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Autore: Katekat    08/11/2020    2 recensioni
Che ore sono, Rabastan?
Non tutti i Mangiamorte hanno scelto di esserlo.
Genere: Dark, Horror, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Rabastan Lestrange, Rodolphus Lestrange
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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L’Ospite
 
 





– C’è qualcuno al piano di sotto.   
Rodolphus sollevò contrariato la testa dal libro e girò intorno gli occhi fino a incontrare quelli dell’inopportuno disturbatore.  
In piedi sulla soglia, seminascosto dalla cornice della porta, Rabastan lo adocchiava con un misto di timore e sospetto. Solo metà del suo volto faceva capolino oltre lo stipite – un occhio nero e tondo lo fissava da sotto il sopracciglio corrugato. Strofinava nervosamente un piede sul pavimento e l’attrito della suola produceva uno stridio fastidioso sul lucido parquet.  
– Smettila di fare quel rumore – grugnì Rodolphus. – Non lo vedi che sto leggendo?
Il fratello più piccolo smise immediatamente. Rodolphus riabbassò la testa sul libro. Continuò placido la sua lettura, con una certa ostentazione, per lunghi minuti ancora, degnando la fragile figura alle sue spalle della stessa attenzione che avrebbe avuto per un comodino o una lampada inanimata.
Solo quando ebbe terminato un intero capitolo, finse di essersi rammentato che lui era ancora là, silenzioso e incerto. Trattenne a stento l’ennesimo moto di stizza – con Rabastan gli riusciva fin troppo facile perdere le staffe.  
– È inutile che continui a nasconderti come un ladro. Entra.  
Rabastan era risentito per essere stato ignorato deliberatamente. Chiaro sul visino pallido passò un lampo di esitazione – se riservare al fratello lo stesso trattamento strafottente o assecondare la naturale arrendevolezza nei suoi confronti – ma durò poco. Con uno sbuffo contrito che gli sollevò la frangia sulla fronte entrò zampettando nella stanza di Rodolphus, guardandosi intorno come se fosse la prima volta che vi metteva piede.
In realtà, dal momento che al fratello maggiore non piaceva che si entrasse a curiosare nel suo spazio, Rabastan aveva imparato a farlo di nascosto: quando sapeva che Rodolphus era lontano o occupato, sgattaiolava lì di soppiatto a piedi nudi, quasi trattenendo il respiro, e si metteva a gironzolare e a frugare tra le sue cose con la perversa soddisfazione di star invadendo la sua privacy, avendo poi cura di rimetterle ciascuna al proprio posto perché Rodolphus non si accorgesse di nulla. Fino a quel momento sembrava aver avuto successo.
– Stai diritto con quella schiena quando cammini! – lo riprese burbero Rodolphus. – Cammini come un Elfo domestico!
Rabastan gli scoccò uno sguardo arcigno ma si affrettò a distendere le spalle, che tendeva a incassare come un piccolo anatroccolo spaurito.  
Mentre si sforzava di assumere una postura più dignitosa, gli occhi di Rabastan erano subito saettati verso la collezione di draghi in miniatura che Rodolphus teneva in bella mostra sulla mensola, soffermandovisi con cupida ammirazione.
– Cosa andavi blaterando prima? – domandò Rodolphus, richiamando malvolentieri la sua attenzione. – Papà ha ospiti dabbasso?
Rabastan mosse due volte il capo in su e in giù.
– Non ti ho sentito – disse severo Rodolphus.
Rabastan sbuffò sonoramente, perdendo la pazienza.
– Non sei papà, Rod – sbottò. – Perché ti comporti come lui?
Lo sguardo di Rodolphus divenne gelido. Chiuse il libro di scatto e, con una spinta di reni, scese dalla poltrona e si alzò in piedi. Guardò dall’alto in basso Rabastan, misurandolo con una sola occhiata fredda che gli faceva pesare tutta la sua maggiore statura – ed esperienza.
– Ti sto solo chiedendo di essere educato, tutto qui – disse lentamente. – Lo faccio per te, non perché voglio che qualcuno mi senta e mi dica bravo…
– E invece lo dici solo per farti bello davanti a papà – lo sfidò Rabastan, stringendo i piccoli pugni.
Prima che Rodolphus potesse ribattere gli voltò le spalle, avvicinandosi al fuoco che scoppiettava nel caminetto. Si accovacciò sulle ginocchia, tendendo le mani verso la fiamma. Aprì e chiuse le dita, affascinato dalle lame di luce che apparivano e scomparivano tra i suoi pugni così facendo.
Sentì Rodolphus sospirare esasperato alle sue spalle. Ma poi, con suo grande stupore, venne a sedersi al suo fianco, allentandosi la cravatta, e gli scompigliò i capelli con una mano. Rabastan si ritrasse come un cucciolo selvatico, lanciandogli uno dei suoi sguardi furtivi da sotto la frangia.
– Vuoi sapere cosa stavo leggendo prima?
Un’offerta di pace balenava tentatrice nella voce di Rodolphus, ora dolce e calma.  
Rabastan era sempre molto curioso di ciò che faceva il fratello maggiore e Rodolphus, che in genere si mostrava infastidito da quell’atteggiamento, sapeva come sfruttarlo per ricucire le scaramucce tra loro. Non rimanevano mai arrabbiati troppo a lungo.
Rabastan non rispose, ma nei suoi occhi galleggiava la curiosità come un pesce in attesa sotto la superficie dell’acqua.
Rodolphus si alzò e andò a raccattare il libro dalla poltrona, lasciandolo poi cadere in grembo al fratellino con un morbido tonfo. Subito la liscia testa di capelli neri si curvò sulla copertina, e le dita corsero a tracciare con i polpastrelli le lettere dorate in rilievo che ne formavano il titolo.
– È un libro sulle ultime stirpi di draghi dell’Islanda – spiegò Rodolphus, riaccoccolandosi sul tappeto di fianco a Rabastan. Stavolta, quando si sporse su di lui, picchiettando l’indice sull’illustrazione in copertina, il piccolo non si scostò. Era completamente rapito dalle immagini di quella che si prospettava una storia favolosa. – Ci sono ancora decine e decine di specie viventi, lo sapevi?
– Te l’ha dato papà? – chiese sognante Rabastan, senza neppure far caso alla domanda.
– Papà? – Rodolphus sbuffò in una risatina sarcastica. – Certo che no, lui non approverebbe mai titoli del genere. Lui vuole solo che impari a memoria i nomi di tutte le casate di maghi e streghe di Francia, una per una. E che tenga i gomiti giù dal tavolo quando mangio.  
Rabastan gli lanciò un’occhiata di sottecchi.
– E tu li hai imparati?
– Beh, ci sto provando…
Rodolphus si allungò all’indietro, appoggiandosi sulle braccia tese, e stirò le gambe davanti a sé, fissando il riflesso delle fiamme sulla punta lucida delle scarpe. Rimasero così per un po’, in silenzio; Rodolphus  a godersi lo scoppiettio e il calore del fuoco basso, Rabastan a sforzarsi di decifrare gli elaborati arabeschi che ornavano i margini delle pagine ingiallite, proprio di fianco alle lettere che, ancora troppo piccolo per saper leggere, costituivano per lui un arcano al pari dei draghi.
– Chissà che ore sono – disse dopo un po’ Rodolphus. La sua voce soffocò in uno sbadiglio che suo padre avrebbe sicuramente bollato come indecoroso.
– Le cinque – cinguettò Rabastan, riscuotendosi dalla sua fascinazione. Chissà come sapeva sempre l’orario preciso, anche senza bisogno di guardare le lancette. Aveva imparato da piccolissimo a leggere i numeri sul quadrante – con le lettere, invece, gli riusciva paradossalmente molto più complicato. In ogni momento potevi star sicuro che lui era lì, pronto a dirti con spaventosa esattezza che ore fossero, senza necessità di un orologio. Una capacità che aveva quasi del raccapricciante.
– Non è vero. Non può essere già così tardi.
Rodolphus saltò in piedi, si spazzolò la polvere dai calzoni e si avvicinò a passi sicuri alla scrivania nell’angolo. C’era un pesante orologio, incastonato in un’elaborata cornice barocca di legno intarsiato; lo afferrò e lo voltò verso di sé. Le lancette segnavano proprio le cinque del pomeriggio.
– Strano – fece Rodolphus, e una ruga gli solcò la fronte altrimenti liscia e pallida. – Mi meraviglio che nostro padre non ci abbia ancora chiamati per il tè.
– Sta per farlo. Sono venuto su mentre diceva all’Elfa di avvisarci fra venti minuti.
Rodolphus sembrò contrariato. Accennò a un movimento infastidito, poi si calmò, corrugò di nuovo la fronte, guardò di sottecchi il fratello che ora stava inginocchiato sul tappeto, il busto piegato in avanti, mentre con un alare faceva sfrigolare un ceppo mezzo consumato. Sembrava divertirlo la pioggia di scintille che ne sprizzava. Picchiava sul legno sempre più forte, per farne scaturire di più.
– Finirai per dar fuoco al tappeto, idiota! – sibilò Rodolphus.
Si avvicinò a lui a grandi passi e gli strappò l’alare di mano. Uno sguardo ferito apparve sui lineamenti del bambino, che si ritorse come una piccola vipera inferocita.
– Hai paura che in tal caso papà te le darà di nuovo? – lo rimbeccò, provocatorio.
Rodolphus si immobilizzò mentre rimetteva l’alare al suo posto. Quando si voltò, il suo viso era impenetrabile come sempre, ma Rabastan si fece comunque piccolo piccolo sotto il disprezzo che sentiva trasudare dalla sua persona. Era un peccato, perché solo poco prima lui e Rodolphus erano vicini come veri fratelli, mentre ora avvertiva la sua rabbia e il suo odio travolgerlo come una mareggiata. Bastava poco per rovinare tutto.
– Perché non te ne vai di nuovo giù, Rabastan? Su, vai. Non ti voglio qui.
– Non posso.
La piccola ruga tornò tra le sopracciglia di Rodolphus.
– Perché no? Quando vuoi sei più veloce del vento a sparire.
Rabastan scosse di nuovo la testa.
– Non voglio tornare giù.
– Vuoi farmi per forza arrabbiare, vero?
Rabastan lo guardò da sotto in su con una strana freddezza testarda, poi abbassò di nuovo lo sguardo.
– Mi fa paura – sussurrò, appena udibile. La sua voce era un mormorio; il suo sguardo, vitreo, fissava il vuoto.
Rodolphus lo guardò senza capire.
– Chi? Nostro padre?
Rabastan scosse di nuovo il capo, più forte stavolta – infastidito, come se non cogliesse un’ovvietà.
– E chi allora, per Salazar? Insomma, vuoi continuare a fare il gioco del silenzio? Perché io mi sono scocciato di doverti sempre tirare fuori le parole…
– Sono io che mi sono scocciato. Tu non mi ascolti mai, Rod! – saltò su il più piccolo, pugni stretti, gote infuocate. – Non hai sentito quello che ti ho detto prima? C’è un signore giù, è venuto per parlare con nostro padre, non so chi sia, non l’ho mai visto. Mi fa paura. Non ci voglio tornare giù.
La sua vocetta aveva assunto una sfumatura lamentosa che, sull’ultima frase, si era spezzata in un gorgoglio rantolante – come se fosse sul punto di piangere.
Rodolphus osservò Rabastan con più attenzione di quanto avesse fatto fino a quel momento. Il bambino tremava come di un freddo mortale anche se era proprio vicino al camino, e i suoi occhi erano grandi e liquidi – sembravano urlare qualcosa. Guardandoli, all’improvviso Rodolphus si sentì sprofondare nello stesso pozzo gelato in cui era immerso suo fratello minore, e un brivido di anticipazione lo percorse tutto come un alito di vento mortifero.
Tutto d’un tratto, ebbe un orribile presentimento. Fece un passo indietro, sul momento incapace di sopportarne l’urto. Rabastan rimase a guardarlo con la testa leggermente piegata sul petto, fissandolo da sotto la fronte aggrottata. Il bianco dei suoi occhi sembrava rosso alla luce del fuoco, e i suoi capelli neri erano un rogo scarlatto. Somigliava a un piccolo demone, plasmato dalle fiamme dell’inferno.
Rodolphus si ritrovò a trattenere il respiro. La visione durò un attimo, poi sbattè le palpebre e si dissolse. Al suo posto tornò il suo fratellino, piccolo e scuro, nella sua camicia abbottonata fino al collo e i calzoni di lana pesante indosso. Non spaventoso, ma spaventato.
Con riguadagnata compostezza, Rodolphus gli si avvicinò; pose le mani sulle spalle di Rabastan e si chinò leggermente finchè i suoi occhi non furono al livello dei suoi – era ancora più alto di suo fratello, ma non sarebbe durato per molto ancora.
– Ti ha detto qualcosa, questo strano tizio? Gli hai parlato? Ti ha minacciato?
– No, non mi ha visto neanche, credo…
Così dicendo, un altro brivido percorse il più piccolo. Rodolphus lo strinse più forte, in un fiacco tentativo di rassicurarlo.
– Perché ne hai così paura, allora? Non è da te. Sei forse un codardo, Rab?
Rabastan esitò un attimo, come se si vergognasse di dar voce alle proprie debolezze. Ma Rodolphus lo aveva chiamato Rab, lo stava abbracciando, aveva quella voce comprensiva così diversa dalla sua solita: quando faceva così, sapeva di potersi fidare di suo fratello – e raccontargli tutto.  
– È… è strano.
– Strano come? Spiegati meglio!  
Rodolphus lo scrollò leggermente, incitandolo. Nel frattempo non staccava gli occhi dai suoi, fissandolo così intensamente che pareva volesse ipnotizzarlo.
– Non lo so, strano e basta. Non mi piace la sua voce. Sembra… sembra cattiva.  
Rodolphus lo fissò in silenzio. Abbassò le braccia e fece un passo indietro.
– Tutto qui? – disse, allargando le braccia. – Nostro padre ha un sacco di amici cattivi e rivoltanti. C’è quell’Avery, per esempio, che ha una voce da avvoltoio gracchiante… O Mulciber, che sembra un mantice arrochito per via di tutto il tabacco… Ma non ci torcerebbero un capello, lo sai. Nessuno di loro.
– Questo qui non somiglia né a Avery né a Muciber… È diverso.
In quel momento qualcuno bussò alla porta, facendo trasalire entrambi. Rabastan non riuscì a soffocare un piccolo strillo, Rodolphus strinse i pugni e si voltò di scatto come se si preparasse ad affrontare un assalitore improvviso.
Sulla soglia, lì dove poco prima c’era stato lo stesso Rabastan, esitante e intimorita molto più di lui, c’era solo l’Elfa domestica, inchinata così profondamente da tenere il naso incollato alla moquette.
– Tirati su – sbottò con malgarbo Rodolphus, infastidito per essersi fatto cogliere di sorpresa e spaventato davanti a suo fratello da quell’inutile creatura. – Cosa c’è? Perché vieni a disturbarci?
– Lyra non voleva disturbare i padroncini. Monsieur Lestrange ha detto a Lyra di preparare il tè e poi di andare a chiamare i padroncini per il tè, e Lyra ha obbedito. Lyra è mortificata di aver interrotto, Lyra non voleva…
– D’accordo, d’accordo. Dacci un taglio, ora.
L’Elfa ammutolì sull’istante. Fece un altro inchino così profondo e rimase in quella posizione, in silenzio, come una statua.
– Dì a nostro padre che arriviamo subito. Puoi andare.
– Sì, padroncino.
Rodolphus rimase a contemplare per qualche istante, con disprezzo, la soglia della porta da dove l’Elfa si era eclissata, poi si volse lentamente verso Rabastan.
– A quanto pare nemmeno oggi possiamo risparmiarci i biscotti di zia Elladora – commentò, in tono neutro.
La bocca sottile di Rabastan si contrasse suo malgrado e scoppiò a ridere. Rodolphus, dopo un poco convincente sforzo di mantenersi serio, si unì fragorosamente alla sua allegria.
– I biscotti di zia Elladora sono tremendi. Perché papà non glieli rimanda indietro?
– Perché è sua sorella, genio. – Rodolphus sospirò. – Vorrei che almeno quando non ci sono ospiti non ci costringesse a mangiarli.
– Fai come me. Tienili in bocca senza masticarli e, quando lui non guarda, dalli a Phobos. Lui ne va matto.
Rodolphus lo guardò con tanto d’occhi. – Tu sei matto! Se papà scopre che sprechi i biscotti per il cane ti ammazza.
– Non lo scoprirà se non glielo dici. Tu non glielo dici, no?
Si scambiarono uno sguardo silenzioso di intesa. Poi Rodolphus scrollò le spalle, liquidando così la questione.
– Andiamo, dai. Se tardiamo dovremo scontarla più tardi.
Quelle parole bastarono a dissipare la breve parentesi divertita. Un’atmosfera cupa tornò a calare sulla stanza. Rabastan sembrò rimpicciolirsi; divenne di nuovo nervoso, guardingo, riprese a tremare. Si torturava le dita, sfregando le mani l’una nell’altra, incapace di tenerle ferme.
– Rab, che ti prende, si può sapere? È solo un tè – sbuffò di nuovo Rodolphus. – Vieni qui, su.
Rabastan si avvicinò ad occhi bassi al fratello maggiore.
– Guarda come ti sei conciato, il solito sciattone… Eppure mamma te lo dice sempre che è importante andare in giro ordinati – brontolò Rodolphus.
Gli aggiustò il colletto, lisciandoglielo sulle spalle, gli rifece il nodo al cravattino e glielo rinfilò sotto il pullover.
– Dammi le maniche.
Rabastan gliele tese obbediente, Rodolphus gli tirò i polsini della camicia e arrotolò con diligenza gli orli. Gettò un ultimo sguardo critico d’insieme al fratello, fece per sistemargli anche i capelli, ma Rabastan si scansò con uno scatto feroce.
– Per favore, Rod! Non ti ci mettere anche tu! Basta la mamma.  
– Come vuoi – sibilò il maggiore. – Se papà te le dà, peggio per te. Andiamo.
Precedette il fratello fuori dalla stanza; si fermò sulla porta quando si accorse che Rabastan non l’aveva seguito. Lo squadrò con un sopracciglio sollevato, palesemente irritato.
– Beh? Stai aspettando un invito scritto?
Con un altro sbuffo, molto a malincuore, trascinando i piedi come fossero di piombo, Rabastan lo raggiunse. Rodolphus chiuse la porta alle loro spalle e insieme, fianco a fianco, si avviarono lungo il corridoio.
– Mi raccomando, sii educato. Non parlare, rispondi solo se interrogato. Se fai arrabbiare l’ospite, papà…
– Lo so, lo so. Perché fai sempre l’adulto, Rod, anche se non lo sei?
Rodolphus lo bloccò, afferrandolo per la gola.
– Sono comunque più grande di te, Rabastan, ricordatelo. Non voglio buscarle per colpa tua.
– Vedi che avevo ragione io? – sibilò Rabastan, un po’ a fatica per via della mano che gli stringeva il collo. – Anche tu hai paura, proprio come me. E ne avrai ancora di più ora che vedi l’amico di papà.
A quelle parole, la strana sensazione sgradevole di poco prima serpeggiò di nuovo lungo la schiena e le braccia di Rodolphus. Lasciò andare il fratello.
– Sarà qualche tuo stupido scherzo, come al solito – disse, affettando tranquilla superiorità. Riprese a camminare lungo il corridoio; Rabastan fu costretto a correre per tenergli dietro. – Chissà cosa vuole… – mormorò, riflettendo tra sé e sé. – Da noi niente, sicuro, nemmeno lo conosciamo. Sarà venuto per papà, l’hai detto anche tu, no? Vorrà solo presentarci. Faremo finta di bere il tè con lui e dopo cinque minuti papà ci manderà di nuovo su, mentre parlano d’affari. Come ogni volta che viene qualcuno dei suoi misteriosi amici incappucciati.
– Spero di sì, Rod. Spero che hai ragione.  
Quando giunsero in cima alla rampa di scale, Rabastan si fermò, Rodolphus pure. Entrambi tesero le orecchie. Da sotto non si udiva nessun rumore; silenzio completo. Il buio avvolgeva completamente il fondo delle scale; il baluginio dei candelabri appesi alle pareti rischiarava solo fino a metà rampa. La casa avrebbe potuto essere disabitata a parte loro due, per quello che sembrava. Rabastan alzò lo sguardo e fissò suo fratello.
– Vuoi andare avanti tu, Rod?
Rodolphus sussultò e abbassò gli occhi sul volto del più piccolo. Si sentì all’improvviso veramente spaventato, anche se da cosa, non avrebbe saputo dirlo. Non aveva mai visto Rabastan così impaurito, e il vederlo così terrorizzava anche lui.
Tuttavia, con tutta la ferrea educazione che aveva ricevuto in dieci anni di vita, Rodolphus si costrinse a essere all’altezza, come sempre ci si era aspettato da lui.
Scosse la testa risolutamente.
– Andremo insieme. Fianco a fianco. – Lo sguardo di assoluto panico che vibrò come una lama sguainata nelle pupille del più piccolo intenerì Rodolphus quel tanto da indurlo a una minima concessione. – Puoi darmi la mano, se vuoi. Solo fino alla porta del salone, però. Papà non deve vederci.
Rabastan sembrò sul punto di mettersi a piangere, stavolta per il sollievo. Sgranò gli occhioni e annuì freneticamente quattro, cinque volte.
– Sì. , per favore…
Quando Rodolphus gli porse la mano, Rabastan ci si aggrappò con una stretta convulsa. Rodolphus dovette trattenere un gemito di dolore – e una strana soddisfazione realizzando che il suo fratellino aveva ancora molto bisogno di lui…  
Serrò i denti, appoggiò l’altra mano sul corrimano e cominciò a scendere, tirandosi dietro un ancora esitante Rabastan.
Cosa ci sarà da avere paura, proprio non lo capisco, rimuginò tra sé. Fifone che non è altro… Se lo vedesse nostro padre lo chiuderebbe minimo una settimana in cantina…
Afferrava i pensieri cercando un punto fermo che impedisse alla sua testa di girare vorticosamente. Ma quelli fuggivano, dissolvendosi l’attimo dopo averli pensati – lasciando un vuoto, e nel vuoto la paura che lui stesso esitava a riconoscere.


 
***


 
Attraversarono il salone, che occupava quasi tutto il primo piano della dimora di famiglia. C’era un pianoforte, contro la parete di fondo, e un enorme focolare scolpito nel marmo dal lato opposto. Sul versante sud si apriva un’ampia vetrata da cui entrava luce a fiotti e la musica dell’oceano nelle giornate di bel tempo.
Mentre si avvicinavano alla porta dello studio, Rodolphus tenne gli occhi fissi sulla sottile lama di luce sotto di essa che si allungava sul pavimento e su per la parete opposta del corridoio. Ora che erano così vicini, si udiva un flebile suono di voci umane, ma comunque così basse e confuse da risultare incomprensibili. In realtà – mentre Rodolphus si fermava a un passo dalla porta e tendeva spasmodicamente l’orecchio, trascinandosi dietro un Rabastan parecchio agitato – una era la voce che si udiva, e non apparteneva a suo padre.
La voce non era di nessuno degli amici di suo padre che lui conoscesse, ed era diversa anche da quella di qualsiasi Mago che Rodolphus avesse mai udito. Anche se non riusciva ad afferrare le parole, fu il tono di quella voce a srotolargli brividi incontrollati lungo la schiena. Come se dita ghiacciate lo stessero toccando, premendogli lunghi polpastrelli ossuti su ciascuna vertebra del suo corpo. Poco mancò che battesse i denti, e la cosa lo fece arrossire furiosamente, perché se c’era qualcosa di cui Rodolphus era sempre andato fiero era di non essersi mai comportato come un bambino pauroso davanti a nessuno. Eppure, in quel momento, bastò quella voce per mettergli nelle viscere la voglia di fuggire mille miglia lontano da lì; nascondersi da qualche parte, sotto le coperte, nell’armadio; buttarsi dalla scogliera – tutto, purchè quella voce non lo trovasse.
È solo una voce. Che ti prende? Ti stai facendo suggestionare da Rabastan.
Rodolphus respirò a fondo più volte per recuperare il controllo. Si voltò verso Rabastan, un dito sulle labbra ad imporgli il silenzio. Lo fissò finchè il bambino non ebbe annuito, dimostrandogli di aver capito. Era terreo in volto.
Poi Rodolphus gli lasciò la mano. Le dita di Rabastan erano tentacoli viscidi di sudore, e la loro stretta scivolosa non accennava a lasciarlo andare, per questo dovette aprirgli il pugno con la forza, un dito alla volta, ignorando lo sguardo supplice, pieno di lacrime. Se ne sentiva accusato, ma davvero non c’era null’altro che potesse fare. Quando riuscì finalmente a liberarla, Rodolphus si rese conto che anche la sua mano era sudata e se la pulì sui calzoni. Fece un passo in avanti e bussò.
Fulminò con un’ultima occhiata il fratellino, come ad intimargli “togliti dalla testa di filartela; rimani al tuo posto”. Rabastan, pallido come un fantasma, obbedì, un passo indietro rispetto a suo fratello.  
– Avanti – disse la voce tonante del loro padre, appena smorzata dalla pesante porta di legno massiccio.
Rodolphus spinse lentamente la porta con la punta delle dita. Quella ruotò sui cardini senza un cigolio, spalancandosi completamente sulla stanza. La luce che li accolse sembrò abbagliante, dopo la tenebra pressoché totale del corridoio, appena interrotta da moccoli di candele sparse qua e là. Per un attimo rimasero fermi sulla soglia, abbacinati, a sbattere le palpebre come due topolini instupiditi. Rabastan si stringeva al gomito di Rodolphus.  
Monsieur Lestrange si voltò quando i suoi figli entrarono. Il suo sguardo freddo li inchiodò immobili, raggelati, sulla soglia; non fece nulla per consolarli o dissipare il loro disagio. Il suo volto appariva ancora più arcigno del solito – doveva essere irritato o nervoso per qualche motivo, e quello non contribuiva affatto a bendisporlo nei confronti della sua prole.
– Venite avanti, non siate maleducati – li spronò, spazientito, ricorrendo al tono imperioso che il suo primogenito aveva imparato ad imitare così bene. – Rodolphus, chiudi la porta.
Ubbidirono in silenzio. Avanzarono verso il centro della stanza – i loro passi produssero un morbido fruscio, inghiottito dal tappeto sul pavimento – e lì si fermarono, indecisi sul da farsi. Per quanto volgesse lo sguardo intorno, Rodolphus non riusciva assolutamente a vedere dove fosse l’ospite di suo padre. Eppure, al suo fianco, Rabastan non aveva smesso di tremare un solo minuto da quando erano entrati. E dire che la temperatura della stanza era tutt’altro che fredda; anche qui un bel fuoco scoppiettava nel camino, e l’enorme lampadario di cristallo spandeva un chiarore dorato. Fuori, invece, le finestre erano già ammantate di buio. La notte calava presto, da quelle parti, nel cuore dell’inverno.
– Voglio presentarvi qualcuno – proseguì Monsieur Lestrange. – Qualcuno che desidera molto fare la vostra conoscenza.
Rodolphus notò che la voce di suo padre si colorava in modo diverso pronunciando la parola “qualcuno” – quasi fosse scritta in maiuscolo, a lettere fiammeggianti – e non riusciva a spiegarsi il perché.
Dove sarà? si chiedeva. Non riusciva a vedere il misterioso ospite. Forse si era momentaneamente assentato. Ma allora… la voce che aveva udito poco prima, fuori dalla porta, a chi apparteneva?
Suo padre si alzò dalla poltrona davanti al camino nella quale era sprofondato. La sua lunga ombra si proiettò guizzante, innaturalmente contorta da un gioco di luce, mentre si chinava sul tavolino davanti a sé per prendere la teiera. In controluce, il riflesso del fuoco scivolava sulla sua barba tagliata corta, traeva barbagli dardeggianti dagli anelli che gli ornavano le dita mentre maneggiava la porcellana finissima. Sollevò la teiera; un fiotto di liquido bollente colò nella tazza riempiendola per metà. La riabbassò, facendola tintinnare appena; chiese: – Latte o zucchero?
Rodolphus era attonito – chiaramente, quella domanda non era rivolta a nessuno dei due bambini, e lo sfiorò il terribile pensiero che suo padre fosse impazzito e avesse iniziato a parlare da solo. Ma, dopo un attimo, tutti i peli su ogni centimetro quadrato del suo corpo si rizzarono quando udì una voce, la stessa che aveva parlato poco prima che bussasse, rispondere: – Niente, va bene così, Lestrange.
Con sommo orrore, Rodolphus si rese conto che la voce era vicina – vicinissima – proveniva dall’angolo completamente avvolto nelle ombre alla destra del camino, tra questo e la finestra est. Fissando lo sguardo in quella direzione, Rodolphus ebbe come l’impressione che lì vi fosse qualcosa di più buio del buio stesso. Qualcosa che in quel momento guardava lui, dritto negli occhi – e oltre, dritto nell’anima. Distolse lo sguardo terrorizzato, rivoltato, sentendo una nausea fortissima avvolgersi intorno al suo stomaco e strizzarglielo come un pugno.
Monsieur Lestrange si raddrizzò. Aggirò il tavolino, tenendo il manico della tazza in una mano, il piattino al di sotto con l’altra, e la porse alla voce nell’ombra. In quel momento una lunga mano sgusciò fuori dalle tenebre per afferrarla, e fu allora che Rodolphus – e il piccolo Rabastan, accanto a lui – videro l’orrore della cosa che si nascondeva a casa loro, e non l’avrebbero più dimenticato. Era una mano scheletrica, livida, come morta. La pelle si tendeva come priva di vita sulle nocche, così affilate da sembrare sul punto di bucarla, e sui tendini che solcavano profondamente il dorso della mano come robuste cordicelle di spago. Le articolazioni tra le falangi erano grosse e nodose – ricordavano i rami di un albero canuto e malvagio. E le unghie… Madame Lestrange avrebbe mormorato un Mon Dieu accasciandosi con le mani sul cuore. Quelle unghie non appartenevano sicuramente a quel che si dice una persona sana.
La mano afferrò la tazza e si ritirò di nuovo nell’ombra. Rodolphus tese le orecchie aspettandosi il lieve rumore di risucchio che le labbra umane producono quando bevono, ma rimase deluso. Solo silenzio avvolgeva la figura nascosta. Lo investì, terribile, il sospetto che quella creatura non avesse labbra...
Quasi immediatamente si diede dello sciocco: se l’essere aveva mani, doveva per forza avere anche una bocca! Stupido, stupido Rodolphus…come poteva farneticare così? A meno che – lo folgorò un’intuizione improvvisa – non avesse avuto una qualche specie di incidente… qualcosa che lo avesse sfregiato o mutilato in modo irreparabile in volto…
Per questo non voleva mostrarsi alla luce, si vergognava…  
– Non è stato un incidente – sibilò all’improvviso la voce. E, benché piatta e neutra, Rodolphus dovette trattenersi dal fare un balzo all’indietro, respinto dal gelido veleno di cui sembrava essere naturalmente intrisa.
– Prego? – interrogò perplesso Monsieur Lestrange.
– Dì a tuo figlio, Roland, che si sbaglia. Le sue supposizioni non corrispondono al vero.
Rodolphus deglutì così forzatamente da sentire il dolore irradiarsi dall’esofago in mezzo alle scapole. Come aveva fatto a indovinare i suoi pensieri? Forse quell’uomo era un Legilimens? Non ne aveva mai conosciuto uno dal vivo, ma suo padre gli aveva parlato di quella straordinaria quanto rara abilità magica. Esistevano incantesimi che potevano penetrare anche la mente più asserragliata e meglio difesa. Soprattutto se messi in pratica da un Mago di abilità eccezionale e senza scrupoli, anche le verità più scottanti venivano a galla e le vergogne più ripugnanti si mostravano in superficie. Penetrare la tenera mente indifesa di un bambino… doveva essere un gioco da ragazzi, al confronto.
– Quali supposizioni, Rodolphus? – chiese Monsieur Lestrange, fermandosi nell’atto di versarsi del tè.
Il bambino trasalì per la sorpresa, ma non rispose. Anche se avesse voluto, non avrebbe trovato la voce per farlo. Si chiese perché suo padre avesse dato per scontato che si trattasse di lui e non di Rabastan. Monsieur Lestrange lo fissò. Dopo aver rovistato per un po’ nella tasca interna della giacca, cavò un sigaro e andò a fumarlo accanto al camino, dando loro le spalle e tenendosi accuratamente lontano dall’angolo in cui si nascondeva il suo ospite, non mostrando alcun desiderio di avvicinarsi. La sua sagoma si disegnò controluce; l’aureola di fumo della prima boccata gli si raccolse per qualche istante intorno alla testa – facendola assomigliare a un fungo mostruoso – prima di essere soffiata via con nervosismo. La brace rossa incandescente del sigaro ammiccò ai due bambini quando tornò a voltarsi verso di loro, la schiena alle fiamme.
– Ti ho fatto una domanda, Rodolphus. Ti ordino di rispondere.
Tese una mano e fece seccamente cenno a Rodolphus di avvicinarsi. Rodolphus fece un passo avanti e si fermò, il cuore che tamburellava impazzito nel petto. Rabastan, alle sue spalle, osservava trattenendo il fiato.
Sentì gli occhi invisibili scrutarlo dal buio – lenti, irridenti, soffermandosi su ogni centimetro della sua figura, sondando al contempo il contenuto di quel corpicino tremante. Rodolphus dovette farsi forza per controllare i brividi mentre si sentiva privare, strato dopo strato, di ogni parvenza di difesa fisica e mentale che potesse allestire contro la forzata intrusione. Quando l’esame terminò, Rodolphus si trovò quasi in lacrime, senza che potesse spiegare a se stesso il motivo. Tecnicamente lo straniero l’aveva solo guardato ma, per qualche ragione, era stata la cosa più umiliante e più atroce cui fosse mai stato sottoposto. Molto peggio di tutte le prove cui lo costringeva suo padre con la scusa che gli avrebbero temprato il carattere.
– Questo, dunque, è il tuo erede. – Non era una domanda, e non c’era la minima inflessione nella sua voce se non un velo di disprezzo. – Quanti anni ha?
– Undici la prossima estate.
– Undici la prossima estate – ripetè lo sconosciuto, soppesando l’informazione. – E, dimmi, promette bene?
Rodolphus non aveva idea di cosa volesse dire quella domanda, ma colse l’esitazione improvvisa sul volto di suo padre. Lo vide frugare febbrilmente dentro di sé in cerca di una risposta – cosa che non gli era capitato spesso di osservare. Suo padre aveva sempre la risposta pronta, sapeva esattamente cosa dire al momento giusto, non si faceva mai cogliere impreparato. Ma ora sembrava insicuro, via via più nervoso da quando erano entrati nella stanza, come se la loro presenza lo ponesse in una situazione imbarazzante, di disagio. Mordeva l’estremità del suo sigaro come a volerne succhiare coraggio, mentre misurava le parole da dire.
– È un ragazzo in gamba – disse infine, senza guardare nessuno, e tacque.
Si voltò di nuovo verso il fuoco, incrociando le mani dietro la schiena. Rodolphus osservò stupefatto gli anelli di fumo che si levavano da sopra la sua spalla e realizzò in un lampo che quello era stato uno dei pochissimi apprezzamenti che il genitore gli avesse rivolto nella sua giovane vita. L’emozione fu tale da sommergere quasi la paura che provava.
– Sa andare a cavallo, tirare con l’arco e maneggiare con sufficiente abilità la spada. Non gli consento di portare ancora una bacchetta sua, ma è già in grado di eseguire piccoli incantesimi di livello base. E sa tenersi con sufficiente decoro in sella a una scopa, ringraziando Salazar.
Rodolphus si fissò i piedi, le orecchie a fuoco, non sapendo se sentirsi imbarazzato o lusingato dalla concisa, impersonale esposizione delle sue qualità.
Come un negoziante che cerca di svendere una merce di dubbio valore, pensò – e quel pensiero non sembrò suo.  
Poco convincente, ripetè con freddo sarcasmo una voce nella sua mente.
– Sai che non è quello che intendevo quando ti ho chiesto se prometteva bene – disse melliflua la voce, che assomigliava spaventosamente a quella del sarcasmo.
– È solo un bambino. – La voce di suo padre ebbe improvvisamente un’incrinatura.
Qualcuno strinse Rodolphus da dietro. Egli quasi si mise a gridare, ma era solo Rabastan che gli si era afferrato con entrambe le mani alle falde della giacca e non intendeva mollarlo. Rodolphus non lo cacciò via. Non lo avrebbe ammesso neppure sotto tortura, ma in quel momento aveva bisogno di qualcuno più debole e spaventato di lui per sentirsi di nuovo forte – ma forte era una parola antica, ormai, di una vita passata.
– Ha quasi undici anni – riprese freddamente l’ospite. – L’anno prossimo andrà in quella scuola di Babbanofili e Mezzosangue. Non è più un bambino, Roland. Non mentire a te stesso.
– Abbiamo già parlato di questo.
– Sì.
– Sai come la penso.
La voce nell’ombra taceva.  
– Non voglio che Rodolphus sia coinvolto in tutto questo. E nemmeno Rabastan. È troppo… presto per loro.
Calò il silenzio. Rodolphus e Rabastan trattenevano il respiro. Rodolphus non osava gettare neppure un’occhiata verso l’angolo dove si trovava lo sconosciuto, ma gli pareva che lì le ombre si addensassero come un buco nero che risucchiava ogni cosa intorno a sé, compreso il coraggio, i buoni sentimenti, la gioia di vivere…
Diversi minuti passarono prima che la voce tornasse a farsi sentire. Anche se manteneva il medesimo tono basso e mortifero, Rodolphus intuì immediatamente che l’ospite doveva essere molto arrabbiato.
– Pensavo fossimo amici, Lestrange. Dicevi che mi avresti aiutato.
L’interpellato si voltò verso l’ospite. Il suo profilo si stagliò contro il fuoco; il labbro inferiore tremava incontrollabile. Il mozzicone del sigaro si consumava tristemente tra le fiamme.
E l’ho fatto! Ti ho dato la mia parola, ricordi? Quando mi chiedesti di aiutarti a nasconderti dagli Auror e di far perdere le tue tracce, non mi sono tirato indietro. Ho infilato spie al Ministero di mia iniziativa per controllare le mosse di quegli imbecilli, a costo di farmi scoprire e di finire ad Azkaban. Mi sono sporcato le mani io stesso, quando è stato necessario a sgombrarti la strada. E sono ancora disposto ad aiutarti, qualsiasi cosa tu abbia bisogno. Ma i miei figli non si toccano.
Il volume della sua voce, ora accorata, aveva raggiunto vette inusitate per quell’uomo in genere freddo e controllato, tiranno delle proprie emozioni. Il calore violento della disperazione si faceva strada attraverso le crepe di una facciata costruita per anni, rivelando l’uomo che vi si celava dietro, in tutta la sua fragilità scoperta, ora messa impudicamente a nudo. Irriconoscibile ai suoi stessi figli, che lo guardavano con occhi grandi come piattini e non proferivano parola.
In contrasto, la voce dell’ospite conteneva lo spietato gelo di un inverno artico – e quando parlò, stavolta vibrava di scherno.  
– Non ti facevo così sentimentale, Lestrange. I sentimenti sono per i deboli, ahi ahi, e non mi servono deboli tra i miei seguaci. L’aiuto che mi hai dato è stato utile, non lo nego, ma era il minimo che tu potessi fare. Chiedi ad Avery, chiedi a Rosier: loro si sarebbero sottoposti a mille Cruciatus per me, pur di avere l’onore di essere al tuo posto.
– Loro non hanno famiglia. – Il mormorio fu talmente flebile da non essere udito dall’uomo nell’ombra. O, seppur udito, fu crudelmente ignorato.
– Quando dicevi che avresti dato tutto, per me, era scontato intendessi proprio tutto. Nulla dovrebbe essere più importante di me o della Causa, Roland, né per te né per chiunque altro. Pensavo fosse abbastanza chiaro. Ti dissi che, se avessi avuto il minimo sentore che qualcosa ti stesse a cuore più del nostro comune progetto, non avrei esitato a estrometterti. – Rodolphus ignorava il significato di quel parolone complicato, ma doveva indicare indubbiamente qualcosa di brutto, o doloroso, a giudicare dall’espressione di terrore impotente di suo padre. – Non costringermi a privarmi di un altro dei miei più brillanti seguaci, Roland, suvvia. Ricordi quello che è successo a Mulciber, vero?
La visione indistinta di un ciuffo di capelli imbrattati di sangue e unghie spezzate appartenenti chissà a chi balenò nella mente di Rodolphus, instillata dalla potenza inesorabile di quello che, ormai Rodolphus ne era sicuro, era un Legilimens di eccezionale abilità. Scomparve in un decimo di secondo – sufficiente per marchiarsi a fondo nei suoi ricordi, come un monito latente.
Altrettanto repentinamente, davanti al silenzio impietrito di Lestrange, l’umore dell’uomo cambiò, e una furia sorda – che nulla di umano aveva – gli spazzò la voce.
– O forse pensi che essermi fedele sia un prezzo troppo alto da pagare, Lestrange? Che non ne valga la pena, forse? Che io non meriti assoluta, cieca devozione da parte tua? Stai pensando di tirarti indietro, di abbandonare il tuo Padrone…   
– No, non è questo! Certo che ne vale la pena! – urlò Lestrange, dibattendosi sempre più debolmente all’amo del suo persecutore. – Ma cerca di capire. Ti rendi conto di quello che mi stai chiedendo?
– Pensi che sia la cosa peggiore che possa chiederti? – Ancora quella rabbia sovrumana. – Ti sbagli. Quella sarebbe vederli contorcersi sotto i tuoi occhi, mentre con l’Imperius ti costringo a torturare i tuoi bambini… Come minimo, mi chiederesti di ucciderti, dopo, per il rimorso. E un morto non può aiutarmi – né possono i suoi figli, irreparabilmente spezzati da qualche Maledizione troppo forte per le loro acerbe piccole menti... 
L’espressione sul viso di Lestrange – che sembrava essere invecchiato negli ultimi minuti del doppio dei suoi anni – si venò improvvisamente di qualcosa di fondo e nero, molto simile all’essenza stessa della rassegnazione di chi sa di esser perduto, per quanto continui a lottare.
– Sono tutto quello che ho! Sono il mio sangue, il futuro della mia casata… – tentò ancor debolmente.
– Sciocchezze. Tua moglie è ancora giovane, potrai ingravidarla altre volte – tagliò corto la voce. – Dovresti essere orgoglioso, Lestrange, che tra tutti abbia scelto proprio i tuoi. Non molti dei miei seguaci hanno figli, ma se li avessero non esiterebbero a offrirmeli.
– Seguaci… – Lestrange emise una risatina amara. – Pensavo avessi almeno il fegato di chiamarci con il nostro vero nome.
– … amici?!
Servi. I Mangiamorte non sono altro.
Una smorfia contratta stirava le labbra sottili di Lestrange. I suoi occhi erano quelli di un vecchio, svuotati e tristi. La sua mano scivolò sotto la giacca, tastando febbrilmente in cerca di qualcosa.
– Hai fumato il tuo ultimo sigaro – canticchiò soave la voce, che sembrava godersi ogni singolo movimento. – Non ne troverai altri.
Lestrange smise immediatamente di rovistare.
– Già, sembra proprio che tu abbia ragione – mormorò tranquillamente. Gli angoli della sua bocca ricaddero in basso come attratti da un’invincibile gravità.  
Sfilò la mano dal taschino, la riabbassò contro il fianco, stropicciando il polpastrello del pollice contro quello dell’indice. I suoi occhi saettarono per la stanza, sulla scrivania, sul pianoforte, infine sulle mensole. Non si fermarono neppure una volta sui due bambini fermi come bambole a grandezza naturale dietro il tavolino da tè.
– E nemmeno la tua bacchetta, se è quella che vai cercando.
La voce flautata s’increspò in una risatina quando Lestrange volse di scatto la testa nella sua direzione, spalancando gli occhi come un ladro colto in flagrante.
Era la prima volta che udiva lo sconosciuto ridere, e Rodolphus si trovò a spostare freneticamente la mano indietro, lungo il fianco, tremando, finchè trovò quella di Rabastan, ancora attaccato a lui come un neonato al seno materno. Gliela prese, la strinse forte dietro la propria schiena. Le unghie di Rabastan gli incisero le nocche, ma Rodolphus quasi non le sentì.
Ebbe un tremito quando vide l’ombra della sconfitta calare dall’alto sul volto del padre. Un ultimo lampo di rabbia impotente, allucinata, passò nei suoi occhi, poi fu la volta di un pallido sorriso stupido e della più totale rassegnazione. Aveva ceduto. Aveva dato via tutto, in pasto a quel mostro – anche l’ultima briciola della sua umanità. Rodolphus ebbe la subitanea certezza che suo padre li aveva lasciati andare in quel momento, ma per un qualche arcano motivo continuò a recitare la sua parte. Lo fece per loro, per lui e Rabastan, avrebbe scoperto in seguito.
– D’accordo, Riddle. Basta giochetti. – Cercò di raddrizzare la schiena, darsi un contegno; ma tutta la sua forza di volontà era stata risucchiata via: rimase un povero vecchietto ingobbito. – Smettila di giocare con me.
Cominciò improvvisamente a piagnucolare come se qualcosa, da dentro, gli parlasse, lo opprimesse. Si strinse le tempie tra le dita.
– Lo farei – mormorò dolce l’ospite, – se tu dimostrassi un minimo di abilità nelle trattative. Ma tu ti rifiuti di capire cos’è meglio per te e per la tua famiglia.
– Né io né la mia famiglia contiamo un accidente per te – sbottò Lestrange, digrignando i denti, la testa ancora tra le mani come se temesse di vedersela portar via. – Dimmi il tuo prezzo e lasciaci in pace.
L’uomo chiamato Riddle non rise, stavolta – non ad alta voce. Ma Rodolphus seppe con assoluta certezza che, se quell’uomo davvero aveva labbra, in quel momento dovevano essere piegate nel ghigno di divertimento più abietto che un dio avesse mai potuto concepire per una creatura umana. Se umano lo era davvero.
– Ma allora non ci siamo capiti…– sibilò, quasi dolce nella sua pensosa, compiaciuta malvagità. Una parte di lui era davvero divertita dalla tenacia con cui quel piccolo umano si teneva stretti i suoi miserabili sentimenti. – La mia richiesta non è trattabile. Vuoi sapere il mio prezzo? Te l’ho detto. E se il mio prezzo, come lo chiami tu, è di gran lunga superiore alle tue possibilità, questo non è affar mio.
Lestrange s’irrigidì tutto. La sua figura sembrava sempre più curvarsi, rimpicciolirsi, ad ogni parola che gli veniva scagliata addosso col sistematico intento di ferirlo a morte. A un certo punto la pressione divenne fisica – come schiacciato da una mano invisibile, Lestrange si piegò in due e crollò rovinosamente sulla poltrona, in preda a spasmi convulsi.
– Stai spaventando i tuoi figli – commentò lo straniero, e sembrava pieno di compassione.
Il corpo di Lestrange, in poltrona, si muoveva a scatti, sobbalzando contro lo schienale – ma dalla sua bocca non usciva alcun suono. Era in corso una Cruciatus silenziosa su di lui, ma i suoi bambini non potevano saperlo. Non potevano sapere quali armi stesse adoperando l’Uomo Nero per far crollare, una ad una, le difese del loro genitore.
Quando finì, l’uomo rimase accasciato esanime per lunghi minuti – entrambe le mani sui braccioli, la testa riversa bocconi sul petto, un filo di bava mista a sangue che colava sul gilet ricamato.  
– Tirati su, Roland, da bravo – blandì il Legilimens e, a quelle parole, la testa di Lestrange fu sollevata di scatto e la nuca urtò dolorosamente contro il poggiatesta imbottito, quasi fosse una marionetta cui avessero tirato bruscamente i fili. Le palpebre si alzarono, la bocca rimase semiaperta, la mandibola penzoloni, dandogli l’aria stolida di un vecchio cane sbavante. Negli occhi lo sguardo di terrore di chi non è più padrone del suo corpo – né, a breve, della sua mente.
Lestrange era diventato pressoché un pupazzo. L’ultimo barlume di volontà era quasi spento.
– Fortunatamente per loro – riprese cordiale la voce, – i tuoi figli non sono spazzatura come te. C’è del potenziale in loro, l’ho visto. Saranno in grado di servirmi molto meglio di quanto tu, Nott o McNair avete mai avuto il coraggio di fare. Adesso sono troppo giovani per capire davvero, ma lo capiranno, oh sì se lo capiranno...
Sudore ghiacciato imperlava il volto di Lestrange; la Cruciatus gli aveva momentaneamente fatto perdere l’uso di entrambe le gambe e il controllo degli sfinteri, per cui non solo non riusciva a rimettersi in piedi, ma era altresì trattenuto dalla vergogna, di fronte ai suoi figli, della macchia nera che si allargava sul cavallo dei calzoni. Con un tremendo sforzo di volontà, chiamando a raccolta le energie rimaste, si costrinse a parlare. La voce sembrò uscire da una cosa morta, come un’eco dal passato; non riusciva a pronunciare più di poche parole di fila.
– Allora… convieni co-con me che… non è anc-cora ora di… coinvolgerli… in t-tutto… questo… Sono tr-troppo pic…piccoli…
Rodolphus aveva solo dieci anni, ma in quel momento – che avrebbe segnato la vita sua e di suo fratello come una ferita indelebile, a vita – ebbe compassione dell’ingenuità di suo padre. Sapeva benissimo quale sarebbe stata la risposta dell’Uomo Nero. La sapeva anche lui che pure era ancora così piccolo.
A quel punto, invece della voce letale dell’ospite, un’altra spirò nella sua mente, attraversandola come un refolo di brezza primaverile: la voce di suo padre che, come amplificata da qualche ignoto Incantesimo, sembrava parlargli all’orecchio, giungendo da un luogo molto lontano e rivolta a qualcuno che non era lui.
“Quando i tempi saranno maturi, li condurrò a te personalmente, con le mie mani... Giuro; lo giuro su di loro. Non avrei motivo di mentirti, lo sai. Ti chiedo solo di aspettare qualche altro anno, solo questo. Cos’è per te qualche anno? Solo un paio d’anni, finchè non saranno grandi abbastanza per poter capire. Solo un paio di…”
Il discorso si interruppe di colpo. Rodolphus non sapeva se l’avesse sentito anche Rabastan, ma sicuramente l’uomo cui era indirizzata sì.  
– Qualche anno non conta nulla solo per colui che ha il dono dell’immortalità – scandì ad alta voce lo straniero, pensoso. – Ma per un miserabile mortale come te, Roland, capisco che un paio d’anni possano fare tutta la differenza del mondo. Capisco benissimo. – Sembrava ancora una volta stillare pietà e comprensione, quella voce. – Tante cose possono accadere nello spazio insignificante di qualche anno... Cose gradite, cose meno gradite. Tu potresti morire, ad esempio. Cosa ne sarebbe del sangue del tuo sangue se capitasse qualcosa a te? O alla tua incantevole signora? Sarebbe distrutta dal dolore della tua perdita, e tu dalla sua. Vi amate così tanto, lo percepiscono anche queste mura… Non oso immaginare quale terribile tragedia sarebbe se, evenienza più spaventevole di tutte, la nobile casata dei Lestrange dovesse restare senza eredi viventi, Salazar non voglia
– Basta, basta! – urlò Lestrange. Sembrò liberarsi all’improvviso dalle invisibili pastoie che lo costringevano contro lo schienale. Si buttò in avanti, i gomiti tra le ginocchia, si coprì il volto con le mani e prese a singhiozzare come un bimbo piccolo, senza più freni.
La voce, misericordiosamente, tacque.
Rodolphus fissò impietrito suo padre piangere. Spostò lo sguardo sul fuoco e restò a guardare il rossore delle fiamme che si dilatò fino a occupare l’intero suo campo visivo. Non sentiva nulla. Non sentì più nulla. Un velo si era squarciato nella sua mente – suo padre, quell’uomo enorme che lo trattava con la severità più ingiusta e il disprezzo più immeritato, che lo sottoponeva a castighi e tormenti, che lo batteva e lo puniva e sembrava volerlo educare più al dolore che al coraggio – quell’uomo era… fragile. La sua voce poteva pigolare e squittire, oltre che urlare. La sua schiena poteva curvarsi, invece di svettare fiera e imponente su coloro che gli erano sotto. Anche quell’uomo brutale, inflessibile, poteva essere spezzato – poteva piangere.
E se suo padre poteva piangere, allora non c’era più nessuno per cui valesse la pena mostrarsi forti. Più nessuno a difenderlo. Se suo padre poteva essere spezzato, era la fine del mondo e di tutte le cose.
Suo padre li aveva abbandonati.
Rodolphus si sentì talmente vuoto che pensò non sarebbe mai più tornato a riempirsi di nuovo. Persino il calore della mano di Rabastan – ancora abbarbicata alla sua – era volato via.
– Ora capisci, Roland? – fece la voce. Ed era soave come miele che scorre. In seguito, l’avrebbe sempre incantato la capacità di quella voce di mutare, modellandosi a seconda degli interlocutori e delle circostanze, come acqua in molti recipienti. – Il tempo è qualcosa di così prezioso che nemmeno io posso permettermi di sprecarlo. Tantomeno tu. Sei disposto a darmi quello che voglio, dunque?
Lestrange non alzò il capo. Dopo qualche minuto fece cenno di sì da dietro i palmi asserragliati sul volto – la sua resa definitiva.  
– Molto bene. Ti sei dimostrato saggio, amico mio. Sapevo che alla fine il buonsenso sarebbe prevalso. Sei sempre stato un ragazzo acuto e intelligente; anche a scuola, me lo ricordo. Dopotutto, io non scelgo mai dei completi asini su cui fare affidamento. – Fece una breve pausa densa di trionfo. – Sai una cosa, Roland? In onore della nostra vecchia amicizia, voglio essere generoso con te. Non te li porterò via subito, stanotte stessa. Non li strapperò alle tue braccia come sarebbe più giusto che sia; non lascerò tua moglie a consumarsi gli occhi di lacrime per non aver potuto dare l’addio ai suoi pargoli. No. Verrò domani sera, alla stessa ora di adesso, e li prenderò con me. È più di quanto io abbia mai concesso a chiunque, Roland, sappilo.
Mentre parlava, una lingua fiammeggiante saettò nell’aria, erompendo dai ciocchi crepitanti nel focolare. Seguendo ordini silenziosi, si contorse avvolgendosi su se stessa come un serpente di fuoco; infine si plasmò nella sagoma di una grande clessidra che rimase sospesa nell’aria come un ologramma. I granelli all’interno presero immediatamente a scorrere.
– Domani sera a quest’ora verrò a riscuotere il mio prezzo. Nel frattempo, Lestrange, ti consiglio di trascorrere quest’ultima notte con i tuoi figli nel modo che ritieni migliore possibile. Il tempo è prezioso, ricordalo. E tu ne hai già sprecato troppo.
Lestrange abbassò lentamente le palme. Il suo volto era devastato dal pianto. Le sue palpebre tumefatte si sollevarono con esasperante lentezza, i suoi occhi arrossati sembravano sul punto di sgusciare fuori dalle orbite e rotolare sul pavimento come biglie. Tentò di parlare, ma senza riuscirci.
“Pensi che mi stai facendo un favore, Riddle, insegnandomi il valore del tempo? Distruggendo la mia vita?”
L’ombra incorporea di fianco al camino sembrò di nuovo infittirsi; qualcosa si mosse in quel buio.
– Grazie per l’ospitalità, amico mio, è ora che vada. Sono atteso altrove. – La tazza da tè che era stata offerta all’ospite Lievitò nell’aria e con un debole tintinnio ricadde sul piattino accanto alla teiera. Era intatta; non ne aveva bevuto nemmeno un sorso. – E’ stato un piacere intrattenersi con te, Lestrange. Non vedo l’ora di conoscere meglio i tuoi bambini. Domani, alla stessa ora. Ricordati.  
Quello che accadde dopo avvenne così in fretta che Rodolphus non capì niente. Si levò come un vento fortissimo; ombre dilagarono dall’angolo accanto al camino, inghiottirono il fuoco, le candele e qualsiasi fonte di luce nella stanza. Si udì uno schianto come di vetri rotti e una specie di boato, più forte di qualsiasi tuono, che fece tremare le pareti. Rodolphus si coprì gli occhi per non vedere l’assenza delle cose. Quando Rabastan gli affondò la faccia nella schiena, Rodolphus si sentì bagnare e capì che suo fratello stava piangendo. Non si tolse le mani dagli occhi finchè quel frastuono non fu cessato e fu sicuro che il mondo fosse tornato a una parvenza di normalità. Quando potè vedere di nuovo, suo padre stava seduto in poltrona come prima: fissava il vuoto senza sbattere le palpebre – e il vuoto fissava lui. Sembrava che quel vento di morte, col quale il misterioso ospite se n’era dipartito (non si avvertiva più infatti quell’aura maligna che prima permeava il luogo), si fosse portato via anche suo padre. Rodolphus ebbe paura di avvicinarsi e scoprire che era davvero così. In ogni caso, dopo quello che aveva visto e sentito, non doveva poi essere rimasto granchè dell’uomo che aveva conosciuto.
Anni dopo, non avrebbe mai saputo dire come fece a fare quel che fece, nei minuti che immediatamente seguirono quella che era stata l’esperienza più traumatica della sua vita. Col distacco di un estraneo, Rodolphus, dieci anni, si girò lentamente su se stesso, afferrò anche l’altro polso di Rabastan e lo staccò con la forza da sé. Chinò il capo e lo guardò negli occhi, tenendogli i polsi immobili, sospesi ai lati del viso. Rabastan fece un patetico sforzo di liberarsi per asciugarsi il moccio e le lacrime, ma Rodolphus non glielo permise.
– Stai bene? – gli chiese.
Rabastan non reagì per molti minuti – Rodolphus temette che lo shock, o qualche diavoleria dell’Uomo Nero, gli avessero tolto il senno come al loro padre – ma alla fine, lentamente, annuì. Si sentì indicibilmente più sollevato.
– Vuoi che ti riaccompagni nella tua stanza, Rab?
Rabastan annuì di nuovo, sempre lentamente.
Rodolphus gli lasciò andare i polsi, avvolse le dita intorno alle sue e lo condusse verso la porta. Fece in modo che il fratello minore non gettasse nemmeno uno sguardo alla cosa rimasta in poltrona che li aveva traditi. Rifecero la strada all’inverso, tenendosi per mano come all’andata – era stato solo un’ora fa, quando ancora si preoccupavano di biscotti immangiabili e camicie infilate nei pantaloni; in quell’ora tutta la loro vita era cambiata. Era bastata solo un’ora per capovolgere le loro esistenze. L’uomo dalle mani morte aveva ragione: il tempo era prezioso – e misterioso. Rodolphus si rammentò della clessidra di fuoco che galleggiava sopra il caminetto, e rimpianse all’improvviso di non poter vedere sua madre.
Accompagnò Rabastan a letto. Erano solo le sei, ma il bambino non protestò come suo solito; si infilò immediatamente sotto le coperte e se le strinse attorno come fossero un’armatura, senza dire una parola. Guardò Rodolphus da sopra l’orlo delle lenzuola che stringeva tra i pugni – occhi neri e capelli come i suoi.
– Vuoi mangiare qualcosa, prima? – chiese Rodolphus. – Posso andare in cucina e chiedere a Lyra di scaldarti un po’ di latte.  
Rabastan fece segno di no.
– Vuoi che resti un po’ con te finchè non ti addormenti?
Rabastan annuì.
– D’accordo. Fatti più in là.
Rodolphus si tolse calze e scarpe e si accoccolò accanto a suo fratello, sopra le lenzuola. Lo tenne per mano, fissò il soffitto a baldacchino con occhi spalancati finchè le palpebre di Rabastan non si abbassarono e il suo respiro si fece profondo e regolare, e la sua mano smise di tremare.  
Rodolphus rimase sveglio a lungo accanto al fratello. Forse era lui, in quel momento, ad aver bisogno di una mano da stringere. Lui, che era sicuramente il più consapevole, tra loro due, di quello che era successo e che si apprestava ancora ad accadere – tuttavia il futuro, per il momento, era stato rimosso dalla sua mente.
Non credeva sarebbe riuscito ad addormentarsi, anche se si sentiva stanco morto. Si chiese se sua madre sarebbe passata nella sua stanza a dargli la buonanotte e, trovandolo nel letto di Rabastan, l’avrebbe riportato in braccio nel suo. Poi si disse che era troppo cresciuto per le braccia esili di sua madre – avrebbe dovuto alzarsi e strisciare in camera sua con le sue gambe, ma si sentiva davvero troppo stanco.
Poi si ricordò che sua madre non era lì; che non sarebbe tornata – prima di molto tempo ancora.
Alla fine scivolò nel sonno. La voce dell’Uomo Nero gli rimbombò in testa per tutta la notte, piantandogli a fondo il seme del veleno dentro.
Non devi valere molto per tuo padre, Rodolphus. Vedi? Ti ha dato a me senza pensarci due volte, te e il tuo fratellino… Ma per me tu e Rabastan siete preziosi… Mi amerete più di lui, e anche più di vostra madre… Tuo padre ti ha venduto, Rodolphus. 
Si svegliò urlando. La voce rideva. Sua madre non era lì.
Voltò di scatto la testa, sentendo un fruscio nella stanza vicino al suo letto. Era Rabastan, in piedi nel buio, lo sguardo vacuo.
Rodolphus lo guardò. Si fissarono a lungo, senza parlare. Poi chiese:
– Che ore sono, Rabastan?
 
 






Fine
  
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