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Autore: Gaia Bessie    03/03/2021    2 recensioni
Ti ho vista nascere.
Anno del signore, 1738: forse aprile, forse maggio – la memoria s’è persa a ogni rabbocco di Rhum1 che dal collo m’è scivolato nello stomaco e, allora, a cosa servono i pensieri? L’alcol i pensieri li diluisce e, allora, anche il vetro che mi compone lo è, opaco e diluito.
1738, a marzo un folle ciarlatano di nome Jenkins si era presentato ai Comuni con un mio simile, sfregiato dalla presenza di un orecchio nel ventre, inneggiando alla guerra. E così fu.
Sei figlia di un conflitto, Caroline, più che di una madre e di un padre. Figlia degli errori di Walpole e la sua Convenzione2 mancata, di Compton e dei due Pelham. Figlia di un padre che confidava in me più che in Nostro Signore, Caroline, sei nata nella stanza dove io facevo da soprammobile.
E io ti ho vista nascere, da madre che non è vissuta abbastanza per darti un nome, e allora così sia: Caroline come la regina orfana, prima, sepolta poi. E mai dimenticata, infine.
Ti ho vista anche crescere.
[Seconda classificata al contest "Storie incrociate" indetto da mystery_koopa sul forum di EFP]
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Epoca moderna (1492/1789)
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Premessa doverosa: questa storia, che è ambientata nei primi anni della Guerra dei Sette anni (1756-1763) contiene una quantità di riferimenti storici imbarazzante, che troverete a fine pagina. Scusatemi, ma è una deformazione professionale. La canzone che da il titolo alla storia proviene dal cartone disney "Hercules", che ho messo in francese in piena coerenza con la trama.
Inoltre, attenzione: la storia parla in modo ambiguo di alcol.
Per quanto riguarda l'ascendenza della protagonista, ho pescato tutte famiglie realmente esistite.


Ti ho vista nascere.
Anno del signore, 1738: forse aprile, forse maggio – la memoria s’è persa a ogni rabbocco di Rhum1 che dal collo m’è scivolato nello stomaco e, allora, a cosa servono i pensieri? L’alcol i pensieri li diluisce e, allora, anche il vetro che mi compone lo è, opaco e diluito.
1738, a marzo un folle ciarlatano di nome Jenkins si era presentato ai Comuni con un mio simile, sfregiato dalla presenza di un orecchio nel ventre, inneggiando alla guerra. E così fu.
Sei figlia di un conflitto, Caroline, più che di una madre e di un padre. Figlia degli errori di Walpole e la sua Convenzione2 mancata, di Compton e dei due Pelham. Figlia di un padre che confidava in me più che in Nostro Signore, Caroline, sei nata nella stanza dove io facevo da soprammobile.
E io ti ho vista nascere, da madre che non è vissuta abbastanza per darti un nome, e allora così sia: Caroline come la regina orfana, prima, sepolta poi. E mai dimenticata, infine.
Ti ho vista anche crescere.
 
 
Le Monde qui est le mien
 
Et leur voix chantent en moi
Tu es né pour cette vie
Je prend le chemin
De mon rêve d'enfance
 
 
Chesterfield House, 12 giugno 1756
 
Sei sbocciata in tempo di guerra, Caroline, e questo non potrò mai perdonartelo: hai portato i venti della tempesta nella casa di tuo zio, insieme a tuo padre, sebbene tu ancora non riesca a esserne cosciente.
Nata in guerra, cresciuta in guerra – non v’è dubbio riguardo la maniera in cui dovrai morire, mia signora, non v’è inganno alcuno – e infine in guerra respiri il giorno in cui ti comunicano che è semplicemente finita. Che l’Inghilterra scenderà in campo contro la sua nemica secolare, la Francia, e tu sei orfana e tuo padre è morto.
S’è tagliato le vene nella tinozza da bagno, come uno stoico, e nessuno s’è reso conto che aveva macchiato l’acqua di sangue mentre esalava gli ultimi respiri. Nessuno ha voluto farci caso, ma io c’ero. Poggiata sul pavimento macchiato d’acqua saponata, ero lì: una bottiglia piena di Rhum e niente di più.
Tu non hai nemmeno pianto, quando hai aperto uno spiraglio di porta per udire una risposta a un richiamo che tuo padre non poteva più sentire. Avresti potuto?
D’acciaio la volontà che ti anima, d’acciaio anche i tuoi sguardi e, allora, con che forza avrebbe potuto piegarti, la morte?
Sei corsa ad avvertire tuo zio, monsignore il Duca, raccogliendo le gonne tra le braccia: mia cara, dovresti sapere che solamente i ladri e i bambini possono correre3. Non ti sei accorta di me, l’ultima azione di tuo padre e il suo ultimo desiderio, abbandonata sul pavimento reso scivoloso dall’acqua saponata: una bottiglia. Poche sterline, il mio valore, pochi sospiri che ti ho strappato via con la forza bruta.
Il duca di Chesterfield si è immediatamente reso conto della mia triste esistenza, ma non ha voluto toccarmi: con disdegno – le lettere morali4 le scrivono gli uomini probi, e niente di diverso mi sarei mai aspettata – mi ha guardata, spostandomi con il piede in un angolo della stanza. Ma io ti vedevo ancora.
Indossavi un abito giallo: in un altro tempo e in un altro luogo5, il colore delle prostitute. Ecco, mi sono detta guardandoti china sul corpo di tuo padre, anche loro possono correre.
«Mi dispiace, Linette6» ha commentato, il duca tuo zio, con voce sommessa. «Avrei voluto poter fare qualcosa».
Tu non hai risposto: ti sei guardata attorno e mi hai visto, e un sorriso t’ha incrinato il viso, deformandolo.
M’hai dato un calcio, Caroline, Linette, mia amata bambina. Un calcio che mi ha fatta rotolare contro il muro, creando una melodia asimmetrica che ti tormenterà per tutta la vita: il canto d’un vetro incrinato, e poco di più.
M’è saltato via il tappo, è caduto un po’ di rhum. Nulla di diverso dal contenuto di quel sangue che macchiava il pavimento, però.
Ti sei sporcata le scarpette, inzuppata il vestito d’acqua mentre ti chinavi a guardarlo più da vicino.  Come se non riuscissi a crederci.
Mi dispiace per davvero, Linette. È stata tutta colpa mia.
 
***
 
Chesterfield House, 3 luglio 1756
 
«Dovreste gettarla via, Linette» Philip giocherella con uno dei tuoi fermagli, passandoselo tra le dita con aria ispirata. «Non è sano, il vostro attaccarvi a una bottiglia».
È un poeta mancato, Philip, ma se qualcosa davvero gli manca è la sensibilità artistica: non ha mai compreso perché, tra tutte le cose, abbiate scelto di tenere me. Sopra la vostra toeletta mi avete poggiato e, io, respiro aria che sa cipria e belletto ogni mattino – quando ti ridipingi un sorriso che è sempre nuovo, sempre allegro e affascinante, e lo sciacqui via a fine giornata.
«Mio padre non mi ha lasciato nient’altro» ribatti, con dignità. «Una bottiglia di Rhum, e niente di più».
«E una dote, un buon nome e…» il ragazzo ti sorride, come se tutto quello che ha elencato contasse qualcosa. «Una famiglia su cui contare».
Tu sorridi, ma è un movimento cui il tuo corpo sembra opporsi con tutte le sue forze, e allora è solamente una smorfia che t’incrina il viso. Lui non se ne accorge, non si accorge mai di quella tempesta che ti erode l’anima a unghiate, e allora ricambia il sorriso come se farti sorridere fosse la massima benedizione che la vita gli ha concesso.
«Una dote senza matrimonio conta poco» commenti, così piano che Philip sembra quasi non averti sentita. «Conta esattamente quanto quello che mi è rimasto: una bottiglia di Rhum, e niente di più».
Io lo sento, che ti sei pentita di quelle parole nel momento esatto in cui ti sei risolta a pronunciarle, guardandoti stanca nel riflesso della tua toeletta e trovandovi solamente un’estranea dagli occhi chiari come biglie di vetro.
La morte di tuo padre ti ha sciacquato via i colori come dopo una secchiata d’acqua saponata e, allora, tutto in te appare sbiadito e slavato, incolore, e pure i lineamenti s’amalgamano alla densa uniformità della tua pelle troppo bianca.
«Non vi piacerebbe sposarvi?» ti domanda, seduto sul tuo letto, con un sorriso interessato. «Avere una casa vostra, magari dei figli da educare?».
Io – ti ho vista nascere e crescere – so che non potrai mai desiderare nulla di tutto questo, e forse non riuscirai mai a farlo per davvero. Ma Philip, che eppure è cresciuto insieme a te, sembra non avere alcuna consapevolezza, cieca o meno, dello spirito che dolcemente ti anima e ti tiene sveglia ogni notte.
«Certo che sì» menti, digrignando leggermente i denti. «Chi non vorrebbe una cosa del genere?».
Non c’è sarcasmo, nelle tue parole, ma solamente un tiepido rimpianto.
«Non vi piacerebbe sposare me?» continua, speranzoso. «Sono sicuro che mio padre acconsentirebbe, se tu glielo domandassi».
D’acciaio lo sguardo che gli rivolgi, lo pieghi come un sospiro infranto a metà lungo l’argine delle labbra, e Philip china il capo disorientato. Capelli bruni gli tagliano la fronte nell’ennesima ferita che la vita gl’infliggerà, forse l’ultima, anche se ancora non ne hai piena consapevolezza.
«Non v’è ragione per cui io debba farlo» commenti, atona. «Non ho intenzione di sposarmi, tantomeno con voi».
Lui china il capo e silenziosamente esce dalla tua camera da letto: non lo sai, ma questa è l’ultima volta che i tuoi occhi si poseranno nei suoi. Domani Philip dirà al padre che vuole partire per la guerra.
Non farà più ritorno.
 
***
 
Chesterfield House, 16 luglio 1756
 
Ti dicono che hai bisogno di un marito, che una donna ancora non può pensare di poterne fare a meno, che tuo padre avrebbe voluto questo per te, che. Che non conta la sua volontà, dal momento che è costata un erede a Lord Chesterfield.
Ti viene detto in questo modo: che Philip ha scelto l’abbraccio delle armi e ha detto che, comunque vada, non farà ritorno. Che sia la morte consolatoria per il suo cuore infranto e, se così non fosse, passerà il resto della vita a fuggire dal tuo ricordo. Te lo dice così, tuo zio, con una smorfia di dolore che gli sfregia il volto stanco.
Te lo dice mentre sei seduta alla toeletta e non sai più distinguere il tuo pallore dalla cipria che hai applicato sul volto, e il belletto sembra solamente un trucco teatrale per quel viso che ha perso di ogni poeticità. Che poesia ci deve essere, sibili a te stessa, nella guerra?
Ma Philip è sbiadito come i tuoi ricordi e, allora, devi rassegnarti al fatto che tutto è perduto, da dimenticare. Squallido, questo pensiero, e per un momento mi guardi come se fossi la soluzione ai tuoi problemi.
«Lord Manners sarà qui nel pomeriggio» ti avvisa, con tono ammonitore. «Porterà con sé il suo secondogenito. Un peccato che il primogenito sia stato promesso alla figlia di Sutton».
Non esplicita cosa ciò comporti per te, ma tu lo sai, segretamente lo sai – sai che il ricordo di Philip dovrà essere rimpiazzato e che tu, alla fine dei giochi, non sei altro che una povera sciocca. Perché, nel momento in cui ne avresti avuto bisogno, non sei stata capace di dirlo.
Che avresti potuto imparare ad amarlo: non tutto insieme, quello sì, ma giorno dopo giorno forse. Forse ci saresti riuscita.
«Non posso» sussurri, ma tuo zio ha già varcato quella soglia di cui la tua reticenza è solamente l’anteporta. «Non posso».
Ma a cosa serve dire che non puoi, poi, se nel castello d’illusioni in cui ti sei trincerata Philip è svanito come i tuoi ricordi e a te non rimane più niente da fare, se non acconsentire?
Mi sfiori, scorrendo con l’unghia sul vetro crepato.
Ma è solo un pensiero, non mi prendi in mano per davvero, non sviti il tappo e non bevi un sorso. No?
 
***
 
Chesterfield House, 31 luglio 1756
 
Si chiama James. Lo ripeti come una filastrocca, mentre giochi a calpestare le macchie sul pavimento di legno di camera tua, si chiama James. Il figlio del conte di Rutland, che mai erediterà il titolo paterno, il figlio di secondo letto, il nullatenente. James.
Io non l’ho visto mai, non hai avuto l’ardire di portarmi con te a conoscerlo, ma ho udito le tue lamentele con le domestiche mentre ti aiutavano a vestirti. Si chiama James ed è già stempiato, ed ha a malapena ventitré anni, gli occhi come biglie enormi su un viso troppo scarno, le palpebre pesanti.
Non lo dici mai, ma ti sei pentita di non aver chiesto a Philip di sposarti, di portarti via dalle ombre che ti danzano in mente. Oggi piove a dirotto e t’è proibito uscire – che il conte sappia che saresti disposta a lasciarti morire d’influenza? Una morte ingloriosa, ma accoglieresti con grazia quella fine definitiva.
Ma a cosa servirà opporsi, gridare, e piangere se tanto ormai è decisa? Ti ha consegnato uno degli anelli della madre defunta e tu, sopprimendo un brivido di disgusto, l’hai indossato: uno smeraldo piccolo come una perlina e niente di più.
«Caroline?» una voce ti distoglie dalle tue fantasticherie, facendoti rabbrividire. Ed è ancora luglio. «Mi ricevete? Sono…».
Sospiri. Cos’è tutto questo freddo che ti senti dentro, quando fuori il cielo piange umidità e tu non hai idea di quel che diventerai quando l’acqua ti laverà via il trucco.
«Entrate» mormori, burbera. «So chi siete».
Lord Nullatenente entra, a disagio: ha un sorriso gentile, e un po’ sciocco, sul volto – non è brutto come dicevi, Linette. Non ha niente della grazia di Philip, della sua bellezza poetica, ma sapevi a cosa stavi rinunciando.
«Mi è sembrato che non foste contenta dell’anello di fidanzamento» osserva, a disagio. «Così ho pensato di portarvene un altro. Lord Chesterfield mi ha detto che vi avrei trovata qui».
Tu pensi che non puoi provare pietà, che è l’anticamera della morte di un matrimonio: disgusto, indifferenza sì, ma pietà mai.
Eppure Lord Nullatenente sorride ed estrae un anello dal farsetto, decorato da uno zaffiro di dimensioni tutt’altro che modeste. «Me l’ha regalato mio fratello» borbotta, porgendotelo. «Ha detto che se avrò una moglie bella, tanto vale donarle dei gioielli che reggano il confronto».
Il tuo sorriso pare più una smorfia, Linette, ma non esiti a porgergli la mano. Silenziosamente, lo sai, gli stai consegnando anche l’ultima parte di te.
«Impareremo ad amarci, mia signora» borbotta, lui, a disagio. «Penso di poter promettervelo. Ci impegneremo e, con il tempo, poi…».
Tu scuoti il capo. «Il tempo» ripeti, con una smorfia di finta cortesia sul volto. «Non serve amore in un matrimonio, mio signore, o non ci sarebbe bisogno di costringere le spose».
«Mi piacerebbe se riusciste a farlo» risponde James, chinando il capo con aria un po’ patetica. «Ad amarmi».
Pensi a Philip, Caroline, che è fuggito pur di non coesistere con la tua indifferenza ed un po’ te ne penti.
«Certo che sì» la tua voce suona falsa persino nei tuoi pensieri. «Quale sposa recalcitrante non dovrebbe sciogliersi di fronte a una tale prospettiva?».
Lui sospira, ma non dice nulla.
 
***
 
Manners House7, 22 ottobre 1756
 
Ti hanno messa in una bella casa, confortevole, con belle finestre di vetro in cui puoi specchiarti quando passeggi per i corridoi. Ti hanno dato una servitù da gestire, ti hanno detto che dovrai crescere dei figli e amare tuo marito.
Ti hanno detto che. Che non c’è spazio per l’amore, nella tua vita, e adesso devi solamente tollerare quel che Dio pensa tu possa essere in grado di sostenere per la porzione d’esistenza che ti resta. Che non c’è spazio per la tenerezza, i romanzi che hai letto sono solamente parole al vento, e tu non dovresti ascoltarle.
Hai un marito gentile, Linette, anche se non riesce a lenire l’insofferenza che provi nei suoi confronti. Ma adesso sei Lady Nullatenente e ti tocca inclinare il capo di fronte allo sguardo di tuo marito e sorridere. Passi le giornate a ricamare, a leggere i libri che tuo marito ti consegna – tutti sermoni, politica: ti vuole istruita, James, ma non così tanto da fargli concorrenza – e a pregare per un figlio e una lettera. Che non arrivano.
Squallido, il modo in cui tuo marito ti guarda nell’apprendere che anche questo mese non sei rimasta incinta, con gli occhi pieni di una tacita tristezza che non comprendi. Non puoi. Eppure James ti osserva come se avesse paura di dirti che non c’è speranza, nemmeno un surrogato, per voi: non v’è mai appartenuta e tu, da qualche parte tra le fondamenta del tuo cuore bugiardo, devi saperlo.
«Caroline» ti chiama, tuo marito. T’eri incantata a fissare il vuoto e con l’ago ti sei ferita il dito, macchiando il ricamo.
«Perdonatemi, ero distratta» borbotti, alzandoti in piedi di scatto, osservando quel sangue come se non t’appartenesse. «Avete bisogno di qualcosa?».
«Temo di dovervi dare un dispiacere, Caroline» risponde tuo marito, ma ha una traccia segreta di soddisfazione che gli sfregia la voce come una cicatrice. «Forse è meglio che vi sediate».
Obbedisci, come una piccola bambola di legno, piegandoti sulle ginocchia e lasciandoti cadere sulla sedia: nemmeno lo senti, l’impatto brusco con l’oggetto, perché già sai. Sai che Philip se l’è mangiato la guerra e qualcuno gli ha sparato in battaglia.
Forse un francese o un prussiano mentre cercava di mettersi in salvo durante una battaglia. Forse il re in persona, forse un paggio armato fino ai denti per combattere una guerra per cui non bastano gli uomini. Forse, no, sicuramente è andata così: perché il tuo cuore manca un battito, e allora pensi che tuo marito cerca le parole per dirtelo.
«Ditelo» sussurri, hai gli occhi pieni di lacrime. «Senza addolcirlo. Ditelo e basta, James, ve ne prego».
«Ho ricevuto una lettera da vostro zio» comincia, lui, con tatto. «Devo dirvelo, Caroline: vostro cugino Philip non farà ritorno».
Quelle parole sono come cadere all’indietro, e forse cadi per davvero, ti ci getti su quel pavimento: t’inghiotte, come quelle parole, e a te manca persino l’aria necessaria per dire di no. Che non l’accetti, che sarebbe venuto un tempo per voi che non è adesso e, ormai, non sarà più. Se solamente avessi saputo che non c’era più tempo te l’avrei detto, Linette, te lo giuro.
Non ti rendi conto d’esser svenuta finché non ti ritrovi sul letto, con tuo marito che ti guarda angustiato.
«Caroline» ti chiama, scuotendoti leggermente. «State bene?».
Tu vorresti solamente piangere, ma temi di non avere la forza nemmeno di compiere un’azione così basilare: ti manca il fiato e non hai idea di come si faccia a ritornare a respirare. Annuisci, non hai più parole da pronunciare.
«Sì» borbotti, tirandoti su a sedere di scatto. «Philip. Cosa gli è accaduto, James? Dovete dirmelo».
Lui sospira, ti carezza il viso con il dorso della mano – sopprimi un brivido d’insofferenza, ti sforzi di sorridere – e scuote il capo con dolcezza fastidiosa.
«Niente di grave: è semplicemente fuggito nelle Americhe» ammette tuo marito. «Ha scritto una lettera a suo padre, dicendogli che non tornerà».
Non era il vostro tempo, Linette, e adesso non lo sarà mai più: e che senso ha respirare, poi, se la lontananza prende il fiato come se le appartenesse. Che senso ha guardare tuo marito che ti restituisce un’espressione vuota, priva di ogni strascico di comprensione, mentre tu semplicemente ti domandi perché.
«Non guardatemi così» ti sussurra James. «Cosa vi aspettate che io vi dica, Caroline? Che comprendo?».
Tu non riesci a rispondere. Tuo marito t’osserva con quei suoi occhi perennemente velati di tristezza ingiustificata, e tu vorresti solamente metterti a gridare. Che non capisce, non capirà mai: che ne sa lui, del provare qualcosa per qualcuno, del non è tempo gridato da una nave diretta verso le Americhe?
Ma James ti guarda e, per la prima volta da quando l’hai sposato, ha dipinto sul volto un’espressione piena di disgusto.
«Pensate che io sia stupido, Caroline?» ti domanda, con una pazienza che in realtà non gli appartiene. «Che non sappia che credete di amarlo?».
Tu vorresti urlare che è la verità, che forse non l’hai amato sempre o non l’amerai in un ancora futuro, ma che al momento vorresti solamente che fosse qui per portarti via, sulla nave diretta verso le Americhe.
«Voi non l’amate» ti mormora, crudelmente. «Non ne siete capace».
Sono parole che cadono sul fondo del cuore e lo graffiano, tu lo guardi con gli occhi spalancati, grandi come scodelle. «Certo che ne sono capace» rispondi, altera. «Chi non lo è?».
Lui ride, prima di voltarti le spalle e uscire a grandi passi dalla stanza: sulla soglia, mormora una parola. Ascoltala bene, Linette. Ti rimarrà incisa dentro per tutta la vita.
«Voi».
 
***
 
Manners House, 23 ottobre 1756
 
Scappare, dove andare?
Una donna sola dove potrà mai andare, ti dici, non potrai fare come Philip e fuggire nelle Americhe in un soffio di vento. Una donna non può scappare, prendere e andare via senza che nessuno la cerchi. James ti cercherebbe?
In ogni angolo del mondo, cercherebbe qualcuna che non sei tu ma ti somiglia? Sentirebbe la tua mancanza?
Sviti il mio tappo, prendi un sorso. Vorresti tanto essere in grado di amarlo, pensi, renderebbe le cose più facili – ma fastidiosa, è la sua intrusione nel suo letto, fastidiosi i suoi baci, fastidioso il suo peso contro di te.
Hai scritto una lettera, stanotte, mentre il sonno si arrampicava sulle palpebre e t’impediva di ragionare lucidamente. Hai scritto una lettera che, a Philip, non arriverà mai: non te lo permetterebbe mai, e lo sai.
Hai scritto una lettera e l’hai nascosta nel camino, sotto i ciocchi di legno messi a seccare, e la farai bruciare quanto prima. O, almeno, così credi.
Sono tante le cose in cui credere, i sogni in cui sperare, che adesso semplicemente non lo fai più: ti scivola addosso il presente come acqua torbida dalle fogne di Londra e, allora, che senso avrebbe scappare?
«Non siate arrabbiata, Caroline» ti mormora tuo marito, quella sera, con una dolcezza che non prova. «Sono sempre stato un buon marito, per voi».
Tu sorridi e taci, dentro di te ogni cosa ribolle – e l’acqua di scolo sale sulle fognature, allagando la città.
«Caroline» ti richiama lui, posandoti le mani sulle spalle. Tu, che sei seduta davanti allo specchio, con i capelli sciolti e la spazzola in mano, lo vedi.
Le palpebre pesanti, gli occhi azzurri, il viso contratto in una patetica espressione di dispiacere: lo vedi e ti sembra un estraneo più che mai. Un marito che non hai chiesto e che non avresti scelto. Sciocca, Caroline, a mandare via l’amore della tua vita per capriccio. Non era tempo o l’hai cancellato tu, con l’acqua saponata in cui è morto tuo padre?
«Sì, lo siete» rispondi, meccanicamente.
«Vorrei che imparaste ad amarmi» risponde lui, togliendoti la spazzola dalle mani e posandola sulla toeletta. «Forse avreste bisogno di tempo, ma io sono propenso a concederlo e poi… un giorno sarete madre dei mie figli, Caroline. Dovresti pensare a questo, piuttosto che a fuggire nelle Americhe».
Cerchi di non sobbalzare, mentre ti volti verso il caminetto e noti che qualcuno ha tolto tutti i ciocchi di legno. Vuoto, come il cuore mentre manca i suoi battiti, come la mente mentre cerchi le parole, una giustificazione.
«Imparerò» ti cavi via dalla bocca. «M’impegnerò per farvi felice».
Qualcosa di nudo ed esposto, da qualche parte dentro di te, piange disperato – nel luogo in cui risiede l’anima più pura, stai sanguinando e a stento te ne rendi conto.
«Sarete una brava moglie, Caroline, se imparerete l’arte della dimenticanza» osserva James. «Dimenticate. Avremo una bella famiglia, tutta nostra».
Chiudi gli occhi, una lacrima ti scivola silenziosamente giù lungo il viso, schiantandosi contro la superficie lignea del tavolo. La strada verso il letto non t’è mai sembrata così lunga come questa sera, con lui che ti guida senza dolcezza, senza amore.
La strada verso il sonno non t’è sembrata mai così difficoltosa, con le gambe sporche e l’anima lurida di bugie.
 
***
 
Manners House, 1 gennaio 1757
 
Hai saltato un ciclo e non gliel’hai detto. Hai tenuto per te questo piccolo segreto, l’hai tenuto per noi: mi hai fatta riempire da un servitore, più e più volte – prima di rhum, poi di gin: speri forse di annegarlo, quel bambino, Caroline?
Hai saltato un ciclo e non gliel’hai detto, ma lui l’è venuto a sapere dalle tue domestiche. È corso da te, con l’entusiasmo di un bambino (che tu non vuoi) e ti ha preso le mani. Tu hai desiderato toglierle da quella stretta un po’ umida e appiccicosa, ma ti sei imposta di non farlo.
«Mi avete resto felice, Caroline» ti sussurra. «Davvero felice».
Anno del signore, 1756: dicembre, il giorno in cui scopri che diventerai madre e sei sicura di non volerlo.
1756, dicembre: il mese in cui l’Inghilterra comincia una guerra infelice contro la Francia, nelle Americhe, nello stato che reca il tuo nome. North Carolina come baluardo della guerra contro i francesi, chissà se Philip sarà scappato lì?
Sarà figlio di un conflitto, questo bambino, tra le due secolari nemiche in Europa: figlio dell’instabilità politica cui tuo zio porrà rimedio8, figlio degli errori di Pitt e di Newcastle. Ma, soprattutto, figlio tuo. Di due genitori che tacitamente sono anch’essi in guerra tra di loro, nascerà nella stanza dove io non sono un soprammobile, ma il tuo più caro amico.
E lo vedrò nascere, esattamente come ho visto nascere te, e forse persino crescere se vivrà abbastanza per poterlo fare.
Non sai nemmeno se sarà un maschio oppure no ma, nei lidi oscuri della tua mente, gli hai già donato un nome. Philip.
A tuo marito non lo dici, ma è così che chiami quel bambino al sicuro tra i tuoi pensieri, è così che lo chiamerai sempre. Philip.
Come l’unica persona che credi d’aver sempre amato, e non c’è più tempo per farlo, e non lo farai mai più. Prendi il suo ricordo e lo consegni a tuo figlio come un’eredità di sangue cui non potrà mai svincolarsi.
Lo guarderai crescere.
Ma, mentre sviti il mio tappo per bere una sorsata generosa di liquore, ti domani, se veramente potrai vederlo crescere o finirai come tuo padre – le vene aperte in una vasca da bagno, come uno stoico.
E, allora, rimarrò solamente io. Lo guarderò crescere per te, Linette.
 
***
 
Manners House, 5 febbraio 1757
 
Il giorno in cui ti dice che tornerà hai diciotto anni e poco spazio in testa per i pensieri, ed è tutta una gran confusione che striscia e s’attorciglia sulla fronte, in una ruga che ieri non c’era. Il bambino – quel figlio che non è tuo – inizia a pesarti dentro e tu non hai idea, non l’hai mai avuta, di cosa stai diventando.
Forse, ti dici osservandoti allo specchio, tutto quello che hai sempre temuto: una moglie, d’amare senza amore, una madre e, alla fine, persino una bugiarda. Menzogne sono quei sorridi che ti tiri sul viso a fatica, separando i muscoli con la forza bruta, senza arte.
Non c’è poesia, negli sguardi che rivolgi a tuo marito, non c’è ballata che tenga quando parli senza musicalità, senza amore. E lui non se ne rende conto, ma lui cerca poesia9, una storia che faccia scendere la pioggia in uno scroscio dolcissimo e. E tu non puoi scrivergliela, quella canzone, non puoi suonargliela.
Il giorno in cui ti dicono che tornerà hai diciotto anni e le mani che tremano su un ricamo per tuo figlio – tuo, Caroline? – e non hai idea di quel che diventerai domani. È uno spostamento d’aria infinitesimale, ma lo senti.
È la pioggia che scende e tu vorresti semplicemente alzare la gonna per non bagnarne l’orlo, perché è febbraio ma l’aria non disgela, come le pareti del cuore. Te ne sei dimenticata, Linette? Sono passati anni, mesi, settimane, giorni e persino ore e minuti dal momento in cui se n’è andato in un sussurro e una porta sbattuta su parole dure, durissime, che gli hai rivolto.
Fallace, la memoria, bucherellata da un ago troppo spesso che ne straccia la stoffa – e una macchia di sangue, ti sei punta, s’allarga tra quei punti maldestri che compongono il suo nome. Frederick, ti ha detto che si chiamerà, come il principe in cui Bolingbroke ha creduto così tanto da rovinarsi10, Frederick come il re senza corona cui James Manners aveva rivolto le sue preghiere, un idolo dalla doratura scrostata dopo una caduta rovinosa. Ma tu, nel silenzio un po’ artefatto dei tuoi pensieri, lo chiami sempre e solo con quella parola impronunciabile.
Nella frantumaglia di ricordi che non sai più come rimettere insieme, Philip respira come fosse ancora di fronte a te. Non parla mai, non ha parole da rivolgerti, potrebbe?
Lacerate, le corde vocali, lacerato il cuore nel suo scrigno tra le ossa: qualcosa batte, lì nel petto, cosa è?
Il giorno in cui ti rendi conto che tornerà – deve, vuole e può – hai diciotto anni e il respiro si scontra con l’inevitabilità del tempo (ch’è passato, che passerà). Che vuoi che sia, Caroline, un’altra vita senza di lui: ti guarderò crescere, invecchiare, prendere un sorso di rhum a occhi chiusi. Ti sei sbiadita come vetro opaco, d’altronde l’alcol i pensieri li diluisce, e non ti riesci nemmeno a comprendere più.
Cosa sei diventata? Cosa diventerai?
Il giorno in cui scopri che non ha dimenticato sei seduta con un dito ferito, non sei mai stata brava con gli aghi, a osservare il sangue che sgocciola sul ricamo: Anne, la tua cameriera, ti passa accanto con un sorriso carico di dolorosa comprensione, lasciandoti cadere un bigliettino in grembo. Tu non domandi: c’è poesia, nel silenzio, ed è l’unica musica che sarai sempre in grado di comporre, nonché quella che tuo marito sarà sempre in grado di non apprezzare.
Sfiori la carta. Speranza non ve n’è più, da anni e mesi e settimane e giorni, s’è consumata nel gesto che ormai compi più spesso. Quando mi sollevi, sviti il tappo e passi un dito sulle crepe.
Il primo sorso è l’unico che preserva il ricordo di un sapore – quello che immagini sappia di lui – e che riesce a ferirti la gola in un sussurro. Ma non è mai l’unico.
Penso che tu fossi destinata, Linette, ad affidarti a me in questo modo insensato. Le colpe dei padri ricadano sui figli, e la colpa di tuo padre è quello d’aver creduto in me come il suo unico vero Dio, l’unica speranza che ha illuminato quelle ultime sere (così apoetiche, Caroline, così poco musicali).
Il giorno in cui scopri che lui t’appartiene e tu appartieni a lui è febbraio, con i ramoscelli che si tendono verso il cielo con inutile speranza, e tu apri quel bigliettino arrotolato come s’aprono le nuvole sotto la pressione degli alberi che vorrebbero squarciarle in un pianto senza inizio. O fine.
Le parole si muovono, danzano con il ritmo di una ballata muta, insensata, e tu semplicemente non hai idea di quel che voglia dire. Non comprendi il senso, non puoi, non ne ha: come potrebbe, Linette, insensata è anche questa vita che sui margini gelati dell’esistenza si consuma senza dire una parola.
Poche parole, affidate alla fortuna su una nave diretta in Inghilterra, viaggio lungo di mesi che Philip si dice disposto a compiere. Andiamo via, Linette, questa volta dovete venire con me.
Dovere, che cosa dovresti fare che il dovere è consumato nella tua perenne insofferenza nei confronti di tuo marito. Dovere, che cosa dovresti fare, che le preghiere sono semplicemente svanite sulla traversata verso le Americhe?
Il giorno in cui scopri che il tuo posto è di fianco a lui, lo fai durante il febbraio dei tuoi diciotto anni. La neve s’è sciolta, tu hai fatto lo stesso con un sorso di rhum gelido, come gelido è il cuore mentre finalmente comprendi quelle parole. Tre parole, tre battiti persi, tre sorsi.
 
Tornerò. Aspettami.
Philip
 
Come fai a convincerti d’esser dimenticabile, se l’evidenza smentisce la realtà con indicibile determinazione?
Hai diciotto anni. Febbraio si scioglie in uno scroscio di pioggia – e non v’è più neve – mentre tu accartocci il biglietto e lo lanci nel caminetto acceso.
Mi prendi tra le mani. Tornerà. Sviti il tappo. Lo aspetterai?
Bevi una sorsata generosa, scuotendo il capo: hai gli occhi pieni di lacrime.
 
***
 
Manners House, 30 luglio 1757.
 
Hai pregato.
Buffo, non sei mai stata particolarmente devota – io, l’unica divinità che sei disposta ad accettare – o pia, hai sempre riso di chi confidata i propri timori a un Dio che è muto, sordo, e sicuramente non s’interessa degli affari terreni. Eppure, hai pregato. Inchinata sull’inginocchiatoio, le mani giunte che sfiorano la fronte, hai chiesto per favore di non farlo arrivare in questo mese.
Il prossimo, hai detto, tra due o tre. Ti prego, ti prego, ti prego: non mentre aspetti di dover partorire il figlio – primogenito di un figlio di secondo letto, e anch’egli nullatenente – che.
(non vuoi).
Pensavi che avresti avuto il mondo, quand’avevi quindici anni ed eri piena di belle speranze, e adesso sei ridotta a pregare un Dio che non t’ha mai ascoltata.
Tuo marito, seduto al tavolo della colazione, giocherella con il contenuto del proprio piatto: non gli interessa mangiare, è troppo assorbito dalla lettura della Gazette11: Cumberland ha firmato la propria disfatta, dopo la rovinosa sconfitta ad Hastenback, e la Gran Bretagna s’avvia lentamente verso una pace non voluta, odiata, ma necessaria. James sfoglia le pagine con aria indignata, schioccando la lingua di tanto in tanto per segnalare il proprio disappunto.
«Lord Manners?» la voce di Anne rompe il silenzio, facendo voltare entrambi verso la cameriera. «Avete visite: il figlio di Lord Chesterfield chiede di vedervi».
James ha gli occhi che lampeggiano un’ira silenziosa, taciuta, piena di mille questioni che non ha abbastanza coraggio per porre. «Il figlio di Chesterfield?» domanda, calmo. «Temo che vi stiate sbagliando, Anne, il figlio naturale di Monsignore il Lord Chesterfield è fuggito nelle Americhe, temo».
«Oh, il suo figlio adottivo, mio signore» specifica la cameriera, chinando il capo. «Il figlio di suo cugino12».
James le fa cenno di farlo entrare, con un gesto sbrigativo della mano, mentre tu lo guardi e non sai perché tuo cugino acquisito si sia presentato in casa tua. Scrolli le spalle, bevendo un sorso di birra leggera: nemmeno t’importa, di quell’altro Philip che a stento conosci.
Eppure conosciuti sono quei passi, ti entrano dietro la pelle come un coccio di vetro tagliente, e alzi lo sguardo con aria disorientata.
Philip ti osserva e i suoi occhi sono quelli di lui, mentre china il capo con un sorriso divertito, in segno di rispetto verso tuo marito. James sorride, ricambiando con un cenno brigativo.
«Lord Stanhope» lo saluta, calmo. «Non mi aspettavo una vostra visita: credo che sia la prima volta che ci incontriamo, non è vero?».
«Temo che sia così, mio signore» risponde Philip, calmo. «Ma ho saputo che mia cugina si appresta a donarvi il vostro primo figlio, e volevo sincerarmi delle sue condizioni».
Sorridi, Caroline, che altro puoi fare? Ti tremano le mani sul boccale, e la testa s’è alleggerita come dopo qualche sorso di rhum.
«Sto bene, cugino» sussurri, la voce crepata da un’emozione che non riconosci. «Perché non vi fermate per rompere il digiuno?».
Philip ti osserva, per un momento infinitamente lungo gli mancano le parole: ti guarda e ha dipinto nello sguardo il momento in cui l’hai rifiutato, in cui ti sei rifiutata da sola. Di essere felice, di rendere felice qualcun altro.
Oh, Caroline: che prezzo ha l’infelicità, non è vero? Pochi spicci, il medesimo valore che attribuisci a me quando mandi Anne a sgattaiolare nella city per riempirmi fino all’orlo.
Pochi spicci, il valore che hai attribuito a te stessa, mentre mi osservi – mi hai lasciata sul caminetto, come una decorazione che non sono. Non lo sono mai stata – e pensi che vorresti solamente cingermi il collo. Un sorso, due sorsi, tre sorsi: bevi dalla bottiglia, Linette, senza alcuna educazione.
«Ne sarei onorato, cugina» commenta Philip, prendendo posto davanti a voi. «Lord Chesterfield mi ha raccontato che è da molto, che non riceve vostre notizie».
Annuisci, i capelli sono un’ombra che ti sfregia il volto a metà, come sfregiato esce il cuore da ogni parola che pronuncia con indifferenza, con compostezza. Ha una misura, quel dolore?
«Sono stata molto impegnata» menti. «Spero di poter far visita a entrambi, quando il bambino sarà nato».
Lui ti guarda, senza scomporsi: potevi avere il mondo, Linette – sembra dirti con quell’occhiata – e guarda cosa hai scelto.
Tu ti alzi, senti il perso di quegli occhi addosso, mentre a fatica ti allontani dal tavolo borbottando una scusa: succede in quel momento. Che perdi l’equilibrio e ti devi aggrappare al muro per non cadere rovinosamente sul pavimento.
«Linette?» ti chiama Philip, lottando con sé stesso per non alzarsi di scatto dalla sedia. «State bene?».
Non rispondi, Caroline, perché la voce tradirebbe un singhiozzo pronto a squarciarti le labbra mentre ti bagni le scarpette con una cascata di liquido rosato. Chiudi gli occhi, non hai bisogno d’altro.
 
***
 
 
Manners House, 31 luglio 1757
 
Non te lo fanno vedere. Quando finalmente il mondo smette d’essere una pulsazione priva di inizio o fine, quando finalmente il dolore scema e tu riesci a metter a fuoco la camera da letto attorno a te, chiedi di quel bambino.
Tuo marito entra nella stanza – deluso, il suo sguardo – solamente dopo una manciata di giorni, quando si ricorda della tua esistenza.
«Era un maschio» ti comunica, sulla soglia della camera, le braccia incrociate sul petto. «Era».
Non hai lacrime da piangere, Linette.
 
***
 
Manners House, 10 agosto 1757
 
Torna a trovarti, con il benestare di tutta la famiglia (d’altronde, dici a James, siete cresciuti insieme), ma tu hai solamente uno sguardo vuoto da riservargli.
Vieni con me, ti sussurra aiutandoti ad acconciare i capelli, andiamo via di qui.
«Insieme» ribadisce, una mattina che non hai la forza nemmeno di tirar su i capelli in una crocchia sfatta e disordinata. «A Parigi13».
Che verginità cerchi di presupporre, Caroline, con quei capelli sciolti? Che purezza implichi d’avere, quando ti guardi nello specchio – ed è tutto sporco e macchiato di polvere e ruggine – e ti perdi sul fondo dei tuoi stessi occhi?
Neri, gli occhi, nera l’anima che sussurra nella penombra una risposta. Sì.
Ma cosa, Linette, che sì intendi? Che sì potrai mai dirgli, quando nemmeno hai la forza d’alzarti in piedi e andare via?
Sì, lo voglio. L’avresti sposato, se te lo avesse chiesto una volta in più: volatili i desideri del tuo cuore, insensato il pensiero che lo smuove – insieme, a Parigi.
 
***
 
Canale della Manica, 25 agosto 1757
 
Mi hai portata con te, Caroline, non hai saputo abbandonarmi nemmeno per amore dell’uomo che dici (credi e speri) d’amare.
La nave scivola su onde che sembrano metallo rugginoso: ti sporgi e il vento ti accarezza il viso, lavando via le lacrime.
In quel momento, comprendo che è finita: mi lasci cadere nell’acqua salata, senza un addio, senza l’anticamera di un rimorso.
La nave s’allontana via mentre io affondo nella sabbia umida. Ti ho vista nascere, Caroline, Linette, mia amata bambina.
Ti ho vista anche crescere.
 
 
C'est un beau matin
Pour saisir cette chance
Qui m'emmene au loin
Vers d'autres destins
Afin qu'en chemin je découvre enfin
Ce que mon coeur cherche envain
Le monde qui est le mien
(Le Monde qui est le mien)
 

1Ho selezionato un alcolico che sono certa fosse usato nel 1700s, in particolare il Rhum (prodotto nelle colonie). Stesso discorso varrà successivamente per il Gin.

2Mi riferisco alla Convenzione commerciale anglo-spagnola di El Pardo (1737)

3Tracy Chevalier, La ragazza con l'orecchino di perla

4Mi riferisco "L'educazione del gentiluomo: lettere al figlio", ovvero una serie di frammenti epistolari che Lord Chesterfield dedicò a Philip.

5In particolare, mi riferisco al mondo romano. Per ulteriori informazioni: Link

6Unico soprannome settecentesco per Caroline che sono riuscita a partorire

7A differenza della Chesterfield House, che esiste per davvero, questa me la sono inventata

8Chesterfield si occupò della mediazione tra Francia e GB nel contesto del 1757

9Irama, Per sempre

10 Frederick Lewis di Hannover, padre di re Giorgio IV

11London Gazette, un periodico settecentesco

12Lord Chesterfield adottò effettivamente Philip Stanhope, che divenne il suo erede

13Dal cartone animato "Anastasia"


 
 
   
 
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