fotocopie.»
«E così mi ha dato
questo in cambio.» Del silenzio per aver fotocopiato un libro intero.
«Un KitKat alla
fragola?» Crilin notò che era scaduto da un mese, ed era sbriciolato in più
parti.
«L’alternativa era
il caffè, ma a me non piace.»
«E come ha detto
di chiamarsi?»
«Bulla mi sembra.» Una tipa bizzarra, «Non
mi ha neanche detto grazie.»
Bulla…«Non
l’ho mai sentita.»
Vegeta li guardò
entrambi, in silenzio, scocciato e affranto: non voleva la loro compagnia e
Goku pareva non comprenderlo. Affatto. «Comunque, se avete finito di blaterare
sciocchezze lasciate il libro e andatevene.» Doveva assolutamente prepararsi
per la prossima lezione, o lo avrebbero licenziato sul serio.
Continua…
Spero che questo
brevissimo “sneak peek” vi sia piaciuto, i prossimi aggiornamenti saranno più
lunghi.
Alla prossima :)
Nota sul Politecnico - questa università è inventata, mi ero dimenticata di specificarlo! Cercavo un’università che fosse vicina al parco Shinjuku, come la scuola dell’anime. Da quelle parti (almeno basandomi sulle mie ricerche) esiste un Politecnico di design che però non avrebbe fatto al mio caso. Nella descrizione degli ambienti e delle lezioni ho quindi tratto ispirazione da diverse università giapponesi.
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