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Autore: Quasar93    30/10/2020    0 recensioni
[...] Elizabeth mi tiene stretto per le braccia proprio per evitare che mi metta in mezzo. E’ forte, più di quanto si possa pensare vedendolo, e per quanto mi divincoli fino a farmi male alle braccia la sua presa rimane salda.
Probabilmente pensa di farlo per proteggermi, pensa che non sia forte abbastanza da essere io, per una volta, ad aiutare Gin-san.
[Missing moments] [Benizakura arc]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gintoki Sakata, Otae Shimura, Shinpachi Shimura
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Paura.
Rabbia.

Impotenza.
Frustrazione.
Quello che provo ora non è che un miscuglio indefinito di questi sentimenti.
Sto guardando Gin-san combattere con Nizo, lo vedo in difficoltà ma non posso fare niente per aiutarlo.
Elizabeth mi tiene stretto per le braccia proprio per evitare che mi metta in mezzo. E’ forte, più di quanto si possa pensare vedendolo, e per quanto mi divincoli fino a farmi male alle braccia la sua presa rimane salda.
Probabilmente pensa di farlo per proteggermi, pensa che non sia forte abbastanza da essere io, per una volta, ad aiutare Gin-san.
Mi sottovaluta, così come hanno sempre fatto tutti e, per quanto in buona fede, non capisce che tenermi fermo lì, contro la mia volontà, mi ferisce più di quanto non farebbe Nizo trafiggendomi con quell’arma demoniaca.
Sotto al ponte Gin-san non si risparmia, ma non serve essere esperti per capire che non sa come fronteggiare Beninzakura. Non è una katana normale e questo lo mette in crisi, non è addestrato a combattere contro un abominio simile e inoltre è svantaggiato, visto che si ostina a portare in giro solo quell’inutile bokken.
Trattengo il fiato e provo di nuovo a liberarmi ma non c’è niente da fare.
Grido quando Nizo gli spezza la spada di legno e lo sbatte contro l’architrave del ponte e grido più forte quando, quasi a sfregio, lo taglia sul petto.
Vedo lo sguardo di Gin-san, dice qualcosa che non capisco ma riconosco quello sguardo rassegnato. Ha perso, e lo sa.
Nizo carica il colpo e senza esitazione lo trafigge con un unico vigoroso movimento.
Gin-san riesce a spostarsi quel tanto che basta da essere colpito al fianco invece che al ventre ma non schiva totalmente l’affondo, Nizo è stato troppo veloce.
Lo vedo sputare sangue.
Non riesco nemmeno più a urlare, la paura mi paralizza.
Vorrei scappare, vorrei gettarmi in mezzo a loro ma non ci riesco e stavolta non è colpa di Elizabeth che non molla la presa.
“Gin-san è…” riesco solo a balbettare, più volte, non so nemmeno io rivolto a chi.
Tremo, ho paura, ma non riesco a distogliere lo sguardo dal mio mentore… No, dal mio amico, ridotto a quel modo.
Di questo passo sarebbe morto.
Nizo l’avrebbe ucciso.
Eppure non riesco a fare nulla.
Vedo Gin-san che parla con Nizo, di nuovo non capisco cosa dice, ma stavolta lo vedo sorridere mentre con le mani afferra la katana demoniaca per impedire al macellaio di estrarla dal suo corpo, incurante di ferirsi le mani.
Perché?
A che scopo?
Poi capisco. O forse no, ma vedo un’opportunità e devo coglierla al volo. Non posso lasciarlo morire così senza averci nemmeno provato.
Proprio mentre sembra che Nizo stia recuperando la possibilità di muoversi e sia sul punto di lanciare un nuovo attacco mi lancio dalla mia posizione. Non capisco se sono riuscito finalmente a liberarmi di Elizabeth o se lui mi ha lasciato andare di proposito e non mi interessa.
Atterro dietro a Nizo mentre con un colpo netto della mia katana gli stacco il braccio destro dal corpo. Beninzakura si ridimensiona, tornando all’apparenza soltanto una strana spada e, proprio in quel momento, arriva la polizia.
Tutto accade velocissimo e contemporaneamente lentissimo.
Mi accorgo che Nizo dice qualcosa, ma non lo sento.
Non sento i poliziotti.
Non mi rendo conto che il macellaio sta fuggendo e che la polizia è partita al suo inseguimento.
Non mi rendo davvero conto nemmeno di cosa io sia stato in grado di fare.
La mia attenzione è tutta e sola per Gin-san che, senza più la spada che lo teneva inchiodato al muro era scivolato a terra e ora giaceva immobile nell’acqua bassa.
“Gin-san!” urlo, dirigendomi verso di lui “tieni duro Gin-san”
“lo-lo sapevo” mi dice, con un filo di voce “lo sapevo che ce l’avevi in te”.
Prova a sorridermi prima di perdere i sensi.
Lo prendo tra le braccia, almeno per sollevarlo dall’acqua gelida e gli prendo il polso: è debolissimo. Vorrei essere forte, ma per un attimo non lo sono e lo stringo a me, piangendo.
Non riesco a fare altro.
Ho gli occhi chiusi, come se non vederlo potesse fare la differenza, ma gli altri sensi mi riportano alla realtà: Gin-san è freddo e ha il viso sudato. Mi sento bagnato un po’ ovunque, dove l’ho stretto a me, e so che non è l’acqua del fiume.
Mi faccio forza e apro gli occhi, lasciando un po’ la presa. Non è buone condizioni. Il kimono bianco che indossa sempre è ormai scarlatto, così come il mio.
La sua vita dipende da me.
Se mi farò prendere dalla paura e dalla mia debolezza Gin-san morirà.
Se non riesco a farmi forza e a portarlo via da qui Gin-san morirà

Se sarò debole come sempre… Gin-san… Gin-san morirà.
Urlo al cielo e mi riprendo.
Basta essere deboli.
Qualcosa dentro di me mi da la forza di riprendermi, forse la stessa cosa che lui aveva visto in me, e improvvisamente riesco a ragionare lucidamente.
Come prima cosa mi tolgo la parte sopra del Kimono e la ripiego per poi stringerla al fianco di Gin-san con la sua cintura più forte che posso.
Lo sento lamentarsi ma non importa, devo fermare l’emorragia. Al momento temo abbia perso già almeno un litro di sangue, non può perderne altro.
Ma la parte veramente difficile arriva ora, devo portarlo a casa.
In qualche modo riesco a caricarmelo in spalla.
E’ difficile e cammino lentamente. Un uomo adulto di circa 1.80 e sugli 80 kg è difficile da trasportare per me che ho solo 16 anni e un fisico non certo invidiabile, ma non posso arrendermi.
Anche se sento le gambe bruciare.
Anche se le braccia con cui lo sostengo urlano.
Lui si fida di me.
Non posso deluderlo.
“Shin..Shinpachi..” lo sento bisbigliare a un certo punto, mentre cammino nel letto asciutto del fiume “ho potuto… ho potuto rischiare tanto solo per..” fatico a sentirlo, si interrompe per tossire e vedo altro sangue bagnarmi le braccia “solo perché tu eri lì”.
Mi sento arrossire. Stupido Gin-san, non mi fai mai un complimento e, quando ti decidi, deve essere in un momento come questo? O è lo shock emorragico a parlare?

Sto per rispondergli ma sento di nuovo la sua testa a peso morto sulla spalla.
Devo sbrigarmi.

Quando finalmente raggiungo l’Agenzia Tuttofare fatico a reggermi in piedi e ormai Gin-san sembra pesare un quintale. La cosa che mi terrorizza però non è la fatica, le braccia doloranti o le gambe che tremano. Ho paura perché Il corpo che mi grava sulle spalle è freddo e nonostante il mio kimono stretto sul suo fianco mi sento la schiena bagnata.
Non so nemmeno perché sono venuto qui invece che andare a casa mia.
Salgo faticosamente le scale con le ultime energie che mi restano e sussulto quando vedo le porte aprirsi davanti a me.
E’ mia sorella ad uscire dall’Agenzia Tuttofare. La vedo portarsi per un attimo le mani alla bocca alla vista mia e di Gin-san coperti di sangue ma poi si riprende velocemente e viene a darci
una mano.

“Non stavi tornando a casa stanotte e mi sono preoccupata” mi dice solo velocemente, rispondendo alla mia domanda inespressa, per poi analizzare la situazione.
Si vede che è abituata a poter contare solo su sé stessa e a prendersi cura degli altri.
Non mi chiede nulla io non le dico nulla.
Ci sarà un momento per le spiegazioni, ma ora dobbiamo agire.
Portiamo Gin-san dentro e mentre mia sorella gli prepara un futon pulito io lo spoglio dai vestiti bagnati di acqua e sangue, orami gelidi.
Lo sento tremare tra le mie braccia.
Dovremmo andare in ospedale, ma sono più che sicuro che non ne vorrebbe sapere per non dover dare spiegazioni su Nizo o l’indagine che stiamo seguendo dato che coinvolge Katsura-san, ricercato dagli Shinsengumi. L’ultima cosa che Gin-san vorrebbe sarebbe mettere nei guai un amico e, per quanto lo maltratti sempre, sono sicuro che per lui Katsura-san sia quasi un fratello.
Mentre gli sto sfilando l’ultimo strato di vestiti mi raggiunge mia sorella con acqua calda, un pigiama pulito e tutte le bende che c’erano in casa Sakata. Lei ha lo sguardo determinato di chi si è trovato in situazioni difficili tante volte e si muove precisa e veloce. Non è esitante e paurosa come me. L’ammiro molto, chissà se un giorno avrò la sua stessa forza?
Trasciniamo Gin-san sul futon, fortunatamente la ferita ora sanguina molto meno grazie alla mia medicazione di fortuna, e così riusciamo a infilargli i pantaloni del pigiama e a coprirgli almeno la parte bassa del corpo per iniziare a scaldarlo. Mia sorella inizia a pulirgli e disinfettargli la ferita sul fianco per poterla medicare mentre io con un po’ di stoffa umida gli ripulisco il
viso.

Vederlo pallido e sudato mi fa star male più di quanto pensassi e la preoccupazione mi da una stretta allo stomaco che mi fa sussultare.
Alzo lo sguardo e vedo Otae prendergli di nuovo il polso. Non mi piace il suo sguardo.
“Shin-chan…” mi dice soltanto, e per la prima volta lo spettro della preoccupazione si fa vivo sul suo volto. “ha perso davvero troppo sangue e…” continua abbassando lo sguardo ma poi scuote la testa “lamentarsi non ci serve a nulla. E se sei venuto qui è perché l’ospedale non è un’opzione no? Forza allora, dammi una mano”. Mi fa segno di aiutarla a sollevarlo per fasciargli stretto il fianco, passando la benda sopra e sotto il suo corpo. Lui rimane incosciente ma a ogni stretta lo sento mugugnare piano.
Finita questa operazione ripuliamo anche l’altra ferita, più superficiale, stando attendi a disinfettarla bene in modo che non faccia infezione.
Mi fermo solo un attimo ad osservare il corpo di Gin-san, così pieno di cicatrici simili a quelle che porterà dopo stanotte.
Quante battaglie aveva vinto?
Quante ne aveva perse?

Prima mi aveva detto che si era lanciato contro un nemico con un’arma sconosciuta e pericolosissima solo perché ero lì e sapeva che l’avrei portato in salvo… Ma era vero? E se fosse stato il contrario?
Se avesse dovuto limitarsi e combattere in modo diverso proprio perché io ero lì? Per tenermi fuori dai guai?
Mia sorella mi distoglie dai miei pensieri porgendomi la parte sopra del pigiama.
“Dobbiamo scaldarlo, ha preso troppo freddo”.
Gli infilo la veste e gli rimbocco la coperta pesante del futon fin sotto il mento. Lo sento ancora tremare e agitarsi piano.
“Quello che potevamo fare l’abbiamo fatto, Shin-chan” concluse Otae, porgendo anche a me un kimono pulito “cambiati anche tu o prenderai il raffreddore. Non preoccuparti, veglierò io su di lui fino al tuo ritorno” sorride ma so che non lo fa per contentezza. Era preoccupata, così come lo ero io.
Mentre vado di là per farmi un bagno caldo e mettermi i vestiti puliti la vedo prendergli di nuovo il polso e poggiargli una mano sulla fronte per verificare se avesse la febbre. Per quanto non perdesse occasione per maltrattarlo anche lei voleva bene a Gin-san e avrebbe fatto del suo meglio per aiutarlo.

Esco dal bagno dopo un bel po’, avevo davvero bisogno di scaldarmi e recuperare le energie, e do il cambio a mia sorella. Le dico che può dormire nell’altra stanza. Mi siedo di fianco a Gin-san e noto che ha smesso di tremare e il suo viso ha un’espressione più rilassata.
Mi rilasso un po’ anche io.
Questa volta avevo davvero avuto paura che non ce la facesse e lo sguardo di Otae che sembrava dire “vediamo se supererà la notte” non mi aveva aiutato.

Mi venne in mente il discorso che gli avevo sentito fare una volta a Umibozu-san, su come anche lui desiderasse avere una famiglia su cui contare, nel bene e nel male.
‘Ce l’hai, Gin-san’ penso ‘sono qui. Siamo qui. Non sei solo. Ogni volta che mi cercherai sarò al tuo fianco. Diventerò abbastanza forte da esserti d'aiuto, te lo prometto’.
Cerco la sua mano sotto il futon e la stringo piano.
“Non sei solo” ripeto solo ad alta voce, sapendo che non può sentirmi.
In quel momento sento la sua mano stringere piano la mia.
Sorrido.
Una lacrima mi scende piano lungo il viso.
Siamo sopravvissuti un'altra volta.

  
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