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Autore: Cladzky    16/01/2021    0 recensioni
Poema in ottave.
Dei suoi viaggi da Babilonia a Delfi, passando per Damasco, Beirut, Gerusalemme, la Mecca, il Cairo, sorpassando l’Atlante, imbarcandosi da Tangeri, sbarcando in Gibilterra, giungendo alla corte di Marsilio a Cordova, sorpassando i Pirenei, Parigi, presentandosi a Carlo Magno ad Aquisgrana, valicò le Alpi, scese per l’Italia, onorò il re Astolfo dei Longobardi, veleggiò l’Adriatico e da Trieste giunse in Ungheria, dove unificò il regno assieme ad Alsogno e scese fino a Durazzo in Albania, fu fatto schiavo e liberatosi a Bisanzio attraversò l’Egeo, il Peloponneso e infine le Focide.
Genere: Fantasy, Guerra, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1
Di fede passioni, dubbi, amori
E altre divagazioni, andrò dicendo io,
Di quando ancora nell'Islam degli albori
Con spata e Alcorano si discute di dio.
Gli Omayyadi, che Damasco, riempiron di fiori
Ora è coverta di sangue stantìo
Ma più non corriamo, che già inqui viene
Di chi, la storia, la novella tiene
 
2
Più che cammina, ei galleggia,
In quel che i Siriani chiaman Barada,
Esanime, che, con un sasso primeggia.
In acqua e sangue di quella contrada,
(Che d'occidio e saccheggio ancora riecheggia)
Trascina il cavalliero lungo la strada
Dove un pastore attento lo rivede.
Tosto si tuffa e lo tira per un piede.
 
3
Trassolo a riva gli ausculta il petto,
E sebbene in più e più parti è aperto,
Il cuore gli batte, v'è ancora il getto,
Seppur, di sangue, sia tutto coverto,
Ğanna attende ancora il poretto,
Salvo ei è, ma sano non certo.
Dio ei ringrazia insupinito,
Non Macometto che gl'è proibito.
 
4
Come la madre tiene il figlio in seno,
Così ei reggeva il cavalliero
E sull'equino, non certo un palafreno,
Anzi, un asino, pone il condottiero,
E lui, al passo gli tiene il freno.
Tanto il suo animo era sincero:
Che si fé volentieri le miglia a piè,
Fino al suo paese, Ein al fejèh.
 
5
La moglie, a munger, stava una capra,
Dacché levò gli occhi ed ebbelo scorto,
Salta il cancello, senza che l'apra.
L'incontra e uno schiaffo gli molla a gran torto
Che povera lei, quella non sapra,
Non essere quello un corpo morto.
-Disgraziato- gli dice -anzi, depravato!
A trafugar corpi or ti sei dato?-
 
6
-Donna, le mani, tienile via,
Travami, invece, dove adagiarlo-
Lui rispose e questo dicìa
Che già ella stava a bendarlo.
Un giorno e una notte trascorse prìa
Che l'uomo, cui, tanto io vi parlo,
Sorga con Vespero il giorno seguente
Tutto pesto e senz'anche un dente.
 
7
Mano alla bocca e l'altra alla tempia,
Forte gli batte, di dolor trema,
La bella faccia il bello scèmpia.
Di darsi pace non trova sistema
E lacrime amare il letto rìempia
E per drizzarsi ei si dimena.
I gemiti chiamano il suo salvatore:
Entra impaurito il buon pastore.
 
8
La moglie arretro e lui di fronte
Gl'afferra le spalle e lo scuote forte,
Ma non v'è modo, che è come un monte,
Non lo tengon braccia, né chiuse porte.
Fuor di casa, correndo, è gionte
E pone gli occhi su tutta la morte.
Ai piedi di Qàsioun arde intera
Tutta Damasco ed ei si dispera.
 
9
-Deh, cavaliere, dove vene ite?
Così come state il letto è il vostro posto-
Le parole, l'uomo, non l'ha quasi udite
E lagrimando, mira il grand'arrosto,
Le fumaie, alle nubi, fin son salite.
I ginocchi, nell'arena, ei pianta tosto
Ed, i pugni, nei flutti del Barada,
Sbatte e schizza, costume non bada.
 
10
Morto pareva il giorno primero
Sbiancato in viso, pareva neve,
Come in inverno, sull'angolo Nero,
Ripreso si era, in tempo sì breve.
Si straccia le vesti, percuote il cimiero
Sbatte la testa sui massi, greve.
Morto pareva e ora si pente
D'essere vivo e non valer niente.
 
11
-Marito, ma questo, è proprio scimunito!-
Disse la donna e lui -Zitta,
Che se ci sente ci fa mal partito!-
Ma lui non sente, anzi, a schien dritta,
Risale il Barada da dove e venito,
Ma incespica e cade: gli venne una fitta.
Mani al torace, si raggomitola,
Figura assai tragica, ma ben più ridicola.
 
12
-Ti prego e ti dico, lascialo stare,
Che un Jinn, mi pare, l'ha impossessato-
Diceva la donna e a ben guardare
Era tanto fremente e convulsionato
Nell'acqua Zamzam lo volle annegare.
Ma il buon pastore, gentile e pacato,
A ciascuna gote un sonoro schiaffone.
Quello si placa, si cheta d'umore.
 
13
E rinsavito appena, ei dimmandava:
-Ditemi voi, che n'è di Damasco?
Perla di Siria, per eterna si dava,
Perché ora brucia? Perché son fuggiasco?
Che ci faccio io qui, anima prava?
Oh, gentile, nobile rivierasco,
Ti ringrazio di core per tutto il ristoro,
Ma ora ditemi quello che ignoro!-
 
14
Il pastore, allora, prende gran fiata
E tutto gli spiega, fino al loro incontro,
Di come lo vide galleggiar senza spata,
Elmo, armatura o ferro da scontro.
Morto chiunque altro lo avrìa data
Se non che lui borbottava contro
Nemici sognati, che sol lui vedeva
-Fetenti bastardi- ei maldiceva.
 
15
E ancora narrava del suo gran sopire,
Che un giorno e una notte avea sonnecchiato
Delle gran ferite che aveva ebbe a dire
E poi, su Damasco, virò il parlato:
-L'eccelso giardino ebbe a patire
L'Abbasside assedio, l'avrai ascoltato.
Da Al-Saffah il sanguigno son stati guidati,
Califfo e Pasciá li hanno sgozzati-
 
16
Scoppiò in pianto il povero fante
E s'avesse avuto la spata al fianco
Troncato avrebbe, come le piante,
La fronda dal busto, tanto era stanco
Di vivere e tirare ancora avante.
Lui che aveva patito così tanto
Ma non abbastanza per salvare il regno,
Per riaverlo la vita avrebbe dato in pegno.
 
17
I polmoni suoi sgradiscono l'aría
Anzi, l'acqua gli par migliore.
I pastori la morte non voglion che si dìa,
Quindi lo fermano per il timore
Dell'eterno Jahannam e se è un'anima pia,
Gli spieghi il motivo di tutto il calore,
E insomma che diavolo sia mai successo,
Per odiarsi tanto d'ammazzare sé stesso.
 
18
Quello singhiozza, le lagrime asciuga,
Poi china il capo, ben sconsolato.
-Le coste mie sono il bagnasciuga
D'un mar Bizantino, Nostrum chiamato-
Al ricordo, in fronte, gli si forma la ruga,
Di chi a nostalgia si è abbandonato
-Fenice filistea, oh, patria mia
Beirut ignomia io sol ti dia!
 
19
S'invero sapere volete la cagione
Per cui io m'odio e fo vilipendio
Tendete bene il di voi padiglione
Che storia assai grama narrare vi intendio
Di come sgarbo feci al mio padrone
E tutti i miei sbagli vi farò compendio.
Zuairo mi chiamo, ch'io sia mai nato,
Disonore in famiglia ho solo portato.
 
20
Marwàn io servivo, con grande diletto
Mazubarin io ero, ovvero un campione,
Non per mio merito, ma ch'ero figlioletto
D'un gran signore, ricco smercione.
Quando il nipote del profeta Maometto,
In Mesopotamia fè gran confusione,
I parenti mi ebbero tutto bardato
Fatato le armi e a Babil mandato.
 
21
Lo scudo mio come scaglie di drago,
Da una sol perla si ebbe a intagliare.
Ascia o alabarda è uguale a un ago
Che nulla il può tagliare o squarciare
Se non la mia spada, figlia di mago,
È tanto fine che taglia anche il mare.
Bianco, rotondo, questo è Muraja
Fa con Yuranda un invitta paja.
 
22
E se anche questo bastar non dovesse
Tutto mi diedero li parenti miei
Inclusi dei sandali, di grande interesse,
Fabbricati da certi antenati Achei,
Fatica ignora chi n'entra in possesse.
Li avessi il sudor non cognoscerei.
Ahi a me Zuairo, che nel fiume perdette
Oltre l'onore quest'armi benedette.
 
23
Or vi dirò l'usanza promossa
Che, fra eserciti, è d'uso fare:
Ben prima d'ogni battaglia e sommossa
Giostra propizia si ha d'apparecchiare.
I campioni si sfidano affinché si possa
Stabilir a chi Dio vittoria vuol dare
Se il risultato è fin troppo palese
Di lotta, il nemico, perde pretese.
 
24
Tanto importante è l'impiego nostro
Che una guerra intera finire si puote
Se solo noi facciamo dimostro
Che il divin favore è il nostro pilote.
E io speravo di fare gran mostro
Di mia virtute e grande dote
Iettando in terra i mazubari nemici
Dando gran vanto al popol dei Fenici.
 
25
Così ragionando io proseguivo
Per la Mesopotamia fertile e piana.
Certo, d'esperienza, io ero privo,
Mai posi fine a vite umana
Ma ciò non curai, né impensierivo
E allegro marciavo fra gente di Cana,
Gerico, Ninive, Assuàn e Salerno
Tant'era esteso l'impero ed eterno.
 
26
Viaggiavan con me pur altri cento
Fieri baroni, da cui stare a bada.
Chi da Biserta, chi d'Agrigento
Di poche parole, veloci di spada.
Parlar mi era acerbo, non v'è intendimento
Fra me e loro, d'esperta vecchiada.
Mi guardano torvi, con far giudizioso
Il mio giovine corpo e l'arme sontuoso.
 
27
Seguivamo lo scorrere del Tigri muti
Nella sua corsa al Persico golfo
Quand'oltre un colle eravamo venuti
Dove lo Zab scende ad ingolfo
E qua trovammo disfacelluti
Due fanti con l'arme quasi in solfo
Tanto essi eran conciati
E questi ci ebber ragion narrati:
 
28
Così diceano -Mazubarini!
L'esercito è in rotta, speranza è moruta,
Che in sù dello Zab, oh noi tapini,
Gli Abbassidi su noi vittoria hanno avuta.
Tardi giungete a pugnar paladini
Anche se in cento e fama risaputa
Niente potete con chi dalla storia
Gli Omayyadi cancella con sua gran vittoria.
 
29
Se udire volete la quale cagione
Sta dietro la nostra infame spartita
Tendete le orecchie e fate attenzione
Storia più grama mai sarà udita:
Montavamo noi, tende e padiglione,
Mazzuola e chiodi sol fra le dita,
Che appena giunti eravamo e ammucchiati
Ciascadun sotto i propri re guidati
 
30
Si era infatti indetta adunata
A vassalli e alleati del nostro signore
Da Ponente a Levante giunse un'armata
Che scoteva montagne al solo fragore
Di picche e scudi una gran parata
Esse le pecore, Marwàn il pastore.
Le foci di Zab, ai piè di Zagroso
Furon lo loco de nostro riposo.
 
31
Ancor, che tutti, stanchi si era
Pel viaggiar, che alcuni già addormòno
L'Omayyade ci scruta e sotto la sera
In cima al suo cocchio, prende lo tono
Di un'Imam e grida -oh Arabia, spera!
Che dio disse "Abram, le stelle sono
Le moltitudini che tu avrai per figli
Nei secoli dureranno prove e perigli"
 
32
Oh Araba gente, quei figli si è noi
Non, quindi, temete la schermaglia indomani
Che una corbezzola è per figli di eroi.
La nostra cultura allarga le mani
Al Caucaso, Mar Rosso e i Pirenoi
Razza superiore, non certo Siriani
O peggio ancora cristiani e sciiti
Noi siamo Arabi, puri sunniti-
 
33
Così si acclama dei suoi il fervore
Che battono i piedi e risuonan gli scudi
Ma non di noi due, ci venne torpore,
Giacchè Longobardi e Ariani crudi
In Cristo crediamo, figliol del signore,
Seppur, la sua natura, all'Eterno si escludi.
Come noi altri, Indiani e Giudei,
Circassi, Tartari, Etiopi e Cirenei
 
34
Tante fedi e pelli diverse
Come più dagli antichi non si vedeva
Del Magno Alessandro e l'emperor Serse
Tanto vasto il califfo estendeva
E nelle sue truppe egli riverse
Sì diversa schiera che si batteva
Per un sovrano che pensa ei solo
Alla sua gente, fede e suolo.
 
35
Così dicendo, noi suoi fanti
E mercenari vari, da tutta la terra,
Che àrabi non siamo o d'Islam praticanti
Ci passò la voglia di far la sua guerra
Che seppur morissimo per lui in tanti
Lui non ci pense, e lacrime serra.
Ci sentivan come scacchi, alfieri e pedoni
Di qui stanno i bianchi e là i negroni.
 
36
A molti di noi smusò l'allegria,
Ma poscia appena, già tutto si scorda,
Le parole, fonte, di zizzania,
Niente possono se tu non dai corda
E di rodersi, la voglia, nessuno l'avria,
Così si beve, gioca e bagorda,
Che in battaglia mai ci si salva tutti,
Si saluta la vita con vini e prosciutti.
 
37
Allor, di meglio, da fare niente aveva,
Un gruppo di assai pedanti cavalieri
Così ci venne incontro e sosteneva
Un'altezzosa filippica la sera di ieri.
-Lacunosi di rispetto- uno inveiva
Come fate a mangiar pasti sì fieri?
Infedeli siete, mercenari Europei,
Ma in nostra presenza io m'asterrei-.
 
38
-Astieniti tu, battitor di tappeti!
Io bevo e mangio quel che mi pare,
Se poi ti sgarba, meglio faceti,
Va dal tuo Maometto a lamentare.
E tu e i tuoi statevene cheti
Che io e i miei si ha da festeggiare
Domani s'approssima la morte di molti
Sbronzi ai cieli è meglio essere accolti-.
 
39
Così appena questo io dicetti
Da li miei camerati; poveri tutti,
Che molti in battaglia io li perdetti;
Plausi e fischi e pure rutti
Contenti son come ho steso gli inetti,
Filano via, col fegato distrutti,
Che rodono forte, lo smacco è sonante
Inflitto poi da un ignobile fante.
 
40
Quelli infatti, faceano parte
Della rinomata cavalleria pesante
Cortigiani e figli di chi tien le carte,
Nobili, possedenti il sufficiente contante
Da permettersi cavallo e armi per l'arte.
Non solo quello ma sono tante
Fedeli loro al gran profeta:
Entrarvi non può chi al Coran non creda.
 
41
E questi, quindi, immensamente offesi
Da Marwàn vanno a rendere conto
Di barbari, che, in giro li han presi
E all'omo di Mecca fatto affronto.
E il gran califfo, avendoli intesi,
Sulla rabbia ei fu subito monto
E a mandare i messi ivi si sbriga
Per far palesare chi a loro fe' briga.
 
42
Al gran padiglione del califfo giungemmo
E come vedemmo il suo bianco turbante
Sui bei tappeti di Persia sedemmo
E noi Longobardi guarda fumante
Di rabbia e chiede se noi esprimemmo
Tanta ingiuria ai suoi uomini veramente.
Noi ci guardiamo e discutiamo in Latino
Poi ci voltiamo e dicemmo a capo chino
 
43
-È vero noi consumammo cibi impuri,
Vino di Napoli e prosciutti di Padania,
Ma non vedo perché un Maomettano se ne curi
Non commettiamo verso lui alcun'infamia-
-L'infamia c'è- disse uno di quegli scuri
E strappandosi la barba il cavaliere da in smania
-che ci disgustate coi vostri atti osceni
E ai nostri ordini tu e i tuoi contravvieni.
 
44
Siete forse voi ministri e capitani,
Ricoprite qualche incarico di tale importade?
Siete sol lerci mercenari italiani,
O forse quando i corpi vostri apron le spade
Non scende rosso, ma blu sangue, cani?-
Ei disse e quando questo accade
Subito Otto gli saltò addosso
E il volto gli smusa quel molosso-
 
45
Ora il racconto si interrompette
Del fante fuggiasco e pose la mano
sul compagno suo che al fianco stette
E riprendette -questi è quell'Ariano
Che ingiuria alcuna ei non rispette
Otto appunto e io Alevano.
Or vi dicevo di questa gran pugna
Dove il cavaliere incassava come spugna.
 
46
Impari era l'intesa tanto è improvvisa
Rabbioso era Otto, mio fido amico,
Che il guaio in cui si caccia ei non ravvisa.
Bestemmia, ingiuria, ignomia il nimico
Mentre di lividi gli riempie le visa
E non ascoltava i consigli che gli dico:
Lo imploro di smettere ma ei non mi cala
Al che Marwan mette ordine in sala.
 
47
E austero dai cuscini s'alza e sentenzia
-Ben hanno donde di lamentarsi tal signori
Del vostro disubbidire e irriverenzia
La mancata educazione negata dai genitori
Io vi inculcherò senza indulgenzia
Come Roboàm sarò con voi peccatori
Come flagello sarà la mia vendetta
Come bestie tratto chi l'ordine non rispetta.
 
48
Perché bestie siete, non miei vassalli,
Niente meritate ma servire chi dovete
Chi è con me non teme voi sciacalli
Se essi chiedono, voi accorrete
Non mordete dunque, sberciosi galli,
Chi io proteggo o ve ne pentirete.
Che sia dunque a questo incosciente
Negato il parlato immantinente-.
 
49
E al povero Otto, la lingua tagliarono,
Quei cavalieri figlioli di troia,
Con gran diletto, la lama scaldarono
Seccarono il taglio e in una stuoia
L'organo posero e glielo darono
A monito che non gli torni la voia.
Poi sequestrarono salumi e vini
Non solo a noi ma a tutti i tapini.
 
50
Di tenda in tenda, per ogni loco
Del campo in sù, giù e avante
Passarono i cavalieri e come per gioco
Ogni sorta di maiale e alcolizzante
Questi vigliacchi buttarono al foco
Cosicché quando, più niente era restante
A cercarne nascosti si diedero questi
Abusando molto di tanti onesti-.
 
51
Qui lo interruppi quel Longobardo
E franco gli dissi con lingua secca
-Ben fece il nostro califfo tardo
Nulla cangia la di voi salamelecca.
Infatti mi pare assai beffardo
Lo vostro comportare coi paladini di Mecca
Chi arrischia la vita a servire il signore
Non lo si obietta neppure in errore.
 
52
Se lo tracannare di tali bevande
E lo consumo di quegli ungulati,
Che per noi sono proibite vivande,
Non li biasimo all’averli sequestrati
Se a loro la vista fe disturbo grande.
E s’è poi vero che da un dio siam creati
Una sola legge egli ci ha scritto
Conviensi anca voi assumerla a diritto-.
 
53
Qui, Otto, fe per darmi una sberla,
Lo ferma Alevano, mi lascia continuare
-Lo califfato è come una gerla
Se tutte le gambe non si ha a coordinare
Non c’è fortuna nè ragione di averla
Di alcuno loco a poterla portare
E il coordine è uno soltanto
Ovvero il libro del pater santo.
 
54
Anche se increduli siete voi Ariani
Le leggi nostre v’è meglio seguire
Finchè ordine e metodo siano sovrani-.
-Ben dicesti- Alevano ebbe a dire
Quel che parlava dei duo Italiani
-Che quasi a Maometto ci fai convertire
Ma non ci sperare, che un simil misfatto
Non lo si copre col dialettar ratto.
 
55
Tale avvenimento, vi stavo narrando,
Un grande scisma generò nel campo
Astio s’andava infatti palesando
Fra chi Shari’a segue e chi n’è scampo,
Nelle genti smisurate ch’io non vo contando
Più fra loro che per lo nimico è vampo.
Per Marwàn pare non contiamo niente
E pure ci toglie lo cibo dal dente.
 
56
Ci accompagna al mattino quest’umiliazione
Anzi, alcuni, nella notte han disertato
Più onesti furon che la sopportazione
La tenivamo noi sol per compensato.
Per questo mantenevo servizio al padrone
Che la lingua al caro Otto ebbe tagliato.
Ma ti assicuro che abbandono la mercede
Che quel che ho visto ogni orrore eccede.
 
57
Svegliati fummo quest’alba dal corno
Che suonava all’armi, in maniera sì strana
Trasalimmo, e armati, gli fummo attorno
Ma lo musico, sbianco, tutto il fiato ancora stana.
Poi giunge Marwàn, della corte adorno,
Che lui e I cavalieri avevan posto tana
Assai distante da noi genti gentili,
Chiede cagione degli strombazzi febbrili.
 
58
Prova a parlare lo trombettista,
Ma la fiata gli manca e pure coscienza
Che esanime casca, bianco alla vista.
Ecco, nell’aria, si sente presenza
Di un rapido marciare e s’apre la pista
Una vedetta che sconcerto sentenzia
-Ratto, riempie la piana mio sire,
Lo nimico vostro che già muove a colpire-.
 
59
Marwàn scolorisce e balbetta incontinente
Che gli venga spiegata questa vigliaccata
E lo fedele Etiope, del nero continente,
Tutto gli illustra, con l’alma spaventata.
-Io e colui che qui giace incosciente,
Circondavamo il campo per la pattugliata
Quando ci assalì un insostenuta sete
Che allo Zab ci portò per darle chete.
 
60
Là ci dissetammo io e il camerata,
Akakios era detto e io son Belete,
Sull’acque gelide, a teste chinate,
La vite scontate noi davamo e lete,
Quand’ecco noi, fra felci verdeggiate
Sentimmo passi dall’altra parete.
Stava infatti guadando la rivera
La schiera di Al-Saffah, austera e fiera.
 
61
Stavano ad appena meno d’un miglio
E tremor ci prese, scemò la parola,
Ci guardammo in viso, divenuto vermiglio
E parveci l’anima dalle labbra vola.
Celati eravamo, da cespugli di giglio
E non m’azzardai ad aprir la gola.
Ma Akakios intendette quel che volevo
E vole lui che ogni dubbio mi levo.
 
62
-So cosa provi e per la vita hai timore
Ma da noi dipende non solo la nostra.
Se tu per i compagni provi invero amore
Allo nimico bisogna mettersi in mostra,
Le spalle dargli e pregare il signore
Che nulla ci colga in questa folle giostra.
Se tu non vieni non ti darò iudicio
Che ben comprendo sia un pazzo sacrificio-.
 
63
Mosso da quelle parole sì belle
Di lasciarlo solo mi vien meno la voglia,
Che se lo avesse ammazzato una schiera di quelle,
La colpa il cuore sempre mi avrebbe in doglia.
Quindi sgusciamo e sotto l’ultime stelle,
Quel che è Lucifero e Vespero il cielo spoglia,
Al campo corriamo, dallo nimico tallonati
E già udiamo dei dardi lanciati.
 
64
Pare spacciato lo amico mio,
Che meschino ei diede la sua vita a voi,
Come quello che chiamano il figlio di dio.
Seguendo Fidippide, un greco dei suoi,
È giunto fin qui sol per darci addio
E recarsi alle Elisi degli eroi.
Suonato, correndo ha il corno a tutta fiata
Che dallo sforzo la tempia gli è scoppiata.
 
65
Io son rimasto, mio califfo d’oro,
E ti do nozione di questo perigliare,
Lo nemico in barba e usanze e decoro
Senza mazubari ci viene a battagliare
E porta seco centomilia dei loro
Che di sorpresa c’intendevan sbaragliare.
Non lasciate, sire, impunita la morte
Del vostro fedele che ha avuto grama sorte!-
 
66
E qua avvenne a dir poco un miracolo:
Akakios, che di sangue, era tutto adorno
In un ripugnante, grottesco spettacolo,
Alza la testa e apre gli occhi al giorno
E parla a Belete, in un dialetto vernacolo
Che solo lui intende e pregne come pleniforno.
E seppur sia caldo in fronte a fornace
Ancora è lucido quel greco audace.
 
67
Stretto lo ha l’Etiope che a morte
Lasciarlo non vuole e ascolta il biascichio
-Belete- annuncia, con le cervella scorte
Che quasi cascano –Lo vedi il luccichio?
Questo pendente mi ha sempre fatto forte,
Da Delfi viene, me lo diede il padre mio.
È l’unico cimelio di quella terra lontana
Che pur mi consolava in quest’erma piana.
 
68
Va dunque sul colle, là oltre il mare,
Là dove l’oracolo si espone ai vapori
Là dove il tempio Atena sta a guardare
Là dove Pitone e Gea non han valori
E Apollo la fonte ebbe a liberare
Al golfo di Corinto, giura sugli onori
Tuoi, miei e delle nostre famiglie
Che porterai questo in ricordo alle mie figlie-.
 
69
Sol questo ebbe a dire e poi più nulla
Che lo prese uno spasmo e indietro chinò il capo
Con un viso che quasi, par che si trastulla,
Al pensiero di esser stato un imoscapo
Per tutto l’esercito e la faccia gli è brulla
D’ogni negativo pensiero e grattacapo.
Quivi si lascia morir tra le braccia
Di Belete cui lagrime rigan la faccia.
 
70
Tutto il campo fu preda di singhiozzi,
Marwàn pure, per il valente pagano,
Che seppure onorava dei a lui sozzi,
Negar non poteva quell’onore soprano.
E sul viso di tutto si fanno gli abbozzi
Di lagrime amare per un fato sì villano.
Ancora mi chiedo, perché il signor misterioso
A cortese core diede presto riposo-.
 
71
Qua si fermò la favella di Alevano,
Che lui e Otto, al ricordo sì vivido,
La tristezza li coglie, si tengono la mano,
A piangere stavano con il core ancora livido.
E questo destino, sì torbido e insano,
Ci fa correr per braccia e gambe un brivido.
Non c’è corazza, nè scudo e bacinetto
Che pianger non faccia per quest’uom perfetto-.
 
72
E qua pur si ferma la novella di Zuairo,
Che solo al ricordo di tale assassinio
Sconvolto è tanto che mai più rimiro
Così come i pastori e più di tutti io.
Tanto che la mano trema e ritiro
Lo foglio prima che il mio lacrimìo
Lo possa macchiare e più non vado avante
Questo canto ormai è fin troppo pesante.
   
 
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