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Autore: SkyDream    11/01/2021    5 recensioni
[KageHina][Post - Nazionale][Spoiler per chi non ha letto il manga]
Dal testo:
«Ti ricordi che hai giurato che avresti battuto Yamaguchi e Tsukishima con quel tuo piccolo corpo?».
Hinata annuì senza capire dove volesse andare a parare. Aveva un tono calmo che raramente utilizzava, soprattutto con lui.
«Mi spieghi allora perché non te ne prendi cura? Abbi cura del tuo piccolo corpo, Hinata, cavolo avrai solo questo per tutta la vita! Non puoi cambiarlo come fai con le ginocchiere usurate!».
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«Rallenta, piccolo corpo, rallenta.»
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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E' presente uno SPOILER grosso quanto una casa per tutti coloro che seguono l'anime e non hanno già letto il manga (o comunque sono arrivati a finire il ciclo narrativo delle partite della Nazionale, prima del time skip).
Per chi volesse proseguire, buona lettura e buona KageHina!
P.s. Non era la KageHina che volevo pubblicare, ma quella è in fase di revisione. Argh!


~ Rallenta ~
[KageHina]
 
“La velocità è diabolica.
Qualcosa di così semplice e irrilevante che tutti se ne dimenticano,
un primo tocco morbido e alto.
Sarà quel primo tocco che darà ai tuoi compagni la possibilità di respirare.”

(Ukai – manga 33 cap.289)
 
 
Hinata amava il suono delle scarpe sul campo da pallavolo, quello stridore accompagnato dal rumore dei salti e dai tonfi di chi ricadeva al suolo. I rumori dei palleggi, le voci concitate dei suoi compagni.
Il suono che si sentiva quando segnava, schiacciando prepotentemente oltre la rete.
E poi il silenzio innaturale che seguiva dopo, carico di così tante urla che sarebbero uscite solo pochi istanti dopo.
Allora Hinata, in quel momento, era rimasto congelato lì. In quel silenzio innaturale che era seguito all’ultimo punto che aveva fatto.
Perché del dopo aveva solo sprazzi di ricordi che culminavano in una sensazione di calore tale da sciogliergli le ossa.
 
«Il coach Ukai è venuto a trovarmi, mi ha portato del pollo allo zenzero.» sussurrò ancora con gli occhi chiusi sollevando un angolo della bocca in un pallido sorriso.
La sensazione di calore non era svanita, ma si era assottigliata divenendo sopportabile. Sentiva un peso sopra il petto, dovette alzare un po’ le mani per capire di trovarsi in un letto, con delle coperte addosso.
«Devo … devo essermi addormentato di nuovo?» si chiese senza alzare la voce, si sentiva tremendamente stanco, come se avesse portato uno zaino addosso per lungo tempo.
Si sollevò dal futon e una fitta alla testa lo costrinse a chiudere gli occhi e portare le dita di una mano alla tempia. Gemette appena.
«Fa male?» La domanda arrivò alla sua destra, qualcuno se ne stava seduto al suo fianco, immobile come un guerriero samurai durante il turno di guardia.
Hinata ci mise un po’ a mettere a fuoco, complici la penombra e la vista oscurata dalla fitta che si stava affievolendo.
Riuscì a riconoscere i capelli spalmati sulla fronte, dritti come spaghetti.
«Kageyama?» chiamò non ricevendo risposta. Sentì delle dita fresche poggiarsi sulla sua fronte con decisione.
Sospirò beandosi di quel senso di sollievo.
«Accidenti a te, la febbre non ti è ancora scesa».
Quella constatazione lo fece ripiombare con i piedi per terra. Tutti i ricordi persi cominciarono a ricollegarsi fino a creare un puzzle di cui avrebbe volentieri fatto a meno.
Strinse i pugni sulle coperte stropicciate e si voltò dall’altro lato. Tobio era senz’altro rimasto lì per fargli qualche paternale o forse per spiattellargli in faccia di essere rimasto in campo per più tempo di lui.
Ma Hinata si sentiva già come un vecchio straccio malandato, la sensazione acida in bocca - non dovuta al povero pollo allo zenzero - non se n’era ancora andata così come le lacrime premevano ancora per scendere.
Non avrebbe retto anche delle parole dure da parte sua.
«Puoi andare via?» gli chiese, sforzandosi di non essere troppo diretto. Anche stavolta non vi fu risposta.
Tobio aveva portato la testa di lato con aria confusa. Lo stava cacciando? Perché?
«Ehi, la febbre ti fa straparlare? Non ho detto niente di che».
«Lo farai! Non mi va di sorbirmi qualche tua ramanzina!».
Ci aveva provato ad essere gentile, ma con scarsissimi risultati. Sentiva il cuore scalpitare veloce contro il suo petto e aveva ancora difficoltà a mettere a fuoco.
Desiderò solo di addormentarsi e dimenticare tutto.
Kageyama non si alzò da terra, rimase lì immobile con le ginocchia piegate e la testa voltata dal lato opposto. Non ci pensava nemmeno ad andarsene, piuttosto lo avrebbe tramortito.
Hinata non si era ancora ripreso, anzi, dopo essere crollato a letto - e aver finalmente spento l’interruttore - sembrava aver scaricato via tutta la sua stanchezza.
Così, appena tutti erano andati via dalla sala pranzo, con la scusa di una telefonata, si era intrufolato nella sua stanza e vi era rimasto. Sperava che nessuno lo cercasse.
Non era di certo tipo da premure simili ma, qualcuno se n’era già accorto, con Hinata era diverso.
Perlopiù a causa delle sue fisse che lo portavano ai limiti dell’umanità, come quella volta che si era allenato sforzandosi così tanto da sentirsi male e vomitare.
O, proprio come quel pomeriggio, dove lo aveva visto piegarsi in due a terra. Con le guance rosse e - non lo avrebbe mai dimenticato - le mani calde.
«E’ già notte?» chiese d’un tratto il piccolo schiacciatore voltandosi verso la finestra.
«Tra poco sarà mattino, sono quasi le cinque. Hai dormito per ben nove ore di fila».
Hinata ammorbidì i pugni e riflettè un attimo su quelle parole.
Come faceva a sapere che dormiva da ormai nove ore?
«Da quanto tempo sei qui?».
Kageyama stavolta non rispose. Continuava a fissare un punto indefinito della stanza.
«Devi essere davvero molto arrabbiato se aspetti qui da nove ore per parlarmi».
«Non devo dirti un bel niente, idiota! Ero semplicemente preoccupato!».
Tobio ringraziò la penombra che gli copriva le guance porpora, non avrebbe di certo digerito una simile ammissione accompagnata da uno sfogo così imbarazzante.
«Preoccupato? Per me?».
“Per chi sennò?!” avrebbe voluto rispondere l’altro tirandogli un pugno. Si impose di stare calmo e cercò i suoi occhi per poi prendere un bel respiro.
«Ti ricordi la nostra prima partita insieme, nella stessa squadra?» cominciò poi senza muoversi.
«Sì, eravamo contro Daichi, Tsukishima e Yamaguchi».
«Ti ricordi che hai giurato che li avresti battuti con quel tuo piccolo corpo?».
Hinata annuì senza capire dove volesse andare a parare. Aveva un tono calmo che raramente utilizzava, soprattutto con lui.
«Mi spieghi allora perché non te ne prendi cura? Abbi cura del tuo piccolo corpo, Hinata, cavolo avrai solo questo per tutta la vita! Non puoi cambiarlo come fai con le ginocchiere usurate!».
Si era lasciato sfuggire un po’ della sua inquietudine, ma tutto sommato non aveva alzato la voce.
Le fitte alle tempie di Hinata apprezzarono molto quell’accortezza.
«Lo porto oltre il limite perché non voglio rimanere dietro di voi, voglio giocare in prima fila e voglio farlo a tutte le partite!».
«Anche io lo voglio e voglio rimanere in campo più tempo di te, ma non a queste condizioni. Oggi abbiamo perso, avrei voluto vincere i nazionali con questa squadra ma non è successo. Posso accettarlo, ma non posso accettare …».
Le parole gli morirono in gola, si maledì per ciò che aveva detto e decise di tacere.
«Cosa? Di avermi battuto solo perché hanno scoperto che stavo male?».
Kageyama trattenne nuovamente un paio di insulti.
«No, idiota, non posso accettare di aver perso senza averti in campo!».
Era stato tremendo.
Non poter fare affidamento sul suo sguardo, non vederlo e non sapere che stava provando esattamente le sue stesse emozioni.
Aveva fatto male non sentire la sua voce tremolante, né potersi sedere con lui sul bus nel tragitto del ritorno.
Per questo, appena il coach Ukai li aveva rassicurati sulla sua condizione di salute - specificando che non si trattava di nulla di più grave - si era catapultato in quella stanza.
Tobio nella sua vita non si era perdonato tante cose, ma poteva continuare a respirare.
Quando ripensava a quei momenti, invece, i suoi polmoni smettevano di spandersi. Si sentiva annegare e provava l’ardente desiderio di prendere Hinata, scuoterlo per le spalle e dirgli soltanto quanto fosse dispiaciuto.
Perché lui era il suo setter, il suo primo e unico setter e il legame che li teneva ben saldi doveva fare in modo che fosse il primo a capire che qualcosa non andasse.
Se solo si fosse insospettito per quelle mani calde, sarebbe bastato spingere il suo palmo contro la fronte bollente dell’altro per urlargli di fermarsi in tempo.
Prima di doverlo vedere mentre crollava a terra.
Si era sentito un po’ sollevato solo quando lo aveva visto dormire con quei ciuffi spettinati sul cuscino.
Aveva poggiato prima una mano sulla fronte - scoprendola calda - e sulle guance, poi era sceso fino al petto dove era rimasto ad ascoltare i battiti accelerati del suo cuore.
«Rallenta, piccolo corpo, rallenta.» aveva pregato dentro di sé.
No, non era nulla di grave, ma quella giornata lo aveva ferito come poche altre.
Per questo era rimasto a vegliarlo tutta la notte, accertandosi che le condizioni non degenerassero.
E ora era lì, a fissarlo con sguardo colmo di stupore ma anche di comprensione.
«Anche io avrei voluto essere lì e perdere con voi. Mi sono perso il momento migliore.» constatò con un broncio seccato. Ricacciò indietro le lacrime.
«Momento migliore?».
«Quello dove tutta la squadra si stringe e ci si consola a vicenda. E’ un bel momento, anche se subito dopo si comincia a pensare agli errori, agli allenamenti …».
Tobio non riuscì proprio a nascondere la faccia stupita, no, stravolta, che gli era uscita.
Non si sarebbe mai aspettato di sentire dire una cosa simile dal suo amico.
Notò però, con una punta di disapprovazione, che le sue guance stavano tornando rosse e calde. Segno che il suo corpo non stava affatto gradendo quello scompenso di temperatura.
«Torna giù, o prenderai freddo».
Tobio lo spinse delicatamente sulla superficie del futon. Lo vide sorridere per quella premura mentre i capelli tornavano a spettinarsi sul cuscino e non riuscì ad evitare di trovarlo dolorosamente bello.
Provava l’insano desiderio di sfiorare le lentiggini appena accennate sugli zigomi.
Quasi come se gli avesse letto nel pensiero, Shoyo allungò un braccio sulle sue spalle e lo tirò accanto a sé, costringendolo a sdraiarsi.
«Torna giù anche tu, non lasciarmi solo».
Quella richiesta, uscita dalle labbra di Hinata in un sussurro, fu l’ultima frase che Tobio sentì pronunciare prima di vederlo scivolare nel sonno.
Doveva davvero sentirsi stanco ma, pensò, tanto valeva che ne approfittasse anche lui per riposare.
Si infilò sotto le coperte e poggiò il viso a pochi centimetri da quello dell’altro, sentiva il suo respiro caldo sulle clavicole e non ci volle molto per portare una mano sulla sua schiena e stringerlo contro il suo petto.
Hinata sembrò apprezzare e lo circondò a sua volta con un braccio, come per ancorarsi e assicurarsi che non andasse da nessuna parte senza di lui.
«Poco fa mi avevi chiesto di andare via, idiota. Ci hai ripensato?» gli sussurrò sorridendo sornione contro i suoi capelli.
Lo tenne stretto finchè non sentì che aveva smesso di tremare e che la febbre, lentamente, aveva cominciato a scendere.
Ma rimase lì, su quello scomodo futon, a giocare con le sue ciocche finchè le voci dei suoi compagni dal corridoio non li ridestarono entrambi.



 
   
 
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