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Autore: SkyDream    13/12/2020    4 recensioni
[AU][Brotp!DaiSuga]
Sugawara Koushi è un infermiere che si occupa, principalmente, dei bambini di pediatria.
Sawamura Daichi, infermiere caposala, chiede aiuto all'unica persona disposta ad ascoltarlo tra quei muri colorati.
L'ospedale non riesce più a coprire le spese, presto, se non si troverà una soluzione, i reparti più piccoli verranno chiusi.
I due ragazzi, alla ricerca di un'idea innovativa e un po' folle, si affidano ad uno strano personaggio dall'abbigliamento inusuale.
Riusciranno a capovolgere le loro sorti, o si ritroveranno a dover stravolgere il loro lavoro?
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Dal testo:
«Ogni volta sembra che ti interessi del reparto vuoto e non dei bambini che si curano dentro, eppure sei stato tu a lottare per quel posto o sbaglio?».
Sawamura aggrottò le sopracciglia e lo squadrò da capo a piedi.
«E tu come lo sai?».
«Sei il gossip preferito delle infermiere, ma ti risparmio i commenti che fanno su quelle camicie attillate. Comunque secondo me hanno ragione, l’arancione ti dona».
«A volte mi chiedo perché mi ostini a farti certe domande.»
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Daichi Sawamura, Hajime Iwaizumi, Koushi Sugawara, Tetsurou Kuroo, Tooru Oikawa
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Note importanti prima della lettura:
I personaggi principali sono presi dall’universo di Haikyu e trasportati all’interno di una Medical!AU. L’ambiente ospedaliero e tutto ciò che lo circonda è realmente esistente. I muri del reparto, i binari del tram e ogni singolo particolare della storia sono realmente esistenti.
E spero di rivederli presto.
Ovviamente, per chi fosse particolarmente sensibile alle tematiche ospedaliere, sconsiglio vivamente la lettura e, in ogni caso, non mi assumo alcuna responsabilità.

Per chi stesse leggendo la storia senza conoscere Haikyu, vi scrivo i nomi e i cognomi dei personaggi per evitare confusione.
- Koushi Sugawara (protagonista e infermiere), detto anche Suga o Kou-Kou.
- Daichi Sawamura (infermiere caposala).
- Shimizu (infermiera dal nome sconosciuto).
- Tooru Oikawa (ruolo misterioso).
- Iwaizumi Hajime (ruolo misterioso).
- Kuroo Tatsurou (ruolo misterioso).

 
Spero che la storia si di vostro gradimento!

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∽ Will I Become a Superhero? ∽
[AU] [Brotp! DaiSuga]
 
 
Se c’era una cosa che Sugawara amava, nella sua routine mattutina, era godersi l’alba nel più completo silenzio.
D’altronde, a quell’orario scabroso, il tram era sempre vuoto e, tranne qualche operario addormentato, poteva starsene beato con le sue cuffie accanto al finestrino dell’ultimo vagone.
Gli bastava alzare gli occhi, nei venti minuti del tragitto, per innamorarsi ogni mattina dei tiepidi raggi colorati che si insinuavano tra le foglie degli alberi e giù, sui marciapiedi e le strade quiete. Soporose.
E quanto era bello, appena scendeva, saltellare tra i binari del tram per raggiungere le strisce pedonali.
Sentiva il profumo delicato della colazione appena sfornata nei bar adiacenti il Policlinico. Gli bastava alzare una mano e sorridere per catturare l’attenzione di quel cameriere che, ogni volta, sollevava lo sguardo su di lui e gli urlava di andarlo a trovare più spesso, per potergli offrire quel caffè che gli doveva ormai da settimane.
Ma Suga era troppo impegnato a non far tardi, così si sistemava meglio il borsone sulla spalla e riprendeva a saltellare dal marciapiede fin sulla strada e poi sul marciapiede avanti. In una melodia di rimbalzi che facevano parte della sua quotidianità.
Ed eccolo imponente, come ogni mattina, il Policlinico si stagliava di fronte a lui, ancora avvolto dal silenzio, dalle poche macchine che ronzavano lente tra i parcheggi.
Suga sollevò la sciarpa, la salita che lo attendeva era rivolta controvento e sentiva bene l’aria fresca scompigliargli i capelli.
Senza esitazione alzò gli occhi prima verso il cielo e poi, appena arrivato in cima, verso l’orizzonte su cui si intravedeva il mare cristallino illuminato ora da un sole totalmente sorto che creava, sotto di lui, lunghe ombre tra le scale antincendio e lunghi muri sbiaditi.
«Buongiorno a te, pullulante città».
Ed ecco che lo sentiva.
Il grande sbadiglio della gente.
Il suo momento era terminato e presto le strade su cui aveva saltellato sarebbero state colme di macchine con i clacson premuti, tram che slittano e ragazzi che rincorrono gli autobus.
Le mamme e i papà avrebbero accompagnato i figli a scuola ancora con gli occhi socchiusi, i commercianti avrebbero sollevato le saracinesche dei negozi e le luci si si sarebbero accese accompagnate da una cacofonia di parole e rumori tipici dell’ora di punta.
Ma Suga non sarebbe stato lì fra loro.
Il suo posto non era quello.
I muri esterni dell’ospedale avrebbero bisogno di una bella riverniciata, così come andrebbero sfoltiti gli alberi del piccolo parco sotto il padiglione E, dove ormai decine di gatti si appollaiavano con le code penzolanti.
Il padiglione NI si stagliava, sopra gli altri, nel suo bel color mattone - decisamente in netto contrasto con il tenue panna assunto dai muri adiacenti -.
Suga entrò, salutò la guardia dell’ingresso e passò il tesserino sul monitor fischiettando, l’orologio segnava le sette meno dieci, giusto il tempo di saltellare - per l’ennesima volta - fino al quarto piano. Lì dove tutto era circondato da scimmiette colorate, lunghi prati brillanti e cieli tersi.
Anche se, era da ammettere, erano tutte immagini un po’ sbiadite da tempo come se, ogni bambino che vi aveva posato lo sguardo, se le fosse portate un po’ con se.
La grande porta a due ante, colma di fogli comunicativi, numeri di telefono e qualche adesivo colorato, rimaneva lì di fronte a lui.
La fissò. Le prime volte che si era fermato là davanti aveva provato un brivido lungo la schiena.
Terrore.
Pediatria, per chi indossava le scarpe di gomma e la divisa, era all’inizio puro terrore.
Non per quello che si ha paura di vedere né perché si pensa di soffrire.
Semplicemente, a pediatria, con gli adulti, sono tutti scorbutici. E’ una legge non scritta che serve per fare in modo che nessuno si culli e che tutti diano sempre il massimo per garantire ordine e buona assistenza.
Ma questo non leniva in alcun modo il terrore. Anzi.
Che immensa responsabilità che aveva addosso, tanto valeva sbrigarsi e aprire subito la porta. Tanto, dopo tutto quel tempo, il terrore aveva lasciato il posto ad un sentimento più complesso e indescrivibile.
Bello.
«Buongiorno a tutti i miei orsetti!» esclamò appena entrato in reparto, le sue labbra non avevano abbandonato quella piccola curva all’insù.
«Schifosamente di buon umore anche questa mattina, vedo. Quasi mi abbagli.» La voce proveniva da un uomo alto e castano, con le spalle larghe e muscolose che a stento entravano nella camicia attillata che teneva sotto il camice.
«Non essere musone, Sawamura, i piccoli orsetti hanno bisogno di un po’ di luce qui dentro!» Si difese l’altro portandosi fin dentro lo spogliatoio. L’uomo con il camice lo seguì con delle cartelle in mano e si infilò in quello spazio che doveva essere intimo.
Doveva.
«A proposito di luce, Suga, di questo passo il reparto subirà l’ennesimo taglio dei fondi e non posso assolutamente permettermelo. Il Policlinico sta andando in negativo e sai bene quanto sia vicino a dover chiudere i primi reparti, e il nostro non sarà l’eccezione!».
Suga si tolse la sciarpa e la felpa, mostrando dei tonici pettorali che non sfuggirono allo sguardo imbarazzato dell’interlocutore.
«Non guardarmi in quel modo, Capo-orsetto, sei stato tu a intrufolarti qui dentro!».
«Ti sto guardando come se tu fossi l’ultima speranza, Suga-caro, non come il modello di qualche rivista porno!».
Suga sghignazzò e si passò una mano sui capelli per sistemarli dopo essersi infilato la divisa colma di toppe colorate rappresentanti piccoli corvi paffuti e arcobaleno.
Fece girare il fonendoscopio attorno al collo e infilò qualche penna con i brillantini dentro la tasca sinistra.
«L’ultima speranza hai detto? Hai già parlato con l’amministrazione?».
«Almeno un centinaio di volte».
«E credi che io possa aiutarti? Sono un semplice infermiere, Sawamura, ma tu sei il capo degli infermieri di questo reparto! Wow!».
«Oh, ma smettila di fare il modesto! Non ci credi nemmeno tu che sei un semplice infermiere! Entri, saltelli e colori questo reparto come fosse casa tua, è quasi più nei tuoi interessi che nei miei mantenerlo aperto».
Sugawara si girò, lo guardò tremendamente serio con quegli occhi grigi che riuscivano ad appiccicarsi nella pelle del caposala come fossero adesivi.
E Sawamura sudava, sudava tremendamente nel constatare quanto fosse stato veritiero con quelle parole.
Sawamura sembrava sapere.
 
Sugawara è stato innamorato, tanti anni fa - mai troppi - di un ragazzo dai capelli scurissimi. Ma d’altronde gli opposti si attraggono, no?
A volte si influenzano. Lievemente.
Poi sempre di più.
Finchè, come due macchie d’olio su una superficie d’acqua, non finiscono per perdere la loro unicità.
Allora non si capisce più dove comincia l’uno e finisce l’altro.
E Suga, che era sempre stato luce pura, aveva finito per essere una vecchia lampadina fulminata.
E per lui non esisteva giorno e non esisteva notte.
Era, tutta la giornata, solo un tedio perenne scandito dai rumori assordanti delle lancette e degli oggetti che si frantumavano contro il muro, e i cocci finivano sulla sua pelle che cercava rifugio sotto quelle lenzuola sporche che non conoscevano i raggi del sole né il fresco sapore del vento.
Suga pregava, nel suo cuore, con l’unica parola che ancora gli rimbombava in mente: “Basta”.
Era stato tra una preghiera e l’altra che un giorno, (o una notte?) di chissà che mese e che anno, il suo vicino di casa si era deciso a chiamare la polizia al posto suo.
Allora, tra le parole che utilizzava per pregare, si aggiunse “Grazie”.
Grazie che aveva pronunciato più volte al barista sotto casa da cui andava, ogni mattina, a prendere del latte al cioccolato con la schiuma.
Era stata qualche mattina dopo - forse due o tre - che una mano allora sconosciuta, salda e calda come poche, gli aveva afferrato il polso con gentilezza e lo aveva trascinato fino al Policlinico perché “Non posso vederti quelle ferite medicate in quel modo!”.
Sugawara era un infermiere, sapeva come medicarsi. Ma quando si è soli non è facile fasciarsi per bene e stringere i denti per il dolore.
Così Sawamura lo aveva fatto per lui, chiedendogli cosa diamine gli fosse successo.
Ma Sugawara non si era aperto.
Aveva solo accennato ad una rinascita. La sua camera e le sue lenzuola avevano scoperto il calore del sole e la dolcezza del vento.
Sawamura non era il tipo da simili metafore - che in realtà erano la pura e schietta verità, ma Suga evitò di farlo notare - e con infiniti sforzi, colpito da quel sorriso luminoso, era riuscito a farlo entrare nel suo reparto.
Mai acquisto era stato così promettente.
Sugawara era un portento con i bambini, con i genitori, con i superiori e con chiunque gli stesse attorno nel raggio di un chilometro.
Aveva visto le sue ferite guarire e i suoi occhi chiudersi quando sorrideva.
Quante volte, durante il consueto giro mattutino, vedendolo giocare con delle marionette dentro le stanze dei più piccoli, aveva allungato la cartella dei farmaci al paziente piuttosto che a lui, spiegandogli dei dettagli inventati sul momento come se avesse difficoltà a riconoscere chi fosse il vero bambino, tra l’infermiere e il piccolo, e non mancava mai di prenderlo in giro per questo.
Ma Sugawara non si era mai offeso, anzi, spesso stava al gioco e - quante volte - aveva organizzato con i suoi pazienti dei tremendi scherzi ai danni del suo caposala.
Sawamura era un caposala severo, meticoloso e pungente.
Eppure, per chissà quale motivo, aveva seria difficoltà con lui a fargli mantenere il suo ruolo di sottoposto. Ma ormai, dopo quasi un anno, ci aveva rinunciato e aveva anzi approfittato di quella innaturale confidenza che si era instaurata.
Se non che, quando sfilava il camice e tornava ad essere un uomo qualunque, spesso si chiedeva quale vita conducesse l’altro al di fuori di quel reparto colorato.
Suga passava lì la maggior parte delle sue giornate, anche quando non era il suo turno, semplicemente per dargli una mano o leggere delle storie ai bambini.
Non era sicuro che potesse farlo, ma non si era mai opposto.
Era così felice.
Lo aveva visto con quell’espressione, fuori dal reparto, solo il primo giorno in cui lo aveva incontrato al bar e lo aveva visto chiedere - con voce tremante - un latte schiumato.
“Col cioccolato, per favore. E grazie!” aveva poi sussurrato quasi fosse un sacrilegio.
E quella volta Suga aveva i capelli spenti, troppo lunghi, delle profonde occhiaie e un fisico smagrito che lasciavano intuire un’alimentazione ai limiti della compatibilità con la vita.
E poi quei lividi e quelle bende stropicciate.
Sawamura non aveva dormito per due notti prima di afferrarlo e dargli una mano.
Eppure, dopo tutto quel tempo, si chiedeva se ci fosse qualcuno ad aspettarlo a casa.
Una volta glielo aveva chiesto, se fosse sposato o comunque fidanzato, e l’altro si era irrigidito e aveva portato un pugno sul cuore mordendosi un labbro e respirando a fatica.
Era stato un attacco di panico ben camuffato, doveva ammetterlo.
Così, semplicemente, non aveva mai più aperto il discorso.
Ma Sugawara a casa era solo, circondato ora dai suoi libri e dalla cesta di pupazzi che adorava portare in Ospedale. A volte chiamava qualche amico, ma si era categoricamente rifiutato di uscire con chiunque.
Stava bene a casa, in silenzio, con le serrande alzate e il sole che scaldava la stanza. A volte cucinava e, quando gli onigiri gli risultavano particolarmente buoni, ne portava qualcuno a lui. Glieli lasciava sul tavolo dell’ufficio come fermacarte.
 
«Allora, Suga, mi aiuterai?» chiese spezzando il silenzio dell’altro, troppo impegnato a fissarsi la punta delle scarpe in gomma. Era un silenzio colmo di riflessione però, dovette ammetterlo.
«Non vedo proprio come potrei, Sawamura. Ora, mi dispiace, ma sono le sette e un quarto e devo andare a preparare la terapia, Shimizu si starà chiedendo dove sia finito».
«Oh, che peccato! Proprio oggi mi è arrivata la comunicazione che - se il reparto rimarrà aperto - avremo un gruppetto di tirocinanti da seguire. Dovevo scegliere tra te e Shimizu come tutor, ma ora credo proprio di aver deciso a chi affidare quegli scolaretti scalmanati».
«Tutor?!».
Suga si illuminò - più di quanto non lo fosse già - e il suo livello di attenzione per quel discorso lievitò in modo consistente.
D’altronde essere un insegnante di infermieristica era sempre stato il suo sogno, ma avere dei ragazzini da seguire in reparto, beh, era oltre ogni aspettativa.
«Eh già, l’infermiera Shimizu ne sarà entusiasta! Andrò a complimentarmi ora stesso con lei!».
«Fermo, Capo-Orsacchiotto, parliamone un momento».
«Mi aiuterai?».
«Sei un doppiogiochista».
«Sono un caposala, e spesso ti dimentichi che la mia parola qui dentro vale più della tua, Sugawara. Promettimi che ci penserai e quei marmocchi saranno sotto la tua ala protettrice».
Suga lo guardò aggrottando le sopracciglia e incrociando le braccia su quella buffa divisa con i corvetti. In fine sospirò e annuì. Non aveva altra scelta.
Sawamura lo salutò prima di rientrare nel suo ufficio. Non potè fare a meno di chiedersi come facesse quel ragazzo a gongolare di gioia al solo pensiero di dover seguire dei ragazzetti armati di siringhe in un reparto di bambini.
La sola idea gli fece accapponare la pelle.
«Kou-kou, oggi mi accompagni tu, vero? Me lo hai promesso».
Il caposala si girò giusto in tempo per vedere un bambino di cinque, forse sei anni, tirare la casacca dell’infermiere per richiamare la sua attenzione. Era il paziente della stanza 1, quella sempre inondata dai raggi del sole.
Era un bambino smagrito, tremante di paura e quel ragazzo dagli insoliti capelli bianchi sembrava il suo angelo custode, era il suo punto di riferimento. Come un fratello.
Suga lo prese in braccio e lo fece accoccolare al suo petto in un abbraccio strambo e carico d’affetto.
«Certo che ti accompagno io nella sala segreta dei supereroi, credi che mi rimangerei la parola data? Mi raccomando, tieni il segreto con gli altri bambini o poi ci vorranno andare anche loro e non possiamo avere tutti questi supereroi in ospedale.» Lo disse con tono tremendamente serio e il bambino scosse la testa per annuire.
A fatica gli lasciò la mano per tornarsene tra le braccia di sua madre, intenta a rivolgere un sorriso triste a quel quadretto affettuoso.
 
Sawamura aveva perso il conto di quanti bambini Suga avesse preso per mano.
Di quanta dolcezza riversasse in quel lavoro e soprattutto dell’umanità che aveva dimostrato stringendo a sé i genitori e i fratelli che avevano bisogno di sostegno.
Sembrava accarezzare i loro lividi e le loro ferite bendate male.
E, se non poteva guarirle, poteva almeno alleviarne il dolore e dire loro che il sole non aveva ancora smesso di scaldare.
Che, nonostante tutto, la vita ha ancora valore.
Vi era stato un giorno, uno soltanto, dove lo aveva beccato con la mano stretta dentro l’incubatrice di un piccolo cuore malconcio.
Gli aveva subito chiesto cosa stesse facendo, il monitor continuava a suonare in modo allarmante ma sapevano tutti che il piccolo era ormai sprofondato in un sonno senza risveglio.
Suga aveva sorriso, come sempre, un po’ più triste di sempre, e aveva aperto e chiuso la bocca un paio di volte prima di parlare.
«Ogni vita è degna di essere vissuta, purchè ci sia qualcuno che ci ami profondamente. E ora sua madre sta combattendo per la propria vita, così ci sono io ad amarlo».
Allora Sawamura si era messo dall’altro lato, aveva infilato la sua mano nell’oblò opposto e si era ancorato ad un piedino di quella piccola vita che si era spenta tra le loro dita.
Era stata la prima volta in cui aveva profondamente amato qualcuno. Con tutto se stesso, senza remore.
E con le labbra tra i denti, Suga e Sawamura avevano pianto.
 
☼☼☼
 
Il bar del Policlinico, dall’insolita forma a U, pullulava di tirocinanti in cerca di cibo e specializzandi che ordinavano caffè. Qualche medico più anziano, nell’angolo in fondo, consultava il giornale con una tazza di tè verde in mano, come fosse tra i cuscini del divano di casa propria.
Ma quel luogo faceva quell’effetto a tutti coloro che ci vivevano dentro per gran parte delle loro giornate.
Non era raro che, addirittura, molti ragazzi si riunissero lì per studiare o semplicemente per incontrarsi e scambiare quattro chiacchiere - d’altronde vantava la cheesecake ai frutti di bosco migliore della città -.
Alcuni, dopo le lezioni universitarie, si fermavano fino all’orario di chiusura per poi rifugiarsi tra le mura dei reparti per cominciare il loro turno.
Era sfiancante quel ritmo, alle prime ore del mattino si vedeva un’orda di zombie traballare fino alla fermata dell’autobus tra sbadigli e caffè bollenti.
Suga li ammirava, anche lui era stato uno di loro e ricordava bene gli sforzi immani per dare sempre il meglio.
Ma a quei tempi aveva una visione differente di se stesso, del suo lavoro e della sua vita.
Comunque, in quel bar del Policlinico, anche lui aveva finito per mettere radici.
Sawamura beveva il suo doppio caffè nero e amaro mentre lui, ancora affamato, addentava il secondo panino e con la coda dell’occhio fissava i dolcetti esposti alle spalle del suo interlocutore.
«Insomma, non hai avuto alcuna illuminazione divina per questi fondi?» chiese il caposala poggiando la tazzina sul tavolo traballante.
«Converrai che bisognerebbe attraccare qualche filantropo colmo i soldi.» Optò Suga dando gli ultimi morsi al suo pranzo.
«Chi vorrebbe mai farsi carico di un reparto da venti letti senza un minimo di tornaconto?» Il caposala portò due dita alle tempie massaggiandole. Avevano bisogno di una soluzione e anche alla svelta.
«L’amore di quei marmocchi è un tornaconto!».
«Solo uno come te potrebbe farselo bastare. Non hai idea di quanto siano disumani gli uomini ricchi che potrebbero davvero aiutare il prossimo e senza nemmeno alzarsi dalla sedia».
«Parli come se tu non lo facessi per lo stesso identico motivo per cui lo sto facendo io. Ogni volta sembra che ti interessi del reparto vuoto e non dei bambini che si curano dentro, eppure sei stato tu a lottare per quel posto o sbaglio?».
Sawamura aggrottò le sopracciglia e lo squadrò da capo a piedi mentre l’altro era impegnato a togliersi le briciole dalla guancia.
«E tu come lo sai?».
«Sei il gossip preferito delle infermiere, ma ti risparmio i commenti che fanno su quelle camicie attillate. Comunque secondo me hanno ragione, l’arancione ti dona».
«A volte mi chiedo perché mi ostini a farti certe domande.» Si chiese tra se e se spalmando nuovamente la mano sul viso.
Sugawara rise di gusto di fronte quell’espressione di abbandono e disperazione. Sotto quella corazza di battute e finta impazienza si nascondeva un uomo devoto al proprio lavoro e alle proprie cause.
Amava tutti quei bambini tanto quanto lui e lo dimostrava ogni giorno. Suga lo vedeva che scompigliava i capelli ai piccoli pazienti quando passava per il corridoio.
A volte comparivano in reparto dei pacchetti di caramelle o della cioccolata.
Nessuno ne sapeva nulla e lui eludeva le domande con una maestria ammirevole.
«Forse ho un’idea, ma promettimi che non mi prenderai in giro, Sawamura!».
«Spara».
«E’ un reparto di bambini - bambini con molta fantasia - e io ho un’invidiabile collezione di pupazzi e marionette».
«Me ne sono accorto, a volte ho serie difficoltà a capire quanti bambini io abbia in reparto».
Suga ignorò volontariamente quella frecciatina e continuò con il solito entusiasmo.
«Cosa ne pensi di un film girato con loro dentro il nostro reparto?».
«Un film?».
«Loro saranno i piccoli supereroi che combattono i pupazzi, io e te coordineremo il tutto e manderemo il video sui social. Sicuramente toccherà i teneri cuori della gente, qualcuno ne approfitterà della visibilità per chiederci di farci da sponsor e qualcun altro potrebbe dare il via alla raccolta fondi. Ehi, noi stessi potremmo dare il via alla raccolta fondi! Non lo ha mai fatto nessuno, sarà un successone!».
Sawamura portò le mani giunte sotto il mento e rimase a fissarlo per tutta la spiegazione, sembrava fermamente convinto della sua idea e annuiva alle sue stesse parole.
«Si può sapere che razza di mondo alternativo hai in quella tua testa?».
«Se era un complimento, ti ringrazio. Se non lo era, grazie lo stesso per avermi ascoltato senza interrompermi» rispose mentre spostava gli occhi sulla fetta di torta.
«Sei schifosamente gentile, Sugawara, lasciatelo dire, ma l’idea è geniale. Mi piace!».
«Ci serve qualcuno che sia in grado di girare il video e di montarlo però, io non sono molto ferrato.» Ammise con un po’ di imbarazzo grattandosi la nuca.
«Per quello ci penso io».
Prima di andare via, Sawamura rubò l’ultimo pezzo del dolcetto.
 
☼☼☼
 
«Salve!».
«Salve».
I due si fissarono per qualche secondo. Sugawara si era ritrovato davanti un ragazzo coetaneo dalla chioma castana con una messa in piega ammirevole e vestito con una deliziosa camicia bianca e una giacca scura non troppo formale. Al collo aveva una cravatta annodata malamente che penzolava sul petto.
«Con chi ho l’onore di parlare?» chiese l’infermiere che, stranamente in imbarazzo, si chiese se la divisa che indossava fosse almeno ben stirata.
«Sono Oikawa Tooru, stella nascente della cinematografia giapponese e regista in ascesa dagli ottimi gusti e, lasciatelo dire, i corvi colorati sulla divisa non sono molto carini».
Suga inarcò un sopracciglio e spostò lo sguardo sulla propria casacca. A lui piacevano i corvetti arcobaleno.
Sentì dei passi veloci dietro di sé.
«Vedo che non sei cambiato di una virgola, Tooru!» esclamò il caposala alle sue spalle.
«Ehi, Dai-cchan! Quanto sei serio con quella camicia attillata!» Lo strano regista si fece spazio per passare oltre l’infermiere e raggiunse il suo vecchio amico dandogli una sonora pacca sulla spalla.
«Tu invece dai sempre nell’occhio, che ci fai con quella cravatta messa in quel modo? Soffocavi?».
«Non ti sembra un abbigliamento tipico di un regista? Per un’intervista mi vestirei senz’altro così, forse una cravatta verde marino starebbe meglio?».
In mezzo a quel trambusto, un ragazzo moro, poco più alto di lui, fece il suo ingresso con una borsa voluminosa e dall’aria pesante. Non sembrava però minimamente affaticato.«Verranno sicuramente ad intervistarti, Tooru, visto che la tua regia è nei titoli di coda della pubblicità dei cereali Jella.»
«Hajime, quindi ci sei anche tu!» Sawamura sorrise ignorando Tooru - che aveva rivolto nuovamente gli occhi sulla casacca multicolore di Suga.
«Pensavi che ti avrei lasciato da solo con quell’avventato di Oikawa? Ci tengo alla salute dei tuoi bambini».
«A proposito di bambini, che vuole questo?» Tooru abbassò lo sguardo su un bambino che si ciucciava il pollice stringendo al petto un orsetto spelacchiato. Dalla stanza 1 trapelava una buona dose di luce, abbastanza forte da far risplendere i disegni sui muri del corridoio.
«Kou-kou, anche lui è un supereroe come me? Ha la giacca di Superman! Tu sei Superman, vero?».
I ragazzi rimasero in silenzio per qualche momento, fu Sugawara a prendere in mano la situazione.
«Certo, piccolo, è proprio Superman in persona! Infatti, lui e il suo amico Batman ci aiuteranno a girare un film sui supereroi! Non sei contento?».
Il bambino scosse la testa con enfasi, prima di accucciarsi contro la gamba del suo Kou-Kou.
«Ehi, che ha il piccoletto? Gli si sono scaricate le batterie?» Chiese Tooru a cui non era affatto infastidito il soprannome affibiatogli.
«Più o meno. Mi dispiace dirtelo così, senza preamboli, ma non siamo in una ludoteca. I bambini saranno entusiasti di partecipare ma dobbiamo rispettare anche le loro capacità di resistenza, hanno bisogno di molto riposo».
Suga prese in braccio il piccolo che non ci mise molto ad assopirsi contro la sua spalla. Le piccole manine si rilassarono fino a far scivolare il peluche che teneva stretto.
Tooru lo afferrò prima che cadesse e lo guardò con occhi nuovi.
Aveva accettato l’offerta con grande entusiasmo - nonostante non si fosse fatto cenno ad una possibile paga -ma non si era fermato a riflettere su ciò che avrebbe comportato un simile lavoro.
Sarebbe stato un video perfetto, e se doveva far uscire la parte migliore di quei piccoli marmocchi, lo avrebbe fatto. Anche senza farli spostare dal letto.
 
☼☼☼
 
«Il punto esatto è… questo!».
«In quella posizione assurda con una telecamera sulla spalla ti ci metti tu, Tooru».
«Dai, Batman! Fallo per i bambini!».
Tooru, accovacciato ai piedi di un letto con la schiena curva in una posizione innaturale, sorrise furbetto al suo cameraman che non resistette all’impulso di poggiargli la punta del piede sul fondoschiena fino a farlo cadere con un tonfo a terra.
Il bambino sul letto rise di gusto, per quanto le sue forze permettessero.
«Mi sa che tu non sei Superman!» Disse il piccolo con un filo di voce che sfuggì alla mascherina che portava al volto.
«Certo che lo sono! Non vedi la giacca? La cravatta annodata? I capelli da supereroe?».
«Superman non perde l’equilibrio in quel modo, tu sei buffo!» Specificò quello con un sorriso appena accennato.
«Qui l’unica cosa buffa è quel pigiama con i disegnini colorati. In questo reparto avete davvero un pessimo gusto!».
Il bambino abbassò lo sguardo sulla sua maglietta con le macchinine, aveva tra le mani un peluche di dinosauro che avrebbe dovuto sconfiggere grazie ad un’arte magica segreta. Suga gliel’ aveva insegnata poco prima, mentre le sue mani delicate vagavano su quelle piccole braccia per effettuare la terapia.
«Smettila, Tooru. La prospettiva del dinosauro contro il bambino verrà benissimo anche ripresa da un punto più alto e senza sacrificare nessuna delle mie vertebre.» specificò Iwaizumi mentre vedeva il suo amico sistemarsi.
«E’ per gente come te che il mondo dello spettacolo spesso è ristretto a pochi punti di vista!» lo pizzicò Tooru tornando a spiegare al bambino come agitare le manine per essere più credibile.
Sugawara e Shimizu si godevano la scena dal corridoio dove stavano trascinando un carrello colmo di farmaci.
«Sembra che si stiano impegnando molto per le riprese. E’ bello vedere i bambini così coinvolti, forse qualcuno si sentirà meglio.» Shimizu aveva dita lunghe e affusolate che navigavano con destrezza nel cassetto con le siringhe.
«Hanno entrambi un carattere particolare, non mi stupisce neanche troppo che siano rimasti in contatto col caposala.» Le rispose Sugawara agitando il flacone di Tazocin  per la novantesima volta. Si sarebbe mai sciolto o sarebbe rimasto a grumi?
«Anche tu hai un carattere particolare, Kou-Kou, visto che vai d’accordo con quel burbero di Daichi Sawamura».
Shimizu e Sawamura avevano fatto l’università insieme, laureandosi lo stesso anno e ritrovandosi quasi subito a lavorare fianco a fianco.
Entrambi si stimavano a vicenda e sapevano di poter contare l’uno sull’altra, ma questo non aveva impedito loro di mantenere una pacifica distanza.
Sugawara li aveva visti parlare forse solo due volte in un anno.
«Non vado esattamente d’accordo con Sawamura, semplicemente so come prenderlo».
«Kou-kou, io non ho mai visto Daichi affidarsi a qualcuno come fa con te. C’è una complicità innata tra voi due, per non so quale motivo. Ma se questa complicità salverà il reparto, chi dice che non sia una cosa buona?».
 
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«Non riesce a muoversi?» chiese il regista con aria preoccupata.
«No. Stiamo cercando di aiutarlo con la fisioterapia ma non siamo ancora a buon punto.» L’infermiere entrò per staccare le flebo e segnare delle crocette su un foglio.
«Quindi non riesce nemmeno ad alzare le braccia?».
«Ha ripreso da poco a respirare autonomamente, sarebbe decisamente chiedere troppo».
Tooru fissò prima il volto paziente di Sugawara e poi scese per l’ennesima volta a fissare i piccoli disegni sulla sua divisa.
«La smetti di giudicare i miei corvetti colorati? Sono bellissimi, non cambierò la divisa».
«Ho un’idea!» Tooru parve dimenticarsi di quella divisa che definiva “obbrobrio che ferisce la vista” e rivolse il suo miglior sorriso all’infermiere:«Hai un camice totalmente verde?».
 
Tooru, vestito come se stesse interpretando un broccolo ad una recita, guardò il bambino con aria di sfida.
«Quindi tu vorresti partecipare insieme agli altri e sconfiggere i tremendi tirannosauri che minacciano di devastare il reparto?».
Il bambino sembrò annuire con lo sguardo, incapace di comunicare in altri modi.
Tooru fu quasi ferito nel constatare come, in un battito di ciglia, il piccolo fosse riuscito quasi ad urlare un “Sì!”.
«Bene, avrai bisogno di Superman - che poi sarei io - ma ci riuscirai, te lo garantisco! E togliti da quella faccia l’espressione da “Superman non è totalmente vestito di verde” o ti lascio mangiare dal peluche!».
Sugawara dovette uscire dalla stanza per non far sentire a nessuno la potente risata che gli scaturì quella frase. Era tremendamente serio quel ragazzo, totalmente ammattito!
Tooru fece segno al bambino di non spaventarsi e si accucciò dietro di lui per nascondersi il più possibile agli occhi della fotocamera.
Fece scivolare le braccia sotto le sue, così piccole e fragili al confronto, e le sollevò verso l’alto come se stesse lanciando un incantesimo.
Shimizu, ai piedi del letto, agitava contro di lui un draghetto spelacchiato.
Con qualche effetto speciale, il risultato sarebbe stato ottimo.
 
☼☼☼
 
Sugawara era poggiato al muro del reparto con una cartella in mano e una penna a sfera, stava segnando delle note sulle schede di terapia e calcolando delle equivalenze. Si grattò la testa con la penna mentre sbuffava ripetendo mentalmente le tabelline.
Lavorare in pediatria, dal punto di vista aritmetico, era una vera tortura.
Dividi per il peso, moltiplica per l’età, fraziona con millilitri, no, gli equivalenti.
Sospirò pesantemente e sperò che il turno finisse presto, quel pomeriggio era veramente stanco.
Con Tooru e Iwaizumi lavoravano al video ormai da quasi nove ore e, se il reparto non era nel caos più totale, era solo grazie a Shimizu che si era fatta in quattro.
«Kou-kou? Hai sonno?» Il piccolo paziente della stanza 1, con il suo orsacchiotto in mano, tirò due volte la casacca dell’infermiere per attirare la sua attenzione. Dietro di se, dalla sua camera, trapelavano appena dei raggi del sole.
«Ehi, no, non ho sonno! Vuoi giocare?».
Il bambino scosse la testa in senso di diniego e alzò le mani per essere preso in braccio. Suga poggiò la cartella sul carrello di terapia e accolse quell’invito.
«Kou-kou, mamma mi ha detto che oggi non andremo nella sala dei supereroi».
«No, forse ci andremo domani. Ti dispiace?».
«Non vogliono più farmi diventare un supereroe perché l’ultima volta ho pianto?».
Suga spostò i suoi occhi limpidi su quelli del bambino, già con le palpebre appena abbassate.
«No, certo che no. Sei il loro supereroe preferito, forse non potevano far entrare nessuno a causa di qualche operazione segreta!».
«Diventerò ancora un supereroe? Come Superman?» chiese prima di abbandonarsi alla sua spalla e crollare in un sonno profondo.
«Come Superman».
 
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«E’ indubbiamente venuto bene, ammettilo».
Tooru sorrise soddisfatto passando la mano sui suoi morbidi capelli castani, lanciò un’occhiatina a Daichi poggiato sulla scrivania del suo ufficio. Fissava lo schermo del suo pc.
«Hai indubbiamente passato in bianco due notti, Tooru.» Affermò senza scollare gli occhi da quel video meraviglioso.
Senza la minima sbavatura e anche con effetti speciali notevoli per quel minimo - assente - budget che gli aveva fornito.
«Sai che a volte sono un po’ maniacale, non mi piacciono le imperfezioni».
«Ma dai, che sorpresa! Non lo avrei mai detto, sai? Piuttosto, come hai fatto a fare le fiamme e gli asteroidi qui dietro?» Chiese agitando una penna per indicare gli effetti 3D.
«I cereali Jella vendono molto grazie alla mia regia, per cui non è stato difficile usufruire di un computer dell’azienda».
«Ti sei intrufolato la notte, ecco perché hai delle occhiaie che poggiano terra».
Tooru, anziché rispondere, espirò sonoramente dal naso e poggiò i gomiti sul tavolo fissando in tralice il suo vecchio compagno di scuola.
«Non mi sei mai piaciuto, Sawamura».
«Troppo acume? Non ci sei abituato?».
Si scambiarono uno sguardo divertito e acconsentirono, con una stretta di mano, alla diffusione del video.
Il telefono non squillò per tre giorni.
 
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Sugawara, quando saliva al quinto piano - ostetricia - per prelevare la cartella di qualche neonato che sarebbe giunto in reparto, non resisteva all’impulso di entrare al nido.
Non bussava neanche più, le infermiere conoscevano i suoi passi e il suo tenero modo di dare il benvenuto quelle piccole vite appena giunte.
«Buongiorno, piccoli orsacchiotti!».
Suga salutava le colleghe con un sorriso infinito e correva a lavarsi le mani prima di fare il giro di quelle culle che avrebbe potuto prendere con un solo braccio.
Se ne stava lì, interi minuti, a coccolare i piedini e le manine di quei piccoli cuori che non avevano ancora visto altro se non la luce del reparto e il volto della loro madre.
Quei pianti, che a molti avrebbero fuso il cervello, lo rendevano tremendamente orgoglioso del suo lavoro.
E quale gioia non era poggiare la mano sul petto di un neonato e vederlo smettere di piangere. Come se, improvvisamente, niente potesse ferirlo.
E con una sola carezza sussurrava “Non sei solo”.
Quella coltre fitta di pensieri fu improvvisamente diradata da una giovane ragazza dal camice rosa confetto. La neonatologa, pronta per il giro visite delle culle.
«Buongiorno, Sugawara! Complimenti per il successo del video, ve la siete cavata alla grande giù in pediatria!».
«Oh, grazie, purtroppo siamo ancora in attesa di uno sponsor che decida di finanziare il reparto. A quanto pare il Policlinico sta dando carta bianca, voi come siete messi?».
Le infermiere sospirarono indicandogli l’armadio quasi del tutto privo di presidi medici.
«Noi siamo messi male quanto voi, ma non rischiamo di chiudere avendo il pronto soccorso ostetrico. Non ti nascondo che sono comunque preoccupata, voi di pediatria date una mano non indifferente quassù, a maggior ragione ora che i posti letto scarseggiano.» La ragazza posizionò il fonendoscopio sul petto di uno dei neonati, causandogli un pianto senza lacrime e un tentativo di fuga.
Suga gli carezzò la piccola testa spelacchiata.
«Però so che avete ricevuto una chiamata - continuò mentre passava alla seconda culla - sono scesa a prendere un caffè e ho visto Sawamura fiondarsi dalle scale come se stesse andando in contro all’amore della sua vita. E’ stata una scena che rimarrà ben salda alla mia mente, non capita di certo tutti i giorni».
Sugawara tentennò a quelle parole. Era via dal reparto da neanche venti minuti, cosa si era perso?
Sawamura - quel caposala sempre serio e ponderato - che si fiondava giù dalle scale?
 
☼☼☼
 
«Kuroo Tetsurou.» confermò Sawamura con orgoglio.
«Tet-Tetsuroou. Ouu. Tetsuroou. Come si pronuncia?» Suga fece schioccare la lingua sul palato un paio di volte. Meglio non pretendere confidenza e continuare a chiamarlo Kuroo.
«Kuroo Tetsurou è il proprietario della casa cinematografica NekoMa. La NkM, ti dice nulla?».
Sugawara parve illuminarsi e si portò così vicino al caposala che quest’ultimo fu quasi abbagliato dal candore del suo viso.
«Ma è la casa che produce la serie tv Fly High con quella stramba coppia di pallavolisti che puntano ai mondiali!».
Sawamura aggrottò le sopracciglia e portò la testa di lato. Da quando Suga era esperto di serie tv?
«Esattamente lui si è proposto di coprire le spese dell’intero reparto in cambio dei diritti sul cortometraggio che abbiamo girato. Ho incontrato Kuroo proprio stamattina, sembra entusiasta e non vede l’ora di trovare qualche idea per aumentare i fondi. Inoltre ho saputo che l’agenzia che registra le pubblicità dei cereali Jella ha cominciato una raccolta di beneficienza per noi» Sawamura rise, sperando che l’altro non se ne accorgesse. Vanamente. La domanda arrivò poco dopo.
«Come mai proprio l’agenzia degli stessi cereali per qui quel certo Tooru…».
«Una mattina lo hanno beccato nei loro studi, addormentato sulla tastiera di un pc che stava utilizzando di nascosto per il nostro video. Lo hanno licenziato ma hanno dato il via alla raccolta fondi».
Sugawara non riuscì a non ridere per quanto gli dispiacesse molto per quello strambo regista dai capelli ben pettinati.
Ma era anche vero che il karma ripaga sempre, e che quella era una punizione più che giusta per aver giudicato male i suoi corvetti colorati nella divisa.
«Poco male, probabilmente Kuroo finirà per trascinarlo dentro».
Sawamura allungò le braccia verso l’alto stirandosi e sorridendo divertito.
«Ehi, Sugawara, il mese prossimo arrivano i tirocinanti scalmanati. Pronto per il ruolo del maestro saggio?».
 
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Tutto è bene quel che finisce bene.
Lo sapeva anche Sugawara che, due settimane dopo, entrava al padiglione NI salutando i pittori che ritingevano quei muri color mattone.
Kuroo non aveva voluto specificare i motivi di fondo che lo avevano spinto a sperperare i suoi guadagni per un reparto di pediatria da venti posti, si era limitato a dire che - per lui - era essenziale quel gesto.
Suga aveva trovato una vecchia foto nell’album del reparto che avevano in custodia - quello colmo di disegni e foto che a volte i genitori regalavano come ringraziamento - e in una di quasi vent’anni prima c’era un ragazzino smagrito e pallido che aveva i tratti vagamente somiglianti a quelli del filantropo dal nome impossibile.
Era una coincidenza alquanto insolita ma, dopo tutto, non era poi così importante scavare a fondo.
I soldi c’erano, il reparto non avrebbe chiuso e di quel passo l’intero padiglione sarebbe risorto. Il piano era andato a gonfie vele.
«Buongiorno, piccoli orsacchiotti!» Suga saltellò fino allo spogliatoio e si cambiò rapidamente. Era strano non vedere Sawamura e il suo inconfondibile broncio in giro per i corridoi.
«Ehi, Shimizu, hai visto il nostro caposala?» Nell’infermeria si spanse la sua voce rimbalzando sui muri colorati.
«Poco fa era in giro, forse sarà sceso sotto a prendere un caffè - fece spallucce - comunque ti cercava il bambino alla stanza 1, Kou Kou».
 
Suga entrò a passo leggero in quella stanza totalmente buia, afferrò l’orsacchiotto spelacchiato e lo poggiò sul nasino del bambino addormentato.
«Oggi non lo vuoi un abbraccio?» gli sussurrò spostando una ciocca di capelli.
Non vi fu risposta. Nella stanza echeggiava solo il suono di un singhiozzo che non gli apparteneva.
Suga carezzò una guancia, poi scese giù fino al petto dove un piccolo cuore batteva lentamente.
«Mi hanno chiamato dalla sala dei supereroi, hanno detto che sei il migliore in lista e che ti hanno conferito la medaglia dell’eroe. Anzi, te ne hanno date due perché sei stato molto coraggioso, potrai vantartene con Superman, non trovi?».
La mano del bambino si sollevò sulla sua, ancorata al cuore, e strinse la zampa dell’orsacchiotto che giaceva accanto.
«Kou Kou, sono un supereroe?».
«Come Superman, anzi, anche più forte».
 
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«Rimarrai lì a lungo?».
«Non me lo aspettavo».
La stanza numero 1 era inondata di pura luce, le finestre erano spalancate e lasciavano entrare della fresca aria che si scontrava contro le lenzuola pulite di un letto vuoto e immacolato.
Ai piedi, vicino le coperte meticolosamente stirate, vi era un orsacchiotto spelacchiato con un biglietto che lo indirizzava “Al fratellone Kou Kou”.
«Non ti aspettavi che il peluche sarebbe rimasto con te?».
«Già».
Sawamura chiuse la porta e scivolò a terra accanto al suo collega. Sugawara fissava il muro dirimpetto.
«Non hai sbagliato nulla, Suga, lo hai-».
«Amato profondamente fino all’ultimo istante, lo so».
«Suga-».
«Non dirlo, lo so, non dovevo farmi coinvolgere. Il rischio di burn out è alto, ci si fa del male da soli e tutte le belle parole che ti insegnano tra i banchi.» Aveva la voce che tremava, in un soffio, come la prima volta in cui Daichi lo aveva sentito chiedere quel latte schiumato.
«Con te questa regola non vale, Suga. E’ perché conosci la sofferenza che sai come alleviarla, e hai fatto stare bene quel bambino fino all’ultimo momento. Lo sai tu, lo sapeva lui e anche la madre che ti ha lasciato il biglietto. E’ inutile fingere di essere quello che non sei, l’importante è come decidi di rialzarti dopo».
Suga portò le braccia sulle ginocchia e ci poggiò la fronte contro. Prese un respiro profondo.
Per cosa stava andando avanti?
«Prenditi un momento per lui, e gli altri per i restanti diciannove bambini che aspettano di vedere te, come ogni mattina. Lo sai anche tu, Koushi».
«Lo so, Daichi».
Suga scivolò contro la sua spalla e si concesse un unico lungo singhiozzo.
D’altronde l’accademia dei supereroi non era ancora chiusa, in molti aspettavano di poter essere accompagnati durante le sedute.
Le sue mani, grandi, affusolate e colme di cicatrici, avrebbero stretto altre mani più piccole. Avrebbero fatto di tutto per salvarle.
Come quella mano, salda e gentile come poche, che gli aveva afferrato il polso una mattina al bar per medicare le sue ferite.
E Sugawara si strinse un po’ di più al suo collega, quando lo vide mordersi un labbro per ricacciare indietro le lacrime.
Ma una solo sfuggì.
Che se non altro il dolore interiore è prerogativa dell’essere umani, e che fingere che non importi nulla non è poi così da duri. Non significa essere forti.
«Abbiamo salvato il reparto per gli altri diciannove bambini».
«E per tutti quelli che verranno».
Sugawara allora si alzò, si rimise in piedi togliendo la polvere da quella divisa colma di corvetti colorati e avvicinò la mano a quella di Sawamura per aiutarlo ad alzarsi.
Aprì la porta e lanciò un occhiata ai lunghi raggi che si stendevano sul pavimento.
«Buongiorno, piccoli orsacchiotti!».
E dal corridoio si levò un'unica voce:

 
Diventerò un supereroe?

 
Angolo autrice:
Grazie mille a voi che siete arrivati fin qui. Questa è la mia prima AU, scritta totalmente di getto in sole due sere.
Non mi stupisce molto che sia ambientata tra i muri del reparto che più amo, così come non mi stupisco di aver scelto Suga come protagonista, visto che ci somigliamo davvero tanto.
E’ partito tutto da una canzone, partita per sbaglio in macchina mentre guidavo, che mi ha riportato alla mente uno dei periodi più belli passati dentro questo Policlinico.
Per chi non lo sapesse, noi studenti di infermieristica facciamo lezione, pranzo e tirocinio dentro l’Ospedale. E’ istintivo sentirlo come una seconda casa, affezionarsi a quella sana routine che ti permette di vedere sia l’alba che il tramonto dalle finestre di un reparto.
Nel banner, l’edificio con le luci accese che vedete, è il padiglione NI della storia.
La divisa con le penne e i dinosauri, invece, è la mia.
Con questa storia vorrei un po’ raccontare al mondo com’è la vita dentro il reparto, quella vita che non ci immaginiamo.
Non è solo sofferenza, è un posto dove le vite di incrociano e influenzano a vicenda.
E’ collaborazione e, a volte, un pizzico di follia che permette davvero di rendere la giornata migliore a qualcuno, di farlo sentire meglio.
E io non dimenticherò mai le piccole follie fatte per quei neonati che ho visto nascere e che ho cullato tra le braccia, né dimenticherò i volti delle loro madri quando li hanno stretti la prima volta.
Così come non dimenticherò la sofferenza che ho toccato con mano, ma che mi ha aiutata a crescere.
 
Allora, bambini, diventiamo insieme dei supereroi?
-SkyDream-
   
 
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