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Autore: Dragon_Flame    14/12/2020    2 recensioni
Rin era stata poco più che un battito di ciglia nella sua vita lenta, dura, guerriera, ne era stata il nettare soave che l’aveva allietata, nutrita, ristorata. Come acque fresche, aveva lavato via il rigore e la freddezza del suo spirito assetato di potere, ne aveva mitigato l’arroganza, ne aveva fatto germogliare la gentilezza. E poi, come fiocchi di neve in inverno, si era riunita alla terra bruna che l’aveva data alla luce, tornando cenere e vento e nulla più che una manciata di ricordi, quando era ancora nella primavera della sua giovinezza.
[Possibile OOC]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Rin, Sesshoumaru | Coppie: Rin/Sesshoumaru
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Kogarashi
 

 

Un fremito impercettibile nella neve gelida.
Sesshomaru aprì gli occhi con la sua lentezza flemmatica.
Un anelito di aria condensata stringeva tra le sue zampe sottili un’anima in pena, caduta vittima della sua rete ammaliatrice. Lo Shimidamachu, elevatosi poco sopra la testa del demone, una volta agguantata la sua preda, si alzò in cielo, verso l’alto, per poi scomparire nel fulgore pallido della neve.
Guardando quell’essere sottile sparire nella bufera, un sospiro involontario sfuggì dalle labbra del demone, in attesa. Un’attesa affannata, ineluttabile, con la speranza di un divenire che placasse il tormento del suo animo.
 
 
Rin e Sesshomaru erano stati felici, insieme. Come il dolce suono di un flauto nel vento, lei aveva allietato le sue giornate, aggiungendo tenerezza ai giorni trascorsi insieme, per poi finire avvelenato dai suoi stessi limiti, lui che si credeva immenso, illimitato, perfetto. La vita breve che le era stata concessa l’aveva strappata via troppo presto dalle sue braccia, caduca come petali di ciliegio nella primavera inoltrata. Lei, che era nel fiore della sua giovinezza, l’aveva lasciato per sempre, senza possibilità d’appello, senza perdono.
Il tempo di un demone scorre lentamente, gli anni e le stagioni sono istanti di una vita millenaria. Per Sesshomaru ogni singolo respiro era diventato difficile da emettere, nel costante scandire del tempo.
Rin era stata poco più che un battito di ciglia nella sua vita lenta, dura, guerriera, ne era stata il nettare soave che l’aveva allietata, nutrita, ristorata. Come acque fresche, aveva lavato via il rigore e la freddezza del suo spirito assetato di potere, ne aveva mitigato l’arroganza, ne aveva fatto germogliare la gentilezza. E poi, come fiocchi di neve in inverno, si era riunita alla terra bruna che l’aveva data alla luce, tornando cenere e vento e nulla più che una manciata di ricordi, quando era ancora nella primavera della sua giovinezza.
 
 
 
Il sole a picco, un campo fiorito poco distante dalle risaie feconde.
Grida di uomini al lavoro nell’aria, il pigro scorrere del ruscello in lontananza. Lo sciabordio dell’acqua della cascatella poco più avanti si mescolava al canticchiare felice e spensierato che accompagnava le sue giornate da alcuni mesi.
Dall’alto dell’albero scelto per riposare, Sesshomaru osservava una Rin insolitamente statica, seduta tra i fiori di un prato poco lontano. Stava tentando - con molto poco successo, notò il demone, eppure con l’ottimistica determinazione che la contraddistingueva - di tenere insieme gli steli di una malandata ghirlanda, che aveva già perso più della metà dei suoi petali. Il caldo di quella giornata d’estate aveva reso paonazze le guance, solitamente appena rosate, della bambina che si affannava a poca distanza da lui.
Sentendosi osservata, la piccola alzò gli occhi in alto, sorridendo alla figura imponente e silenziosa che vegliava su di lei costantemente, come un angelo della morte, capace di spazzare via un’intera armata senza il minimo ripensamento, ma completamente inerme di fronte a quelle iridi colme di affetto e sincero abbandono che lo fissavano da sotto le palpebre, orlate da lunghe ciglia.
Rin si fidava ciecamente di lui, l’aveva seguito ovunque, perfino nel regno dei morti, e quello era stato l’unico ripensamento, l’unico, doloroso rimorso che affliggeva l’anima tumultuosa di Sesshomaru.
Conseguenze nefaste sul lungo periodo su di lei non ne aveva viste, ma il terrore di perdere Rin, il rimpianto per non averla saputa proteggere e il senso di colpa per averle fatto rischiare così tanto... il tutto a causa del proprio egoismo, della brama di potere, tutte cose che avrebbe avuto modo di poter raggiungere nell’arco della sua lunghissima vita di demone. Perché Rin, al contrario di tutto questo, era effimera e delicata, e non sarebbe stata che un respiro in tutti quei secoli di vita che aveva ancora davanti a sé. Lei era la sua priorità. Non ci sarebbe stata un’altra Rin a cantare per lui. Altre terre, altre spade, altri nemici da soggiogare ed abbattere, e un immenso potere; tutto ciò sarebbe stato ancora lì, pronto per essere conquistato. Ma non un’altra Rin.
Irripetibile, energica, unica. La sua vita gli era diventata infinitamente più preziosa da quando era ritornata alla luce per la seconda volta. Non avrebbe avuto modo di preservarla da tutti i mali del mondo. Perciò lasciarla al villaggio degli umani, alle cure della vecchia sacerdotessa, era stata la scelta migliore, seppur sofferta, che potesse prendere. Veniva a trovarla spesso, la sua piccola Rin.
Per vegliare su di lei, per sapere che la sua vita scorreva tranquilla, che apprendeva nuove cose, che rideva, che era felice e sana e amata. Tutte cose che lui non poteva darle, ma quanto avrebbe voluto! ... stava diventando troppo apprensivo, Sesshomaru. Per la sorte di un’umana, poi?
Le aveva portato in dono un altro kimono, quella volta. Ultimamente quelli in suo possesso le erano stretti, stava crescendo molto rapidamente. Dieci anni della vita di un umano erano pochi agli occhi di un demone, eppure il cambiamento che ne conseguiva non poteva ignorarlo. Rin cresceva, e lui vedeva il tempo alterare i suoi lineamenti. Presto sarebbe stata nel fiore della sua bellezza, per poi incanutire ed appassire come un fiore avvizzito, come i boccioli della ghirlanda che teneva malamente fra le manine, in procinto di perdere i petali.
Rin percepì lo sguardo assorto del demone sul quel mazzo floreale e si sentì avvampare per l’imbarazzo. Aveva intenzione di realizzare un dono per lui, ma non stava venendo fuori molto bene. D’impeto nascose il misfatto dietro la schiena, e Sesshomaru s’accigliò di colpo, assaporando nell’aria la nota di vergogna e delusione che s’era aggiunta al viso già arrossato della ragazza.
Con eleganza innata si calò giù dall’albero, raggiungendo in poche falcate la giovane umana. Lei gli sorrise di rimando, intimidita, e una stilla di tenerezza gli sgorgò dal cuore di pietra che credeva di avere.
“Rin, cosa nascondi?” le chiese il demone, allungando una mano artigliata per ricevere quel dono sgangherato.
“Nulla, Sesshomaru-sama.”
“Se cerchi alla fine di questo campo, troverai i fiori più belli per la tua ghirlanda” le suggerì il demone con un tono vagamente canzonatorio in un raro momento di ironia, facendo arrossire ancor di più, se possibile, il volto della ragazzina.
“Mi dispiace, doveva essere un regalo per voi...”
Una lacrimuccia brillò all’angolo dei suoi occhi, ma prontamente Rin cancellò quell’espressione triste dal volto, sostituendola con un enorme sorriso. Con un certo malcelato stupore, Sesshomaru la osservò allontanarsi di qualche passo, diretta verso il punto che le aveva indicato con un cenno del volto affilato. Poi, con stupore crescente, la vide crucciarsi per un momento, per poi saltellare nuovamente accanto a lui e afferrare un lembo del lungo obi blu-dorato che portava legato in vita. Si sentì strattonare da quella piccola mano e levò su di lei un’occhiata interrogativa.
Dall’alto, vide il sorriso di Rin farsi più largo.
“Sesshomaru-sama, venite, vi prego! Così potrete dirmi quali fiori vi piacciono di più. Sarà una ghirlanda bellissima, solo per voi!” cinguettò la bambina, incamminandosi verso quel fazzoletto di terra sbocciata nel fulgore primaverile. Il demone la seguì di buon grado, un mezzo sorriso su quelle labbra sottili e perennemente impassibili.
 
 
“Sesshomaru-sama.”
La voce frizzante di Rin, mischiata al sapore melanconico del dubbio, richiamò l’attenzione del grande demone.
“Dimmi, Rin.”
Si erano incamminati poco prima in direzione del boschetto sacro appena sopra il villaggio, in cerca di un posto tranquillo dove parlare. Il turbamento della giovane che gli stava di fronte lo aveva subito messo in allerta, ma sapeva che avrebbe dovuto attendere poco per avere una spiegazione di quel mutato stato d’animo.
La ragazza, in piedi accanto alla sua figura imponente, fasciata da un kimono azzurro screziato di rosso - uno dei suoi doni, aveva constatato compiaciuto Sesshomaru -, si tormentava le mani, le guance arrossate per l’imbarazzo della domanda che avrebbe voluto fargli. L’indecisione assunse una tinta peperita quando tutte il volto di Rin, dalla tipica pelle pallida delle ragazze giapponesi, fu invaso dal calore.
Si sentiva inadeguata, Rin. Il suo signore non le aveva mai mancato di rispetto e anche di fronte alle domande più strane non aveva mai evitato di risponderle. Ma chiedergli proprio quella cosa era troppo. Non era assolutamente pronta a compiere quel passo, non con la tensione che le impediva di esprimersi chiara e disinvolta.
No, si disse, doveva tentare.
Arrestò la propria corsa - non si era nemmeno resa conto di quanto veloce fosse il suo passo - proprio davanti al Goshinboku. L’albero sacro che aveva visto così tante vite passargli davanti, così tante emozioni umane manifestarsi e consumarsi sotto le sue fronde generose. Sesshomaru si accomodò tra le grandi radici di quell’albero accogliente, testimone di così tanti momenti felici della vita di Rin.
“Ecco, Sesshomaru-sama... starete lontano a lungo da Musashi, nel vostro prossimo viaggio?”
Il silenzio che ne seguì fu un più che eloquente invito ad aprirsi, dato che era un’eventualità quasi certa.
Rin trasse un respiro profondo, poi si sedette accanto al demone, giocherellando con una delle sue lunghe ciocche argentate tra le dita sottili. Lo guardò dritto negli occhi, e Sesshomaru vi lesse un’amarezza profonda.
“Ecco... io vorrei venire con voi.”
L’aveva detto.
“E dove vorresti venire con me, Rin?”
La replica dell’uomo la spiazzò, poiché non si aspettava che le rispondesse. L’aveva lasciata al villaggio umano che era ancora una bambina, alle cure amorevoli della sacerdotessa Kaede. Sotto la sua egida e con tutto l’affetto possibile, Kaede l’aveva allevata ed educata nel miglior modo possibile, aiutandola ad integrarsi nella società degli umani. Ma Sesshomaru-sama occupava sempre stabilmente un posto privilegiato nel suo spirito, da cui mai nessuno avrebbe potuto scalzarlo.
La proposta di matrimonio che le era stata fatta pochi giorni addietro l’aveva spaventata. Il momento per lei era arrivato, con suo grande terrore. E Sesshomaru-sama non era ancora tornato a prenderla per portarla via, come le aveva promesso anni prima. Atterrita, si era sentita in trappola, incapace di uscire dalla gabbia che lentamente la piccola società locale le aveva costruito intorno, tentando di tarpare le sue giovani ali e seppellire i suoi sogni sotto il peso della realtà dei fatti, in cui non poteva continuare la sua vita come prima. Aveva quindici anni, già molte sue coetanee erano sposate o promesse, alcune perfino con un piccolo fagottino strillante tra le braccia o legato alle spalle, a spaccarsi la schiena nei campi e nelle risaie.
Non era la vita che voleva. Lei sognava posti meravigliosi da esplorare fianco a fianco con quel demone algido e inarrivabile, nell’irrequieta ricerca del modo di placare quella sete di vita, di meraviglia e di novità che sentiva ardere nel suo petto. L’arrivo di Sesshomaru-sama pochi giorni dopo aver respinto quel pretendente sgradito le era parso provvidenziale, ma ora si sentiva intimidita dalla sua figura autoritaria, lei che mai aveva avuto remore ad aprirsi con lui. Di colpo temeva che lui le negasse quella promessa di felicità che gli aveva strappato anni addietro, che le impedisse di levare l’ancora e guardare al futuro con la curiosità e l’entusiasmo di chi non sa cosa l’aspetti dietro l’angolo.
Le sue mani si serrarono di scatto, intrappolando la serica estremità tra le dita ed il palmo. Sesshomaru percepì il tormento che scuoteva internamente la sua piccola Rin. Di sottecchi, la osservò con più attenzione, notando i segni del tempo sul suo volto. Era cresciuta, ormai, ma sarebbe sempre stata piccola al suo confronto, piccola nella statura, nell’età, nell’esperienza. La sua piccola umana, come la chiamava con disprezzo sua madre, la sua onoratissima e detestata madre. Aveva appreso con sdegno che il suo unico figlio, il grande, potente demone maggiore Sesshomaru, signore di vastissimi possedimenti nel Giappone occidentale, si recava a far visita regolarmente ad una piccola ed insignificante cucciola d’uomo, divenuta poi una giovane ed altrettanto insignificante ragazza in età da marito, in un altrettanto insignificante villaggio di umani. Una pericolosa inclinazione, quella del figlio, sicuramente ereditata dallo strano carattere del padre, che non riusciva a comprendere e che nemmeno le interessava ostacolare.
Le iridi gialle del demone si fermarono sul volto adombrato di Rin, i cui occhi erano chini sulle sue mani avviluppate intorno alla chioma pallida del suo signore.
”Portatemi via, Sesshomaru-sama, ve ne prego. Non voglio più restare qui” disse all’improvviso la ragazza, scontrando i suoi scuri e risoluti occhi contro lo sguardo impenetrabile del demone.
“Non ti trovi bene?”
Ancora domande. Perché Sesshomaru-sama temporeggiava? Non la voleva con sé, forse?
“Mi avevate promesso che, se lo avessi voluto, mi avreste portato via con voi. Erano parole vuote, quelle della promessa che mi avete fatto sette anni fa?” insistette Rin afferrando una delle sue mani artigliate, senza arretrare di un millimetro, consapevole della violenza distruttrice che si celava in quelle dita affusolate e tuttavia incapace di credere che avrebbero, volendo, potuto ucciderla in un battito di ciglia.
“C’è un motivo valido?”
“Siete voi, Sesshomaru-sama.”
Ecco, l’aveva detto. Maledetta impulsività, maledetta agitazione, maledetta fretta!
“Non saltare a conclusioni affrettate, Rin.” Quegli occhi gialli e felini si posarono sulle mani di lei, rosee contro la carnagione lunare del demone. A quello sguardo trasalì, ma non arretrò. “Questa è la tua vita. La scelta è tua. Manterrò la mia parola. Ma tu devi essere sincera, Rin. Con me e con te stessa.” Altra pausa. “Dimmi, e sii onesta: c’è un motivo valido?”
Rin tacque, cercando di trovare le parole per esprimere il tumulto interiore che la divorava dentro.
“Ecco… Un ragazzo del villaggio mi ha chiesto in sposa. Ma io ho subito detto di no, Sesshomaru-sama, non potrei mai venire meno alla promessa che abbiamo suggellato anni fa!” Tutto d’un fiato. “Io, Sesshomaru-sama… io non potrei mai-”
“Rin, calmati.”
“Ma…”
“Va bene, ho capito.”
Un mezzo sorriso. Divertito. Sesshomaru-sama stava forse sorridendo per davvero?
Rin sentì il suo volto in fiamme, rosso fino alla radice dei capelli. No, non si sarebbe mai preso gioco di lei. Lui teneva troppo a lei per umiliarla facendosi beffe del suo cuore.
Le iridi d’ambra del demone la accarezzarono, puntando su di lei uno sguardo profondo e inintelligibile. Anche se non lo dava a vedere, dentro di sé Sesshomaru era contento, avrebbe perfino ballato per la gioia, se solo il suo sconfinato orgoglio non glielo avesse impedito. Era sollevato al pensiero di potersi evitare quella seccatura, di non dover spaventare a morte un possibile pretendente della ragazza per toglierselo dai piedi. Non avrebbe potuto sopportare il pensiero di Rin mano nella mano con qualcun altro all’infuori di lui. Il pensiero che potesse avere addosso l’odore di un altro uomo, o che potesse portare in grembo il frutto di un matrimonio umano.
Quella visione lo disgustava, perché Rin era ciò che aveva di più caro e di prezioso al mondo e nessuno mai avrebbe potuto contaminare la purezza e la vitalità genuina di quell’animo generoso. Quei doni che le aveva portato nel corso del tempo erano la prova che lui, un giorno, sarebbe stato pronto a farsi carico del suo dolore e della sua felicità, sorreggendola al proprio braccio per tutto il lungo e tortuoso cammino della vita coniugale. Se lei avesse voluto, un giorno, avrebbe potuto avere il suo cuore, la sua protezione, le sue terre, tutto e per sempre. Solo la sua parola mancava, e avrebbe potuto trovare finalmente la pace agognata dal suo spirito implacabile. Aveva il potere, aveva possedimenti sterminati, aveva il rispetto e il timore reverenziale di tutti i demoni più forti. Agognava però solo al cuore di Rin, l’ultima e anelata roccaforte da espugnare.
Rin percepì dolcezza in quella lunga occhiata che le rivolse, e il suo animo in tumulto si placò. E sebbene non le avesse esplicitamente detto di sì, quello sguardo valeva più di qualunque parola detta.
“Non c’è confine terreno che possa ostacolarmi, Rin. Dove vuoi andare?”
Sesshomaru la stupì prendendole fra le mani artigliate quelle sottili e morbide di lei, e di quella pelle diafana percepì il calore e il flusso tumultuoso del sangue nelle vene.
“Vi seguirò ovunque andrete, Sesshomaru-sama. La mia vita appartiene a voi, fin da quando vi ho conosciuto. Sarò la vostra ombra ovunque andrete.”
 
 
Il rituale del risveglio era il momento preferito della giornata di Rin. Non era ovviamente un vero e proprio rito, ma nell’intimità della loro camera privata quegli istanti assumevano una sfumatura quasi sacra, immersi nel silenzio impenetrabile della spiccata preferenza di Sesshomaru per la quiete.
La possibilità di saggiare quelle spalle marmoree, di percorrere con le mani il corpo statuario del demone e di poter giocherellare con i suoi capelli nivei, che tanto le piacevano; tutto ciò non aveva eguali per Rin.
Alcune mattine, quando Sesshomaru era particolarmente restio a separarsi da lei, si lasciava coccolare da quelle piccole mani delicate, e Rin prendeva la sua folta chioma immacolata per intrecciarne le ciocche, ridendo felice delle trecce disastrate che uscivano fuori da quei tentativi malandati. Non ne era mai stata capace, e il demone si ritrovava spesso a essere il suo banco di prova. Sopportava tutto ciò che la giovane faceva ai suoi capelli, perché la possibilità di poter ascoltare la sua voce dolce scossa da una risata e di percepire sullo scalpo il tocco delicato delle sue dita lo ripagava di qualsiasi fastidio.
A volte Rin si recava nel cortile interno del grande palazzo terreno in cui vivevano, contemplando assorta le carpe koi che lambivano la superficie dello stagno, disegnando cerchi acquatici concentrici. In autunno quel piccolo angolo di natura si vestiva allegramente di colori sgargianti che le mettevano allegria, e Rin osservava il preludio all’inverno che si avvicinava lentamente, spegnendo la vitalità di quelle tonalità. A volte Sesshomaru la sorprendeva con una visita inaspettata, cingendole la vita da dietro, in un abbraccio silenzioso che la coglieva alla sprovvista sempre nei momenti più solitari, riempendola di gioia.
In qualità di signore e padrone di vasti possedimenti, concupiti e minacciati da demoni avventati e bramosi di potere e terre, Sesshomaru era spesso via, lasciandola sola anche per lunghi periodi. Il silenzio che abitualmente riempiva le grandi stanze del palazzo in cui vivevano si faceva allora più difficile da sopportare, e Rin talvolta rischiava di sentirsi sopraffatta dalla quiete che riecheggiava nel grande castello vuoto. Anche quei pochi servitori che offrivano i loro servigi presso l’edificio erano taciturni, come era desiderio del demone, e non proferivano parola, e in quella tacita solitudine Rin coltivava talvolta una rassegnata cupezza, rischiarata di volta in volta dal ritorno del marito.
Sesshomaru non era tipo da farsi incatenare, doveva essere libero di poter vagare senza impedimento alcuno. Se l’avesse trattenuto a sé, l’avrebbe allontanato. Solo lasciandogli la libertà lui sarebbe tornato ogni volta, fedele alla promessa di amore eterno che si erano scambiati lune addietro.
In quel momento però la sua assenza le era particolarmente pesante, e non solo in termini metaforici. Un piccolo movimento la riscosse dalle sue riflessioni, e con un sorriso accennato Rin si sfiorò il ventre appena pronunciato, dove l’erede del demone stava lentamente crescendo.
Era da tre lune che non Sesshomaru non tornava a casa. Non sapeva ancora che sarebbe diventato padre.
 
 
L’odore pestilenziale del piccolo Yuu impregnava l’aria della camera nuziale.
Dopo la vittoriosa campagna militare portata avanti contro un clan demoniaco ribelle nel nord dei propri possedimenti, il grande Sesshomaru, signore delle Terre Occidentali, principe dei demoni, tornò a casa e fu sconfitto. Soggiogato e schiacciato dal peso delle sue stesse convinzioni.
Un figlio mezzodemone, a cui lui stesso aveva dovuto scegliere il nome, dopo l’accorata preghiera dell’amata moglie umana.
E Rin non aveva più osato avvicinarglisi, dopo il lampo di furioso terrore che aveva visto scattare nelle sue iridi d’oro. Quel caldo colore d’ambra ora le era diventato freddo e ostile. Dov’era il suo amato Sesshomaru? Dove aveva lasciato il suo cuore, dov’era il suo amore per lei e per il suo erede?
Il demone non riusciva ad accettarlo, un figlio mezzodemone. Proprio lui, che lei credeva fosse cambiato, che credeva si fosse addolcito nei confronti del fratellastro e del genere umano. Lui, che aveva preso come sua sposa celeste una donna umana. Chi era Sesshomaru, in realtà?
Di fronte a quel fetore di mezzodemone, il demone non si era limitato a storcere il naso. Non riusciva a capacitarsi di avere un figlio che assomigliasse a quel fratellastro minore tanto odiato, all’infima feccia cui Inuyasha apparteneva. Feccia strisciante, al di sotto perfino della miserabile razza umana. Mezzosangue immondo che aveva addosso l’odore suo e di Rin, della sua amata Rin; questa forse era la cosa che non riusciva a sopportare, che l’odore di Rin fosse presente su di lui, contaminato e annacquato da quel fetore sgradevole.
Non la toccava più neanche con lo sguardo, con il terrore palpitante e costante nel petto possente, l’orrore al pensiero di avere un secondo erede mezzosangue. Un’altra onta incancellabile, vergogna gettata sul sangue puro della sua nobile stirpe demoniaca.
Era sceso il silenzio tra di loro, ma ora quella quiete forzata e carica di tensione lo opprimeva, e avrebbe fatto di tutto pur di spezzare l’ostinata indifferenza portata avanti dalla sua sposa, che soffriva dentro di sé nel vedere il suo amatissimo figlio rifiutato e disprezzato dal padre. Credeva che Sesshomaru fosse cambiato, che l’amore per lei gli avrebbe permesso di passare sopra a qualsiasi precedente convinzione o disprezzo nei confronti dei mezzidemoni.
Ora era costretta, con amarezza, a ricredersi. Il demone non sarebbe mai cambiato. E lentamente quel gelo sceso fra loro come un velo infrangibile aveva cristallizzato le loro posizioni in una situazione di risentimento perenne, in un fuoco incrociato continuo che prima o poi avrebbe mietuto le sue vittime.
Una guerra interna si era instaurata fra i due coniugi, una guerra silenziosa e dolorosa. Un vincolo distrutto, forse per sempre. Il continuo rifiuto di Sesshomaru di anche solo avvicinarsi al suo bambino, al suo stesso figlio, le aveva spezzato il cuore, incredulo e ferito di fronte a quella manifestazione di barbara ostilità. Era sangue del suo sangue, eppure lo aveva ripudiato. Doveva ritenersi fortunata che non l’avesse ancora ucciso? Dov’era l’amore di un padre per il suo bambino?
Dall’altro lato della barricata, il demone non sapeva bene come avanzare in quel terreno sconosciuto e accidentato. Non riusciva ad accettare che quel mezzodemone fosse suo figlio e portasse il suo nome di famiglia, ma non voleva nemmeno perdere l’amore di Rin. Trovare un compromesso, per lui che non conosceva il significato di questa parola, era un passo da compiere che gli costava immane fatica. E di fronte agli innocenti occhi castani del piccolo bastardo - perché tale era, e il destino beffardo gli aveva pure donato le iridi meravigliose della sua amata Rin - Sesshomaru si bloccava, incapace di prendere una decisione. O tutti e due, o nessuno dei due. Piuttosto che perdere il figlio, sarebbe stata Rin, insieme al mezzodemone, ad andarsene per sempre. Sarebbe morta anche, per quel figlio. Sarebbe andata in capo al mondo, per Yuu, ma non l’avrebbe mai lasciato a se stesso.
Con amarezza, aveva constatato che non aveva via di scampo. Perdere l’amore della donna della sua vita, o dover sopportare - e peggio, accettare, o addirittura imparare ad amare - quell’immondo esserino, riconoscerlo, dargli un nome e crescerlo, farne il proprio erede.
L’ironia amara della sorte che gli era toccata però gli impedì di scorgere i pensieri oscuri che agitavano l’animo di Rin. Non potendo sopportare più lo scherno e l’odio a cui era quotidianamente sottoposto il figlio, la donna aveva preso la sua decisione, e a farne le spese sarebbe stato soltanto il grande Sesshomaru. I suoi sensi infallibili e la vista pressoché perfetta non gli servirono per andare oltre quella cortina di dubbi e incertezze che s’era cucito addosso, come un vessillo, dichiarazione di eterno tentennamento, di amore non sufficiente per colmare quella grande voragine che gli si era aperta nell’animo - sempre che ne avesse avuto uno, come ormai Rin dubitava.
Avrebbe potuto perdonarlo, se solo si fosse impegnato nell’accettare il frutto del loro amore. Il rifiuto del demone di riconoscere ed amare Yuu era stato una coltellata in pieno petto, inferta con violenza brutale e crudele. Non era disposta a tollerare più quelle angherie.
 
 
Anche quello era un giorno d’inverno, come gli rammentava la sua memoria perfetta di demone maggiore, e la neve aveva già attecchito al terreno reso umido da un autunno piovoso e rigido. Anche il gelo siderale sceso nel suo cuore in quell’istante di consapevolezza lo accompagnò da allora in poi, come il dolore risvegliato e alimentato da quel ricordo.
Era un giorno di tardo autunno, quando Rin scomparve per sempre. L’aveva cercata a lungo, seguendo la traccia tenue del suo profumo delicato nel petricore dell’aria fredda. L’aveva cercata in ogni dove, con il presentimento terribile che il mondo stesse per crollargli addosso a gelargli il petto, dove sì, incredibilmente, perfino per lui, pulsava un cuore; arido, atrofizzato; di pietra, forse, ma aveva comunque una coscienza. Aveva anche lui dei sentimenti, sebbene non gli riuscisse ad interpretare quel caos emotivo che gli vorticava dentro. Non riusciva ad approcciarsi a quelle emozioni contrastanti senza risultarne terribilmente soggiogato, con grande delusione del suo orgoglio. Sentiva solo che avrebbe fatto di tutto per di ritrovare Rin, avrebbe accettato qualsiasi condizione, perfino imparare ad accettare e amare quel figlio mezzodemone tanto odiato.
Perché era Yuu il fulcro della scomparsa di Rin. Madre e figlio erano svaniti nel nulla, e Sesshomaru non riusciva a venire a capo di quel misterioso volatilizzarsi di due umani. La sensazione spiacevole che qualcosa di brutto fosse accaduto ai due non lo abbandonava da svariati giorni. E quando venne a capo dell’enigma, il lento battito di quel cuore appesantito da disprezzo e orgoglio cessò definitivamente.
Semi sepolta dalla neve, abbracciata al frutto del loro amore. Era così che aveva rinvenuto Rin, assiderata e appena cosciente. Approfittando della sua ennesima assenza, si era allontanata dal loro palazzo con pochi averi, mano nella mano con il piccolo Yuu. Allontanandosi il più possibile da lì, si era addentrata per lande desolate e boschi spogli e brulli, nascondendosi di notte nelle grotte e viaggiando di giorno fino allo stremo. L’incapacità di procacciarsi cibo, i morsi della fame e la rigidezza dell’inverno l’avevano spossata al punto di crollare a terra, nella neve, affondandovi lentamente. Le grida terrorizzate del figlio non l’avevano risvegliata, né i suoi tentativi di prestarle soccorso avevano sortito alcun effetto.
 
 
Nell’incoscienza della sua lunga agonia, alcuni lampi avevano interrotto la catatonia in cui la sua mente e il suo corpo erano intrappolati, Momenti veloci, istanti di tempo che le avevano permesso di comprendere, seppur vagamente, di essere al sicuro.
Nel delirio dei sensi, una mano fredda ma gentile le aveva spesso sfiorato la fronte, nel delicato tentativo di abbassare la violenta febbre di cui era caduta preda. Il contatto con quella cute fresca le dava sollievo, nonostante i pesanti sospiri, che di quando in quando percepiva nel silenzio assoluto della stanza, che le appesantivano il cuore di angoscia.
Sesshomaru non lasciò mai il fianco della sua amata, vegliandola giorno e notte, notte e giorno, dall’alba al tramonto e ancora fino all’aurora del giorno successivo, fino a che Rin non esalò l’ultimo respiro. Non poté salvarla, poiché ciò era al di fuori delle sue possibilità. Schiere di guaritori si alternarono al suo capezzale, senza che la sua amata ne traesse giovamento.
Il demone non realizzò subito la sua morte. Vide il suo colorito pallido farsi esangue, spegnendosi lentamente, e le sue membra rilassarsi finalmente, abbandonando la posa contratta che per giorni aveva affaticato quel corpo scosso da convulsioni violente. Il respiro si acquietò lentamente, rallentando il ritmo e facendosi sempre più debole, mentre il suo cuore, quel cuore umano tanto piccolo, eppure capace di amare così tanto, rallentava il suo battito. Nella silenzio dell’alba, quell’ultimo muscolo tacque per sempre, giacendo inerte nel petto che per anni era stato il suo rifugio sicuro. Perché anche un grande demone come Sesshomaru, nel segreto della sua intimità, aveva avvertito di quando in quando il bisogno di spogliarsi della sua maschera arrogante, snudando le sue fragilità e affidandosi alla consorte. Nonostante le sue convinzioni menzognere, era stata Rin a sostenerlo, punto fermo e fedele, fino quasi alla fine, nel breve percorso di vita che avevano condiviso.
Rin giacque fredda nel talamo per un tempo indefinito, quasi dilatato, potenzialmente infinito, prima che Sesshomaru uscisse dalla penombra luttuosa della camera. Lo sguardo lucido e ostile di due iridi calde e brune come la terra perforò le sue profondità ambrate, e per la prima volta il demone non riuscì a sostenere quell’occhiata. I suoi occhi sarebbero sopravvissuti nel frutto di quell’unione sfortunata, e l’avrebbero sempre guardato con odio. Yuu lo fissò ancora per qualche secondo, incapace di distogliere gli occhi dall’uomo a cui attribuiva la responsabilità della morte della madre, poi si precipitò correndo nella stanza, in uno scintillio silenzioso di lacrime amare.
Dopodiché, non lo vide mai più. Sparì per sempre, proprio come Rin.
 
 
Anche quel giorno la neve scendeva fitta, intaccando la terra gelata, nascondendo tutto sotto un manto cauto e asettico. Scostandone un mucchietto dalla lapide, la mano artigliata di Sesshomaru riportò alla luce tenue del tardo pomeriggio i due hiragana del nome di Rin, ripercorrendoli con lo sguardo dorato.
Non aveva portato fiori con sé, stavolta. La semplice tomba in cui Rin era stata riconsegnata alla terra che l’aveva generata appariva spoglia e anonima, anche se il demone era cosciente che là sotto giaceva la sua compagna umana. Le lacrime che avrebbe voluto versare rimasero ancora incastrate nella rima palpebrale, ostacolate dal suo orgoglio dirompente, e il suo cuore di pietra parve scaldarsi per qualche istante, battendo appena più velocemente, nel ricordo di quell’emozione violenta che era stata la perdita dell’amata sposa. Sesshomaru si concesse ancora qualche momento per contemplare quella pietra chiazzata di licheni, poi si elevò in alto, nel niveo turbinio del vento, voltando le spalle all’unico luogo in cui, per senso di colpa, per amore disperato, la sua anima era rimasta, intrappolata sottoterra, sola e condannata all’eterno dolore della perdita.
 
  
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