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Autore: GiakoXD    09/11/2020    0 recensioni
Questo è un universo AU dove i witcher esistono ancora oggi, in una tranquilla ed ignara Padova universitaria.
Cosa succederebbe se una studententessa venisse salvata da uno strego? E se nemmeno lei fosse una ragazza qualunque?
Questa è la revisione globale della mia storia La discendente di Ithlinne, che avevo già pubblicato tempo fa. Spero di aver fatto progressi!!!
ecco un estratto:
“La ragazza non riusciva a staccare gli occhi da quell’essere, dall’aspetto mostruoso e orrendamente letale, da quelle orbite vuote. Fredde lacrime iniziarono ora a scendere dagli occhi della ragazza, mischiandosi alla pioggia e raccogliendosi sotto al mento tremante. Ancora paralizzata dal terrore, la giovane non si accorse della figura che spuntò alle sue spalle fino a che questa non la ebbe superata con un balzo, atterrando proprio davanti alla creatura. Con un movimento fulmineo, quest’ultima tranciò di netto uno degli arti artigliati della belva, facendogli descrivere un lungo arco in aria; un denso fiotto di sangue scuro schizzò dappertutto, lungo la parete, sul terreno e sul cappotto della ragazza che, sbigottita, indietreggiò spasmodicamente fino a sbattere contro il muro alle sue spalle.
Era una scena surreale.
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Cirilla Fiona Elen Riannon (Ciri), Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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* Salve!!! Dopo lungo ponderare, ho deciso di riprendere in mano e aggiornare La discendente di Ithlinne, già postata in questo sito. Dal momento che la prima versione l'avevo iniziata una cosa come 6 anni fa (mamma mia...la vecchiaia...) ho pensato che non sarebbe bastato rivedere la vecchia apportando una manciata di modifiche, quindi ho pensato di riscriverla daccapo. La storia è la medesima, spero che però nell'insieme risulti più fluida e piacevole da leggere... Vi avviso di un'altra cosa però... sono una persona al 100% incostante! ho millemila interessi diversi e salto da uno all'altro senza tregua. questo per dirvi che potrei stopparmi di botto e lasciare la storia ferma mesi...portate pazienza... (al momento però ho già fatto 6 capitoloni, quindi vedete voi...). Non mi pare di avere null'altro da dire...boh. Allons y! *




Era stata decisamente una pessima giornata.
Pessima già dal mattino. Sveglia presto, pioggia, lezioni sparse per mezza Padova, pioggia battente, assistenti dei prof che non fanno altro che leggere le slide in modo monotono, rovesci sparsi... l’aveva già detto che non aveva mai smesso di diluviare un secondo?
Aveva pensato di poter migliorare quella scoppiettante giornata accettando l’invito dei suoi amici di andare fuori a bere qualcosa – era mercoledì peraltro – ma tutto non aveva fatto che peggiorare.
Dovevano essere in sei, poi verso sera erano iniziati i pacchi. Prima Tommaso, ma quello era un classico, lui non veniva praticamente mai! poi però anche Marta aveva scritto qualcosa a proposito della palestra: sembrava non facesse altro nella sua vita!
Camminava a passo deciso lungo le giallognole vie del centro, scansando le pozzanghere. Girò l’angolo e dovette inclinare di molto l’ombrellino scalcagnato per evitare che una raffica di vento improvvisa lo rivoltasse come un calzino. Un profondo sospiro: era fradicia.
Alla fine, erano rimasti in quattro: lei, Marco, un suo amico e la morosa di quest’ultimo, che lei non aveva mai visto.
 
Doveva rivedere la sua lista di amicizie, decise mentre saltava con malagrazia una pozzanghera.
 
L'amico di Marco era un ragazzo perfettamente anonimo, né troppo brutto né troppo bello, che da quando era arrivato non aveva fatto altro che guardare la partita senza quasi proferire verbo, era rimasto lì con il naso all’aria verso lo schermo, abbassandolo solo se costretto. La sua fidanzata invece si era fatta attendere parecchio ed era arrivata solo dopo quasi un’ora, in un turbinio di profumo soffocante. Con il senno di poi sarebbe quasi stato meglio se non si fosse mai presentata, dal momento che non appena si fu seduta al tavolo Chanel non smise di parlare un secondo, monopolizzando la conversazione su di sé, sui suoi problemi, sui suoi professori e infine sul taglio di capelli che voleva e che il parrucchiere cinese non era riuscito a farle. La ragazza si era ridotta ad annuire simulando uno sguardo attento – Chanel si era seduta proprio davanti a lei e proprio non sapeva che altro fare – Marco invece cercava di lanciare fugaci sguardi alla partita tra un “eh, già” e un “sì, certo”. Solo il suo ragazzo sembrava esente da quella tortura, perché continuava a fissare lo schermo come se nulla fosse, mentre lei sembrava ignorarlo. “Che coppia!” aveva pensato ad un certo punto.
 
Si tirò su il bavero del cappotto più che poteva e rabbrividendo indirizzò l’ombrellino scassato controvento, il vento umido le stava intirizzendo le mani scoperte. Si portò una mano in cima alla testa e il suo viso si contrasse in una smorfia: i suoi lunghi capelli biondi erano umidi di pioggia, nonostante fossero mezzi infilati sotto il cappotto. La ragazza si immaginò perfettamente la condizione pietosa in cui li avrebbe trovati il giorno dopo. Mentre svoltava a destra, si chiese se avrebbe avuto voglia di svegliarsi prima per dargli una sistemata il giorno dopo. “Seeee, come no…” si disse.
Le vie erano deserte e la pioggia che picchiettava sulla tela dell’ombrello aiutava a perdersi nei pensieri.
 
Alla fine, aveva deciso di mettere fine a quel supplizio. Aveva iniziato a trangugiare la sua birra più velocemente possibile – sempre annuendo ai discorsi senza fine di Chanel – e non appena ebbe vuotato il boccale inventò al volo una scusa per andarsene. Matteo le scoccò un’occhiata supplichevole, ma lei lo ignorò; che chiedesse pure aiuto al suo amico inesistente, lei per quella sera aveva dato.
Si era alzata dal tavolo un po’ troppo bruscamente, aveva aspettato che la testa le smettesse di girare, poi si era vestita ed era andata a pagare. Sulla soglia, aveva armeggiato un po’ troppo con le stecche dell’ombrellino per tentare di raddrizzarle poi, sospirando, aveva lasciato il calore e la luce del locale e si era immersa nell’oscurità e nella pioggia, che cadeva incessante.
Erano le undici di sera e la ragazza continuava a camminare tranquilla, superando i radi passanti che come lei procedevano il più chinati possibile sotto i loro ombrelli.
“Se non altro, almeno fra poco me ne andrò a letto e questa giornata di merda finirà” stava pensando la ragazza prendendo la seconda a destra e assaporando il tepore delle coperte.

Purtroppo, si sbagliava di grosso.

Aveva preso la scorciatoia meccanicamente, schiacciata com’era sotto il suo ombrellino e immersa nella frustrazione per la pessima giornata e il desiderio di infilarsi sotto le coperte il prima possibile. La strada in cui aveva svoltato era un viottolo contorto, che si snodava dietro i due più vecchi collegi del centro, un’angusta viuzza con i sanpietrini mezzi smossi, di quelle in cui le macchine, per seguire la strada, finivano per scavalcare con le ruote il marciapiede quasi ad ogni curva, facendo imprecare i passanti. Durante il giorno quella era una strada molto frequentata, specialmente dagli studenti di medicina e ingegneria, perché permetteva di risparmiare parecchio tempo negli spostamenti, ma a quell’ora, durante un simile diluvio, non era altro che un vicoletto buio e completamente deserto.
Immersa com’era nei pensieri e nel rumore della pioggia battente, la ragazza realizzò solo a metà strada che quella scorciatoia l’aveva percorsa un sacco di volte durante il giorno, ma pochissime volte di notte. E mai, in nessun caso, da sola.
Non appena se ne rese conto, vide anche quanto debole sembrasse la luce giallastra dei lampioni punteggiata dalla pioggia battente, e quanto più densa fosse invece l’oscurità che si incuneava tra di essi.

Una vecchia bicicletta passò veloce in una stradina parallela, la ragazza sentì il familiare cigolio ritmico del campanello e delle vecchie ruote mentre procedeva sui sampietrini. Il suono la distrasse per un momento, fino a che non iniziò a diminuire fino a spegnersi, lasciandola ora nel più completo silenzio. A parte il denso rumore della pioggia, che scrosciava decisa su tetti e davanzali, e il gocciolio degli scoli delle grondaie, ora non si sentiva nient’altro.
Un balcone spinto dal vento cigolò sinistro, e da quel momento la fantasia della ragazza fece il resto. Si rese conto con apprensione di essere completamente sola, di notte, in quel vicoletto buio e cercò allora di accelerare il passo con lo stomaco contratto. Purtroppo, non era per niente facile: camminava in mezzo alla strada per evitare gli scrosci d’acqua che precipitavano dai tetti giù per gli stretti marciapiedi, e cercava anche di non finire nelle pozzanghere più profonde. Aveva affrettato il passo tanto quanto l’acciottolato sbilenco le permetteva, ma la fitta penombra le rendeva difficile vedere dove metteva i piedi; si ritrovò quindi a camminare a testa bassa per vedere meglio la strada, e con l’ombrellino schiacciato più che poteva sopra la testa. Fu per questo motivo che non si accorse di nulla fino a quando non fu troppo tardi.
Le sue scarpe da ginnastica erano completamente zuppe di pioggia e le dita dei piedi iniziavano a congelarsi. “Perché cavolo non ho messo gli stivali stasera?!” si stava domandando la ragazza, e mentre stava considerando dove poter mettere tutti i suoi vestiti ad asciugare, una voce maschile le biascicò: «Ciao bella…»
Si irrigidì, il cuore le batteva all’impazzata nelle orecchie, ma si impose di sembrare calma. Con l’ombrellino così calcato sulla testa e lo sguardo basso non si era minimamente resa conto dell’uomo appoggiato al muro sotto una tettoia, al riparo dalla pioggia e dalla luce, che ormai le stava solamente ad un paio di metri di distanza. Continuò a camminare mentre lo guardava di sottecchi, fingendo una tranquillità che non possedeva.
«Ehi, bella, ce lo hai un po’ di posto sotto l’ombrello?», l’uomo uscì dal riparo della tettoia e iniziò ad avanzare verso di lei, le mani in tasca, la pioggia in testa.
“Merda, merda, merda!!!!! E adesso?!?!”
La ragazza continuò ad avanzare a testa bassa, aumentando il passo, cercando di fingere di non capire la sua lingua, di fingere di essere incapace di intendere, o di essere sorda, fino a quando non si trovò alla sua altezza. Stava considerando di lanciargli in faccia l’ombrello e di mettersi a correre verso dove era venuta, quando l’uomo le si parò davanti sogghignando, o almeno, lei immaginò che sogghignasse, visto che l’oscurità era fitta e di lui si vedevano solo pochi lineamenti abbozzati.
«Bella, non senti che ti ho fatto una domanda gentile?» e allungando una mano le afferrò una manica del cappotto, iniziando a tirarla verso di lui. La ragazza, ora completamente terrorizzata, tentò di divincolarsi e di liberare il braccio tirando la manica in maniera convulsa. L’ombrellino cadde a terra, ruotando sulle stecche sbilenche.
Sudore acre. Alcol. La ragazza registrò queste inutili informazioni mentre il suo cervello sembrava incapace di qualsiasi pensiero coerente. Mentre continuava a divincolarsi, però, registrò anche qualcos’altro: un suono. Un profondo, ferale e gorgogliante ringhio, qualcosa di inumano che non aveva mai udito prima. Sembrò che anche il molestatore lo avesse sentito, poiché anche lui come la ragazza aveva smesso di lottare di colpo, e insieme a lei ora si stava girando lentamente verso il fondo del vicolo, dove un enorme essere era appena emerso dall’oscurità.
Non appena entrambi l’ebbero messa a fuoco, in quel preciso istante la creatura smise di ringhiare.
Smisero anche tutti gli altri suoni, in effetti. Sembrò che tutta la città trattenesse il respiro, mentre fissava quella creatura semi umana, ritta in piedi, immobile e spaventosamente enorme. Non si sentiva più la pioggia cadere, non si sentivano più i fiochi rumori della città in lontananza, non si sentivano nemmeno i respiri affannosi e mozzi della ragazza e del suo molestatore, nonostante i loro petti si alzassero e abbassassero convulsamente, stretti in una morsa di terrore. Il silenzio era totale e irreale.
L’essere, ancora immobile nella penombra del vicolo, avanzò ora di un paio di passi, trascinando i piedi adagio, con lentezza calcolata, fino a che non entrò nel cono di luce del lampione più vicino. Così illuminato si fermò un istante inclinando la testa, lasciando che le sue vittime lo vedessero completamente, beandosi del terrore crescente che si insinuava in loro. L’odore del loro panico era come una droga, per lui.
Il molestatore tentò di imprecare, ma tutto quello che riuscì a fare fu di muovere le labbra a vuoto.
Così illuminato dalla luce giallastra del lampione si ergeva in tutta la sua orrenda figura: la creatura aveva un corpo alto poco più di due metri, ritto su due gambe tozze e troppo corte. Era semiumano seppur terribilmente sproporzionato: il busto troppo largo e le braccia troppo lunghe, che quasi toccavano il suolo e terminavano in lunghissimi artigli ricurvi, su due gambette terribilmente piccole. Indossava qualcosa che sembrava essere stato un impermeabile, benché ora fosse poco più di uno sporco cencio slabbrato che gli arrivava quasi fino ai piedi.
Nonostante il corpo potesse sembrare in qualche modo umano, la sua faccia mai avrebbe potuto sembrare quella di un essere vivente.
La pelle grigiastra, gonfia, sembrava quella di un cadavere annegato, un ghigno gli attraversava la testa quasi da parte a parte, livido, come una profonda spaccatura nel terreno. Ma erano gli occhi, o meglio, la loro assenza, a incutere nelle sue due vittime il terrore più grande: le cavità oculari erano vuote, scuri abissi circolari da cui sgorgava un denso fluido giallastro simile a pus. E nonostante tutto – la ragazza ne era perfettamente consapevole – quell’essere li stava fissando.
Il mostro si concesse un altro istante per aspirare il terrore delle sue vittime, dopodiché si ritrasse leggermente su sé stesso, pronto a scattare.
Il molestatore perse ogni pudore a quel punto e spalancando la bocca in un altro grido muto iniziò a fuggire, inciampando più volte nei propri piedi prima di iniziare a prendere velocità. La ragazza nemmeno si accorse della fuga dell’uomo. Non riusciva a staccare gli occhi da quell’essere, dall’aspetto mostruoso e orrendamente letale, dalle orbite vuote. Una parte del suo cervello le diceva di muoversi, quasi glielo urlava, di girarsi e correre più che poteva, ma tutto il resto di lei era bloccato, incapace di fare qualsiasi cosa se non rimanere lì, paralizzata nel più completo terrore, ansimante e impalata a fissare quella creatura. E quando quest’ultima aprì la bocca, la ragazza smise di fare qualsiasi pensiero coerente.
Dapprincipio fu come se si fosse aperta una lunga crepa sul volto grigiastro; lentamente questa si allargò sempre di più, sempre di più, fino a che la faccia del mostro non arrivò quasi alla metà del suo petto, somigliando ora ad un’oscura fornace irta di zanne giallastre. Inspirando il terrore che stava incutendo alla sua vittima, la creatura iniziò lentamente ad avvicinarsi.
Fredde lacrime iniziarono ora a scendere dagli occhi della ragazza, mischiandosi alla pioggia e raccogliendosi sotto al mento tremante. Ancora paralizzata dal terrore, la giovane non si accorse della figura che spuntò alle sue spalle fino a che questa non la ebbe superata con un balzo, atterrando proprio davanti alla creatura. Con un movimento fulmineo, quest’ultima tranciò di netto uno dei due arti artigliati della belva, facendogli descrivere un lungo arco in aria; un denso fiotto di sangue scuro schizzò dappertutto, lungo la parete, sul terreno e sul cappotto della ragazza che, sbigottita, indietreggiò spasmodicamente fino a sbattere contro il muro alle sue spalle.

Era una scena surreale.

L’orrenda creatura e il nuovo arrivato, che si rivelò essere un uomo con una lunga spada, iniziarono a scannarsi lungo quel vicolo reso viscido dalla pioggia e dal sangue. La creatura attaccava lanciandosi in avanti e vorticando l’unico lungo arto che gli rimaneva, tentando di tranciare in due l’altro combattente, che dal canto suo schivava gli assalti roteando con grazia e contrattaccando con affondi e ampi fendenti. Aveva una velocità quasi inumana.
Ma il culmine della follia era che tutto il combattimento avveniva nel più completo silenzio: non si riusciva ad udire né lo stridere della lama contro le zanne, né i passi nelle pozzanghere, né il continuo gocciolio del sangue che sgorgava dal moncone della belva. Sembrava un film a cui era stato tolto l’audio.
“…sono a Padova… questa è Padova…” era tutto quello che la mente della ragazza riusciva a produrre, tentando invano di dare un senso a tutto quanto, ancora premuta contro il muro.
Ad un certo punto lo spadaccino lanciò a terra una fialetta di vetro che si fracassò al suolo, sempre senza il minimo rumore, e nell’aria iniziò ad aleggiare un curioso odore di profumo per uomo. La creatura sembrò contrariarsi, perché iniziò a contorcersi spalancando la bocca in un muto ululato. Dopo un ultimo attacco particolarmente scomposto essa tentò il tutto per tutto: balzò indietro fino alla ragazza e tentò di raggiungerla con le enormi fauci. Le avrebbe sicuramente ingoiato la testa in un unico boccone se lo spadaccino non fosse intervenuto. Con un balzo e uno spintone scagliò la giovane di lato e mentre la belva lo colpiva con gli artigli sulla coscia lasciata pericolosamente scoperta, egli roteò su sé stesso; la sua lama descrisse un aggraziato movimento che colpì la gola della creatura, attraversandola come fosse burro.
La ragazza osservò rapita l’enorme testa che sembrò volare in aria per un lungo momento, per poi rotolare sull’acciottolato a pochi passi da lei. Il corpo decapitato della creatura ondeggiò e si accasciò a terra, dove continuò a scuotersi in preda agli spasmi per alcuni interminabili momenti. Il sangue scuro zampillava a fiotti da entrambe le parti. Incapace di distogliere lo sguardo, il corpo della ragazza venne piegato in due da un conato.
In quel momento il suono della pioggia ritornò, sempre più forte, insieme al raspare sulla pietra degli artigli della creatura e insieme a tutti gli altri suoni.

«Stai bene?» l’uomo rinfoderò lentamente la spada, le si avvicinò e le tese una mano. La sua voce, seppure improvvisa, sembrava calma e amichevole.
La ragazza si costrinse a distogliere lo sguardo dal corpo decapitato e, ancora accasciata a terra, guardò in alto verso il suo salvatore. Il volto era nascosto dall’oscurità. «Io… penso di sì. Il sangue non… non è mio…» gli disse abbassando lo sguardo verso il suo cappotto, impiastricciato da grosse macchie scure e dense. Cercò di rialzarsi, ma le sue gambe ancora non volevano collaborare. Alzò una mano e prese quella dell’uomo, che l’aiutò a tirarsi su.
Abbozzò un sorriso mentre finì di alzarsi e lo guardò di nuovo. Aprì la bocca per ringraziarlo, ma balzò indietro con un gemito. Per un momento, aveva visto il volto dello spadaccino. La guardava con un paio di occhi gialli, quasi luminosi, con pupille strette come fessure, come fossero quelli di un felino.
Lo scatto di lei fu così repentino che anche lui, sorpreso, fece un passo indietro, portando il peso sulla gamba ferita, che cedette di colpo. Imprecando tra i denti, sembrò ricordarsi solo in quel momento del lungo artiglio reciso che gli perforava la coscia da parte a parte, regalo d’addio della creatura. Con il capo abbassato verso la gamba, socchiuse gli occhi e prese un lungo respiro. Senza alzare lo sguardo le disse piano: «Ascolta, se mi occupo un attimo di questa, mi prometti di non scappare? Non c’è più nessun pericolo, me compreso.» e senza aspettare una risposta si trascinò fino al muro, di fianco alla ragazza, ci si appoggiò stringendo i denti e si mise ad armeggiare con un astuccio che tintinnava colmo di fiale di vetro.

La ragazza lo guardava combattuta. Era un ragazzo, perché ora che lo vedeva bene non poteva avere molto più che trent’anni, sconosciuto e conciato in quella maniera così assurda, con armatura – portava una spessa armatura di cuoio scuro su quasi tutto il corpo – e spada medievali. Le era sembrato che avesse gli occhi gialli, felini, ma forse era stata solo suggestione, perché ora che riusciva a vedergli meglio il volto aveva trovato solo due normalissimi occhi scuri. Se ne stava lì, assorto nella ricerca, e continuava a frugare con le mani guantate dentro il borsello. Era pallido come la morte, con grosse vene bluastre lungo tutto il viso e i capelli fradici, che gli si appiccicavano alla fronte e gli cadevano sugli occhi. Chiunque fosse, o qualsiasi cosa fosse sembrava stremato, e lo era per aver salvato lei.
Sembrò anche che non avesse trovato quello che cercava, perché imprecò a denti stretti e scivolò leggermente con la schiena contro la parete.

Tirando su con il naso la ragazza prese una decisione. Si avvicinò al ragazzo e gli disse decisa di sedersi poco più in là, al riparo sotto una tettoia. Lo aiutò a spostarsi. L’altro obbedì senza fiatare, incuriosito da quel repentino cambio di atteggiamento. Lei gli si inginocchiò a fianco e recuperò una bottiglietta di gel antibatterico dalla borsa, se lo spalmò sulle mani e iniziò ad esaminare la ferita. L’artiglio aveva trapassato la parte più esterna della coscia, perforando la fascia muscolare e uscendo dietro.
«Proverei ad estrarlo, ma…» sembrava molto fragile, voleva dire la ragazza. Se l’avesse spaccato all’interno della gamba, poi rimuoverne i frammenti sarebbe stata una vera sofferenza.
«…È fragile, sì. Molto appuntito, ma fragile» confermò lui annuendo appena. «Ce la fai?»
«…penso di sì» gli rispose dopo un momento, decisa.
«Allora mettici questo sopra» gli tese una mano che tremava appena. La boccetta che gli aveva dato aveva un forte odore di disinfettante, misto a qualcosa che sembrava salvia o qualche altra erba aromatica. Lei fece come gli aveva detto e il ragazzo si irrigidì un istante stringendo i denti, poi poggiò la testa all’indietro sul muro. Socchiuse gli occhi e prese fiato.
Anche la ragazza prese un profondo respiro e ricordando il tirocinio ritrovò la calma di cui aveva bisogno. Si guardò per un attimo le mani, che ora avevano smesso di tremare, poi iniziò ad estrarre lo spuntone il più dritto possibile, lentamente. I suoi movimenti erano tornati fermi e controllati.
Il ragazzo stringeva i pugni fino a farsi sbiancare le nocche, ma a parte questo soffriva in silenzio.
Il terrore e la stanchezza ora se ne erano andate completamente, adesso la mente della giovane era concentrata su cosa andava fatto. Almeno per ora. “Come a tirocinio” si diceva, niente di troppo diverso. Era necessario che gli sistemasse la gamba meglio possibile, perché così non avrebbe potuto andare molto lontano, e invece di strada doveva farne ancora parecchia, immaginava lei, e molto probabilmente sotto sforzo, con un carico sulle spalle, se come supponeva non l’avesse lasciata sola in quel vicolo. Sperava di resistere ancora un po’, che l’adrenalina continuasse a circolare almeno fino a che non avesse finito.

Il ragazzo riaprì gli occhi, osservò la fasciatura improvvisata che gli veniva stretta intorno alla coscia e l’artiglio lungo il marciapiede, intatto. Si passò una mano sul viso e prese un lungo sospiro. Guardò il viso della ragazza, concentrato. Sembrava che ci sapesse fare. Nonostante il viso ancora sconvolto e fradicio di pioggia, sembrava anche carina. Per una volta pensò che sarebbe stato un vero peccato doverla drogare, ma le regole erano regole. D’improvviso venne colto da un sospetto e gettò un’occhiata alla tasca dei pantaloni dove teneva le fiale di Stilnox e la trovò squarciata. Nonostante la poca luce, gli bastò un’occhiata perché trovasse i resti della boccetta che cercava, a pezzi in un angolo del vicolo. Adesso non aveva più modo di drogarla. Sbuffò stizzito.
«Scusa, ho stretto troppo?»
«No, va bene»
«Allora dovrei aver finito. Ce la fai ad alzarti? Ecco, piano. Ho stretto parecchio, ma non penso basti, devi farti mettere almeno due-tre punti, penso…» mezza ubriaca, vittima di chissà cosa e infine infermiera da battaglia, la prof sarebbe stata fiera di lei, si disse la ragazza. Ora però sentiva l’adrenalina iniziare a scemare, cominciava ad essere molto stanca. Si strofinò gli occhi e la faccia con una mano mentre guardava il ragazzo caricare il peso sulla gamba un poco alla volta, guardingo.
«Ah, cosa c’era in quella boccetta che mi hai dato? Salvia? Sapeva da quelle…»
Lui le si avvicinò con un passo, allungò una mano guantata e le accarezzò la guancia. «Ti sei spalmata un po’ di sangue sulla faccia» si giustificò poi, mentre lei lo fissava con gli occhi spalancati, arrossendo violentemente. Questo fu troppo. Iniziarono a ronzarle le orecchie e grosse macchie scure le comparvero davanti agli occhi.
Il ragazzo la vide vacillare sul posto e la afferrò prima che cadesse a terra. Rimase immobile per un attimo, riflettendo, poi se la caricò in spalla con una smorfia e iniziò a correre sotto la pioggia, il suo fardello svenuto sobbalzava ad ogni passo.


*-*-*-
Allur? che ve ne pare? inizio interessante? beh, fatemi sapere, pliiis!!!
ciao! ****
   
 
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