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Autore: Retsuko    03/11/2020    3 recensioni
Haruko Akagi è una ragazza perfettamente normale.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hanamichi Sakuragi, Haruko Akagi, Hisashi Mitsui, Kaede Rukawa
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Premessa e specifiche (che si possono anche saltare): questa storia parla di crescita e cambiamenti ed è principalmente per quello che ho deciso di aggiungere l’avvertimento OCC alla presentazione, perché la protagonista evolve e i suoi tratti cambiano rispetto a quelli descritti nel manga. L’ho scritta quasi due anni fa e la condivido con voi così com’è nata, senza rivederla. Unica differenza: doveva essere una one shot, poi mi sono resa conto che è molto lunga, quindi ho preferita dividerla in due capitoli.
Sinceramente l’avevo messa un pò da parte, ma di recente mi sono resa conto che scriverla ha avuto per me un significato unico, a partire dal soggetto perché davvero non mi sarei mai aspettata di scrivere qualcosa “dedicato” ad Haruko. E’ difficile volerle bene, però, come tutt* noi, merita una possibilità.

Buona lettura ;)
Retsuko

 

 

Ma l’impresa eccezionale, 

dammi retta è essere normali…

Disperato Erotico Stomp - Lucio Dalla

 

Ciò che distingueva Haruko Akagi dalle sue coetanee era, beh, assolutamente niente.

Haruko Akagi era una ragazza perfettamente normale, invisibile nella massa. Carina ma non bella, studentessa diligente ma non brillante, socievole ma non carismatica. Aveva preferito diventare manager del club di basket maschile piuttosto che continuare a praticare quello sport alle superiori, del resto lei aveva interessi, non passioni. Haruko Akagi maturò questa consapevolezza appena compiuti quindici anni, all’inizio del suo primo anno di liceo e lì per lì diede poco peso alla faccenda, essere nella media la faceva sentire tranquilla e talvolta trovava questa condizione persino vantaggiosa.

Haruko si svegliava ogni mattina alle sette. Si faceva la doccia, si lavava i denti e dopo mezz’ora esatta era in cucina per la colazione a base di caffellatte e biscotti oppure zuppa di miso quando sua madre aveva il tempo di preparala. Alla stazione incontrava regolarmente un’amica e raggiungevano insieme lo Shohoku chiacchierando del più e del meno. Tre volte a settimana era impegnata con il club di basket e in quel caso faceva i compiti in biblioteca, fra la fine delle lezioni e l’inizio degli allenamenti. Nel periodo in cui Sakuragi era stato ricoverato in clinica riabilitativa ogni sera scriveva a lui, aggiornandolo sugli ultimi eventi, altrimenti guardava la tv oppure leggeva un libro, solitamente un romanzo e alle 23:00 si coricava. Durante il weekend, quando non c’erano le partite, prevalentemente usciva per una passeggiata in centro, ogni tanto si fermava al cinema o si concedeva un po’ di shopping, più raramente trascorreva quel tempo in compagnia di Takenori. 

Una vita normale, di un adolescente normale.

Poi, in un ventoso giorno di marzo, quando ormai il primo anno di liceo era agli sgoccioli, accadde qualcosa che stravolse completamente la sua tranquilla visione della realtà. C’era aria di tempesta quella mattina, le foglie cadute turbinavano nel cortile della scuola e nuvole grigie attraversavano il cielo, scorrendo in una sequenza continua sopra le loro teste. Haruko attraversò il cortile dello Shohoku quasi correndo, tenendosi stretta la gonna. Giunta all’entrata dell’edificio scolastico, incrociò Rukawa, si fermò un istante a guardarlo, e non provò assolutamente niente. Eppure lui era l’immenso Rukawa di sempre e lei l’innamoratissima Haruko, colei che avrebbe dovuto sospirare di fronte a quella zazzera corvina scompigliata dal vento. La mattinata trascorse in modo bizzarro, a balzelli di tempo, stava fissando Rukawa e l’attimo dopo suonava la campanella della ricreazione, il professore di fisica spiegava il secondo principio della dinamica e appena qualche minuto dopo era a pranzo con Matsui e Fuji. Arrivò al club piuttosto frastornata. Durante gli allenamenti lasciò vagare lo sguardo su di lui più di quanto ultimamente facesse, convinta che vederlo giocare avrebbe ravvivato il desiderio nei confronti del bel moro, invece ancora niente. Nisba, niet, nada. Sembrava che qualcuno avesse premuto un’interruttore nascosto dentro di lei, spegnando l’amore nei confronti di Rukawa. Lei nemmeno sapeva di avere dentro di sé quell’interruttore, e poi, ripensandoci, l’amore si può spegnere in quel modo, nello stesso modo in cui si spegne una lampadina? Tentò e ritentò di riaccendere quella dannata lampadina, ma fu impossibile. La luce che illuminava quell’amore a senso unico era scomparsa. Senza quel sentimento che la muoveva verso Kaede, Haruko faticava a riconoscersi. Quando finalmente ci riuscì, si trovò faccia a faccia con una persona totalmente insulsa. 

Haruko si sentiva una crisalide vuota. Niente di ciò che faceva nella vita poteva dirsi realmente suo. Aveva sempre seguito la scia di altri, le briciole lasciate lungo la strada da suo fratello l’avevano condotta al basket per puro caso, probabilmente se Takenori avesse suonato il clavicembalo lei sarebbe diventata un’esperta delle sonate di Johan Sebastian Bach. Se non era davvero innamorata di Rukawa, ne appassionata di pallacanestro, cosa rimaneva di lei? 

Conclusosi il primo trimestre del secondo anno, Haruko non aveva ancora trovato una risposta a quella domanda così scomoda. Come se non bastasse, durante il natsuyasumi il corpo di Haruko cominciò a subire una metamorfosi profonda e irreversibile. La genetica s’impose in maniera prepotente e lei crebbe di 15 centimetri in pochi mesi. Prese peso, ma i chili in più non sembrano particolarmente visibili, compensati dalla repentina crescita in altezza. Haruko ogni sera si spogliava e si metteva davanti allo specchio. Guardando l’immagine riflessa stentava a riconoscersi, a volte aveva addirittura l’impressione di fissare un’altra ragazza completamente nuda. Allora, per accertarsi di essere davvero lei, cominciava a toccarsi, lasciava scorrere le dita lungo il collo, tastava la consistenza dei suoi seni cresciuti, poi scendeva verso il basso, sul ventre piatto e sulle curve dei fianchi, fino ai glutei che non ricordava fossero così rotondi. Anche il viso era cambiato, aveva perso le forme paffute dell’infanzia, lasciando spazio a zigomi più definiti che le facevano sembrare gli occhi più grandi.
Preoccupati per quella crescita troppo repentina i suoi genitori la portarono da un medico. Secondo la targhetta sulla porta Matsuda Takao era un “endocrinologo specializzato in disordini della crescita e della pubertà”, mentre agli occhi di Haruko Matsuda Takao era un uomo sulla cinquantina che l’aveva costretta a restare in biancheria intima davanti a lui. Haruko comprendeva perfettamente quale fosse il motivo di quella richiesta, così come si rendeva conto che il dottor Matusda era stato molto gentile e attento con lei, però quelle visite, tre in tutto, unite ai vari accertamenti clinici non l’avevano per niente aiutata ad alleviare la tensione. Anzi, acuivano il disagio. Fortunatamente i risultati dei vari esami non riscontrarono alcuna anomalia significativa. Haruko era semplicemente cresciuta, repentinamente e lievemente in ritardo rispetto agli standard. Alla fine venne liquidata con alcune raccomandazioni medico-sportive utili ad evitare problemi di postura, così Haruko prese a frequentare la piscina pubblica nei fine settimana, aggiungendo alla sua vita una nuova routine. 
Nel corso del suo secondo anno di liceo Haruko Akagi era cambiata molto e con lei cambiò anche l'opinione riguardo la normalità, che da avvolgente coperta qual era un tempo, si era trasformata in una scomoda prigione. Adesso l’essere nella media non le bastava più e fu allora che si rese conto di poter sfruttare quel cambiamento fisico per distinguersi, almeno un pochino, dalle sue coetanee. Lasciò che i capelli crescessero, sostituì la frangia con un ciuffo laterale e si fece persino convincere a tingersi. «Castano scuro con leggeri riflessi viola, vedrai sarai splendida» le aveva detto la parrucchiera. Quando uscì dal negozio, fresca di taglio, Haruko si sentiva rinnovata, pronta ad accogliere la sua trasformazione e guidarla nella direzione da lei decisa. Ritornando a casa era entrata in un negozio di dischi a pochi passi dalla stazione. Era un luogo minuscolo e buio, con poster appesi alle pareti che ricoprivano ogni angolo libero, soffitto compreso. Comprò una cassetta a caso, più che altro perché si sentiva in dovere di acquistare qualcosa dopo aver trascorso quasi un’ora a girovagare in quello spazio angusto. Trascorse quarantotto ore, Haruko tornò nel negozietto e si diresse a spron battuto verso la cassa.

«Voglio un altro disco di questi The Cure» disse emozionata, mostrando la cassetta alla giovane commessa, che ridacchiò divertita. Haruko scoprì la magia della musica e fu bellissimo.

«Allora, che ne pensi?» domandò piena d’entusiasmo mentre Matsui le restituiva l’auricolare del walkman. Desiderosa di condividere la nuova straordinaria scoperta, durante la pausa pranzo Haruko aveva preso l’abitudine di far ascoltare alle amiche alcune canzoni per lei particolarmente significative. Quel giorno era toccato a There is a light that never goes out degli Smiths. 

«Questa non metterla nella compilation, è troppo strana» la liquidò.

«Non ho mica capito, sai» ribatté Haruko perplessa. Con movimenti risoluti Matsui estrasse la copertina dalla custodia della cassetta e la sventolò sotto il naso dell’amica. 

«Ecco qui. And if a ten tonne truck, kills the both of us, to die by your side…» disse leggendo il testo della canzone.

«Si lo so, ma…»

«Porca vacca Haruko! Parla di schiattare insieme sotto un camion! Dammi retta, Rukawa non apprezzerebbe morire prima di aver vinto i campionati nazionali»

«Cosa c’entra Rukawa?» 

Allora Fuji alzò gli occhi dal suo bento.

«Sono giorni che ci fai ascoltare musica diversa» disse «pensavamo stessi preparando un regalo per Rukawa. Tipo una compilation con le tue canzoni d’amore preferite» 

Haruko guardò entrambe esterrefatta, poi scrollò la testa. In parte le comprendeva, aveva sfracassato le palle a tutti per un anno intero parlando solo di Rukawa, d’altro canto, però, erano trascorsi molti mesi da quando aveva rivelato loro di non essere più “innamorata” dell’ala piccola. «Ve l’ho già spiegato centinaia di volte: Rukawa è acqua passata» disse un po’ esasperata. Ripetersi continuamente stava diventando logorante. Le amiche si scambiarono un’occhiata eloquente e ripresero a mangiare senza dire nient’altro. Haruko ormai le mal sopportava quando si comportavano così, quell’atteggiamento di malcelata spocchia la faceva sentire inascoltata. Inoltre sembrava che nemmeno si fossero accorte del suo cambiamento, oppure, ancor peggio, se ne stavano fregando. C’era stato qualche commento timido di Fuji - «Haruko…mi sembra ti sia cresciuto il seno» - le solite battutine acide di Matsui - «Basta che non ci diventi come tuo fratello!»- e nient’altro.  A meno di non considerare l’infermiera scolastica durante la visita di metà anno, nessuno a scuola aveva fatto caso alla sua trasformazione. Anzi, a dire la verità, qualcos’altro c’era stato. 
«Haruko, hai fatto qualcosa hai capelli?» domandò un giorno Yohei, e Haruko, che era stata dal parrucchiere tre settimane prima, avrebbe voluto prenderlo a ceffoni. Da quel momento una strana irritabilità repressa strisciò dentro di lei e cominciò ad accompagnarla costantemente. Possibile che davvero, nessuno si accorgesse di lei? Per la miseria, era diventata più alta di Miyagi! Ora, poteva capire Hanamichi, per lui che una persona fosse alta un metro e cinquantacinque oppure un metro e settanta faceva poca differenza, lui l’avrebbe superata in entrambi i casi di un bel po’, ma almeno Ayako avrebbe potuto considerare la cosa!

Attonita e impotente Haruko rifletteva spesso su quelle sensazioni, e finì col sentirsi un’egoista: probabilmente molti suoi coetanei provavano esattamente lo stesso bisogno di essere speciali, unici, diversi. Provò persino vergogna e senso di colpa nei confronti di quell’esigenza spasmodica di risaltare sugli altri. Lei, una persona anonima, senza nessuna caratteristiche particolare, come poteva pretendere di ricevere attenzioni particolari? Stanca di portarsi dietro tutti quei turbamenti, a due settimane dalla fine del secondo anno, Haruko mollò la prese e abbandonò la battaglia. Sarebbe rimasta una ragazza perfettamente normale.

Haruko Akagi era una ragazza incolore che si era ricavata uno spazietto minuscolo in un mondo di persone colorate, questo era stato il club di basket: l’incredibile opportunità di essere inclusa in un gruppo fatto di individualità uniche e talentose. Allora si era sentita la ragazza più fortunata della terra, ora invece avrebbe fatto volentieri a meno di tutte quelle personalità variopinte. 

Infine arrivò un pomeriggio di inizio marzo e Haruko, per la prima volta nella sua carriera di manager, prese seriamente in considerazione l’idea di fingere un malore e svignarsela, poi si ricordò di essere una pessima bugiarda e si avviò mesta verso la palestra. 
Cominciò come ogni allenamento dello Shohoku, ovvero un marasma di latrati, sfottò e risate, che Haruko aveva imparato perfettamente ad ignorare. Sistemò le bottiglie d’acqua ai lati del campo e preparò il tè per Anzai.

«Ecco qua signore» disse porgendogli la tazza mentre i ragazzi cominciavano a correre.

«Grazie Haruko. Senti è da un pò di tempo che volevo chiedertelo, come sta tuo fratello?» chiese placido soffiando sulla bevanda calda. 

La ragazza sospirò e stiracchiò le labbra in un sorriso forzato.

«Gentile da parte suo chiederlo, signore» rispose, augurandosi che Anzai sorvolasse sul sarcasmo nella sua voce «Takenori sta bene, ha ottimi voti e di recente è stato promosso a titolare nella squadra»

Bene, cominciamo da suo fratello. Determinato e forte, Takenori aveva l’insopportabile capacità di riuscire bene in tutto ciò che faceva. Ovviamente Haruko gli voleva un bene dell’anima, stargli vicino la faceva sentire protetta e provava per lui una stima smisurata, purtroppo crescere alla sua ombra era un compito difficile, quella di Takenori era - non solo metaforicamente - un’ombra gigantesca. Lui era il primo figlio, il maschio, l’orgoglio della famiglia, mentre lei era “la sorellina piccola”, una sorta di guarnizione alla torta, esteticamente gradevole eppure superflua. Haruko vicino a Takenori sembrava ancor più sbiadita. 

Grazie al cielo la situazione sembrò procedere tranquillamente o per lo meno secondo gli standard di tranquillità che poteva garantire il club di basket dello Shohoku. Haruko aveva tirato fuori le casacche per la partita di fine allenamento, e stava aspettando che Miyagi si degnasse di formare le squadre invece di prostrarsi ai piedi di Ayako, la quale, come al solito, guardava da un’altra parte con le braccia incrociate al petto. Nell’ultimo periodo, vedendo l’avvicinarsi del diploma nonché la fine delle possibilità di conquistare la sua bella, Miyagi era diventato particolarmente molesto.

«Oh no, ancora!» sospirò Kakuta guardando la scena

«Ci penso io» sbottò Haruko mollando le casacche fra le braccia di Yasuda, diretta a passo di marcia verso i due. 

«Ehi voi! Basta così» disse bruscamente quando fu abbastanza vicina da farsi sentire senza urlare. 

«Tu. Vai a fare le squadre. Ora» intimò al capitano «e tu. Dammi una mano a distribuire le casacche» concluse rivolta ad Ayako. Miyagi, anche se vagamente sorpreso da quel cipiglio autoritario, eseguì senza fare storie, Ayako invece restò ferma a fissare la collega, evidentemente risentita dall’ordine impostole. Sembrava sul punto di dichiarare guerra, e Haruko, che non voleva far scoppiare un litigio, cercò un modo per allentare la tensione.

«Senti Ayako, mi rendo conto che sa essere invadente, ma ti adora e ti rispetta, forse potresti…»

«No non posso» la interruppe secca e la superò, incamminandosi altezzosa verso Yasuda. 

Haruko la seguì con la sguardo e sospirò. 

Ayako, vivace, intelligente e sicura di sé. Un viso delicato su un corpo da urlo. All’ inizio, quando si cambiavano negli spogliatoi, Haruko si incantava a guardare le sue curve formose e il luccichio dei suoi boccoli, immaginando una di quelle cartoline americane anni ’50 che ritraevano modelle in costume da bagno. Per natura Haruko era una persona poco incline all’invidia, di solito provava ammirazione o tendeva a meravigliarsi delle le capacità altrui, eppure doveva ammettere che nei confronti di Ayako provava una certa brama di rivalità. Sarebbe però stato inutile provare a competere con lei, perché Haruko, accanto ad Ayako, diventava invisibile. 

Prima o poi sarebbe dovuto succedere pensò mentre accompagnava Rukawa negli spogliatoi. Haruko era distratta dalla prospettiva imminente della chiusura degli allenamenti, stava guardando altrove, immobile col cronometro in mano e non era riuscita a seguire con precisione la dinamica dell’incidente, anche se poteva immaginarla senza problemi. Rukawa sta per concludere un’azione, Sakuragi salta per impedirgli di fare canestro, sbaglia i tempi, Rukawa segna, Sakuragi inciampa nella discesa, stridio di scarpe sul parquet, Rukawa è per terra schiacciato da 80 chili di muscoli. Niente di nuovo, solo che quella volta Rukawa si rialzò lentamente, con movimenti stentati, senza nemmeno insultare il rosso.

«Dove ti fa male?» chiese guardandolo di sottecchi

«Alla spalla sinistra» rispose, la voce leggermente incerta. Lei annuì appena, ci mancava che Rukawa si fosse lussato una spalla o qualcosa del genere e il quadro di preoccupazioni sarebbe stato al completo. Impegnata a recuperare un pacchetto di giaccio istantaneo dall’armadietto del pronto soccorso, Haruko non si accorse che nel frattempo il ragazzo si era tolto la canottiera e finì col ritrovarsi a guardarlo imbambolata più del necessario. 

«Beh, allora?» la incalzò lui, irritato.

«Mh, si scusa, siediti per favore» rispose velocemente.

Vero, la cotta era passata, però trovarselo davanti a petto nudo, così di sorpresa, faceva comunque ballare gli ormoni. Si trattava pur sempre di Kaede Rukawa, e per lui Haruko non era invisibile. Per essere invisibile bisognava comunque esistere, possedere un corpo o quantomeno un’essenza impossibile da vedere, mentre per Rukawa, Haruko era assolutamente inesistente. 
Che dire di lui? Ricercare le parole giusto per descriverlo era un puro esercizio di stile, uno sforzo di scarsissima utilità, come cercare di spiegare ad una persona non vedente cosa sono i colori. Kaede Rukawa, era l’archetipo della bellezza, un’ immagine primordiale contenuta nell’inconscio collettivo più che una persona in carne ed ossa. Fatto della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni erotici. Ebbene, al pari di ogni sogno, poteva cambiare rotta in un baleno, e avere a che fare con l’asso dello Shohoku spesso si trasformava in un vero incubo. 

«Se mi passi la tua canottiera ci avvolgo il ghiaccio, non fa bene metterlo direttamente a contatto con la pelle. Purtroppo quello spray è finito»

«Pensavo fosse tuo compito rifornire il kit medico» replicò il ragazzo guardandola con disappunto. 

Haruko s’immaginò mentre gli schiaffava in faccia il pacchetto e spingeva fino a soffocarlo. Prese quella benedetta canottiera, e aggirò la panca su cui lui era seduto, posizionandosi in ginocchio dietro la sua schiena bianca. Quando appoggiò il fagotto gelido sulla spalla, Rukawa borbottò un lamento.

«Male?» domandò perplessa. Le sembrava di essere stata abbastanza delicata.

«No, è freddo»

La manager alzò gli occhi al soffitto.

«Sarebbe strano se fosse caldo» replicò «sta fermo Rukawa» disse poi, dato che lui aveva cominciato ad agitarsi, era così vicina che poteva vedere guizzare ogni singolo muscolo di quella schiena perfetta. 

«Posso fare da solo, ci arrivo» disse stizzito e piegò all’indietro il braccio destro per arrivare a prenderle il ghiaccio dalle sue mani. 

«No, sforzeresti le scapole e finiresti col peggiorare le cose» insistette Haruko. 

Con la mano libera premette sul bicipite di Rukawa forzandolo a riabbassare il braccio.

«Non toccarmi!»

Fu il culmine, Haruko schizzò in piedi e lanciò il ghiaccio contro gli armadietti di fronte a lei.

«Bene, vattelo a prendere e arrangiati, cretino!» esclamò scandalizzata prima di prendere la porta.

«Brava fai così, vattene»

La ragazza si paralizzò, accecata da un ricordo che brillava nella mente, più luminoso di un’insegna al neon di Shibuya. Piantala e sparisci. Chi diavolo sei tu? diceva l’insegna.

«No, questa volta non me ne vado» disse fra sé e sé. Ritornò sui suoi passi e si posizionò esattamente davanti a Rukawa, che, ancora seduto sulla panca di legno, la stava osservando con la fronte aggrottata.

«Due anni» cominciò lei, la sua voce era così bassa da risultare a malapena udibile.

«In due anni mai un grazie, mai un per favore, mai un ciao, nemmeno un vaffanculo Haruko!» continuò guardando dentro quelle pozze blu che erano gli occhi di Rukawa.

«Dopo due anni è arrivato il momento che ti dica come stanno realmente le cose: sei scortese, borioso, prepotente e io non ho più intenzione di accettare il tuo atteggiamento da stronzo, perché è questo che sei: un gigantesco pezzo di merda!»

Urlargli in faccia aveva scatenato la rabbia repressa che si portava dentro da mesi, era deflagrata così potentemente da spaventarla, temeva che se fosse rimasta lì un secondo di più sarebbe stata capace di aggredirlo fisicamente, perciò decise di filarsela senza nemmeno attendere un’eventuale reazione di Rukawa, peccato che l’uscita fosse bloccata dal corpo massiccio di Sakuragi e Haruko, confusa e ferita, finì per sbattergli contro, in pieno petto.

«Oh santo cielo!» disse esasperata appena capì cosa fosse successo «e tu cosa cavolo vuoi?»

Hanamichi Sakuragi, lo scapestrato che lei stessa aveva raccattato quasi per caso, convinta che potesse risollevare le sorti della squadra. Col senno di poi si poteva dire che Haruko possedesse una certa predisposizione al mestiere di talent scuot. Hanamichi era un concentrato di potenza allo stato solido, un nucleo atomico di energia capace di produrre una reazione a catena, come in una fissione nucleare. Hanamichi era una gigante col cuore puro di un bambino iperattivo e Haruko era certa che in vita sua non avrebbe mai più incontrato una persona così speciale. Hanamichi, rosso brillante, e Haruko, stinta e scialba, sarebbero stati una coppia tremenda.

Comunque a giudicare dallo stolido stupore dipinto sulla sua faccia, Hanamichi era comparso in tempo per assistere alla scenata.
«Io…ehm...volevo solo…» farfugliò guardando qua e là, poi il suo sguardo si fermò brevemente su Rukawa e Haruko intuì il motivo per cui Sakuragi si fosse palesato nello spogliatoio.

«Tranquillo Hanamichi, il tuo ragazzo sta benissimo, insopportabile come sempre» disse sardonica, con le mani sui fianchi e i gomiti verso l’esterno, nelle tipica posa di chi lancia una sfida. Il volto di Hanamichi divenne così rosso da confondersi ai capelli, praticamente si distinguevano solo gli occhi, incredibilmente allargati dallo shock.

«Che…ragazzo?!? Harukina, cosa dici?»

«Harukina un cazzo!»

Proruppe talmente forte che anche Rukawa ebbe un lievissimo sussulto.

«Smettila di chiamarmi così! Mi credi così scema? Lo so benissimo che quando restate in palestra dopo la fine degli allenamenti vi imboscate nel magazzino a fare sesso!»

«Problemi?» s’intromise il moro, mettendosi in piedi. La sua espressione era impassibile, forse appena rabbuiata, ma il suono della sua voce, pericolosamente tagliente, aveva raggelato la stanza. Haruko tuttavia si mantenne risoluta, doveva calmarsi, respirare profondamente e recuperare un pò di lucidità, perché adesso non si trattava più di lei o della sua inquietudine, riguardava loro e quella loro assurda, inconcepibile e sincera relazione.

«No, certo che no» rispose con fermezza «se vi amate è perfettamente giusto che stiate insieme, il resto non conta, il resto è solo superficialità e pregiudizio. Tengo alla felicità di entrambi voi, davvero, solo odio essere presa per il culo»

In silenzio, molto lentamente, Rukawa annuì. 

Haruko cominciava a sentire la rabbia uscire pian piano dal suo corpo, ad ogni espirazione sembrava venisse espulsa dal corpo insieme all’aria, sarebbe presto tornata alla sua piatta normalità se solo Hanamichi fosse stato zitto. Invece, purtroppo, Hanamichi parlò.

«Haruko, scusa, nessuno qui voleva prenderti in giro. Se vuoi ne parliamo, però ora cerca di tranquillizzarti»

«Tranquillizzarmi?!? Tu, idiota esalato, come ti permetti di dire a me di tranquillizzarmi?» gridò nuovamente mentre Hanamichi indietreggiava, a quel punto realmente intimorito.

«Scansati dalla porta e lasciami passare piuttosto, voglio andarmene di qui. Subito.»

Sakuragi non se lo fece ripetere, scattò di lato e Haruko uscì di corsa dagli spogliatoi, lasciando i due giocatori a guardarsi stupefatti.
 

Haruko si rintanò nel bagno più vicino. Si chiuse in uno dei cubicoli e, pateticamente seduta sul water, cominciò a piangere. Un pianto rumoroso e incontrollato che la faceva sentire stupida, eppure le era impossibile fermare le lacrime. Fortunatamente nessuno era venuto a cercarla, e Haruko, scivolata in quella spirale di autocommiserazione, perse completamente la cognizione del tempo, quando riuscì ad interrompere il pianto poteva essere passato un secondo così come un giorno intero. Si lavò il viso per riprendere un aspetto umano e sbriciando nello specchio notò gli orinatoi fissati al muro dietro di lei. Era finita nel bagno dei maschi. 
E chi se ne frega, non m’importa, non m’importa di niente.
Non provava rimorso per aver trattato male Hanamichi, non provava soddisfazione per aver finalmente sfanculato Rukawa o pentimento per la maleducazione usata con Ayako. Non sentiva più ne rabbia, ne altre emozioni significative, solo noia e un gran senso di vuoto.

Sebbene le luci della palestra fossero rimaste accese, in giro era deserto e Haruko fu lieta di scoprirlo, nella misura del possibile voleva evitare qualsiasi interazione con gli esseri umani.

«Ehilà!»

Haruko, che si stava apprestando a spegnere le luci, si bloccò, immobile e sorpresa, con le dita che sfioravano l’interruttore.

«C’è qualcuno?»

Non sentiva quella voce da un anno. Possibile?

«Ehi cazzoni ci siete?»
Si, era lui.

«Mitsui!» disse sorpresa affacciandosi sul corridoio 

«Haruko? Ma sei tu?»

«Certo chi vuoi che sia!»

Haruko fece qualche passo verso di lui, avanzando nel corridoio, Mitsui fece altrettanto e s’incontrarono a metà strada. Haruko sorrise gioiosa, un vago senso di sollievo la pervase, forse perché Mitsui era esattamente come se lo ricordava e rivederlo la riportava indietro ai tempi in cui  lei si sentiva più tranquilla e a proprio agio. 

«E’ bello vederti Mitsui. Come mai da queste parti?»

«Passavo per caso e vedendo le luci accese ho pensato di fare un saluto» rispose restituendole il sorriso.

«Sono rimasta solo io, mi dispiace»

«Non importa, cercherò di tornare» disse lui con una scrollata di spalle «comunque come va?»

«Al solito. Sakuragi e Rukawa fingono di odiarsi, Miyagi sbava dietro ad Ayako, i senpai cercano inutilmente di placare il delirio e le matricole si domandano come questo gruppo di cretini possa essere arrivato al campionato nazionale per due anni consecutivi»

Mitsui rise apertamente e lei, chissà perché, si ritrovò a pensare che quella risata schietta e un pò provocatoria le mancava.

«E tu come stai?» chiese poi. Quella domanda diretta la colse completamente impreparata.

«Normale» rispose soltanto, interdetta dal modo in cui Mitsui la stava guardando.

«Sai, ho fatto fatica a riconoscerti Haruko, sei così cambiata» disse l’ex giocatore dello Shohoku.

Nella sua voce non c’era traccia di formalità, insomma non sembrava una di quelle cose che si dicono tanto per fare conversazione con le persone che si incontrano dopo tanto tempo, poi Mitsui non era esattamente il tipo da convenevoli.

«Oh» fece Haruko «beh, ho guadagnato abbastanza centimetri da arrivare quasi a toccare con la testa la spalla di mio fratello e poi …ah si… c’è il viola nei capelli!» disse rendendosi conto di essere innervosita perché Mitsui continuava a fissarla in quella maniera strana. Aveva piegato leggermente la testa da un lato e assottigliato gli occhi, come se volesse metterla a fuoco meglio.

«No, non è solo questo» replicò lui.

Haruko si chiese se Mitsui avesse sempre avuto quella voce bassa e lasciva.

«Sei diversa, cresciuta, più donna…» mormorò piano. 

Lui fece un passo avanti e la luce sul suo viso cambiò leggermente angolazione, ombreggiando perfettamente la linea definita della sua mascella. Ora Haruko riusciva a vedere bene le sue iridi scure. Erano incredibilmente profonde.
Come diamine era possibile che non si fosse mai accorta di quanto fosse figo Mitsui? 
Ah già. Rukawa. Ma con Rukawa era tutto un arrossire, sospirare e sfarfallare di stomaco, in quel momento stava provando emozioni ben diverse. Le farfalle nello stomaco stavano bruciando, divampavano lì, fra lo sterno e il ventre, diffondevano piccole faville in tutto il corpo. I suoi polmoni si erano inceppati, ma non stava sospirando, si sentiva affannata, accaldata e - oddio - eccitata. Meravigliata da quelle sensazioni inaspettate sobbalzò e Mitsui si ritrasse di scatto, colmo d’imbarazzo. Haruko registrò la brillantezza dei suoi occhi e il rossore sui suoi zigomi seducenti.

«Perdonami» disse congiungendo i palmi delle mani «sono stato terribilmente inopportuno.»

Haruko avrebbe voluto dirgli che non era necessario scusarsi, che no, non era stato inopportuno, cioè si un pochino, tuttavia non le interessava, anzi apprezzava immensamente le sue parole. Avrebbe voluto spiegargli ogni cosa, raccontarsi a lui, avrebbe davvero, davvero voluto, invece lo afferrò prepotentemente per il bavero della giacca, lo tirò a sé e lo baciò. 
Premette le labbra su quelle leggermente screpolate di lui, che rimase attonito, con le braccia ciondolanti lungo i fianchi e gli occhi sgranati. Non la respinse, ma non cercò nemmeno di approfondire il bacio, quindi Haruko spostò una mano dietro la nuca del ragazzo e fece guizzare la punta della lingua sul suo labbro inferiore, intenzionata a dissipare qualsiasi forma di fraintendimento. Sentì le spalle di Mitsui vibrare appena, quindi, con un lieve ansito, dischiuse le labbra e rispose al bacio, imponendovi un ritmo lento e languido, quasi pigro. Haruko si domandò come potesse essere così delicato e forte allo stesso tempo, poi Mitsui le mise una mano sulla schiena, l’altra fra i capelli, l’attirò più vicina, facendo aderire i loro corpi e, appena percepì  l’erezione di lui premerle sopra il bacino, perse completamente l’uso della ragione. Mosse le mani fra i loro corpi, desiderosa di toccare, percepire il calore della sua pelle nuda sotto i palmi. Scivolò verso il basso, sino ad incuneare la dita oltre l’orlo dei pantaloni. D’un tratto Mitsui s’irrigidì, e, producendo uno strano rumore simile allo stapparsi di un lavandino otturato, interruppe il bacio.
«No» sussurrò stringendole gentilmente i polsi per allenarle le mani, indifferente al lamento di protesta della ragazza. Tacquero entrambi, nel corridoio regnava una calma imbarazzante, eppure nessuno dei due parlava, continuarono a tenersi l’uno vicino all’altra, con lo sguardo basso sui loro piedi. 
«Andiamo a mangiare qualcosa» le soffiò Mitsui ad un orecchio. Il suo respiro era bollente e Haruko si sentì avvampare. Non voleva andare da nessunissima parte, voleva restare lì a sperimentare tutte quelle cose calde, bagnate e immorali che una brava ragazza avrebbe dovuto evitare di fare in quella situazione, invece lui la stava rifiutando. Le vennero nuovamente le lacrime agli occhi per la rabbia, poi però Mitsui si piegò affinché la sua guancia sfregasse contro quella di lei e un accenno di barba le graffio leggermente la pelle delicata. Non era una sensazione particolarmente piacevole, eppure ebbe il potere di confortarla. Era un gesto incredibilmente confidenziale.

«Vieni con me, Haruko» 

Dopo interminabili secondi lei annuì.

 

 

 

 

***

 

Raccolgo critiche, perplessità o qualsiasi altro pensiero vogliate esprimere. 

A presto

Un abbraccio

  
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