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Autore: Konstantya    19/08/2009    2 recensioni
Put on your red shoes and dance the blues.
(La prima volta che gliele vide indosso, lei aveva a stento sedici anni.)
Genere: Drammatico, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Tseng
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno | Contesto: FFVII
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Nota dell’autrice: Credo che mi stesse venendo un blocco. Perché non appena mi è venuta in mente la vaga premessa di questa storia, mi sono azzeccata a Microsoft Word come burro sul pane tostato caldo. O una cosa del genere.

Nota della traduttrice (youffieh): questa storia è strana e l'Aeris di questa fic è folle <3 Comunque sono in ritardissimo con queste fic, perciò per il momento niente beta-reader. Questa è per te e per il tuo contest Tserith, Valy *blows a kiss*
Volendo usare in maniera più intelligente le note volevo sprecare due parole su questa traduzione e sulla versione originale. Che è molto incasinata. Parlando con l’autrice di alcune frasi che non mi erano del tutto chiare, mi ha risposto che effettivamente "Sometimes things get written because of the flow of the moment and not because of the sense it makes"; se vi dovesse capitare di leggere la versione originale (cosa che vi consiglio per le fic di quest’autrice in particolare) sono sicura che lo notereste. Dal canto mio ho fatto di tutto per non rovinare l’atmosfera un po’ grigia e le frasi quasi spezzate dell’originale - posso solo sperare di esserci riuscita.


Paraculata obbligatoria: Final Fantasy VII non è mio.


 
 
Let’s Dance
 
 

 
’Cause you know comes a time
When love will unwind.
Somebody suffers—what’s new?
Still, you…
 




La prima volta che gliele vide indosso, lei aveva a stento sedici anni.

Quel giorno faceva caldo, era primavera, e neanche i malsani bassifondi sotto la piattaforma avrebbero potuto soffocare del tutto la luminosità presente nell’aria. Le si addiceva, e calzava l’atmosfera con la disinvoltura con cui portava il vestito estivo bianco che arrivava oltre il ginocchio. C’era un nastro rosso sotto il seno –e si rese conto che aveva davvero un seno che poteva essere chiamato tale, negli ultimi tempi– che si legava dietro in un fiocco. E per abbinare aveva messo delle scarpe rosse. Cosette seducenti e sfrontate, con un tacco che sua madre adottiva avrebbe reputato troppo alto e magari troppo sottile.

Con una mano curvata attorno all’avambraccio del SOLDIER e l’altra che reggeva un cestino –coperto, e più grande di quello in cui di solito teneva i fiori– gli fece un sorriso affettuoso. Percorrevano la linea sottile tra Cetra e Turk, nemici e amici, e c’erano giorni in cui la loro relazione pendeva più da una parte che dall’altra. Quel giorno erano amici, e lei emanava quel tipo di felicità che non si può reprimere. Si chiese se il suo sorriso non c’entrasse qualcosa con il bel tempo.

“Andiamo a fare un picnic.” disse Zack Fair, in quel modo quasi esageratamente entusiasta che solo Zack Fair poteva mettere a segno.

Un sorriso piuttosto ironico e vuoto gli tirò un po’ su gli angoli della bocca. “Dove?” fu l’ovvia domanda che fece.

Lei ridacchiò e fece una giravolta. “Dovunque!” E in quell’attimo era rimasto ammaliato da lei, per una volta genuinamente felice, a dispetto delle circostanze, perfettamente in bilico tra l’essere una ragazza e l’essere una donna, la treccia che sibilava nell’aria, la gonna che volteggiava, il ticchettio delle scarpe eleganti. Comportarsi come un’adolescente normale l’aveva inebriata.

Il SOLDIER le rivolse un ampio sorriso, sapendo di essere fortunato, sapendo riconoscere una cosa bella quando ne aveva una, e per un momento, il leader dei Turk si era rivisto in quel sorriso.

All’epoca lui aveva forse diciott’anni. I capelli troppo corti per essere legati gli ricadevano sempre sugli occhi. Le aveva chiesto di andare al festival dell’autunno, e lei aveva detto di sì. I caldi occhi marroni le scintillavano e si era vestita di rosso, scarpe comprese. Tacchi a spillo e punta arrotondata. Carine ed eleganti. Quella sera l’aveva baciata, e quella notte era stata speciale, come avrebbe potuto esserlo la loro relazione.

In seguito l’avrebbe chiamata “quella che è scappata”, ma la realtà dei fatti era che era stato lui a scappare. Aveva accettato l’offerta di lavoro della Shin-Ra, perché per quanto lei gli piacesse non ne poteva più della sua città, di studiare argomenti di cui non gl’importava niente, della monotonia in cui si era trasformata la sua giovane vita. Le aveva detto che avrebbe scritto, e lei aveva sorriso, un po’ triste e un po’ come a prenderlo in giro, quasi sapesse che non l’avrebbe fatto, e infatti così andò a finire. Avrebbe voluto poter addossare la colpa alla poca organizzazione e alla perdita del suo indirizzo, ma sarebbe stata una bugia colossale, e chiunque lo conoscesse anche solo un po’ l’avrebbe capito. La verità era che sapeva esattamente quale fosse il suo indirizzo, scritto su un pezzo di carta bianca che era diventato d’avorio nel corso dei mesi che erano diventati anni. La verità era che si era trasferito a Midgar, e tutto era cambiato.

Midgar sembrava essere particolarmente brava a cambiare le persone, indipendentemente da che vivessero sotto o sopra la piattaforma.







La seconda volta che gliele vide indosso, notò le scarpe prima della ragazza che le aveva ai piedi.

In realtà non era sceso nei bassifondi a cercare lei. Ci era andato perché i bar dei bassifondi erano più chiassosi, cupi e pericolosi di quelli sopra la piattaforma. E negli ultimi tempi non gli andava tanto di bere, neanche date le attuali circostanze, ma aveva bisogno di distrarsi.

Gli balenarono davanti agli occhi quasi rivolti al pavimento, e fu il colore ad attirare la sua attenzione. Rosso, e invece di distrarlo gli fecero soltanto ricordare –sangue, troppo sangue su un uomo che aveva imparato a chiamare amico– e poi riconobbe lo stile, con un tacco troppo alto e magari troppo sottile. Accompagnate da un vestito nero che metteva troppo in mostra le gambe, da sfrontate erano sfiorite in sprezzanti. Dolorose.

Gli si avvicinò con un bicchierino in una mano e un bicchiere di bourbon per lui nell’altra, dicendogli di averlo notato prima che lui notasse lei. Gli porse il drink e la sua bocca si stirò e si sollevò agli angoli in segno di saluto, ma non era propriamente un sorriso.

“Offro io.”

“Aeris…”

Pronunciare il suo nome fu errore, capì troppo tardi. Aveva un suono maturo, e lei sembrava matura, e c’era qualcosa di sbagliato nel sapere che fosse attraente, e qualcosa di molto sbagliato nel non riuscire a ignorare il fatto che si sentisse attratto da lei. Era tutto sbagliato. Lui non c’entrava niente con i bassifondi, Zack Fair non meritava la morte, e forse e soprattutto il nero non le stava bene. Che fosse il colore del lutto era solo una coincidenza–e lei aveva tutto il diritto di essere in lutto, con un carismatico SOLDIER di prima classe oltreché suo fidanzato morto. Ma il punto era che la scollatura era un po’ troppo bassa, e lo spacco della gonna un po’ troppo alto, e sarebbe parso evidente a chiunque che il lutto non fosse esattamente il suo primo e unico pensiero. Almeno non nel senso tradizionale.

Non raccolse il bicchiere, ma le sue labbra presero una piega di disapprovazione. “Pensi che lui vorrebbe che ti comportassi così?”

Si chiese se i suoi sorrisi fossero sempre stati tanto incrinati. “Non che adesso importi molto quello che vuole lui, giusto?”

Lui sbatté le palpebre. “Un tempo eri meno cinica.”

“Un tempo eri più gentile.” osservò lei, e punse un po’ perché era vero.

Ci fu un silenzio, e nel frattempo la loro relazione scivolò da qualcosa di vicino all’amicizia a qualcosa che con l’amicizia c’entrava poco.

Lei tracannò il bicchierino e indicò il bourbon. “Se non lo vuoi tu vado a cercare qualcuno che lo voglia.”

Quando cominciò ad allontanarsi l’afferrò per il braccio, e ripeté il suo nome, ma non avrebbe saputo dire se a farglielo fare fosse stata la preoccupazione e non qualcos’altro.

“Tseng.” E odiò il modo in cui la sua voce fu come una pistola che gli sparò nell’orecchio un proiettile che scese fino al petto. “Ho diciassette anni.”

Lui la guardò, e forse fu un errore perché quei suoi occhi verdi difendevano e tradivano al contempo l’affermazione che aveva appena fatto. Ma conferì anche austerità a quello che disse lui. “Io ne ho trentuno.”

Stavano cercando qualcosa l’uno nell’altro, e parlarono nella lingua delle cose perse che non potevano più essere ritrovate. Lei l’amante, lui l’amico, lei l’infanzia, lui la gioventù. Vite normali, i loro cuori – per ragioni ampiamente diverse.

“Non lo troveremo l’uno nell’altro.” disse lui alla fine.

“Forse sono stanca di cercare e voglio qualcosa con cui distrarmi.”

Le luci dure dei fanali di un’auto di passaggio volteggiarono nel bar, e insieme a loro vide guizzare il proprio riflesso nei suoi occhi. Il buio fumoso calò nuovamente, e le prese finalmente il bicchiere di mano. Lo bevve troppo in fretta, e una volta usciti l’unica cosa che gli veniva da rimpiangere era il portafoglio vuoto.

Quasi inciamparono tra i vicoli della parte superiore di Midgar, diretti al suo appartamento, e allora lei lo baciò. Utilizzò l’altezza extra che le davano quelle scarpe rosse e lo spinse contro i mattoni, stringendo una mano sulla cravatta mentre lui ne nascondeva una tra i suoi capelli. Le loro labbra s’incontrarono in una cosa a cui lui non si permise di pensare, perché sapeva che era disperata e nera, e lei era un chiaro di luna, era fumo, era fiori, era il bagliore ingannevolmente caldo dei lampioni. Era tutto ciò che era fugace e intangibile, sapeva di vodka al miele, e in quel momento si era praticamente tramutata in un superalcolico.

“Quand’è che sei cresciuta?” chiese piano, sbattendo le palpebre e guardandola in un modo non del tutto sobrio, e lei sorrise, un po’ triste e un po’ come a prenderlo in giro.







L’ultima volta che le vide, alla luce del sole confuso dai postumi da sbornia della mattina successiva, praticamente brillavano come fuoco. Erano l’unico segno di lei che gli fosse rimasto. Se n’era andata senza lasciare altra traccia, era svanita di nuovo. In quello era diventata molto brava. Forse era stato proprio lui ad insegnarglielo, in qualche modo.

Aveva paura per i suoi piedi, magari indossava qualcos’altro, magari si sarebbe tagliata o aveva dovuto calpestare vetro rotto mentre tornava a casa.

Aveva paura perché forse la notte prima aveva trovato in lei quel qualcosa che aveva perso.

Quasi come se stesse compromettendo le prove della scena di un crimine, si allungò esitante dal bordo del letto dov’era seduto e raccolse una scarpa. Un po’ consumata, numero medio, forse leggermente più piccolo della media, e rossa, rossa, rossa. Scarpe, labbra, fiori, cuori, sangue, morte, tutto rosso, rosso, rosso.

Non poteva restituirgliele. Cosa le avrebbe detto? Cos’avrebbe detto lei? Pensò che forse avrebbe dovuto impegnarle, buttarle via, ma si rese conto di non potersi separare da loro. Non così.

Trentun anni, leader dei Turk, e avvinghiato a un paio di scarpe da donna per – per cosa, esattamente? Sentimentalismi? Rimpianti? Per tutto quello che avrebbe potuto essere e non era stato? Era passato tanto, tantissimo tempo dall’ultima volta che si era sentito così, e aveva dimenticato il nome adatto con cui definire quello stato d’animo.

Qualunque cosa fosse, era ridicolo. Si sentiva stupido. Troppo giovane per gli anni che aveva. Troppo vecchio per abbandonarsi a ricordini romantici e a ingenua nostalgia. In particolare per una donna–ragazza–di quasi quindici anni più piccola.

E cosa avrebbero detto i suoi colleghi se avessero saputo che le stava stringendo? Reno? Ma anche Rufus? Si passò una mano sul viso, non volendo neanche pensare alle possibili reazioni. Non avrebbero neanche dovuto sapere a chi appartenessero – e non l’avrebbero saputo, questo era poco ma sicuro. Tanto per il suo bene e la sua sicurezza quanto per quelli di lei.

Accarezzò delicatamente il tacco col pollice, la seta che lo rivestiva, e si chiese quale fosse il posto che occupavano nella sua vita. Non esisteva; questo era il problema. Un uomo ossessionato da documenti, rapporti e organizzazione dove avrebbe mai potuto mettere queste?

Finirono in un forziere serbato nell’angolo posteriore di uno scaffale del suo armadio, proprio vicino al piccolo arsenale di armi da fuoco che gli aveva fornito il suo lavoro – perché le cose pericolose erano fatte per stare insieme.







Note: Wow. Tseng. Non è il mio genere. Aeris lo è ancora di meno. Ho sempre pensato che fosse una delle furbette più complicate da inquadrare, perciò non saprei dire da dove mi è uscita. Credo di sentirmi un po’ insicura riguardo alle caratterizzazioni, ma potrebbe anche essere solo perché non scrivevo da un po’. D’altro canto la mia idea di Aeris in generale tende a divergere un pochino dalla norma. Malgrado le apparenze ha vissuto negli slum, ed è riuscita ad evitare la Shin-Ra innumerevoli volte. La ragazza probabilmente conosceva un sacco di espedienti da strada, e non sono del tutto convinta che fosse innocente e angelica come molte persone la rendono. Ma, eh, è solo la mia opinione *shrug* :)
Non mi ricordo più come mi è venuta in mente questa storia. Forse stavo pensando al rosso per San Valentino, o forse stavo pensando a David Bowie (come faccio di tanto in tanto). Comunque sia, la frase “Put on your red shoes and dance the blues” mi vagava per la testa, e forse perché era San Valentino, forse perché per caso ero loggata, ha preso forma questa storia. Perciò è stata parzialmente ispirata dalla canzone di David Bowie “Let’s Dance”, e ispirata un po’ di più da “Love Can Damage Your Health” dei Télépopmusik – una canzone triste ma dal tono piuttosto sinistro, dalla quale ho preso le frasi che trovate a inizio storia. (Come avrete intuito, non sono mie neanche queste due canzoni.)
Per cui buon pseudo-anti-San-Valentino in ritardo! (Perché non stavate seriamente aspettando l’equivalente fanficciano di una scatola di cioccolatini e un orsacchiotto di peluche, vero?)
   
 
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