Anime & Manga > Haikyu!!
Ricorda la storia  |      
Autore: milkbreeeead    23/12/2020    2 recensioni
Era dominio pubblico, quel ragazzo; niente era più suo, nemmeno il neo che aveva all'altezza del ventre -che per inciso, conoscevo solo io, prima che accadesse tutto questo. Prima che Tooru Oikawa diventasse il ritratto del capitalismo nel ventunesimo secolo. 
Genere: Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Vedevo il suo viso ovunque, ormai. Sui cartelloni pubblicitari, in televisione facendo zapping tra i canali, tra le inserzioni scorrendo su Instagram, sulle copertine di giornali, riviste di moda, addirittura in quelle di giardinaggio, e qualche volta giuro di averlo visto sull'etichetta dell'acqua minerale. Odiavo la sua immagine, odiavo tutto di quei capelli intrisi di brillantina, il viso cosparso di cipria e gli occhi delineati da un sottile tratto di matita, il sorriso tirato come se fosse trattenuto da delle pinze; che fosse tutto in ghingheri nelle pubblicità di profumi, o con un adorabilmente disgustoso grembiule nelle pubblicità di utensili da cucina, o con un impermeabile giallo nelle pubblicità dei tergicristalli (sì, era arrivato anche a quello), risultava sempre più falso e impeccabile ai miei occhi. Era dominio pubblico, quel ragazzo; niente era più suo, nemmeno il neo che aveva all'altezza del ventre -che per inciso, conoscevo solo io, prima che accadesse tutto questo. Prima che Tooru Oikawa diventasse il ritratto del capitalismo nel ventunesimo secolo. 

Era sempre stato perfetto; non c'era nulla in lui che non andasse, dai ciuffi castani disordinati volutamente -per darsi un'aria più sbarazzina, diceva lui- alla punta delle dita affusolate, che avevano tracciato il mio corpo come nessun altro aveva mai fatto. Quelle mani le avevo impresse nella memoria, scolpite sul mio corpo, la loro impronta ancora bruciava in me come fuoco ardente; eppure, anche quelle non avevano più il copyright. Anche le immagini delle sue mani, quelle cui solo io e Dio sapevamo di cosa fossero capaci, mani che stringono, mani che sfiorano, graffiano, accarezzano, schiaffeggiano, adesso appartenevano a tutti gli occhi del Giappone, e probabilmente anche a quelli oltreoceano. Ciò che un tempo era mio adesso era disponibile a tutti. E lo odiavo.

A dispetto di ciò che tu possa pensare, io e Tooru non eravamo mai stati proprio nulla, in realtà, o quantomeno non ufficialmente; ogni tanto capitava che le nostre mani scivolassero l'una sotto la maglietta dell'altro e che ci stringessimo anche più volte in una sola notte, ed era il paradiso, anche se non l'avrei mai ammesso ad alta voce. Lasciavo che lui pensasse che fossero momenti di follia estemporanei, che non implicassero alcun sentimento, ma più andava avanti, più la verità iniziava a formicolare nelle sue orecchie. Una volta che eravamo da soli mi chiese se ero innamorato di lui; mi misi a ridere e lo presi in giro, perché era tipico di Oikawa essere convinto che tutti lo amassero. Tuttavia era terribilmente serio, e confessai, ma sminuendo la cosa, tingendola come una stupidaggine e liquidando la conversazione. 
Non ne parlammo più.

Eppure, non riuscivo a pensare ad altro che al fatto che fosse mio; e se non lo era platealmente, probabilmente lo era platonicamente. Quella pelle liscia, quella faccia da schiaffi, quel cipiglio di presunzione e quella voce squillante le sentivo mie, incatenate alla mia anima, anche se non c'era nessuna prova; e forse, mi ritrovai a pensare, era abusiva come situazione, prendere il possesso su di lui a sua insaputa, nascosto tra le mie coperte. Però io gliel'avevo detto, in qualche modo, anche se non aveva recepito. Ma cosa potevo fare, minacciarlo? Puntargli una pistola alla testa, tenerlo in una scatola, nel taschino della mia camicia? Per lui sono stato qualsiasi cosa possa venirti in mente, ma mai un amante. Era la verità. E se lui doveva accettare il fatto che io lo amassi, io dovevo accettare il contrario.

Però... il Tooru Oikawa delle pubblicità, dal sorriso smagliante, dagli occhi luminosi e le guance piene, e il corpo tonico, e le mani affusolate, no, non era lui il mio Oikawa. Non lo sarebbe mai stato, e io odiavo quell'uomo, e odiavo me stesso per aver lasciato che diventasse tale. Avrei potuto... non so cosa avrei potuto fare, a dire il vero. Se avessi fatto qualcosa, lo avrei ferito, e sapevo che lui non me lo lasciava mai intendere quando lo facevo, quindi non l'avrei mai capito a meno che non me lo avesse detto lui: mi guardava con gli occhi più tristi che avessi mai visto, sospirava, e li stringeva forte, quasi a cancellare la persona davanti a sé. Poi mi abbracciava, come se fossi io la persona da rassicurare. Che codardo! Pur di non rovinare il rapporto tra noi avrebbe fatto di tutto. E non fraintendere, anche io, ma non mi sarei tenuto tutto dentro come faceva sempre lui. Lo aveva fatto tante volte e ne era uscito sempre a pezzi.

Era difficile da sopportare il fatto che io, per impedirlo, non avrei potuto muovere un dito, perché era esattamente quello che voleva diventare una star. Voleva essere al centro dell'attenzione, voleva le luci della ribalta su di lui; per questo si era iscritto a un corso di teatro, e aveva passato anni ad alternare pallavolo, teatro e scuola, compiendo un milione di sacrifici, spesso esausto, spesso spossato, spesso al limite; ma non si era arreso mai, e adesso era su quegli schermi, e io non avevo il diritto di strappargli un sogno. Ero il suo migliore amico, e l'avevo sempre sostenuto in un modo o nell'altro: come avrei potuto fare ciò al ragazzo che amavo? Era da meschini, da ingrati. Nel suo piccolo, anche lui mi aveva dato tanto. Non quello che volevo, naturalmente, ma quello di cui avevo bisogno.

E lui, a costo di inseguire i suoi sogni, aveva fatto i conti col perdermi, forse per sempre. Non avrei mai saputo cosa ne pensasse; dopotutto, non ci vedevamo da anni e lo sentivo veramente di rado. Non mi cercava più. Ero solo un vecchio ricordo nel cassetto, da riesumare solo quando la nostalgia faceva capolino. E Dio, se mi mancava. Non c'era un secondo in cui la mia mente non si posasse su di lui, sui giorni e le notti passati insieme, sul suo tocco docile, attento, ma anche irruento quando era su di giri. Sulle sue labbra soffici. I suoi batti cinque. Le sue mani intrecciate alle mie, le nostre gambe l'una sopra all'altra, le sue ciocche castane tra i miei polpastrelli, il suo sorriso sul mio. Niente di tutto quello era reale, forse. O perlomeno, lui non voleva che fosse così, evidentemente.

Volevo che mi telefonasse. Lo desideravo disperatamente. Volevo che alzasse la cornetta e mi dicesse che contavo ancora qualcosa per lui. Mi sarei accontentato anche se non mi avesse chiesto scusa per essere sparito per due anni. Anche se mi avesse usato. Anche se mi avesse piantato in asso come un allocco. Non mi interessava più; volevo solo vederlo, sentire la sua voce dal vivo, non ottimizzata e filtrata da un qualche computer. Volevo quella voce che era mia nella mia mente. E mi chiedevo spesso cosa facesse mentre io svolgevo le mie mansioni quotidiane, se stesse registrando, o se si stesse rilassando tra donne dalle dolci forme e sorbetti al limone su qualche isola caraibica. Se gli mancassi, almeno un pochino.

Probabilmente non l'avrei mai saputo, se non fosse andata com'era andata quella sera.
Era una come le altre, inverno, notte buia nel cielo, giacca gettata distrattamente per terra, una sigaretta spenta in un posacenere ormai freddo e una pizza surgelata che girava nel microonde. Io ero rivolto verso la finestra, osservando il brullo paesaggio urbano sotto i miei occhi senza particolare attenzione. Dopo una giornata passata oscillando tra lezioni universitarie, lavoro part-time e studio intenso, ciò che più desideravo era distendermi sul mio scadente divano, accendere la televisione e guardare una partita di pallavolo sorseggiando la mia cara vecchia birra, che mi aspettava con ansia nel mio frigorifero. Alzai lo sguardo sull'orologio al muro: erano le dieci meno venti. Il microonde trillò insistente, annunciandomi che la mia cena era pronta.
Mi sollevai dal divano e feci per dirigermi verso la cucina, ma il campanello mi impedì di muovere un qualsiasi altro passo. Chi mai sarebbe venuto a farmi visita a quell'ora? Non ricordavo di aver nulla in programma. Mentre deviavo verso la porta d'ingresso, elaborai mentalmente un'ipotesi su chi potesse cercarmi a quell'ora. Magari era un testimone di Geova, o un malintenzionato, o forse solo il portiere che, essendosi dimenticato di passare prima era venuto a portare giù la spazzatura.

Ma mai avrei immaginato che dietro quella maledetta porta ci fosse Tooru Oikawa in persona, la stella nascente del cinema giapponese.

Quando lo vidi trasalii, e un moto di rabbia per poco non mi fece sferrare un pugno contro quel viso liscio. Lui era lì, aveva gli occhi gonfi di pianto e guardava per terra. Non era troppo diverso da quando lo avevo visto l'ultima volta, forse perché aveva raggiunto il massimo della sua umanità in quel momento, cosa di cui non lo ritenevo capace. Buttai la testa all'indietro, perché non sapevo proprio cosa dire, e sperai non si notasse che mi tremavano le gambe.
"Che cosa cazzo ci fai qui?" gli chiesi, sibilando. Lui evitò il mio sguardo, prendendo un respiro tremulo. "Posso entrare...? Capisco se non vuoi. Non ti prenderò molto tempo".

Sospirai rassegnato, perché ormai in quella faccenda c'ero fino al collo, e lo feci accomodare. La pizza fumante restò abbandonata nel microonde. Lui si sedette sul divano sgangherato mentre io richiudevo la porta e trovavo posto al suo fianco. Lo guardai con aria spazientita e interrogativa mentre lui si asciugava le lacrime e tentava di mettere in ordine i propri pensieri. Lo incalzai: "E allora? Qual buon vento ti porta a casa mia, dopo non avermi dato più tue notizie in due anni? La fama ti sta dando alla testa?"

Lui deglutì. "Non so da dove iniziare, Iwa."

"Non farlo e basta, se non sai cosa dire" Non sapevo perché fossi così rude, ma avevo tanti motivi per essere arrabbiato con Tooru, e lui li conosceva tutti.

"Ti devo delle scuse" mormorò, stringendosi nelle spalle. Lo guardai strabuzzando gli occhi e sollevando un sopracciglio, con sarcasmo. "Ah, davvero?"

"Non fare il difficile proprio adesso, Hajime! Lasciami parlare" io annuii, allargando le mani e lasciandole ricadere sulle ginocchia. "Hai carta bianca".

"Tu sai che sono sempre stato un idiota. Per raggiungere i miei obiettivi ho sacrificato tutto, davvero qualsiasi cosa, dalla mia salute mentale ai miei affetti, tu compreso. Per anni ho finto che mi andasse bene, ho celato come stessi tante di quelle volte. Le menzogne, con te e con tutti, erano all'ordine del giorno. Sai cosa facevo quando saltavo gli allenamenti, usando come scusa il fatto che avessi delle prove o altre stronzate del genere? Tornavo a casa, mi buttavo sul letto e piangevo. Parecchio, a lungo. Perché non sapevo cosa stessi facendo della mia vita. A cosa mi sarebbe servito quel duro lavoro al corso di teatro? A niente, come del resto non è servito al club di pallavolo. Stavo anche rovinando i rapporti con te, avrei voluto romperli, specialmente perché... beh... è capitato che facessimo quelle cose. Ti ho tagliato fuori per dedicarmi intensamente e interamente a me stesso e ne sono terribilmente pentito, specialmente adesso che ho fatto il mio debutto in tivù e che sono diventato noto. Sono così stanco, Iwa! Sono stanco di dover tagliare fuori i miei amici per mancanza di tempo, sono stanco di me stesso, del mio lavoro, della mia faccia che compare ovunque io sia. Mi sono montato la testa, e sono qui per ricordarmi chi ero. Tutto qui. Non voglio il tuo perdono, voglio solo stare un attimo per i fatti miei senza avere i fari puntati addosso".

Poggiò la testa tra le mani e io sospirai. "Mi hai fatto male, Oikawa. Mi hai fatto veramente male. Mi avevi promesso che ci saremmo visti spesso, che la domenica saresti tornato a casa a salutarmi, che mi avresti fatto vedere Tokyo; ma quando sei partito, ti sei volatilizzato. Scomparso! E non dirmi che era per mancanza di tempo, perché a scrivermi un messaggino ci metti due secondi. Mi sarei accontentato di quello! Invece non mi hai degnato di una parola quando ho provato a scriverti, mi hai risposto a monosillabi. Non sono disposto a perdonarti, perché non ho dubbi che tu ti sia impegnato per la tua carriera, ma non l'hai fatto per me. Non te lo sto dicendo perché mi importi di come mi hai trattato, ma perché voglio che tu ti renda conto che ti stai facendo del male così. Sei felice?"

Lui scosse piano la testa. "Come immaginavo. L'hai capito che così ti stai mettendo i bastoni fra le ruote? Che evitando i problemi non risolvi nulla?"

"Sì, lo so" disse flebilmente.

"No che non lo sai, coglione. Caschi sempre negli stessi errori perché pensi che tenerti tutto dentro faccia stare meglio te e gli altri. Beh, non è così! Sai che sapevo perfettamente quando andavi a piangere e quando andavi davvero alle prove? Lo capivo all'istante, dal modo in cui mi guardavi quando me lo dicevi: quando scappavi a casa, i tuoi occhi erano spenti, e costringevi un sorriso identico a quello che vedo ora nelle pubblicità e nei programmi televisivi. E mi fa schifo, se posso dirtelo. Perché quel sorriso non avrei mai voluto conoscerlo; eppure, mostravi più quello che i tuoi veri. Sei sempre così falso, Oikawa! Pensavo che con me fossi diverso, ma hai sempre mentito".

Oikawa restò in silenzio a tirare su col naso, e io stavo iniziando seriamente a incazzarmi. Sentivo le tempie pulsare e il sangue pompare rapido e affluire alle guance, mentre il mio cuore galoppava all'impazzata.

"Visto? Lo stai facendo di nuovo. Resti in silenzio pensando di meritarti tutto quello che ti sto dicendo".

"Forse è così".

"No che non lo è!" tuonai, facendolo sussultare dallo spavento. Lo guardai negli occhi densi di lacrime, e chiesi piano scusa per i toni, poi proseguii: "Non puoi lasciare che ti tratti così! Vuoi svegliarti?"

"Non voglio litigare con te, Hajime" replicò in un sussurro.

"Lo stai già facendo".

"Non ribatterò" da bambino faceva sempre così; qualcuno gli aveva detto che non rispondere alle offese equivaleva essere superiori, e lui lo aveva preso fin troppo sul serio. Quando me la prendevo con lui si chiudeva in se stesso e non mi parlava fino a quando non si sentiva in colpa e mi veniva a chiedere scusa anche se avevo torto. Era il suo modo instabile di tenere in piedi le cose.

"Dio, non comportarti come un idiota e affrontami!"

"A cosa servirebbe, di preciso?"

Per non tirargli un pugno mi alzai in piedi e mi misi a camminare avanti e indietro per la stanza.
"Sei un vigliacco. Credi che questo rispecchi la tua personalità?"

"Sì, abbastanza. E ti dirò un'altra cosa da vigliacchi: stavo piangendo perché ho rifiutato un ruolo importante, prima che venissi qui. Sai, uno di un film con gente famosa. Avrei potuto fare un figurone, spaccare gli schermi. Però ho pensato a cosa avresti pensato tu se l'avessi fatto, ho pensato a come ti avevo trattato negli anni, a come odiassi la mia faccia finta su quegli schermi e ho rifiutato. Non ero neanche ubriaco. Ho solo creduto di doverti qualcosa di più delle scuse. Magari tornare indietro, tornare a essere la persona a cui hai voluto bene" 

Non ci vidi più. Come cazzo, perché cazzo aveva fatto una stronzata del genere?! Come gli era saltato in mente? Rifiutare un ruolo talmente importante per me? Provavo solo disgusto verso di lui, un disgusto radicato e dilaniante. Aveva sempre quell'aria remissiva che mi faceva venire voglia di tirargli una marea di schiaffi, ma non lo feci, più che altro perché ero sconvolto e confuso, e mi tremavano le mani.

"Avrei voluto che accettassi quel ruolo, Tooru."

"Non è così".

"Sì invece!" Esclamai, attirandolo a me per il colletto della maglietta. Avevo la voce salda, ma le lacrime come pozze salate si allargarono al margine dei miei occhi. "Credi che avrei voluto il tuo male? Lo credi davvero? Non hai capito proprio un cazzo! Pensi sempre a te stesso, in un modo o nell'altro: sei tu che non volevi il ruolo, perché l'Hajime Iwaizumi che conosciamo non avrebbe mai desiderato che tu rifiutassi un ruolo talmente importante per te! Ho sempre sperato per il meglio anche se mi sei stato lontano, e tutto questo perché? Perché sono masochista? No, è perché ti amo!" non appena lo dissi, lo lasciai andare e mi tappai la bocca con le mani, quasi a ricacciarmi le parole al suo interno. Una lacrima, e poi un'altra, e un'altra ancora. Non avrei voluto piangere, e mi sentivo così stupido a farlo davanti a lui. Ero un stupido. Avevo appena rovinato anni e anni di amicizia, e un moto di vergogna mi scosse da cima a fondo; avvertivo i suoi occhi su di me come spade conficcate nel petto, ed evitai il suo sguardo sbigottito. Lui restò in silenzio per qualche istante. Poi, fece per parlare, ma lo interruppi prima che potesse dire qualcosa: "È meglio che tu te ne vada".

"Ma... Iwa..." disse lui, allungando una mano verso il mio viso, che io schiaffeggiai nel respingere e lui se la portò al petto. Temevo di avergli fatto male, ma ero troppo scosso per chiedergli scusa. "Credo di essere stato chiaro. Fuori di qui! Adesso!" sbraitai, dirigendomi a passo veloce alla porta. Lui singhiozzò, e senza dire una parola si dileguò, lasciandomi solo a torturarmi per aver perso le staffe in quel modo bruto.

La pizza era gelata, l'orologio segnava le undici. Ma non avevo né fame né sonno. Solo, una gran voglia di non vederlo mai più.

Nei giorni seguenti, Tooru tentò disperatamente di contattarmi. Mi scrisse qualche breve messaggio su Whatsapp in cui mi chiedeva di vederci per chiarire, che ignorai, bloccandolo. Provò allora sugli sms e mi telefonò anche, ma lo misi nella lista nera dei contatti; fece un ultimo tentativo su Instagram, ma anche lì non ricevette responso. Per qualche giorno stetti in santa pace, ma lo vedevo letteralmente dovunque, e anche se non ricevevo più messaggi da lui la sua immagine raffigurata in ogni angolo della città non faceva altro che riportarmi alla mente ciò che gli avevo detto quella sera d'inverno, e mi rimproveravo per averlo lasciato andare in quella maniera. Avevo desiderato così tanto che tornasse! Perché mi ero comportato in quel modo? Avrei dovuto abbracciarlo ed essere grato che stesse bene. Magari offrirgli un po' della mia pizza surgelata e dividere la birra. Avrei potuto lasciare che si addormentasse sulla mia spalla e spostargli la frangia castana per poggiare un bacio sulla sua fronte, prenderlo in braccio e farlo adagiare sul mio letto, accanto a me, e stringerlo come tanto mi piaceva fare quando eravamo ragazzini. La mattina mi sarei svegliato in contemplazione e gli avrei accarezzato i capelli facendo attenzione a non svegliarlo, e magari l'avrei baciato un'altra volta. E sarebbe andato tutto bene.

Ma no, dovevo sempre rovinare le cose. Ero io il problema, lo ero sempre stato, io e la mia difficoltà a gestire la rabbia, che prendeva possesso di me e non mi faceva più pensare lucidamente, che distruggeva tutti i rapporti che intessevo con le persone. Ero io la falla in quell'algoritmo perfetto che avremmo potuto essere io e lui, io il piede difettoso, io la ruota bucata. E cosa avrei potuto farci? Un bel nulla, era nella mia natura. Sarei sempre stato il brontolone di turno, che per una minima cosa se la prende, quello a cui tutti dicono di non infuriarsi per un nonnulla, quello che nessuno sa ascoltare, perché chi mai ti ascolterebbe sfogarsi per una cavolata come essertela presa con un amico perché non apprezza le stesse cose che apprezzi tu? Risposta: nessuno. Eppure, tutti vogliamo qualcuno che ci ascolti; o meglio, lo meritiamo. Ma le mie parole erano sempre state vane, in qualsiasi caso.

Non biasimavo Oikawa per avermi abbandonato, in fin dei conti. Forse, aveva avuto le sue ragioni. E le accettavo. Ma avrei voluto che mi avesse ascoltato, qualche volta.

Una domenica mattina, a quattro giorni di distanza dall'accaduto, fui svegliato dal trillare del campanello di casa. Avvolto nelle mie calde coperte, borbottai qualche ingiuria e mi stiracchiai, mettendomi in piedi con calma; controllai l'orario e gettai insulti di nuovo, perché chi mai sarebbe venuto a rompere le scatole di prima mattina, specialmente la domenica? Poi il campanello trillò di nuovo, e urlai di rimando: "Sto arrivando, cazzo!" infilandomi le pantofole e andando alla porta; sbadigliai e chiesi chi fosse.
"Tooru" rispose una voce parecchio familiare. Il mio cuore perse un battito. 

"Vattene via" sibilai a denti stretti. Lui sospirò. "Abbiamo una faccenda in sospeso, ti ricordo. Non vorrai mica comportarti come il sottoscritto ed evitare i tuoi problemi" Purtroppo, aveva ragione: non sarei mai caduto talmente in basso per orgoglio. E se aveva qualcosa da dire, la dicesse pure. A differenza sua, avevo orecchie rivolte interamente a lui.

Gli aprii la porta, invitandolo cortesemente a entrare; lui mi dedicò un sorriso di circostanza e mi salutò con un cenno della testa. Indossava un pesante cappotto invernale bianco, un lupetto nero e dei jeans; abbastanza modesto, per una star del cinema. Il cappotto non sembrava neanche particolarmente costoso; non si direbbe, da un attore che abitava nel quartiere di Shibuya a Tokyo. In mano, aveva un piccolo mazzo di fiori, e quasi mi sentii arrossire al pensiero che fossero per me; poi ritornai in me, constatando che probabilmente erano per sua madre o per qualche ragazza che stava lì nei paraggi, e che dopo essere passato da me sarebbe andato a recapitare i fiori alla fortunata destinataria. Me li porse, richiudendo la porta dietro di sé.

"Questi sono per te. So che non ti piacciono le smancerie, ma volevo scusarmi in qualche modo per piombare qui senza preavviso di domenica mattina, e per averlo fatto l'altra sera".

"Splendidi" ribattei "Starebbero benissimo nella mia pattumiera".

Lui sospirò. Lo stavo facendo di nuovo. Si tolse la giacca e la pose sull'appendipanni; lo invitai a sedersi in salotto e per cortesia gli chiesi: "Vuoi un caffè? Devo ancora fare colazione"

Lui scosse piano la testa. "Va bene, lo farò per me, aspettami lì" mi diressi in cucina, il cuore che batteva all'impazzata. Stavo solo guadagnando tempo per calmarmi e non farmi prendere dal panico; non volevo che succedesse ciò che era successo quattro sere prima. Non volevo più vederlo piangere, e non volevo più che mi vedesse piangere. Non dovevo scompormi; dovevo mostrarmi forte.
Ma cosa importava, a quel punto?

La macchinetta del caffè iniziò a versare il liquido bollente nella tazza, segno che in pochi secondi sarei dovuto tornare in quel dannato salotto e fronteggiarmi con lui. Inspirai profondamente, presi una tazzina e tornai da Tooru, che intanto si torturava le mani e molleggiava con una gamba, cose che faceva quando era parecchio nervoso. Sorseggiai il caffè e mi sedetti al suo fianco, a debita distanza. 
"Allora? Cos'è che devi dirmi?" lo incalzai. Aveva gli occhi fissi per terra, incapace di sostenere il mio sguardo. "Prima, volevo chiederti se tu avessi qualcos'altro da aggiungere".

Soffocai una risata sarcastica. "Penso di averti detto tutto, l'altro giorno".

Lui annuì. "Io volevo chiederti scusa. Per tante cose, davvero troppe. Non ho giustificazioni per quello che ti ho fatto, né per quello che mi sono fatto. Sono fin troppo impulsivo, a volte".

Scrollai le spalle. "Puoi dirmi qualcosa che non so, per favore?"

"Più che altro volevo parlarti di quello che mi hai detto l'altro giorno."

"Che sei un vigliacco?" Non sarei mai sceso a confessare ciò che voleva che confessassi, anche a costo di rendermi ridicolo. Lui scosse la testa.

"Quello che hai detto dopo".

"Che volevo che avessi quel ruolo...?"

"Dio, non facciamo questi stupidi giochetti. Sai a cosa mi riferisco".

Sbuffai. "Ero incazzato e mi è scappato. Tutto qui" Per la prima volta, Oikawa mi guardò in faccia, sorridendo triste. Era così... stanco. Non so come altro descriverlo; curvo, l'aria mogia, occhiaie nere come la pece e i capelli più scombinati del solito, come se non se li fosse pettinati. Aveva anche un principio di barbetta lungo la mascella. Era strano che non si prendesse cura di sé: era davvero molto legato al suo aspetto esteriore, e solo quando era emozionalmente provato perdeva la voglia di sistemarsi. Sentii il mio cuore piegarsi sotto quella vista: c'era stato male, forse sul serio. 

"Ma è vero, no?"

Mi morsi il labbro e annuii. "Non ho mai detto che non fosse così".

Lui allungò una mano per carezzarmi il viso, e inizialmente avevo intenzione di respingerlo, ma poi gli permisi di toccarmi. Era piacevole, anche se le sue dita erano fredde, e mi feci coccolare un po' da lui in silenzio. Mi faceva male il petto. Poggiò anche l'altra mano sulla mia guancia e mi attrasse in un abbraccio, che ricambiai, dopo qualche istante di esitazione. Mi venne da piangere, ma non volevo lasciarmi andare; tuttavia, le sue braccia parevano così accoglienti, mi invitavano quasi ad abbandonarmi e togliere tutti i freni inibitori che mi costringevano a restare saldo. E le avevo desiderate per così tanto tempo che non riuscivo nemmeno a capacitarmi che fossero le sue. Volevo dirgli che lo amavo, ma avevo paura di infrangere la pace di quell'istante.

Poi, lui sciolse l'abbraccio e mi prese nuovamente la testa tra le mani, descrivendo cerchi col pollice sulla mia guancia. Respiravo a malapena, cercavo disperatamente le sue labbra, volevo che mi baciasse; ma sapevo che non sarebbe stato vero. E quando lui si estese per poggiare le labbra sulle mie, dissi: "Non devi costringerti". Si fermò a metà strada, sorpreso.

"Non mi sto costringendo".

"Invece sì. Vuoi solo qualcuno che ti ascolti, non me".

Lui sorrise. "Pensi che sarei rimasto ore sveglio a riflettere su quello che mi hai detto se non ti volessi? Senti, Iwa, mi sono innamorato tante volte dell'idea di qualcuno, più di quante immagini. Ma di te... Non so, forse l'ho sempre saputo, dalla prima volta in cui ti ho baciato, dalla prima volta in cui ho lasciato che facessi scivolare la tua mano tra le mie gambe. L'ho capito solo adesso, e magari è troppo tardi, però-" lo interruppi premendo le mie labbra sulle sue, e fu come una bomba nel silenzio: mi sentii devastato, sopraffatto da quell'emozione, che tanto aveva aspettato reclusa nei meandri della mia anima. Un brivido mi percorse la schiena, e mi staccai per ammirarlo nella sua confusione: aveva le guance arrossate e gli occhi un po' lucidi.

"Hai sempre parlato troppo" mi giustificai; lui scosse la testa e ricambiò il bacio, accarezzandomi i capelli e stringendomi a sé con prudenza, come se fosse ancora impaurito dalla mia figura. Feci scivolare le mie mani sulle sue guance; lui sorrise contro le mie labbra e si staccò per dirmi: "Mi ero dimenticato quanto ti puzzasse l'alito la mattina" io risi e lo baciai di nuovo, poi risposi per le rime: "Il tuo fa schifo sempre".

"Come sei cattivo!" esclamò, per poi sfiorare con la punta del naso il mio e accoccolarsi contro la mia spalla, ed io iniziai ad accarezzargli la schiena. "Era da tanto tempo che non mi sentivo così. Sono stato con parecchie persone in questo tempo cercando un tuo surrogato, ma nessuna, insomma..."

"Era come me? Sì, hai ragione. Posso capire" Mi misi a ridere e gli sferrai uno scappellotto sulla nuca, facendolo guaire di dolore. "Mi hai fatto male!"

C'era ancora un quesito che mi ronzava in testa. "Posso chiederti un'altra cosa, Tooru? Senza nessuna offesa, non sto cercando di litigare".
Lui annuì. "Dimmi".

"Perché non mi hai più scritto dopo che sei partito?" Lui mi cinse con le braccia. "È perché già sapevo di piacerti. E sapevo anche che tu mi piacevi. Ho pensato che non avrei avuto il tempo necessario di starti vicino -cosa effettivamente vera- ed ero convinto che saresti rimasto ferito. Pensavo che sparendo avrei migliorato le cose, ma avevo fatto male i calcoli".

"Lascia la matematica a qualcun altro" Gli consigliai, arruffandogli i capelli. Eravamo quelli di sempre, era come se mi avessi riportato indietro nel tempo, nel momento esatto in cui ti avevo guardato con astio e avevo pensato: 'odio questo bambino'. Eravamo gli stessi di quando avevo chiuso le mie mani sulle tue e ti avevo chiesto di darmi un bacio solo per provare, gli stessi di quando avevo finto di essere ubriaco per baciarti di nuovo, gli stessi di quando l'avevamo fatto per la prima volta, gli stessi di quando mi avevi chiesto se ti amassi. Forse, saremmo cambiati, o forse lo avevamo già fatto. 
Ma era bello pensare che quello che c'era tra noi sarebbe rimasto sempre allo Square One.

S.A.
Ciao a tutti! Credo di dovere delle presentazioni, visto il mio arrivo su questa piattaforma. Mi chiamo Fede e finora ho solo scritto su Wattpad; infatti, questa one-shot è tratta da una mia raccolta. In questo momento ho una fissazione che va sul patologico su Haikyuu e dunque eccomi qui a scrivere sulla Iwaoi! Questa one shot è ispirata a una canzone della mia band preferita, i Coldplay. Spero vi sia piaciuta! :)
   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Haikyu!! / Vai alla pagina dell'autore: milkbreeeead