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Autore: Barbycam    21/08/2009    2 recensioni
"Mi chiamo Elizabeth. Ma puoi, anzi devi chiamarmi Liz."

Una frase. Una partita a Poker. Una nottata di sesso.
Solo questo?
Genere: Romantico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Il Chitarrista {1}
Il chitarrista 

Signore è stata una svista abbi un occhio di riguardo per il tuo chitarrista.

Signore se lanci uno strale sbaglia mira per favore non farmi del male.
Te lo giuro in ginocchio qui in mezzo alla pista
Te lo giuro sulla Fender, io non l’ho fatto apposta.
Perciò, Signore è stata una svista abbi un occhio di riguardo per il tuo chitarrista.

Me lo ricordo. Ancora adesso.
Stavo seduto su uno sgabello, c’era mio fratello che cantava sullo sgabello accanto a me.
Ed io mi divertivo, suonare era sempre stata la mia passione. Anche ora lo è… seppur di meno.
Mi guardavo attorno, forse con una smorfia sperduta, anche se conoscevo alla perfezione quel locale. Il bar di uno dei miei migliori amici, suonavamo lì da sempre. Da quando avevamo cominciato a fare musica, eravamo sempre lì.
Lanciai uno sguardo al mio gemello, seduto proprio accanto a me, ma aveva gli occhi chiusi per concentrarsi. Sorrisi e mi trattenni dal ridere, spostando lo sguardo all’entrata del locale.

Fu allora che successe.

Non so com’è ma è accaduto
lui è entrato nel bar con lei e si è seduto
Io ero li affascinato,
la sua carica sessuale
si spandeva nel locale ed io
di desiderio stavo male.

Rimasi sbalordito, incrociando per circa due secondi i suoi occhi.
Verdi, tristi. Non so come avevo fatto a capire tutto da due secondi di contatto visivo, ma era successo. E io bramavo di averla per me.
Era bella. Non bellissima, ma bella sì. Aveva un viso normale, forse troppo freddo per una ragazza come lei, ma del tutto nella norma. I capelli biondi le scendevano lisci sulle spalle, mentre un ciuffo le svolazzava sull’occhio sinistro, dolcemente. Sembrava fluttuare sul suo viso, non era fermo immobile come la pettinatura di mio fratello qualche anno fa.
Rimasi a contemplarla per almeno dieci minuti, pensando che doveva essere mia. Mi tastai i pantaloni, nella tasca destra. Lasciai un sospiro di sollievo, sentendo che era ancora lì.
Feci ancora un paio di accordi, quando finì la canzone che stavamo cantando.
Bill mi fissò negli occhi, sentivo il suo sguardo su di me, ma io guardavo lei. Si era seduta accanto ad un ragazzo biondo, di carnagione chiara. Il ragazzo le mise un braccio attorno alle spalle e la strinse a sé, bruscamente.
Un impulso di rabbia si impossessò del mio corpo, stavo per lanciare la chitarra a terra, quando Bill mi mise una mano sul braccio.
<< Che succede fratellone? >> mi chiese, leggermente preoccupato. Io scossi la testa, mi alzai dallo sgabello e lasciai la chitarra in mano a mio fratello, scendendo dal palco. Mi avvicinai ciondolante verso il ragazzo, mi risistemai il cappellino e la bandana e sorrisi.
Lei sarebbe stata mia.

Così mi sono avvicinato
e a giocare a poker l’ho invitato
avevo un full e lui due coppie
cosa rilanci se non hai
più niente tranne lei?
"Se perdo tu l’avrai"

Lo invitai a giocare a poker.
Lei ci fissava giocare, sentivo i suoi occhi sulle mie mani, sul mio cappellino, sulla mia maglia. Ma non li sentivo mai sul mio viso, e questo mi distoglieva la concentrazione dal gioco.
Non mi dispiaceva. Per niente, anzi. Ma… ma io dovevo vincere, per averla per me. Solo per me.
<< Ho vinto. Se vuoi possiamo chiuderla qui. >> feci un sorrisetto compiaciuto, agguantando le chiavi della macchina che aveva perso al gioco. Io sapevo giocare a poker, vincevo spesso, anche se non avevo quasi mai giocato a soldi.
Ma quella volta dovevo.
Lui mi fissò negli occhi, con una smorfia di rabbia dipinta in volto, terribilmente arrabbiato e paonazzo. Capii che era orgoglioso, almeno quanto me. Non si sarebbe arreso tanto facilmente.
Diede uno sguardo alla ragazza accanto a lui, che rimase immobile e ad occhi chiusi, probabilmente già immaginando quello che sarebbe successo.
<< Se perdo… tu l’avrai. >> ringhiò, dando ancora le carte.
Trattennni un sorriso, per la seconda volta. Lei stava per essere mia, e io stavo vincendo.
<< Va bene. >> dissi, afferrando le carte che mi porgeva.

Signore è stata una svista abbi un occhio di riguardo per il tuo chitarrista.
Ti giuro Signore è stata una svista abbi un occhio di riguardo per il tuo chitarrista.

Mi girai verso Bill, ancora sul palco. Parlava con una ragazzina di circa quindici anni, giovane… molto giovane, assomigliava alla ragazza davanti a me, a quella che avrebbe passato la notte nel mio letto.
Mio fratello si voltò proprio nello stesso momento, mi vide… mi sorrise incoraggiante, per poi tornare a parlare con quella ragazza.
Ed io tornai al gioco, al poker.
La ragazza, il mio premio, stava seduta in mezzo ora, non più vicina al ragazzo. Le sorrisi debolmente, ma non riuscii a strappare lo stesso sorriso che le avevo dato io. E la cosa, anche se non lo diedi a vedere, mi lasciò perplesso e leggermente intristito.

E le sue corde hanno vibrato
in una notte io quel sogno l’ho bruciato

Vinsi la partita. Com’era sicuro.
Il ragazzo divenne ancora più rosso, prese la mano della ragazza e me la mise in mano, borbottando come una pentola a pressione.
Dentro di me esultai, mentre lasciavo un sospiro e sorridevo.
<< Facciamola finita. In fretta. >> le sentii dire solo quello. Era taciturna, non mi disse neanche il suo nome. Inarcai un sopracciglio, le lasciai la mano e la condussi da mio fratello.
<< Bill… torno in albergo. >> gli dissi, dandogli una pacca sulla spalla. Lui mi guardò, poi guardò la ragazza al mio fianco. Le sorrise e, non so come né perché, lei sorrise debolmente di rimando.
Feci l’occhiolino a mio fratello, che alzò gli occhi al cielo.
<< Va bene Tom. Ci vediamo domani allora! >> salutai anche gli altri miei due amici alla batteria e al basso, e uscii dal locale, con lei accanto a me.
<< Allora… tu… era il tuo ragazzo quello? >> chiesi, facendola sussultare. Lei si voltò verso di me e mi fissò, duramente. Anche se gli occhi tradivano quello che pensava, era triste.
<< Tecnicamente sì. Sentimentalmente, per un cazzo proprio. >> sospirò e si sforzò di sorridere, distendendo le labbra rosse. Rimasi abbagliato dalla luce che sprigionava, anche se si sforzava.
In quel momento, in quel preciso istante, compresi tutto. Compresi che lei doveva essere mia e non solo per quella notte, ma mia per sempre. Solo che non potevo vincerla ogni giorno a poker.
Dovevo escogitare qualche altro modo, soprattutto perché lei mi incuriosiva terribilmente.
Arrivammo in Hotel, quello dove alloggiava la mia band. Salimmo le scale parlucchiando, di cose senza senso. Appena cercavo di chiederle il nome, lei sviava l’argomento.
Ed era snervante, perché lei sapeva il mio nome e io non il suo.
Di sicuro sarebbe stato alla sua altezza.
Un nome altisonante, un nome nobile, altezzoso, raffinato. Come lei, sicuramente.
<< Mi chiamo Elizabeth. Ma puoi, anzi devi chiamarmi Liz. >> sentii solo quel sussurro strascicato. Evidentemente non ce la faceva più a non dirmi il suo nome.
Io lo sapevo, altisonante, raffinato. Elizabeth… più raffinato di così!
Entrammo nella mia camera, chiusi la porta alle sue spalle e… e quello che fu dopo, fu il giorno più bello ed eccitante della mia vita.

mentre dormiva son scappato
con le gambe intorpidite
le scarpe ancora slacciate
con le gambe intorpidite
le scarpe ancora slacciate e
con il mio mazzo di carte truccate

Dormiva. Sotto le lenzuola bianche, il suo petto si alzava e si abbassava leggermente, dolcemente quasi. Il suono del suo respiro mi rilassava terribilmente, ma era momento di andarsene.
Al suo risveglio non sarei stato al suo fianco. A sorriderle. A porle la vestaglia.
Sarei stato in un aereo.
Chiusi gli occhi, sospirando. La vidi ancora un’ultima volta, le posai un bacio sulla fronte candida e mi alzai dal letto, calcandomi il cappellino. Presi un biglietto, le scrissi due parole di conforto, le lasciai le chiavi dell’auto che avevo vinto e tutti i soldi, spiegando tutto.
Infine, infilai il mazzo di carte truccate nella tasca dei jeans e scesi nella Hall. C’erano già Georg e Gustav, e mio fratello stava seduto su una poltrona, struccato, e con le occhiaie di chi non dorme da qualche giorno.
<< Le valigie? >> chiese Gustav, osservandomi. Le mie valigie… annuii e andai in lavanderia, dove stavano tutte le mie cose. Presi le valigie, piene, e le portai nella Hall dagli altri.
Dopo cinque minuti, eravamo in un autobus, nell’autobus personale dei TH. E io fissavo fuori dal finestrino, ripensando a lei.
A lei, a quella notte, ai suoi occhioni sgranati, dolci, alle labbra rosse, al suo piccolo sorriso sforzato, alle sue gambe… a lei e alla sua persona.
Mi immaginai la scena, lei che si alzava, non mi vedeva, mi cercava… ma poi, un viso assonnato si sporse dalla finestra di quella che era stata la mia camera.
Elizabeth mi guardava, sorridendo debolmente, mi salutò con la mano e chiuse la finestra.
Probabilmente rimasi sbalordito, con un’espressione sconvolta, perché tutti i presenti nell’autobus mi fissarono.
<< Che succede Tom? >> chiese mio fratello, ma la sua voce era lontana. Ne avevo un’altra nella testa, molto più… femminile.
<< Mi chiamo Elizabeth. Ma puoi, anzi devi chiamarmi Liz. >>
<< Elizabeth… >> sussurrai. Da quel giorno non la vidi più.
E la cosa mi dispiacque, parecchio. 
  
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