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Autore: pampa98    12/01/2021    0 recensioni
[Sequel di “Nothing else matters”]
Dopo un matrimonio segreto, Jaime e Cersei Lannister si sono trasferiti a Pentos, assumendo nuove identità. La loro vita non potrebbe essere più bella e felice, soprattutto dopo l’arrivo di tre figli. C’è solo un piccolo inconveniente: tutti e tre i bambini sono nati, anche se a distanza di anni, nello stesso giorno – che l’universo ha voluto far coincidere con l’anniversario di nozze dei due gemelli.
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cersei Lannister, Jaime Lannister, Joffrey Baratheon, Myrcella Baratheon, Tommen Baratheon
Note: AU | Avvertimenti: Incest
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Note: Questa storia l'ho scritta per JodieGraham come regalo di compleanno. Spero che ti piaccia ❤
Un paio di informazioncine prima di cominciare. Il 16 maggio è il giorno in cui ho pubblicato la prima parte, perciò ho deciso di ambientare questa storia in quel giorno; e poi Benjamin Clawhauser è il ghepardo di Zootropolis. Bien, detto ciò, buona lettura ^^

 


 
ONLY US
 
A Diletta, buon compleanno


 
Un tempo Jaime ricordava il 16 maggio come la data più bella del mondo – precisamente, fino a tre anni prima. Per qualche assurda congiunzione astrale i suoi tre figli, a distanza di due anni l’uno dall’altro, erano nati esattamente lo stesso giorno. Il giorno del suo anniversario di nozze. Il che implicava organizzare due feste di compleanno (fortunatamente Myrcella e Tommen erano disposti a festeggiare insieme) e organizzare qualcosa ricordare a sua moglie quanto la amasse, tutto nell stesso momento. Il 16 maggio era, in parole povere, il suo inferno: la punizione che l’universo credeva dovesse scontare per quell’assoluta felicità che avvolgeva la sua vita dal giorno in cui aveva conosciuto Cersei. A Jaime comunque stava bene, anche perché quell’inferno, per quanto faticoso, serviva solo a ricordargli i momenti in cui la sua felicità si era ampliata una, due e tre volte.

«Papà, la pasticceria è di qua.»

Joffrey, il maggiore dei suoi figli, lo aveva richiamato all’ordine indicando una via secondaria che Jaime aveva sorpassato sovrappensiero.

«Sì, certo» disse, rivolgendogli un sorriso e precedendolo verso la pasticceria.

Non era stato semplice ambientarsi a Pentos all’inizio: sia Jaime che Cersei erano abituati alle grandi città, ai palazzi e alle ville, mentre lì l’edificio più lussuoso che si poteva vedere era una semplice villetta a due piani, come quella in cui erano andati a vivere. Avevano anche dovuto inventarsi delle nuove identità per evitare che suo – loro – padre mandasse degli agenti a cercarli: lei aveva assunto il cognome Hill, lui Tarth, e si era anche scurito i capelli, dando loro una tonalità più castana. La somiglianza tra i loro volti non poteva essere eliminata, ma con i capelli corti e scuri Jaime sperava che non sarebbero sorte troppe domande, e sembrava che il suo piano avesse funzionato: in sette anni non avevano mai sospettato che qualcuno conoscesse il loro segreto.

«Quella è la fila?» esclamò Joffrey, indicando una decina di persone ferme lungo la strada. Jaime si avvicinò per capire se fosse effettivamente così e, suo malgrado, vide che la coda cominciava proprio da dentro la pasticceria. Con un sospiro tornò verso suo figlio e si mise dietro l’ultima persona, un uomo alto e magro con una lunga tunica colorata blu e oro: ormai si era abituato all’eccentricità di alcuni pentosiani.

«Dobbiamo veramente stare qui ad aspettare?» si lamentò Joffrey.

«Pare di sì, ma ho visto tante confezioni pronte sul bancone, perciò vedrai che avranno tutti prenotato come noi e faranno presto.»

Joffrey annuì poco convinto e prese a dondolare una gamba.

«Papà, posso andare al negozio di giochi intanto? È qua dietro.»

«No, mi spiace. Se tua madre scopre che ti ho perso di vista per un solo secondo mi uccide.»

«Non glielo diremo» ribatté Joffrey, facendogli l’occhiolino.

«Ha un radar per queste cose» disse Jaime, mettendogli le mani sulle spalle. «Guarda, la fila sta già scorrendo. Tra pochi minuti avremo fatto e ti porterò a prendere un gelato, ti va?»

«Un gelato? A quest’ora?» chiese, sorpreso che il gelato si potesse prendere alle undici del mattino. «Comunque non lo voglio. C’è un camion telecomandato, uscito il mese scorso, che non ho ancora avuto!»

«E aspettare di scartare i tuoi regali tra cinque ore è troppo complicato?» disse Jaime facendo il vago, ma con una punta di rimprovero nella voce: Joffrey aveva la brutta abitudine di pretendere tutto e subito, anche a causa della madre che lo viziava davvero troppo – ma Jaime evitava di dirglielo.

Il volto di suo figlio si illuminò. «Allora me l’avete comprato?»

Jaime si strinse nelle spalle.

«Chi lo sa? Ma è meglio prima controllare che non ti sia già arrivato, no?»

«E se poi non c’è?» chiese, incrociando le braccia al petto.

«Se non c’è, andremo subito a prenderlo al negozio. Ci stai?»

Gli tese la mano e Joffrey la studiò per qualche secondo, prima di stringerla: il loro patto era siglato.
 

«Finalmente!»

Cersei corse loro incontro, abbracciando Joffrey mentre Jaime si faceva largo verso la cucina con la torta, i regali per Myrcella e Tommen e un mazzo di rose che era miracolasamente sopravvissuto al viaggio in macchina e al tragitto lungo il vialetto di casa.

«Papà, è la nostra torta?» esclamò Myrcella vicino a lui.

«Sì, tesoro, ma spostati perché non vedo dove sei.»

«Ci avete messo una vita» lo rimproverò Cersei, decidendosi finalmente ad aiutarlo.

«Avremmo fatto prima se un certo Hizza Lozza, o come si chiamava, non avesse chiesto di vedere l’intera gamma di prodotti della pasticceria» si lamentò Jaime.

Cersei lo ignorò. Prese la torta e aprì la scatola per controllare che fosse ancora intera – Myrcella si era girata preventivamente dall’altro parte – e poi la mise in frigo.

«In quell’altra scatola c’è la mia torta?» si informò Joffrey, notando una seconda confezione che occupava un intero ripiano del frigorifero.

«Sì» rispose Myrcella. «È una torta bellissima.»

«Io la voglio buona. Se è bella non mi interessa.»

«I dolci si mangiano prima con gli occhi» gli disse Jaime, «e se è bella è probabile che sia anche buona.»
Lui si strinse nelle spalle. Rimase fermo per qualche secondo poi, quando vide suo padre che consegnava i fiori a Cersei, fece una linguaccia e prese Myrcella per mano.

«Vieni, Cella, quelli devono fare le loro schifezze» disse, trascinandola via.

«Un giorno le farai anche tu e ti piacerà» gli urlò dietro Jaime. «Soprattutto quelle in camera da let…»

«Non osare usare un simile linguaggio davanti ai bambini!» lo rimproverò Cersei: nemmeno un mazzo di rose rosse poteva mettere a tacere la madre che era in lei.

«Non vedo bambini qui» disse Jaime, guardandosi intorno con fare innocente. Prima che lei potesse roteare gli occhi o sbuffare, lui le cinse la vita attirandola in un bacio. Le rose si schiacciarono in mezzo a loro, ma non importò a nessuno dei due: Cersei le posò sul tavolo, prendendogli il volto tra le mani per approfondire il contatto.

«Buon anniversario, marito» sussurrò sulla sua bocca.

«Buon anniversario, moglie.»

Jaime le sorrise, spingendola contro il lavello per riprendere a baciarla. Cersei ansimò nella sua bocca e gli abbassò la cerniera della giacca.

«Chiudi la porta» ordinò. Jaime non se lo fece ripetere.
 

Alle quattro il loro giardino fu invaso da bambini delle elementari, mentre il salotto pullulava di infanti. Nonostante il chiasso e la costante preoccupazione che qualcuno dei suoi figli potesse farsi male – Joffrey in particolare, che aveva preteso un muro da scalata e due cavalieri medievali che insegnassero ai bambini l’arte del combattimento – per Jaime fu un vero sollievo vedere tutti quei ragazzini che erano lì per Joffrey, Myrcella e Tommen. Certe volte aveva il terrore che non riuscissero a integrarsi o, peggio, che qualcuno sospettasse della parentela che lo legava a sua moglie e, anche senza farne un caso pubblico, costringesse i propri figli a stare lontano dai suoi.

«Jaime» Cersei si affacciò sulla porta, facendogli cenno che era l’ora del dolce e dei regali. Jaime annuì, mise due dita in bocca e fischiò, attirando l’attenzione dei bambini.

«Mi dicono dalla regia che è ora che il festeggiato scarti i suoi regali.»

Joffrey non se lo fece ripetere; saltò giù dall’albero su cui lui e un suo amico si stavano arrampicando e Jaime dovette scansarsi per evitare di venire travolto da quella mandria di marmocchi. Ricordò che un tempo li odiava – e in parte lo faceva ancora – ma se a guidarli era il suo primogenito poteva sopportarli.

I pacchi erano stati divisi in tre zone del salotto e furono aperti tutti sul luogo. Myrcella corse ad abbracciare lui e Cersei quando trovò la bambola di Rosaspina, mentre Tommen, con l’aiuto di Jaime, riuscì a liberare un Benjamin Clawhauser alto quando lui. Nel tentativo di abbracciarlo finì per tirarselo addosso e Jaime fu costretto a capovolgerli in modo che il ghepardo fungesse da materasso per il bambino.

«Lo avevo detto io che era troppo grande» borbottò Cersei.

«Tanto crescerà, mentre il pupazzo rimarrà così. Spero» aggiunse, pensando a quei film dell’orrore in cui le bambole e i peluche prendevano vita e si trasformavano in creature mostruose assetate di sangue.

«SÌ! SÌ! SÌ!»

Jaime e Cersei si scambiarono uno sguardo complice.

«Cos’hai trovato, Joff?»

Lui lo guardò e gli rivolse un sorriso a trentadue denti, sollevando la confezione contenente il camion militare e il suo telecomando: non sarebbe stata necessaria nessuna visita al negozio di giocattoli quella sera.
 

Il resto del pomeriggio trascorse in tranquillità, con tutti i bambini riuniti in casa per provare i nuovi giocattoli dei festeggiati. La festa di Tommen fu la prima a finire: lui si addormentò sopra Benjamin dopo appena un’ora che l’aveva scartato e i più piccoli se ne andarono poco dopo; poi fu il turno di quella di Myrcella, dato che anche lei e le sue amiche iniziavano a sentire i sintomi della stanchezza. Aspettarono che se fossero andati tutti, poi Jaime fece salire la bambina sulle sue spalle per portarla in camera.

«Rosaspina» disse lei, la voce già impastata dal sonno.

Jaime fece cenno a Cersei, che era in salotto a controllare che il camion di Joffrey non distruggesse i loro arredi, di lanciargli la bambola. Lei la salvò appena prima che venisse investita.

«Joffrey, fa’ attenzione con quell’affare o te lo sequestro subito» disse, porgendo la bambola a Jaime. L’uomo non rimase ad ascoltare la risposta infastidita del figlio.

Salì le scale e si diresse verso la camera dei bambini. Passando davanti alla sua stanza, buttò un occhio per controllare Tommen: era al centro del letto, stretto contro il suo pupazzo, e dormiva profondamente. Se non altro quel ghepardo gigantesco era un ottimo sostituto ai cuscini durante il sonnellino pomeridiano del bambino.

Posò Myrcella sul suo letto e la coprì con la coperta di Belle che lei usava spesso nei mesi invernali – che andavano da settembre a maggio compreso.

«Ti sei stancata parecchio, eh?» disse, sedendosi sul bordo del letto. La bambina annuì.

«Ti sei divertita, comunque?»

«Sì» disse, nascondendo un grande sbadiglio dietro la piccola mano. «Molto. E grazie per Rosa» aggiunse, stringendo la bambola.

Jaime sorrise. Si chinò per darle un bacio sulla fronte, le rimboccò le coperte e la lasciò riposare.
 

La festa di Joffrey finì per l’ora di cena. A differenza dei suoi fratelli, il bambino e i suoi amici erano solo diventati più scatenati col passare del tempo e avrebbero continuato a giocare per tutta la notte se i genitori non avessero cominciato a riportarli all’ordine. Quando anche Alton, il migliore amico di Joffrey, se ne fu andato, lui si buttò sul divano in mezzo ai regali che aveva ricevuto con un sospiro soddisfatto.

«È stata una festa fantastica!» esclamò. «Il prossimo anno la rivoglio proprio così.»

«Come desideri, amore. Ora però metti in ordine i tuoi giochi. Papà ti da una mano.»

Jaime era talmente felice che, per una volta, Joffrey fosse stato soddisfatto di qualcosa e non avrebbero dovuto scervellarsi per capire cosa organizzare l’anno successivo, che accettò l’ordine di Cersei con piacere, esattamente come il figlio. Lasciarono il camion e il Monopoly in salotto – il primo perché Cersei non si fidava a lasciarlo in un luogo in cui Joffrey poteva usarlo senza supervisione, il secondo perché doveva essere un gioco di famiglia – e trasferirono tutti gli altri nella camera che condivideva con Myrcella. Joffrey non si curò di fare poco rumore per non svegliare la sorella, ma lei stava dormendo con tale profondità che probabilmente nemmeno un cannone l’avrebbe svegliata.

«Hai fame?» chiese Jaime a suo figlio. «È avanzato qualcosa dal buffet se vuoi cenare.»

Joffrey scosse la testa, facendo una smorfia.

«Ho esagerato con quella torta» disse, riferendosi alle tre fette di millefoglie panna e cioccolato che aveva ingurgitato. «Sono a posto. Voglio provare il nuovo Mario. Posso, vero?»

Pose quella domanda con un tono che indicava che, qualunque fosse stata la risposta, lui avrebbe fatto quello che voleva. Il giorno del suo compleanno, Jaime pensò di poter assecondare le sue richieste.

«Non più di un’ora, però» lo ammonì.

Joffrey annuì distrattamente: stava già inserendo la cartuccia nel Nintendo Switch che Tyrion gli aveva comprato per Natale.

Cersei non era felice che lui facesse, in qualche modo, ancora parte delle loro vite; Jaime, che si fidava ciecamente del fratello, avrebbe desiderato che fosse ancora più presente. Naturalmente non avevano mai parlato di lui ai bambini, né si erano più incontrati di persona. Semplicemente si scambiavano piccoli regali in occasione delle feste e dei compleanni. I doni che Tyrion faceva ai suoi nipoti venivano fatti passare loro come se fossero opera di Jaime e Cersei, ma per il momento andava bene così. E poi, come Jaime aveva fatto notare a sua moglie quando avevano ricevuto il primo, costoso regalo, era conveniente avere uno zio fantasma che assecondava i desideri dei loro figli prima che questi potessero iniziare ad assillarli (per fortuna Joffrey aveva scoperto l’esistenza di quella console solo un mese prima di Natale e avevano dovuto sopportare le sue scenate solo per pochi giorni).

Quando Jaime tornò in cucina, Cersei stava mangiando una pizzetta mentre copriva con la carta stagnola le focaccine e la torta avanzata e li metteva in frigo. Si voltò verso di lui e gli sorrise, chiedendogli se volesse mangiare qualcosa.

«No, tranquilla» disse, sperimentando lo stesso disgusto che doveva aver provato Joffrey quando gli aveva rivolto la stessa domanda. «Ho fatto fuori quasi un’intera teglia di focaccia da solo.»

Cersei rise. «Voi uomini non sapete proprio contenervi.»

«Disse quella che si sta mangiando una pizza.»

«È piccola» protesto lei, «e a differenza tua alla festa io ho mangiato solo quanto richiedono le buone maniere, né meno e né più.»

Jaime roteò gli occhi, ficcandosi in bocca una patatina dalla ciotola che Cersei non aveva ancora riposto.

«Sei disgustoso» disse lei, ma c’era una chiara nota di divertimento nella sua voce.

«Molto. Allora, vuoi stare qui a discutere di quanto io sia un pozzo senza fondo o vieni con me a fare una passeggiata?»
Cersei aggrottò le sopracciglia.

«Una passeggiata? Jaime, non possiamo andare fuori. I bambini sono in casa…»

«Solo in giardino» la rassicurò Jaime. Le prese una mano e cominciò a condurla all’esterno. «E comunque due stanno dormendo come ghiri, e l’altro si staccherà dal nuovo videogioco solo quando uno di noi gli toglierà fisicamente la console dalle mani. Sono quasi certo che se anche stessimo via tutta la notte non se ne accorgerebbero. Ma ovviamente non lo faremo» aggiunse subito, bloccando sul nascere qualunque sua lamentela.

Uscirono sul portico e Jaime la condusse sul retro. Passarono accanto alla parete da scalata, che sarebbe stata portata via la mattina seguente, e raggiunsero il ciliegio che i precedenti abitanti avevano piantato. Si erano invaghiti subito di quell’albero ed era stato uno dei principali motivi per cui avevano scelto di vivere in quella casa.

«Jaime…»

Non potendo preparare la sorpresa finché c’erano i marmocchi, Jaime aveva chiesto l’aiuto del padre di Alton: quando erano andati via, per ultimi, l’uomo aveva portato fuori una tovaglia a quadri rossa e oro, aveva preso il sacchetto che Jaime aveva nascosto sotto l’albero e ne aveva estratto una bottiglia di vino e due calici di vetro. Poi aveva preso la candela profumata che Jaime era riuscito a comprare solo il giorno prima e l’aveva accesa, posandola sulla tovaglia in modo da illuminare l’area circostante.

«Lo so che non è molto, che i primi tempi ero più romantico… ma comunque» si sedette sulla coperta, trascinandola con sé, «ho pensato che almeno una piccola dimostrazione del mio eterno amore per te vada sempre fatta.»

«Oh, Jaime.»

Cersei gli baciò le labbra e Jaime la strinse a sé, portandola a sedersi in braccio a lui.

«Sai essere molto romantico anche con poco» gli disse.

Lui le sorrise. «Non è difficile, quando si ha a che fare con una donna come te. Metà del romanticismo sei già tu.»

Stappò la bottiglia di vino e riempì i due calici. Ne porse uno a Cersei e quando questi si scontrarono un tenue tintinnio si propagò tutto intorno a loro, dando l’impressione che in quel momento non ci fosse nessun altro al mondo.

«Buon anniversario, moglie. Ancora.»

Cersei sorrise; uno di quei rari sorrisi che non contenevano scherno o malizia, ma puro e semplice amore.

«Buon anniversario, marito. Ancora e per sempre.»
 
   
 
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