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Autore: Ciuscream    10/01/2021    10 recensioni
E poi aveva capito: a cosa serve diventare un Mangiamorte, se qualcun altro ti mangia la vita? A cosa serve eccellere, se ogni trionfo non può essere condiviso? A cosa serve essere un Principe, se il peso della corona pesa su una sola, untuosa, testa?
[Storia partecipante al contest “A Farewell to…Contest” indetto da CatherineC94 sul forum di EFP]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James Potter, Lily Evans, Severus Piton | Coppie: James/Lily, Lily/Severus
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Dispari
“Son felice che tu sia tornata, ero certo che mi avresti salvato”
 
 
La sua vita – una morsa allo stomaco lo avviluppava, pensandoci – era scandita, senza rimedio, da un prima ed un dopo. Lo spartiacque non era stato un salvatore celeste ma piuttosto una salvatrice scarlatta, scarlatta come le onde morbide dei suoi capelli. Non gli sembrava di essere mai esistito, prima di perdersi nel labirinto di quegli occhi verdi. Era solamente l’ombra di un bambino non voluto, non amato, avvolto in un grigiore talmente denso da sembrare nebbia. Quella nebbia con cui inizia novembre, che preannuncia le giornate gemere e scemare nel buio, fino a perdercisi. Ma lei no, lei era il sole. Il sole che dirada la foschia, quella luce che acceca ed accende i colori. Era arrivata a portare la primavera nell’autunno che era la sua esistenza. Lo aveva capito anche se era solo un bambino o, forse, appunto, perché era solo un bambino.
Nella sua breve vita tutto era stato duale: c’erano i maghi ed i babbani, la magia ordinaria e la magia oscura, suo padre contro sua madre, la sua famiglia e le altre. Lui, invece, si sentiva solo, scompagnato, spaiato. E lo era; lo era stato, almeno. Fino a che quella bambina era volata giù dall’altalena, calando a terra – e nella sua vita – con la grazia delle cose eteree, impalpabili. E lo aveva sottratto alla solitudine, lo aveva salvato da una vita da dispari.
Erano fiorite esperienze, emozioni e confessioni, in quei mesi infantili. Lui le aveva aperto le porte del mondo magico, lei gli aveva semplicemente aperto le porte del mondo. Si sentiva meno torbido, accanto a quella purezza. Si sentiva meno diverso, accolto in quella tolleranza sconfinata. Si sentiva meno acre, contaminato da quella dolcezza ingenua.
 
Allontanarsi da lui era stato un processo che Lily aveva compiuto a piccoli passi inconsapevoli. In punta di piedi, dallo Smistamento in poi, la luce che era solita donargli si era andata affievolendo. Il sole si era fatto mesto, era scolorito, degradato. La luce che lei ora gli riservava era quella di una lampada polverosa, incapace di brillare, così coperta da scorie di sporcizia. Aveva lasciato la sua vita in una penombra che gli era ostile, che lo lasciava senza sufficiente fiato per proseguire, a boccheggiare. Si era sgretolato piano piano, come l’intonaco ammuffito dall’umidità di novembre, nelle case che non vedono mai il sole troppo a lungo. Ma poi era diventato frana, una frana che si era trascinata dietro, al suo passaggio, pezzi della sua interezza, di quel senso di completezza infantile che lo aveva beato di una smisurata, sconosciuta fino a quel momento, felicità.
E poi era stato lui un giorno, con la sua furia, a spegnere la luce.
Quando la rabbia sale alle labbra, parla prima che possano parlare cuore, cervello e mani. Glielo aveva urlato, guardandola in quegli occhi smeraldo. Glielo aveva urlato mentre lei era arrivata lì, a salvarlo, come aveva sempre fatto per tutta la sua vita. Dall’oblio, dalla solitudine, dallo scherno, da James Potter. Glielo aveva urlato, perché non poteva dirottare altrove quello che adesso lo inondava di dolore. Glielo aveva urlato. Sanguemarcio. E il suo mondo era caduto nell’ombra.
 
 
I giorni che passavano senza di lei avevano la lentezza delle ere, la pesantezza dei macigni. Non avrebbe mai creduto – in una vita passata a vedere gli altri come orpelli – di bramare così tanto il perdono. Glielo aveva già negato, una volta. La Signora Grassa era ricomparsa e Lily le era sparita dietro, mostrandogli la cascata di capelli di rame. Tu hai scelto la tua strada, io la mia. Ma lui non aveva idea di quale fosse la sua strada, se lei non la percorreva al suo fianco.  
Nel clamore della Sala Grande agghindata a festa per Halloween, le risate gli perforavano le orecchie con la furia chirurgica di un bisturi. Erano taglienti, fastidiose, tentava di allontanarle con cenni ripetuti e bruschi del capo. Insetti malvagi da scacciare, maledire.
E poi, nella moltitudine nera delle vesti di Hogwarts, erano comparsi loro e le risate si erano fatte grida, si erano tramutate in fischi, si erano sciolte in applausi. La squadra di Quidditch di Grifondoro, fulgente nelle vesti scarlatte e dorate, era comparsa in Sala Grande con la baldanza che era loro tipica. La fresca vittoria contro Serpeverde doveva essere ostentata, sbandierata, anche lì, anche in quel momento, di fronte alle centinaia di occhi curiosi. Così arroganti, così sguaiati, dai colori così accesi. Accesi come quelli dei capelli morbidi e lunghi che scorse, fra le mani intente ad applaudire. Lily applaudiva. Lily sorrideva. Sorrideva di quei sorrisi che a lui erano stati negati. Li donava ad un manipolo capitanato da James Potter, con il suo perenne boccino fra le mani. Lo allontanava e avvicinava con un movimento che gli ricordò tremendamente un gioco babbano con cui si divertiva sempre Petunia. Aveva la nausea.

 
Ed era fuggito.
 
Dove vai quando quella che credevi la tua casa si tramuta in una trappola e ti ingoia, ti schiaccia? Dove vai quando la persona a cui doneresti la tua eterna fedeltà, ti mostra la nuca e volge il sorriso ad altri sguardi? Era fuggito. Sgattaiolato dalla Sala con il silenzio di un serpente, in una camaleontica dipartita. Aveva camminato per i corridoi per quelle che gli erano sembrate lunghe e macilente ore, in cui non era riuscito a pensare a nulla. Il brusio gli premeva sui timpani, quasi la sua vita fosse stata vittima di un muffliato di proporzioni cosmiche.
E poi aveva capito: a cosa serve diventare un Mangiamorte, se qualcun altro ti mangia la vita? A cosa serve eccellere, se ogni trionfo non può essere condiviso? A cosa serve essere un Principe, se il peso della corona pesa su una sola, untuosa, testa?
Era corso nei sotterranei, al dormitorio, aveva frugato nel baule quasi cercasse l’antidoto ad un veleno che lo avrebbe ucciso nel giro di pochi minuti. Aveva scavato dentro i suoi libri e le sue vesti, dentro sé stesso, per trovare le parole giuste per spiegare quello che aveva bisogno di vomitarle addosso. Tremavano le mani mentre trovava la pergamena e la sporcava di poche parole 
 l’inchiostro schizzava di chiazze scure, quelle del suo dolore e della sua supplica  e riempiva quelle striminzite righe. Era volato via, poi. Aveva attraversato i corridoi senza fine che separavano la Sala Comune di Serpeverde da quella di Grifondoro. Si era nascosto lassù, sulla Torre. Aveva atteso. Aveva atteso e tra le mani teneva quello che gli sembrava il suo destino: una pergamena, un nastro ed un fiore che era legato alla stessa. Era identico a quello che lei, da bambina, aveva fatto sbocciare e ondeggiare fra le sue dita, mentre lui la spiava da dietro un cespuglio. Come adesso spiava da dietro quell’armatura e il fiore prendeva vita fra le sue dita ossute e giallastre. Aveva atteso. Sciami di divise nere erano rientrate, ancora festanti, dalla Sala. Inebriate di cibo e risate, li sentiva lontani da lui di un centinaio di universi. Aveva atteso. La Signora Grassa già sbadigliava e lui attendeva. Le mani sempre più strette su quella pergamena, tanto da accartocciarla in pieghe sempre più profonde man mano che trascorrevano i minuti. Aveva atteso. Lei non era comparsa, non aveva riconosciuto quella matassa ramata fra le tante teste che avevano attraversato il ritratto. Aveva atteso. La paura gli attanagliava lo stomaco in una morsa letale, strizzandolo. Dov’era? Si era alzato di scatto, aveva evaso il suo nascondiglio per andare a cercarla. Dov’era?
E poi, dopo secondi di bruciante panico, l’aveva vista: in un corridoio adiacente, mentre i suoi passi frettolosi zampettavano nel silenzio della sera, l’aveva vista. Era di spalle, rideva. La sua risata cristallina lo aveva raggiunto con la forza del primo raggio del mattino, di quel sole che ti allaga e ti stropiccia gli occhi con la sua forza letale, da dietro le persiane. In un secondo, il suo stomaco si era allagato dell’azione benefica della sua presenza, si era intorpidito di piacere. La presa sulla pergamena, e sul suo cuore, si era allentata.
Ma era stato un solo, illusorio, attimo. Con il passo successivo messo in avanti per raggiungerla, aveva visto per cosa rideva, con chi rideva. James Potter stava di fronte a lei, ancora fasciato nella sua divisa da Quidditch, e le aveva allungato una mano verso il viso per scostarle dietro l’orecchio una ciocca di capelli. Il terrore, l’odio e il disgusto lo avevano gelato sul posto. Avrebbe voluto ucciderlo, squartarlo, dilaniarlo. Fargli del male. Costringerlo a restituirgli la sua luce.
Ma se ne rese conto in un secondo, con un’ondata di panico: l’oro e il rosso, colpiti da un raggio, diventano accecanti, fulgenti. Il nero, no. Il nero – dei suoi capelli, dei suoi occhi, delle sue vesti – la luce la assorbe, la spezza, la spegne.
James aveva alzato lo sguardo ed aveva incontrato il suo, per un eterno istante. Severus ci aveva letto dentro la sorpresa prima e una più sfacciata soddisfazione, poi.

Ed era fuggito.

Il silenzio della scuola rimbombava di un fragore assordante, dentro la sua testa. Si sentiva inghiottito; ogni gradino sembrava essere quello svanitore. Si sentiva cadere, si sentiva schiacciare. Sopraffatto. La luce non c’era più. Quel buco nero se l’era portata via. Adesso l’unica che scorgeva era quella del fuoco nato dalla bacchetta, che inghiottiva la pergamena che aveva ancora tra le mani. I petali del fiore si stavano rattrappendo pian piano, mentre quello si contorceva con grida silenziose. La carta giallastra faceva lo stesso, così come le parole che vi aveva riportato sopra, frettolose e vere. Dolorosamente vere.
 
“Niente è per sempre, niente è indelebile.
 Tranne noi.  Tranne te.

Perdonami, Lily”
 
Lo sguardo era finito sull’orologio in un corridoio. Mezzanotte e ventitré minuti.
Ottobre era tornato novembre. Lui era tornato novembre.
Ed ora ne era certo.
Il buio non è nero, no. Il buio è dorato e scarlatto.
 
 
 

 
Nda: Come anticipato nell’introduzione, la storia partecipa al contest “A Farewell to…Contest” indetto da CatherineC94 sul forum di EFP. Ho scelto di scrivere utilizzando il pacchetto del mese di novembre: [X ha preparato una sorpresa per Y, Y invece sta passando il tempo con qualcun altro, sera, divisa di Quidditch, James Potter].
La coppia Severus/Lily può sembrare – anche a me lo è sembrata, in principio – convenzionale. Questo pacchetto, però, mi ha dato l’opportunità di sondare l’entità dell’abbandono sulla vita di quest’uomo e di giocare sul fatto di un 31 ottobre che è già novembre, precursore di quello che qualche anno dopo sancirà la morte – e l’abbandono definitivo – di Lily. Ho voluto che fosse un'introspezione a senso unico, priva di un interlocutore, ad accentuare la dimensione della solitudine e della perdita.
La frase sottotitolo, quella che racchiude le speranze infrante di questa storia, è di Iosonouncane – Novembre, e non potevo non citarla per la perfezione con cui aderiva al mio racconto. L’inciso, invece, “Insetti malvagi da scacciare, maledire” è tratto da “Strategie” degli Afterhours.
Tutto è nato di getto, spontaneo. Spero vi piaccia. 
   
 
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