White
Star
Giaceva su un
cumulo di paglia, con
la schiena appoggiata al muro di pietra che piangeva umidità, da ormai
sette
giorni e sette notti. Non faceva più caso ai topi che gli giravano
intorno in
cerca di cibo o alle pulci che saltavano sulla sua logora camicia
gialla. Non faceva
più caso al freddo, alla sete o alla fame.
L’oscurità
l’aveva inghiottito.
Si era arreso.
Il suo corpo
robusto e muscoloso stava
soffrendo, ma non era niente se confrontato al vuoto che da sempre lo
corrodeva
dall’interno e che adesso poteva smettere di combattere. Tutti muoiono
soli e
per lui che era sempre stato solo non faceva poi tanta differenza.
Un debole
raggio obliquo filtrò tra
le sbarre della finestra della sua cella. Era posta così in alto che
neanche
lui, con i suoi due metri di altezza, era riuscito a scorgere
l’esterno.
Immaginava, però, che dopo sette giorni di pioggia ininterrotta il
cielo si
fosse finalmente aperto.
Autunno per
lui significava
l’inizio di lunghe serate passate di fronte al camino della sua stanza
in
affitto a costruire piccoli oggetti in legno, un’abitudine che si era
creato
nel tempo per tenersi lontano da passatempi peggiori. Come durante la
sua
ultima sera di libertà, quando aveva tra le mani un ceppo di ciliegio,
amaranto
e dalle venature armoniose. Lo stava levigando da ormai un’ora, i
muscoli dei
bicipiti cominciavano ad essere indolenziti e la schiena gli doleva per
aver
trascorso troppo tempo nella stessa posizione. Nonostante questo, però,
non si
fermava. Quella sera il suo umore non era dei migliori. Doveva tenere
la mente
impegnata, distrarla, o avrebbe fatto la fine del suo vicino: seduto
sullo
sgabello di un pub a bere birra fino a tarda sera e poi a casa a
sfogare la sua
frustrazione sulla moglie.
E per uno
come lui l’alcool era una
via di fuga pericolosa.
Aspettava
quindi che la stanchezza
fisica sconfiggesse i suoi pensieri. Tuttavia, era difficile calmarsi
con il
suono dei gemiti e dei singhiozzi di quella donna che rompevano il
silenzio
della notte. Il rumore delle percosse oltrepassava i muri fatiscenti ed
echeggiava tra gli androni dell’edificio abitato dagli operai di
Bethnal-Green, nell'East End di Londra.
Il suo lavoro
fu interrotto quando
sentì bussare alla porta. Andò ad aprire. Un bambino entrò e tremando
andò a
nascondersi sotto le coperte del suo letto. Si chiamava Arthur, la
madre lo aveva
mandato lì per sfuggire all’ubriachezza furiosa di quel suo padre
snaturato. La
prima volta che gli aveva dato rifugio l’aveva raccolto sulle scale del
piano
dove stava consumando da solo un pianto silenzioso e l’aveva portato
con sé prima
che il padre si ricordasse della sua esistenza. Da allora, ogni volta
che la
violenza si ripeteva, Arthur andava a bussare alla sua porta. Keith
Lowden era
un omuncolo consumato dall’alcool che sfogava la sua frustrazione
abusando della
moglie, ma fino ad allora aveva avuto la decenza di risparmiare il
figlio.
Fino ad
allora.
Alla vista
del livido che copriva
il volto del bambino sentì la pelle accapponarsi. L’esigenza viscerale
di
vendicare quell’ingiustizia lo fece precipitare dall’altra parte del
corridoio
dove trovò la porta aperta.
Entrò senza
esitazione.
La stanza era
un disastro: a terra
c’erano stoviglie, sedie rovesciate, quadri, libri, pezzi di cibo, una
trottola, lembi di abiti strappati. E lui, Keith Lowden, lo guardava
come se la
sua intromissione fosse la cosa più assurda che gli fosse capitata in
vita sua.
Con una mano teneva ferma la donna per i lunghi capelli biondi, con
l’altra
stringeva la cinghia dei suoi pantaloni. Lei era a terra, rannicchiata
in un
angolo, mezza nuda e coperta di sangue.
-Lasciala
andare- gli disse.
Nel sentire
la sua voce lo sguardo
vacuo dell’uomo ebbe un guizzo di lucidità. In fondo era difficile
dimenticarsi
di lui, Thomas Holsen, il figlio di Jack Holsen, un uomo che in caso di
cattura
sarebbe stato impiccato al castello di Lancaster. La sua nomea, sommata
alla
sua corporatura che lo faceva assomigliare a un gigante, bastava perché
tutti
gli stessero alla larga. Avrebbe potuto scaraventarlo giù per le scale
in un
attimo, ma Keith era così alterato da dimenticare il pericolo.
-Che diavolo
vuoi? Fuori da casa
mia!-
Il suo
rigurgito di ferocia fu
messo a tacere da un passo di Thomas nella stanza. Non lo perdeva di
vista, lo
teneva inchiodato con quegli occhi chiari e penetranti - due stalattiti
piantate nel petto - aspettando una sua mossa sbagliata.
Thomas non
sapeva di avere quell’aspetto.
Tutto ciò a cui riusciva a pensare era che il mattino seguente
quell’uomo non avrebbe ricordato nulla, né lui, né il terrore negli
occhi del
figlio, né la disperazione della moglie. E questo pensiero lo fece
infuriare.
-Fuori!-
gridò e anche i muri
tremarono. La sua voce era il riflesso del suo aspetto, vigorosa,
selvaggia,
possente. Persino la donna alzò il capo, ma il marito colse il
movimento e in
un attimo la sua mano, che ancora stringeva la cinghia, si alzò.
Keith non
vide il braccio che lo
fermò. Senza sapere come, si ritrovò a terra, steso in quel cimitero di
oggetti
che egli stesso aveva creato. Impiegò un paio di minuti per capire cosa
fosse
successo, ma non appena lo realizzò si fiondò come una furia su quello
che nel
suo ristretto campo visivo era un uomo che si piegava verso sua moglie.
Thomas reagì
d’istinto e, temendo
che volesse fare di nuovo del male alla donna, lo respinse con più
energia di
quanto ne fosse realmente necessaria.
L’uomo, già
instabile per via della
sua condizione, barcollò indietro. Sempre più indietro. Finché andò a
sbattere
il capo contro lo spigolo del camino.
Cadde a
terra.
Una macchia
di sangue si aprì sul
pavimento.
Si allargava
sempre di più.
Sempre di più.
Fino a non
lasciare più alcun
dubbio.
Keith Lowden
era morto.
Il primo
istinto di Thomas fu di raggiungerlo,
sollevarlo da terra e gridargli in faccia di smettere di fingere, ma,
quando si
accorse di stare camminando nel sangue dell’uomo, si fermò. “Sono come
mio
padre”, quelle parole gli riecheggiavano nella testa fino a stordirlo.
Per
tutta la sua esistenza era stato perseguitato dalla maledizione che
anche lui,
un giorno, si sarebbe macchiato dello stesso crimine.
Assassinio.
Era un
assassino.
Era un
assassino e il figlio di un
omicida, il suo sarebbe stato il processo più breve della storia.
Doveva
fuggire, non c’era altra soluzione.
Come mio
padre.
Si fermò. No,
non sarebbe stato
uguale a lui. Non sarebbe diventato anche un codardo. Si fermò e non si
mosse più fino
all’arrivo della polizia quando, docile come la più mansueta delle
fiere da
circo, fu portato nel carcere di Lancaster. Da allora erano passati
sette
giorni e sette notti e ancora non stava penzolando nella piazza d’armi
del
castello. Si chiedeva perché, ma poi ricordava che per lui non c’era
mai stata
speranza di un destino diverso e tornava a fissare il vuoto.
Aveva
ricominciato a piovere quando
la porta della sua cella si aprì.
Entrò una
donna. La conosceva, era Audreen
Weigt, figlia di Richard Weigt, proprietario di Kensington Mill, la
fonderia dove
Thomas faceva l’operaio. Gli era capitato di intravederla nell’ufficio
del
padre, ma tutto quello che sapeva di lei gliel’aveva raccontato Mrs.
Lowden, la
quale lavorava come cameriera nell’abitazione dei Weigt a Chelsie.
Ricordava
bene la descrizione che ne aveva fatto: “Miss Audreen - aveva detto - è
altezzosa come una regina, controllata nei modi, cauta con le parole e
avara di
sorrisi”.
-Ho qualcosa
per voi- gli disse
saltando ogni convenevole.
Tese un
braccio e gli porse un
foglio.
-Che cos’è?-
Era stato
troppo a lungo in
silenzio e la sua voce suonò roca e incerta.
-Un nuovo
inizio- rispose.
Thomas sentì
una risata. All’inizio
non capì da dove provenisse, nella cella c’erano solo lui e quella
donna
dall’aspetto altero. Poi si accorse dei sobbalzi del suo petto e
realizzò che
la risata proveniva da lui. Si era dimenticato di quel suono.
-Il vostro
caso ha fatto molto
scalpore nell’opinione pubblica- disse. -Mio padre vi offre un viaggio
di sola
andata per Boston.-
-Perché?-
Questa volta
parlò senza esitazione
e la domanda diretta sorprese la donna. Lei si prese del tempo per
osservarlo.
Sapeva chi era e sapeva cosa dicevano di lui. Una bomba pronta ad
esplodere,
così era stato definito dai giornali. Quell’uomo aveva trascorso la sua
vita
marchiato da un pregiudizio che aveva fatto sì che nessuno si fidasse
di lui.
La sua diffidenza non doveva stupire. Il mondo non gli aveva riservato
nient’altro che solitudine, perché avrebbe dovuto tornarci?
-I giudici vi
vogliono condannare, Mr.
Holsen.-
-Sono già
stato condannato.-
-Qui, non in
America. In America
nessuno sa chi siete.-
La donna fece
istintivamente un
passo indietro. Una tempesta si stava addensando sul volto del
prigioniero. La
ferocia animalesca che si impossessò del suo sguardo la fece temere che
l’aggredisse da un momento all’altro. Invece, con una voce che pareva
provenire
dagli inferi, tornò a parlare.
-Sono un
assassino. Questo non
cambierà neanche in America.-
Audreen,
allora, capì. Il giudice
che l’aveva già condannato non era altro che Thomas Holsen stesso.
-Sapete che
vostro padre è stato
arrestato?- gli domandò e dall’impallidire del suo volto seppe la
risposta. -Quando
ha saputo del vostro arresto è uscito dal suo nascondiglio. La polizia
non
aspettava altro.-
-Ed è qui?-
-A qualche
cella di distanza dalla
vostra- rispose Audreen. Dopo un attimo aggiunse: -Lo volete
incontrare?-
Audreen
Weigt aveva l’aspetto di una superba
regina, ma in realtà era solo una donna silenziosa e osservatrice. Era
stata la
guardia che l’aveva accompagnata ad indicarle la cella in cui era
rinchiuso
Jack Holsen, raccontando la fatalità dell’arresto di padre e figlio
come una
storia divertente. La stessa guardia, poi, aveva accettato di fare una
pausa di
quindici minuti quando Audreen gli offrì cinque sterline. Liberò Thomas
e lo
portò di fronte a una cella ancor più buia della sua.
-Ricordate,
non abbiamo molto
tempo- gli disse con voce tesa, ma lui non la sentì. Nell’oscurità
aveva
intravisto un volto che, per un attimo, gli era sembrato il suo. Solo
quando si
era avvicinato tanto da essere uno di fronte all’altro si rese conto
che lui
era davvero lì. Con la barba bianca tagliata male, un volto scavato e
gli occhi
eccessivamente lucidi. La lacera camicia grigia gli lasciava scoperto
il collo
e rivelava un corpo avvizzito e consumato1.
-Padre,
demonio … - mormorò a denti
stretti. Si lanciò in avanti e lo afferrò alla gola.
-Cosa fate?
Lasciatelo andare!- esclamò
Audreen.
Parole vuote,
inesistenti. Nella
testa di Thomas c’era solo la voglia di uccidere quell’uomo che era la
causa di
tutta la sua infelicità e di tutta la sua solitudine. Lo voleva vedere
morto,
aveva sperato di vederlo morto e aveva sognato di essere lui ad
ucciderlo. Bramava
di vedere la vita spegnersi nei suoi occhi lentamente.
-Non siete un
assassino!- esclamò Audreen.
-Ma uccidetelo e allora sì che lo sarete! Sarete uguale a lui! E io so
che non
lo siete, Thomas! Io credo in voi!-
Con un tonfo
sordo l’uomo cadde a
terra, tossendo e stringendosi la gola. Le mani di Thomas andarono a
stringere
le fredde sbarre di ferro. Le torturò con la sua presa finché le
braccia gli
tremarono e, quando anche i suoi muscoli non ressero più, le lasciò.
Con un
rauco verso sommesso sfogò quel dolore a cui non sapeva dare un nome
con un
pugno diretto al muro della prigione, così forte che Audreen sentì le
ossa
della sua mano rompersi.
Da quel
momento ci fu solo silenzio,
spezzato dal tossire di Jack e dal respiro corto di Thomas.
-È meglio
tornare indietro- disse poi
quest’ultimo, che si incamminò senza aspettare risposta. Audreen,
atterrita e
pallida, lo seguì.
-Perché
l’avete detto?-
Lei sussultò
al suono inaspettato
della sua voce.
-Cosa?-
chiese alle larghe spalle dell’uomo.
-Che credete
in me … cosa vi fa
pensare che meriti la vostra fiducia?-
-Il bambino-
rispose, la voce
flebile per lo spavento. -Quando non piange o cerca la madre, chiede di
voi.-
Thomas si
fermò di colpo e Audreen
gli andò quasi a sbattere addosso. Si voltò a guardarla e vide che i
suoi occhi
di un azzurro glaciale erano di nuovo calmi e severi, uno specchio
invalicabile.
-Perché cerca
la madre? Dov’è?-
chiese con tono sepolcrale.
Audreen esitò
per un istante. -È
morta.-
L’uomo sembrò
vacillare.
-E Arthur? Che fine farà?-
-E Arthur? Che fine farà?-
-Per ora è
con dei parenti della
madre- disse lei con voce, se possibile, ancor più sottile, -ma è
difficile che
possano prendersi cura di lui per un lungo periodo.-
Per
esperienza diretta, Thomas
sapeva che Arthur sarebbe andato in un orfanotrofio. Ciò significava
che presto
avrebbe lavorato quindici ore al giorno al telaio di una fabbrica
tessile e che
probabilmente sarebbe morto prima di arrivare ai dodici anni. Lui si
era
salvato solo grazie alla sua corporatura resistente, ma sapeva di
essere
un’eccezione.
-Oppure …-
aggiunse Audreen per poi
bloccarsi.
-Oppure?-
domandò Thomas, ma la
donna era all’improvviso pentita di aver accennato ad un’altra
possibilità. Notò
che evitava di guardarlo e che si teneva a distanza. Quando poco prima
si erano
quasi scontrati, lei aveva fatto subito dei passi indietro mettendo
quanto più
spazio tra di loro. E non era per semplice convenzione sociale, una
donna come
Audreen Weigt che scende nelle prigioni di Lancaster per incontrare un
detenuto
non fa caso a dettami del genere. Era perché aveva paura di lui.
-Credo che
dobbiate andare, Miss
Weigt- le disse.
-Cosa? No-
rispose. -Non me ne
andrò finché non accetterete il viaggio per Boston.-
Frugò nella
tasca della gonna e gli
tese di nuovo il biglietto. Thomas notò che la mano le tremava. Lei
colse il
movimento del suo sguardo e indovinò il suo pensiero. Scoperta, lasciò
cadere
il braccio lungo il fianco.
-Per un
attimo ho creduto davvero
che l’avreste ucciso- confessò.
Thomas
sospirò.
-Anche io.-
I loro occhi
si incontrarono,
l’azzurro delle profondità artiche e il nero avvolgente di una notte
senza
luna. In quell’istante Thomas ebbe la sensazione di essere totalmente
disarmato.
Quella donna, che era andata di sua spontanea volontà da lui, era
riuscita ad
andare oltre la sua armatura e lo vedeva per quello che era. Audreen
Weigt
riusciva a capirlo, ed era di un sollievo incommensurabile.
Lei intuì che
qualcosa era cambiato
e si avvicinò.
-Dovete darvi
un’altra possibilità,
Thomas- sussurrò. -Accettate il viaggio. È l’ultimo prima dell’inverno,
non
avrete altre occasioni.-
-Non posso-
le disse, scuotendo il
capo. -Non lo abbandonerò, preferisco piuttosto morire.-
Lei capì che
si riferiva ad Arthur
e tornò esitante.
-E se … se
venisse anche lui? In
quel caso, accettereste?-
-Potete farlo
davvero?-
Audreen
sospirò. -Un modo c’è.-
Quando la
guardia tornò, Thomas
Holsen era dentro la sua cella e Miss Weigt pronta ad andarsene. La
donna chiamò
una carrozza a noleggio e lasciò la prigione di Lancaster per tornare a
Chelsie.
Il quartiere residenziale di Londra in cui viveva era diviso da un
lungo viale
di pioppi le cui chiome avevano assunto le sfumature di un crepitante
focolare,
in contrasto con il verde brillante dell’erba delle aiuole, resa
rigogliosa per
la pioggia abbondante. Sotto le finestre a bovindo gli aster riempivano
il
vuoto dell’estate con la loro fioritura multicolore e tardive rose
rampicanti
abbracciavano le colonne dei porticati.
Quando
oltrepassò la porta di casa,
Audreen trovò sua sorella Julia ad attenderla.
-Allora?- le
domandò.
-Gli ho detto
la verità.-
-Perché? Oh,
Audreen, cosa hai
fatto!- esclamò portandosi le mani al viso in un gesto di terrore.
-Ho dovuto.
Altrimenti non
l’avrebbe mai lasciato andare- rispose con dolorosa freddezza. -E anche
lui
sarebbe morto per colpa mia.-
-Non dire
così.-
-Arthur vivrà
con me. Vivrà con la
sua vera madre.-
-Nostro padre
non te lo permetterà
mai. Non sotto questo tetto.-
-Lo so-
rispose. -Per questo ne
devo trovare un altro.-
Per
tutto il giorno e la notte precedenti pesanti tempeste si erano
abbattute sulla
costa, ma quella mattina il sole splendeva di luce dorata e
l’aria era balsamica e chiara. Il frizzante splendore autunnale delle
foglie si
riversava al suolo, quel suolo che Thomas non vedeva l’ora di lasciare.
Estrasse
la mano destra affondata nella tasca dei pantaloni e con essa un foglio
di
carta.
“La
nave White Star della compagnia Cunard Line salperà per Boston dal
porto di
Liverpool il giorno diciassette di ottobre (vento e tempo
permettendo)”.
Aveva
riletto così tante volte quella frase che avrebbe potuto replicare con
estrema
precisione la grafia flessuosa con cui il nome della nave, il giorno e
il mese
erano stati scritti dall’impiegato della Cunard Line. In meno di un
mese
sarebbe arrivato a Boston dove lo attendeva una nuova vita.
Si
voltò verso il molo. I passeggeri in attesa di salire sulla nave si
erano
accalcati in prossimità dell’imbarcadero. Le donne erano sedute sui
pesanti
bagagli, stringendo tra le braccia bambini stanchi o troppo piccoli per
poter
stare in piedi; gli uomini si guardavano attorno, pronti a caricarsi
sulle
spalle tutti i loro averi al primo cenno dei marinai. Il vociare era
alto, un
intreccio di addii, ricordi nostalgici e aspettative entusiaste. In
quel
marasma Audreen Weigt spiccava nel suo abito da viaggio bordeaux. Era
abbracciata a un’altra donna che le assomigliava in modo impressionante
ed
entrambe piangevano. Dopo essersi date un lungo bacio sulla guancia,
Audreen si
allontanò e i suoi occhi scuri e profondi si posarono su di lui come se
sapessero già dove trovarlo, ma si trattennero poco. Lo sguardo della
donna si
abbassò verso il bambino che teneva per mano e che, non appena lo
riconobbe,
gli corse in contro. Thomas issò sulla spalla il suo bagaglio e guardò
la White
Star ormeggiata al molo: quel giorno ricominciava a vivere.
1Nero Dickens
Vi ringrazio per aver letto questo piccolo racconto nato - ancora una volta - da un contest.
A presto,
Dryas
1Nero Dickens
Vi ringrazio per aver letto questo piccolo racconto nato - ancora una volta - da un contest.
A presto,
Dryas