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Autore: sacrogral    19/01/2021    6 recensioni
Si era cambiato in fretta, aveva indossato i suoi abiti peggiori. I capelli nascosti da un cappello di feltro, preso a volo, forse di un cocchiere. Legàti, ancora pieni di cipria di riso e profumati di essenze preziose, come l’occasione formale aveva richiesto nella serata. Bel tentativo, ripensò fra sé. Adesso il tentativo era quello di non attirare l’attenzione. Ed era proprio l’opposto di quanto si era ripromesso di fare all’inizio della serata, che adesso sembrava non finire più. Si chiese cosa ci fosse andato a fare, tutto sommato – la speranza, benedetta speranza che si infila da ogni pertugio, che impedisce la visione lucida.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, André Grandier, Victor Clemente Girodelle
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Si era cambiato in fretta, aveva indossato i suoi abiti peggiori. I capelli nascosti da un cappello di feltro, preso a volo, forse di un cocchiere. Legàti, ancora pieni di cipria di riso e profumati di essenze preziose, come l’occasione formale aveva richiesto nella serata. Bel tentativo, ripensò fra sé. Adesso il tentativo era quello di non attirare l’attenzione. Ed era proprio l’opposto di quanto si era ripromesso di fare all’inizio della serata, che adesso sembrava non finire più. Si chiese cosa ci fosse andato a fare, tutto sommato – la speranza, benedetta speranza che si infila da ogni pertugio, che impedisce la visione lucida.

Eppure, non poteva permettersi di non conoscere tutto, quindi si doveva almeno il diritto e il dovere di tentare di sapere. Non c’è creatura più strana dell’essere umano, specie se innamorato: non riesce ad evitare il dolore e neppure a prenderselo a piccole dosi, preferisce la certezza devastata alla speranza incerta, e vuol bere fino in fondo l’amaro calice. E se qualcuno gli avesse detto che si sarebbe ritrovato a cavalcare nella notte verso Parigi, per entrare nella città quando la brava gente dormiva, per cercare un luogo che era da evitare come la nera peste pure da quelli che han toccato il fondo, a quel qualcuno avrebbe dato di pazzo. Non era abituato a non avere niente da perdere, lui. E neppure a perdere.

Una bettola ancora peggiore di quello che aveva immaginato, si disse. La feccia dell’umanità brulicante e dimenticabile, che non si faceva scrupoli di nulla, con le facce abbrutite della miseria, con l’aria degli ammazzatori di topi e di cristiani – e lì, uomini che non erano umani, deformi, devastati da malattie impronunciabili; e donne dall’aspetto equivoco e ripugnante, dall’odore ripugnante. Con quella sporcizia addosso che rimanda ad altra sporcizia. Estrasse il suo fazzoletto impregnato di essenza di violetta e se lo portò al naso: “Che degrado, che degrado”, pensava, incolpando di tutto ciò non un concetto per lui astratto, come poteva essere la miseria, né un’entità superiore, come poteva essere lo Stato o Dio, ma qualcosa di molto più concreto, il male insito nell’uomo, la rilassatezza dei costumi, la decadenza morale di certa gente. Perché è noto che certa gente preferisce venirsi a degradare in una volgare bottiglieria mefitica, invece che autodistruggersi almeno con un po’ di stile- e lo disgustavano le carni esposte di quella donna zoppa e mezza sdentata, lo sguardo obliquo di quel suonatore di fisarmonica, la deformità di un nano, pure monco e con la testa sproporzionata e bitorzoluta; così come l’aspetto da tagliagole dell’oste, e quel buffone ubriaco, che saltando ora su un piede, ora su un altro, declamava versi di Racine, sembrava ribadire l’ineluttabilità del male, la coscienza del male, e l’impossibilità di scegliere il bene.

“L’inferno deve essere così”, si disse, e si ritrovò a fissare un dipinto che adesso notava con più attenzione, un Trionfo della morte dipinto da mano salda, da un maestro della luce e del nero, ammise, meravigliato; e notò il realismo dei piedi sporchi di grandi e piccoli, preti e peccatori, uomini e donne che danzano al ritmo di una Morte tanto tangibile ed evidente da sembrare vera. Fu trascorso da un brivido, come se ogni cosa fosse per lui di malaugurio, annunciasse una tragedia imminente. Ad un tavolo semibuio, proprio di fronte all’affresco icastico e malevolo, sedeva il suo uomo, quello per cui si era deciso ad entrare in quel sudiciume di pozzanghere di vino e di umanità perduta.

Fingendo di non sentire commenti triviali e rozzi sul suo fazzoletto – “Cosa fai, ci sputi dentro?” “Come piace a tua madre, eh?” -  si disse che aveva sbagliato, avrebbe dovuto resistere a quella puzza da cloaca, e si avvicinò al giovane chino sul niente. Lo osservò per breve tempo, con rancore: i capelli gli coprivano il volto, mentre una bottiglia ammezzata, accanto a lui, regalava riflessi rossastri alla mano che quella bottiglia accarezzava – “Come se fosse una donna” pensò lui, pieno di rabbia. Come se fosse la sua donna.

‘Scusate, soldato, sapete forse dove potrei trovare una persona con cui avrei urgente bisogno di conferire?’ aveva chiesto a uno a caso, fra quelli della famigerata Compagnia B, d’improvviso piombati a Palazzo Jarjayes. Aveva lasciato scivolare una moneta con aria indifferente. Aveva detto il nome. ‘Lui?’ aveva ribadito quello, di rimando, prendendo il denaro con la mano avida del popolo ‘Stasera? Stasera lo trovate alla Disperazione senza dubbio, in rue Saint Lazare, a ubriacarsi’.

“André Grandier… posso?” disse infine, sedendosi e riponendo in tasca il fazzoletto, arrendevole.

“Voi? Voi qui, conte Girod…”

“Per carità, niente titoli e niente nomi. Ma l’avete visto dove mi avete costretto a venirvi a cercare? Se non tenete in conto alcuno il vostro amor proprio, dovreste almeno aver un briciolo di riguardo per il mio” esordì, come se si fossero dati un abboccamento in quel posto, come se l’interlocutore non fosse invece sorpreso, strabiliato addirittura, di vederlo.

“Mi siete venuto a cercare? Vi credevo, voglio dire, sapevo per certo che eravate a Palazzo Jarjayes, con gli altri… per lei, per Oscar” riprese confuso, diviso fra timore di qualcosa e speranza di qualcos’altro che neppure osava sperare.

“Certo che c’ero. Per madamigella Oscar, come gli altri, sì – come gli altri che nessun valore hanno ai suoi occhi. C’ero in qualità di suo pretendente e di fatto fidanzato ufficiale. Perché lei sarà mia moglie” affermò risoluto, mentendo, e guardandolo dritto in faccia, per non perdersi una movimento, neppure uno iato d’espressione che potesse sfuggirgli.

Ma quell’uomo, il suo rivale – e lo pensò davvero, con quella furia da bestia trattenuta – non aveva voglia o necessità di nascondere niente. Doveva averci pensato tutta la sera, doveva averci pensato per sere e sere di fila, si disse, a un momento come quello. Si accorse di colpo, nella penombra, dell’ematoma sotto l’occhio sano, del labbro inferiore spaccato: segni di una rissa, piuttosto recente, certo per qualche motivo futile, motivi da uomini del popolo, carrettieri che risolvono le questioni a pugni e cazzotti. Provò ribrezzo, il conte Victor Clement Florian de Girodelle. Una bestia, ecco cos’era: come il resto della fauna da cui si trovava circondato e braccato. Ma doveva sapere.
Con quell’aria da eroe sconfitto, con quella maestà che possiedono i rassegnati – pensò con astio il conte Girodelle – l’uomo si versò del vino, e lo osservò senza toccarlo.

“Siete un uomo fortunato. Brindo a voi, avrete una sposa devota, una moglie consacrata, una donna meravigliosa. Meravigliosa” ripeté, accennando un sorriso, forse vedendo in lui un brav’uomo per lei, uno giusto un po’ migliore di tutti gli altri che niente valevano ai suoi occhi. Giusto un brav’uomo, si infuriò il conte.

“Perché dite così? Cosa ne sapete, voi?”

André lo guardò, di nuovo stupito. Non vide la felicità del futuro sposo, che era venuto a sbattergli in faccia – perché a lui? Perché proprio a lui? – la soddisfazione per la felicità raggiunta; non vide lo sguardo dell’uomo appagato, del conquistatore soddisfatto, non vide il capobranco che si è preso la femmina desiderata. Immobile, quindi, si sforzò per metterlo a fuoco.

“Cosa ne sapete voi? Parlate come se la conosceste, parlate come se – fece una pausa, il conte, abbassò il tono – come se l’aveste già avuta”.

“Badate a voi, signore” disse André, comprendendo, e sentendo montare quell’indignazione, che era il desiderio di proteggere lei, di non permettere a nessuno, mai, di pronunciare una parola che potesse infangare lei.

“Perché, non è così? Come lo chiamereste, quello che c’è tra voi? Avreste il coraggio di negare, o cercate solo altri nomi, più romantici, più poetici, per quello che non avete il coraggio di pronunciare davanti a me?”

André ragionava in fretta, e taceva. Quello era un uomo disperato, un uomo rifiutato. Uno che non riusciva a comprendere il perché di un rifiuto. E si attaccava a tutto. Averla. Se fosse stata sua, se avesse potuto almeno sperare, come era lecito al conte, lui non sarebbe andato a cercare nessuno. Lui sarebbe stato insieme a lei, a osservarla; o lontano da lei, a pensarla. Lui sarebbe stato a ripassare nella mente ogni istante condiviso, a ricordare il sapore di quelle di labbra svestite dalle sue, proprio come stava facendo fino ad un attimo prima che quel folle improbabile disperato gli si sedesse davanti.

Osservò la Morte che rideva dal dipinto: “Pure qui” le chiese “mi deve raggiungere la guerra inutile?”

“Lei vi ha detto di no” disse, sicuro “E voi siete venuto qui alla ricerca di un motivo. E lo volete da me. Ve lo direi, e volentieri, se ne avessi uno da offrirvi. Ma non ce l’ho. Posso offrirvi solo del vino scadente, se volete”.

“Ascoltatemi” disse allora Girodelle, e sembrò quasi avvilito “Voi dovete andarvene. Dovete sparire. Cosa vi trattiene? Lei sarà mia moglie, questo è certo, ma voi dovete andarvene. Posso darvi del denaro. Posso… posso cercare di restituirvi quello che avete perduto. Ci sono dei medici, dei guaritori – forse il vostro occhio non è perduto definitivamente. Forse potreste curarvi. Io vi aiuterei. In Inghilterra, in Svizzera… potrei fornirvi dei nomi, delle lettere di garanzia”

André sorrise, senza alcuna intenzione offensiva e senza gioia. Nello stesso modo in cui sorrideva la Morte dalla parete.

“Sapete, ho già ricevuto una proposta non identica, ma simile. Ho in tasca il nome di un luminare, e una lettera di presentazione con tanto di sigillo, e non immaginereste mai a chi appartiene quel sigillo (1). Ma non posso andar via adesso. Non posso. E voi avete frainteso. Oscar non è come le altre dame di Versailles. Che io resti qui, che parta e vada lontano, per voi nulla cambierebbe”.

“Voi mentite!” si infuriò il conte, fuori di sé “Lei… lei me lo ha detto, mi ha detto che conosce altre labbra. Potreste giurare, lo potreste fare, che non sono le vostre?”
E lui allora esitò. Per incertezza, non per paura. Non osava dirlo neppure a se stesso.

“Le sue labbra” mormorò in silenzio, al vuoto, all’affresco funereo, al gestore della locanda, al nulla “Le sue labbra a sedici anni, toccate per una scommessa perduta… le sue labbra a vent’anni, lei incosciente, ubriaca… le sue labbra denudate a trent’anni, la sua pelle fresca, impressa nel cervello, ricordata dal cuore… le sue labbra che mi han salvato la vita (2)” e avrebbe voluto gridarlo, che le sue labbra le conosceva.

E poi guardò in faccia il suo rivale, che quello era, alla fine, e negò. E lo fece perché lei avrebbe voluto questo, lei che partecipava a una festa voluta da suo padre per trovare un marito, lei che gli aveva detto: “Non mi sposerò tanto presto” ma non l’aveva voluto con sé, lei che, avvolta in una nuvola di profumo, nel bianco di un abito dalle spalle scoperte – le spalle scoperte di lei! – avrebbe potuto scegliere. E lui invece non poteva scegliere, non era in grado.

“Non so di cosa parliate. Io lo conosco, qual è il mio posto”.

E Girodelle, infuriato, consapevole della menzogna, certo di sapere, sicuro della verità, della mendacia e della sconfitta, anche più di lui, sentendosi umiliato, e offeso, e deriso, afferrò i bicchiere di vino e ci sputò.

“Ci sputo dentro” gridò “Come piace a madamigella Oscar!”

Il pugno non lo vide nemmeno arrivare.
 

“In piedi!” gridò, quello più robusto, quello che aveva attaccato per primo “In piedi, finto nobile, cane del re, pezzo di sterco! Ti voglio in piedi, per buttarti di nuovo nel sudiciume come meriti”.

Mai far perdere il controllo ai calmi, pensò in un attimo l’uomo disteso sul pavimento, confuso e incerto. Mai azzardare, mai attaccare per primo.

Vagamente percepì il capannello di folla, le scommesse che iniziavano – gli diamo di che divertirsi, a questa plebaglia, si rimproverò.

L’oste intervenne in tempi rapidi.

“Alla Disperazione non si ammazza, se avete intenzioni serie andate fuori” sentenziò “I danni li paga chi resta in piedi, e subito. Se quello a terra ha del denaro, poi non ce l’ha più. Se ha dei denti d’oro, poi non ce li ha più. E potete tornare quando volete. La morte non fa distinzioni, noi nemmeno” si voltò “Voi, per le scommesse, rivolgetevi a me. Solita maniera” e si mise zitto, insieme agli altri.

 
“Lei, lei… nemmeno il nome di lei, devi pronunciare, buffone da operetta” gridò quello che aveva iniziato, feroce “Lei ti ha detto di no. Lei ha scelto. Lei è libera. Lei è l’unica cosa che conta davvero. Lei è quello per cui val la pena vivere”.

Girodelle lo guardò dal basso verso l’alto.

“Lei non è mia. Lei non appartiene a nessuno. Io posso solo guardarla, posso starle vicino. Io morirei se non le stessi vicino. Ma lei è libera. Voi, pure voi, dovete accettarlo. Non è importante che non capiate il motivo, voi potete solo accettarlo. Date un occhio per lei, e poi pronunciate il suo nome. E ora in piedi, mostratemi quanto vale il vostro onore!”

Si guardò intorno, il conte. Lì non era Versailles, non c’era dubbio alcuno. Non si facevano distinzioni.

Il buffone che aveva visto prima lo guardava, con aria compassionevole: “Non è più un ardore celato nel mio sangue: è Venere completa, attaccata alla sua preda (3)”.
“Coraggio, amico, scommetto su di te” gli disse il nano “Quello è orbo, non vede nemmeno dove tira”.

“Per una donna…” sospirò quella baldracca da due soldi che aveva visto all’entrata, e gli sembrò quasi bella.

Oscar che gli aveva detto di no, ché una persona a lei troppo cara avrebbe sofferto; Oscar che non aveva parlato d’amore, ma che aveva rivelato amore suo malgrado, e non per lui. Non per lui che avrebbe potuto renderla felice, cambiarla, restituirle ciò che – a suo vedere – le era stato tolto. Invece lei era libera. E il profumo della sua pelle, la sua carne , poteva solo immaginarla.

Entre chien et loup, pensò, quando ti sforzi di sembrare la persona più aristocratica in un luogo non puoi imparare nulla, si disse. E poi: “Batto le mani nella nebbia. Nessuno mi vede, nessuno mi sente, voi non sarete qui quando morirò. Perché gli ho parlato in quei termini? Perché insozzare il nome di madamigella Oscar? Mi muovo nella nebbia, smarrito. Contro cosa combatto? Cosa cerco?”

E d’improvviso, così com’era venuta, la furia sembrò ritrarsi, e il conte Girodelle osservò il suo avversario abbassare le mani, lo stupore nello sguardo, l’incredulità a rendere incerti i movimenti:

“State piangendo, Victor”, quasi sussurrò.

Vedendolo sfocato nella pioggia, il conte Girodelle rispose:

“Avete vinto voi. Avete sempre vinto voi”
 
 
 
 
  1. Riferimento a una mia storia precedente Sarebbe un pazzo colui che adottasse un modo di pensare solo per piacere agli altri.
  2. Riferimento a una mia storia precedente Lei arriva coi fulmini nel cielo sereno.
  3. Jean-Baptiste Racine, aforismi.
  
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