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Autore: justalexie9    04/03/2021    1 recensioni
Non sapeva neppure come ne fosse a conoscenza, ma le sue mani andarono da sole a rovistare nel primo scaffale, trovando una chiave dietro un libro rosso.
La prese e proseguì verso destra, passando accanto alla lunga distesa di libri, fermandosi di colpo di fronte ad un portone nero, più massiccio e grande rispetto a tutti gli altri.
Dopo un primo tentennamento, infilò la chiave nella serratura e fece un paio di giri.
La porta si spalancò, azionando un meccanismo di illuminazione automatico, dotato di una luce bianca ed abbagliante.
Dietro di essa si celava al suo interno un'enorme stanza, dalla pavimentazione in legno.
Aveva tutto fuorché l’aspetto di una normale camera di qualsiasi abitazione.
Non vi era nessun tipo di arredamento, soltanto un numero svariato di manichini, dalle forme e dalle decorazioni più disparate.
Victor aveva la percezione di trovarsi in una dimensione astratta, distante anni luce da quella reale.
(Primo racconto tratto da Caduta nell'oblio di Alessia Borgia)
Genere: Horror, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il campo di grano



 

« Lo vedi cosa mi hai costretto a fare? »  
La voce di Edward era incrinata, leggermente isterica, il suo sguardo iniettato di sangue, sembrava una bestia.
Mosse diversi passi in direzione di Victor, la presa ben salda attorno al manico del coltello insanguinato che era appena stato utilizzato per infierire su un corpo sconosciuto riverso a terra.
« Mi dispiace dover arrivare a tanto, ma non ho scelta. Adesso tocca a te. »
La lama incominciò a tremare vistosamente, avanzando maggiormente, in direzione dell’altro che invece stava indietreggiando, fino a quando non perse totalmente l’equilibrio, cadendo all’indietro a causa dei suoi stessi passi.
Victor continuava a cadere, il cuore nel petto batteva agitato come un martello pneumatico, raggiunse la sua gola: questa era almeno la sensazione che percepì, prima di iniziare a fluttuare sospeso nel vuoto, rimanendo fisso nella medesima area spaziale, priva di gravità, finché improvvisamente le leggi della fisica non ripresero il loro normale funzionamento e tornò a precipitare nuovamente nel vuoto, schiantandosi inesorabilmente con un frastuono contro il fondo.

Victor annaspò tra le coperte, sollevandosi di scatto.
La fronte imperlata di sudore ed il respiro affannoso a causa dello stress psicologico provocato dall’incubo appena cessato.
Corrugò la fronte, massaggiandosi le tempie e fissando un punto impreciso del pavimento per una frazione di secondi interminabile, quanto bastasse perché nella sua memoria potessero susseguirsi le immagini di quel fardello.
Non comprendeva il significato di quel sogno ricorrente.
Nell’ultimo mese faceva capolino nella sua mente ogni notte, era un’ossessione di cui non riusciva più ad essere padrone: da incubo irreale e totalmente privo di logica era divenuto una vera e propria paranoia inspiegabile, che mai smetteva di asfissiarlo.
Si trattava semplicemente di una questione di punti di vista.
Tutto quanto si riduce al modo in cui guardiamo e percepiamo le cose.
La mente umana è molto fantasiosa, a volte vengono toccate delle corde particolarmente sensibili, mossi dei sottili equilibri che fanno collassare il baricentro psichico.
Si pensi a Salvador Dalì che nella sua pittura aveva adottato un metodo denominato paranoico-critico, in grado di generare nell’artista le tipiche caratteristiche di un individuo paranoico, senza che la propria coscienza venisse meno; in questa maniera, la cartolina raffigurante una tribù indigena, inviatagli da Pablo Picasso, divenne una gigantesca maschera tribale.

Il flusso dei propri pensieri fu interrotto dall’ingresso in camera di Edward, il suo migliore amico, lo stesso ragazzo che nelle ultime settimane aveva sognato nei panni di un pazzo omicida, un’indole che sicuramente non gli apparteneva affatto.
« Scusami per il baccano. Doveva essere una festa più intima e tranquilla, ma la situazione ci è sfuggita un po’ di mano ed ora di sotto c’è un casino. Non volevo svegliarti, specialmente perché so che ultimamente soffri di insonnia. »
In effetti, Edward, oltre ad essere il suo migliore amico, era anche il suo coinquilino e quella sera era stata organizzata una festa piuttosto intima, alla quale Victor non aveva preso parte, poiché si sentiva poco in salute da differenti giorni.
« Hai fatto di nuovo quell’incubo di cui ti ostini a non volermi parlare? »
Lo scrutò con lo sguardo, per poi sospirare preoccupato, prendendo posto accanto all’amico.
« Perché non vuoi raccontarmelo? Sai perfettamente che puoi fidarti di me. »
Quell’insolita insistenza metteva Victor visibilmente a disagio, soprattutto perché non se la sentiva di confessare all’altro le sembianze mostruose che indossava nei propri sogni, ed anche perché qualcosa di imperscrutabile dentro di sé gli suggeriva che fosse molto più saggio non farlo.

Un frastuono proveniente dal piano inferiore catturò l’attenzione di Edward, il quale si congedò rapidamente per andare ad accertarsi, da buon padrone di casa, che tutto fosse in ordine e che non vi fossero danni irreparabili.
Poco dopo, giunse all’orecchio di Victor un rumore simile a dei vetri rotti e non appena quella vibrazione andò a solleticare i suoi timpani, avvertì improvvisamente un dolore lancinante all’altezza della nuca.
Nella sua testa si affollavano centinaia di pensieri, scene surreali, mai vissute, eppure così chiare e limpide da sembrare del tutto reali, campeggiavano sulla sua pelle come scottature, abrasioni invisibili che, tuttavia, non avevano mai lasciato il suo corpo.
La sua vista era ovattata, annacquata, un flusso leggiadro attraversava le sue tempie, creando un collegamento impercettibile da un lato all’altro.
Una scossa nel suo cranio generò delle nuove connessioni mai scoperte prima.
L’immagine brutale di Edward occupava la sua intera visuale, eppure non era reale, o meglio, non lo era fisicamente, in quel preciso momento, ma era così verosimile, molto più che nei suoi incubi, molto più che nella quotidianità di tutti i giorni.
Non appena quel vortice nella sua testa cessò, saltò giù dal letto.
La pianta dei piedi aderì al pavimento gelido ed avanzò lentamente lungo il breve corridoio che conduceva dalla sua stanza al bagno.
Nonostante la brevità del condotto, la confusione ed il frastornamento dovuto da quel repentino mal di testa, rendevano quel percorso interminabile ai suoi occhi.
Poggiò la mano destra contro una delle pareti bianche che costeggiavano il pavimento.
Tutto attorno a sé girava vorticosamente, non percepiva più la realtà delle prospettive.
Il suo petto era infastidito da una sensazione nauseante di asfissiamento, quasi come se i muri bianchi e spogli potessero comprimerlo o travolgerlo da un momento all’altro.
Fece entrare più aria nei polmoni, tentando di riacquistare un po’ di calma e tranquillità, riuscendo finalmente a placare l’attacco di panico di cui era stato vittima ed a regolarizzare il respiro.
Sollevò lo sguardo, posandolo sul quadro raffigurante “La persistenza della memoria”, un dipinto che lo affascinava particolarmente ed al quale era estremamente affezionato.
Le sue gambe erano molli quanto la consistenza deformata degli orologi.
Non sapeva neppure lui come fosse riuscito a trovare la forza per trascinarsi fino al lavabo.
Aprì il rubinetto e lasciò scorrere l’acqua fredda, indugiando diversi secondi, prima di usufruirne per sciacquarsi il viso.
Diverse gocce d’acqua gli imperlavano il volto.
La sua immagine riflessa nello specchio sembrava inquietante.
Lo sguardo era perso, vuoto, come stordito, attraversato da un’ombra scura, tetra, ambiguamente distorta e deviata, percezione ancora più accentuata dalla flebile luce soffusa di colore azzurro proveniente da una piccola lampadina che illuminava i suoi lineamenti.
La sua pelle era stranamente secca, non riusciva a comprenderne la ragione, poiché non passava una sola giornata senza che la idratasse, a volte anche in maniera eccessiva, tale era la sua premura di curarla.
Sullo specchio si scagliò improvvisamente una seconda immagine, alla visione della quale sussultò spaventato, per poi lasciarsi andare ad una risata cristallina e più serena.
« David, sei tu! Mi hai fatto prendere uno spavento! »
Il ragazzo dai capelli mori avanzò in silenzio, affiancandolo e sostando anche lui di fronte allo specchio.
« Non riesci di nuovo a dormire? Edward mi ha detto che sono giorni che fai un incubo ricorrente. »
Il tono della sua voce era sempre pigro, noncurante, mentre si dava una sistemata ai capelli.
« Beh, sì… Non mi sento molto in forma ultimamente, ma sarà qualcosa di momentaneo e che passerà in fretta, per fortuna. »
« Lo hai ripetuto anche la scorsa settimana, ma sono mesi che non metti la testa fuori da quella stanza. »
A quelle parole, Victor si irrigidì ed il sangue gli si gelò nelle vene.
Come era possibile?
Ricordava perfettamente tutti gli avvenimenti degli ultimi giorni ed anche dei mesi precedenti, quindi di che diamine stava parlando?
Lo guardò con aria agitata ed interrogativa, in cerca di risposte.
« Non mi vorrai dire che non lo ricordi, di nuovo? Scommetto che non sai neppure come ti sei procurato quei segni. »
« Quali segni? »
« Perché non provi a sollevare la maglietta? »
Victor lo osservò confuso e dopo qualche attimo di esitazione, sollevò titubante la felpa che gli copriva l’addome.
Sbarrò gli occhi scioccato alla vista di profonde cicatrici che gli solcavano la pelle, delle quali era totalmente all’oscuro.
Cosa stava accadendo?
Perché improvvisamente non riusciva a ricordare più nulla?
Sullo specchio comparve riflessa una terza figura, quella di Edward.
Il suo sguardo sembrava così sinistro, tant’era che Victor si abbassò velocemente la maglia per ricoprirsi, poi risollevò lo sguardo e David era sparito.
« Victor, è meglio che non ti affatichi troppo. Torna a letto. »
Victor non osava pronunciare mezza parola.
Come poteva chiedere spiegazioni proprio al protagonista dei suoi incubi più terrificanti?
La mano di Edward circondò il suo braccio e lo guidò con gentilezza fino al suo letto.
Lo fece stendere, gli rimboccò le coperte e gli sistemò il cuscino, dopodichè gli passò qualche pasticca con un bicchiere d’acqua.
« Tieni, sono dei sonniferi. Non mi piace di solito ricorrere a questi metodi, ma sono troppi giorni che non dormi, hai bisogno di riposo. »
Victor afferrò il bicchiere e lo osservò con sospetto, ma poi gli venne quasi da sorridere, data l’assurdità dei suoi pensieri.
Come poteva quel ragazzo così dolce e protettivo nei suoi confronti, essere lo stesso dei suoi incubi?
Era assurdo anche solo pensarlo.
Portò i sonniferi alla bocca e li ingoiò con l’ausilio dell’acqua, poi si mise comodo sotto le lenzuola, fissando il soffitto in attesa che le braccia di Morfeo iniziassero ad avvolgerlo.
Anche l’amico si sedette, intenzionato a vegliare su di lui finché non avrebbe ripreso sonno.
« Edward… Di cosa stava parlando David? Come mi sono fatto quei segni? »
Calò il silenzio.
Edward lo scrutò con attenzione, per poi sorridergli in maniera rassicurante.
« Si tratta di una lunga storia. Domani, quando sarai più riposato, te ne parlerò. Tu non preoccuparti, mh? Buonanotte, Victor. »

Il solito incubo, il solito brusco ed accaldato risveglio, la solita stanza e la solita forte emicrania.
Doveva forse ricordare qualcosa?
Dove si trovava?
Si liberò dalle coperte e mise i piedi a terra, reggendosi il capo, colto da una vertigine.
Quando il capogiro terminò, spostò lo sguardo sul dispositivo ad orologio collocato sul comodino accanto al letto.
Le lancette segnavano le due di notte.
Si sentiva debole, come se fosse malato da tempo e non vedesse la luce del sole da settimane, eppure si trattava soltanto di pochi giorni.
Dal piano inferiore si udiva il mormorio di differenti voci che si sovrastavano, il che gli provocava un fastidioso senso di déjà vu, come se quell’evento che gli si parasse di fronte per la prima volta fosse invece divenuto qualcosa di abituale.
Non ebbe neppure tempo di interrogarsi oltre su quella questione, ché il flusso dei suoi pensieri fu interrotto dal frastuono causato dai frantumi di alcuni cocci di vetro.
Immediatamente fu colto da un terribile senso di nausea, il cervello torturato da repentine e ripetute scosse elettriche.
Gli tornarono alla mente frammenti di quell’incubo ricorrente e lo sguardo furioso ed impazzito di Edward, con le orbite dilatate e sporgenti, quasi in maniera del tutto carnevalesca, come se fosse uno dei personaggi delle tetre fiabe dei fratelli Grimm.
Non appena quel dolore cessò, ne incominciò un altro.
Ardenti fitte addominali lo spinsero a sollevarsi la maglia ed a tastarne la pelle con agitazione, scoprendo con il massimo dello sconcerto quanto essa fosse macchiata e graffiata.
Victor scattò in piedi, totalmente sopraffatto dalle sue emozioni, sentendo di non essere più in grado di gestirle.
Veniva travolto da esse come fossero un fiume in piena e lui una umile e modesta zattera dispersa nel mare aperto, sballottata in ogni dove dalla forte pressione delle onde.
Si portò entrambe le mani alla gola, nella disperata ricerca di aria, come se questa fosse compressa nei polmoni e non potesse più muoversi verso quegli strumenti corporei che le permettevano il passaggio per la respirazione.
Proprio nel bel mezzo di quell’attacco di panico, la porta della stanza si aprì all'improvviso e sulla soglia comparve Edward, che prontamente intervenne per porre fine alle sue sofferenze, afferrandolo con forza per il busto, tentando di bloccarlo e di impedirgli di divincolarsi in quella maniera.
Soltanto in quell’istante, giunse alle sue orecchie l’urlo straziante e disperato che stava emettendo la sua bocca.
Era una voce così anomala, diversa da quella che ricordava, rotta, spezzata, come se non parlasse da giorni.
Gli sembrava di udire la voce di un’altra persona.
Non era lui.
Più nulla sembrava appartenergli, né quella voce straziante, né quel corpo ferito, consumato, che pareva in preda alle convulsioni e fuori dal suo controllo.
Sentì qualcosa di pungente conficcato nel braccio, un liquido alieno stava scorrendo nelle sue vene.
Il suo corpo cessò di opporsi e smise di urlare.
Gli ruotarono le pupille e tornò di nuovo il buio.

Il suo riposo era stato disturbato da un incubo assurdo che non sapeva spiegarsi, così atroce che per l’agitazione era tutto sudato.
Decise di alzarsi dal letto.
Le sue membra furono colte da un senso di intorpidimento, tant’era che dovette sedersi di nuovo, poiché la forza nelle gambe gli era venuta meno quando si era sollevato, quasi come se i suoi arti non avessero forza sufficiente per sostenere il peso del suo corpo.
Erano entrambe assopite, forse aveva dormito a lungo in una posizione scorretta.
In fin dei conti, era da un paio di giorni che non si sentiva molto bene.
Si stropicciò gli occhi, faticando parecchio prima di poter posare lo sguardo in direzione della flebile luce che proveniva dalla porta socchiusa.
A forza di provare e riprovare, usando anche i mobili presenti nella stanza e le pareti come sostegno, riuscì a raggiungere il lungo e stretto corridoio che costeggiava le stanze presenti nel piano superiore.
In principio, fece per dirigersi verso il bagno, poi qualcosa istintivamente lo portò a voltarsi ed a cambiare meta.
Una strana energia opprimente lo sospinse ad attraversare il corridoio buio nel versante opposto, dove si imponeva una maestosa libreria.
Non sapeva neppure come ne fosse a conoscenza, ma le sue mani andarono da sole a rovistare nel primo scaffale, trovando una chiave dietro un libro rosso.
La prese e proseguì verso destra, passando accanto alla lunga distesa di libri, fermandosi di colpo di fronte ad un portone nero, più massiccio e grande rispetto a tutti gli altri.
Dopo un primo tentennamento, infilò la chiave nella serratura e fece un paio di giri.
La porta si spalancò, azionando un meccanismo di illuminazione automatico, dotato di una luce bianca ed abbagliante.
Dietro di essa si celava al suo interno un'enorme stanza, dalla pavimentazione in legno.
Aveva tutto fuorché l’aspetto di una normale camera di qualsiasi abitazione.
Non vi era nessun tipo di arredamento, soltanto un numero svariato di manichini, dalle forme e dalle decorazioni più disparate.
Victor aveva la percezione di trovarsi in una dimensione astratta, distante anni luce da quella reale.
Quelle pareti gli ricordavano le ambientazioni metafisiche dell’arte di De Chirico e Carrà.
« Ti piace? »
Il ragazzo sussultò, colto di sorpresa dalla irruente apparizione dell’amico.
Si voltò a guardarlo ed accennò un sorriso, per poi tornare ad osservare quelle spettrali figure, analizzandole anche attraverso il tatto.
Più di qualcuna presentava insolite incisioni sul busto.
« Che cosa sono? »
« Sono dei manichini per un progetto artistico. Rimettendo in ordine le tue cose, ho trovato più di qualche libro che trattava dell’arte metafisica. Mi ha incuriosito ed ho pensato di usarlo come elemento per la mostra d’arte creativa a cui devo prendere parte il mese prossimo. »
« Mi sembra una splendida idea. Hai preso ispirazione da De Chirico e da Carrà ed hai rivisitato a modo tuo la figura del manichino. Devo dire che come elemento mi affascina molto: esprime a pieno quelle sensazioni di trascendenza e di mistero che sono ricorrenti nella loro arte. »
« Sono contento che ti piaccia. Per me la tua opinione è molto importante, lo sai. »
« Toglimi una curiosità. La maggior parte di essi è segnata da strane incisioni. Si tratta soltanto di una componente puramente estetica o sottintende un significato particolare? »
« Ogni manichino rappresenta una persona a cui ho voluto bene. Le incisioni raffigurano le ferite che ci siamo inflitti a vicenda. »
« Un po’ tetro attribuirle a dei corpi vuoti, senza anima. Non trovi? »
« In realtà, non particolarmente. Sono corpi vuoti perché non sono più abitati, o per lo meno, per me è così. »
« Ne hai pensato uno anche per me? », chiese curioso, smettendo di sfiorare le opere con le dita, tornando a rivolgere lo sguardo al suo interlocutore.
« No, non ancora. Per il momento la mia intenzione sarebbe quella di restare insieme per sempre. »
« Piacerebbe molto anche a me. », rispose con sincerità, lasciando che il suo sguardo cadesse esterrefatto sulla data menzionata dal calendario, che aveva notato soltanto in quel momento, appeso sulla parete bianca situata dietro ad uno dei tanti e numerosi manichini.
Il mese indicato era Novembre, ma Victor era sicurissimo che fossero ancora a Marzo; si sentì poi chiamare dall’altro, il quale lo spronò ad andare a letto, data l’ora piuttosto tarda.
Il ragazzo si limitò ad un cenno del capo, seguendolo senza aggiungere altro.
Edward richiuse la porta nera alle loro spalle e sfilò la chiave, infilandola in una delle tasche.
Raggiunsero la camera di Victor e quest’ultimo prese posto tra le lenzuola con una strana oppressione che gli divorava il petto.
« Edward, sai dirmi che giorno sia oggi? »
« Venerdì, quindici Marzo. »
« Sei sicuro? »
« Certo. Perché me lo stai chiedendo? »
« Nessuna ragione precisa. », mentì, sistemando meglio le coperte ed augurandogli la buonanotte.
« Aspetta. Stai dimenticando le medicine. »
Victor si mise a sedere, osservandolo con un’espressione corrugata.
« Cosa sono? »
« Antibiotici per la tua influenza. Devi rimetterti al più presto, no? »
« Mi sento già meglio. Non credo di averne bisogno, grazie. »
« Insisto. Penso proprio tu ne abbia bisogno. Vado a prenderti un bicchiere d’acqua. »
L’altro lasciò una manciata di pasticche nella sua mano, allontanandosi per potersi procurare dell’acqua.
Victor le osservò dubbioso, riflettendo sul fatto che non avesse mai visto, né ingerito, pillole simili.
« Rieccomi. Forza, prendile, così possiamo tornare a dormire. »
Vedendo che l’altro non reagiva in nessun modo, Edward sospirò, togliendogli le medicine di mano ed invitandolo con un po’ di insistenza ad inserirle nella bocca.
Victor così fece e diede un paio di sorsi dal bicchiere; dopodichè l’amico gli diede la buonanotte e si ritirò nella sua stanza.
Soltanto quando fu certo che Edward stesse dormendo profondamente, Victor si alzò, raggiunse il bagno e gettò le pillole nello scarico. 

 

Nel silenzio della casa riecheggiò il rumore dello sciacquone che fortunatamente sembrò non catturare l'attenzione di Edward, o almeno così pensò, prima che udisse dei suoni sinistri provenire dall’altra stanza.
Un brivido gelido gli attraversò la schiena e dopo qualche attimo di esitazione, si avvicinò con cautela all’uscio della porta, lasciando che il buio investisse il suo corpo.
I piedi nudi percorrevano il pavimento freddo, arrestandosi quando, sospesa a mezz’aria, coi piedi che strusciavano lentamente contro le mattonelle, comparve una figura spettrale, così bianca da sembrare quasi evanescente.
I suoi occhi erano enormi, le pupille dilatate in un’espressione di fronte alla quale era impossibile non rimanere impietriti.
Il suo volto era incorniciato da capelli lunghi, scuri come la pece.
Una veste ancora più tetra lo avvolgeva, lasciando scoperte le caviglie bianche come la luna.
L’uomo inquietante manteneva lo sguardo fisso e penetrante sul viso attonito di Victor, il quale non riusciva più a muoversi, né a reagire in alcun modo, poiché nessuno dei muscoli del suo corpo rispondeva agli impulsi del cervello.
Sarebbe voluto scappare via o quanto meno urlare, ma non era più nelle condizioni di poter intraprendere alcuna delle due possibilità.
Improvvisamente perse la cognizione del tempo.
Gli occhi dello spettro cominciarono a ruotare vorticosamente, trascinando con sé anche i suoi, rendendo le immagini e la visione dell’ambiente circostante sempre più confuse ed offuscate, finché una luce accecante non interruppe definitivamente la funzionalità della sua vista. 

Intorno ad un casolare si estendeva un campo di grano.
Il vento soffiava tra le spighe, dapprima silenzioso, poi in maniera sempre più irruenta.
Il cielo si scurì, le nuvole si tinsero di rosso ed uno stormo di avvoltoi atterrò tra i rami dorati.
Tra quelle creature malefiche, ve n’era un'altra ben peggiore: capelli e veste scuri come la notte, volto e caviglie pallide come il chiarore della luna.
Questo era l’uomo che si aggirava nel campo di grano e la ragione per cui il cielo si era tinto di rosso ed il vento ululava.
Egli con sé trascinava le anime che erano state dannate, la loro unica colpa quella di essersi avvicinate a quel territorio.
Le loro urla si udivano strazianti, trasportate dal vento, mentre i rapaci divoravano le loro carcasse.
Uno in particolare fu costretto a scontrarsi con la creatura inquietante, al fine di poter ottenere il pasto, dovendo poi rassegnarsi, dopo un'aspra lotta, a restare a bocca asciutta, poiché era stato l’uomo mostruoso ad aver avuto la meglio.
Con denti enormi ed affilati, grotteschi, tirava via dalle ossa la carne, ingerendola.
La sua dentatura non era simile a quella umana, nonostante in apparenza la sua fisionomia lo fosse.

Le orbite oculari di Victor ripresero a roteare, fino a raggiungere nuovamente quello che era un movimento stabile e regolare di esse, però la figura di fronte a sé ancora non era scomparsa, continuando piuttosto a fissarlo, impassibile, per poi inclinare il capo su un lato e stendere le labbra in un ampio sorriso, mostrando gli stessi denti aguzzi e spaventosi della visione di poco prima.
« A quanto pare, Edward è qui per prendere anche te. Chissà se almeno tu riuscirai a scappare. Le altre anime imprigionate nei manichini facevano una tale confusione oggi. Continuavano a ripetere eccitate che avesse già preparato un altro modello per te e che presto avrebbe avuto luogo il rituale. »
Lentamente l’immagine dell’uomo iniziò a dissolversi, poco a poco le sue componenti biologiche fuori dal comune, una parte per volta, si trasfigurarono nei pezzi di assemblaggio di un manichino.
« Io e le anime non vediamo l’ora che tu ci raggiunga. Ho davvero voglia di invitarti nel mio campo di grano, non appena sarai uno di noi. »
La sua bocca fu l’ultima parte a dissolversi; da quel momento in poi, Victor fu di nuovo in grado di muoversi ed il manichino, ormai privo di vita, collassò a terra, completamente distrutto.
Victor era ancora sconvolto da quell’incontro agghiacciante, quando la porta della camera di Edward si spalancò, rivelando la fisionomia del proprietario, che osservava confuso l'altro.
« E questo manichino che cosa ci fa qui? »
« Non saprei… Era già qui quando mi sono alzato per andare in bagno. »
« Nonostante le medicine che ti ho dato, non riesci ancora a dormire? »
« In realtà… Continuavo a sognare un campo di grano, con degli avvoltoi… ed un uomo… spaventoso. »
La sua voce, titubante, proferiva quelle parole con una lentezza disarmante, studiando meticolosamente la reazione del ragazzo.
Quest’ultimo aveva spalancato gli occhi esterrefatto, non riuscendo a celare la sorpresa ed il timore che stava provando di fronte ad una rivelazione simile.
Edward si chinò per raccogliere il manichino, stringendo alcuni pezzi tra le braccia, lasciando che un’ombra scura calasse sul suo volto.
« Volevo aspettare ancora un po’, le cose stavano andando bene. Perché hai dovuto rovinare tutto, Victor? »
Il ragazzo indietreggiò, sempre più terrorizzato e confuso, finché la sua schiena non aderì alla parete.
Non aveva più alcuna possibilità di fuga.
Che cosa gli sarebbe accaduto ora?
Edward lo avrebbe ucciso e divorato come quell’uomo misterioso?
Anche lui sarebbe diventato un manichino ed avrebbe incontrato lo strano mostro mangia uomini nel campo di grano?
Perché ce l’aveva così tanto con lui?
Ora che ci pensava attentamente, se proprio doveva essere sincero, non ricordava più quasi nulla che lo riguardasse, nessun singolo ricordo esterno a quelle quattro mura.
Improvvisamente, Edward urlò.
Il manichino che fino ad un attimo fa era rimasto inerme, cominciò a muoversi ed a lottare contro il ragazzo, ora riverso a terra, mentre si dimenava e tentava di domarlo per non essere divorato dagli enormi denti affilati che erano apparsi sull’oggetto.
Quella per Victor era un’ottima occasione per darsi alla fuga.
Egli sorpassò le due figure e corse al piano di sotto, cadendo rovinosamente a metà rampa delle scale.
Non aveva ancora forza nelle gambe, forse proprio per questo motivo Edward non si era preoccupato più di tanto di tener sigillato il portone principale con un lucchetto.
Victor abbassò la maniglia, ma come c’era da aspettarselo, la porta era chiusa a chiave.
Iniziò a rovistare disperato in ogni cassetto mentre dal piano superiore provenivano ancora delle urla.
Dopo del tempo che gli parve infinito, sul doppio fondo di un cassetto riuscì a trovare una chiave che inserì nella serratura, la quale, con sua grande sorpresa, combaciava perfettamente.
Girò la chiave quattro volte e la serratura scattò, potendo così finalmente spalancare il portone ed intraprendere una lunga corsa nel bosco, senza mai fermarsi, né guardarsi indietro.
Continuò a correre, nonostante il fiato corto, i polmoni che gli bruciavano nel petto e le gambe intorpidite.
Era notte fonda e riusciva a vedere ben poco tra quella fitta boscaglia, ma sapeva che un'ombra scura lo stesse inseguendo, per questo non poteva fermarsi: la sua salvezza dipendeva tutta esclusivamente da quella fuga.
Si trattava di Edward oppure del mostro del campo di grano?
Non gli interessava saperlo davvero, voleva soltanto farcela, riuscire a seminarli e poter porre fine a quell’incubo una volta per tutte; ma proprio in quel momento, purtroppo, fece l’errore di voltarsi.
Tra la folta boscaglia non riuscì a vedere nulla, l’unica cosa di cui si accorse fu l’assenza del suolo che improvvisamente gli svanì sotto i piedi.
Era finalmente fuggito da quell’abitazione, ma il suo sogno di libertà era già sfumato, sprofondato esattamente come lui in quel pozzo senza via d’uscita.

Il bosco era avvolto da un silenzio spettrale.
Il vento soffiava flebile tra gli alberi, muovendo silenziosamente qualche ramo.
Tra i tronchi alti riecheggiava soltanto il rumore di un martello che batteva contro un chiodo.
Victor era legato contro la corteccia di un abete, gambe e braccia immobilizzate da dei nodi fin troppo stretti.
L’unico movimento che era in grado di svolgere in quelle condizioni era quello del capo e fu proprio ciò che compì quando riprese conoscenza.
Provò a divincolarsi in tutti i modi possibili, agitato, ma il suo corpo era totalmente bloccato.
Osservava impietrito con gli occhi spalancati il suo aguzzino, mentre era intento a fissare sui tronchi degli alberi circostanti i frammenti di quello che a tutti gli effetti sembrava uno dei manichini che aveva visto assemblato in quella stanza.
« Oh, finalmente ti sei svegliato. »
Le sue labbra si curvarono in un lieve sorriso, quasi come se avesse contratto i muscoli facciali per circostanza, mentre con un altro colpo di martello, bloccava con un paletto un altro agglomerato di plastica e stoffa.
« Certo che mi hai giocato proprio un brutto scherzo, eh? Svignarsela in quel modo non è stato affatto carino. Se non fosse stato per una delle mie trappole piazzate nel bosco, saresti sicuramente riuscito a scappare. Non pensavo che tu e gli altri aveste già fraternizzato. »
«… Gli altri? »
Edward smise per un attimo di usare il martello, solo per roteare gli occhi al cielo e sospirare esasperato.
« Oh, suvvia, non fare il finto tonto. Ti ho visto mentre parlavi con uno di loro, ma non preoccuparti, non è necessario che tu capisca. Presto vi incontrerete di nuovo. Avrei voluto temporeggiare ancora un po’, ma dato il tuo impeto ribelle, sarà meglio procedere con l’iniziazione, prima che sia troppo tardi. »
«… Iniziazione? Tu sei soltanto un pazzo! Lasciami andare! »
Victor riprese subito a dimenarsi, nel vano tentativo di allargare i nodi e di liberarsi, ma paradossalmente più si divincolava, più essi divenivano ancora più stretti.
« Oh, perché ogni volta che arriva questo momento reagite sempre tutti quanti allo stesso modo? Invece di ringraziarmi, mi biasimate e mi recate dispiacere, nonostante mi sia preso cura di voi per mesi! Siete soltanto degli ingrati! »
Iniziò a battere con più irruenza il paletto contro la corteccia di un altro albero.
Sul volto di Edward calò un’ombra scura.
I suoi lineamenti parvero assumere delle sembianze che Victor non aveva mai visto finora, se non nei suoi incubi.
Il ragazzo impallidì, cominciando a sudare e a tremare, realizzando di non avere più alcuna via di fuga.
Si trovava nella mani di un pazzo svitato e doveva soltanto sperare che non gli avrebbe fatto del male, o peggio, ucciso.
Quello che non riusciva ancora a comprendere era come l’altro fosse riuscito ad ingannarlo in quel modo, senza che mai si insinuasse in lui il minimo sospetto.
Che cosa stava accadendo?
Stava preparando un rituale?
Anche lui sarebbe diventato un manichino?
Come era possibile che potesse avvenire una cosa simile?
Erano tanti gli interrogativi che in quell’istante incombevano sulla sua mente ed attanagliavano il suo animo ansioso.
« Fermati! Lasciami andare! Perché mi stai facendo questo? Non eravamo amici?! »
Edward finì di fissare l’ultimo paletto, poi si prese la briga di voltarsi nella sua direzione e rispondergli: « Certo che lo eravamo, finché non hai deciso di abbandonarmi, esattamente come hanno fatto tutti gli altri. »
Il suo volto aveva assunto nuovamente una delle sue espressioni abituali, almeno fino a quando non si posizionò di fronte a lui, con le braccia sollevate all’altezza del busto: con una mano manteneva la presa salda attorno al martello, mentre con l’altra quella sul paletto.
L’espressione dipinta sul suo viso era agghiacciante, stravolta, inquietante.
Gli angoli della sua bocca erano così in tensione, tirati verso l’alto in direzione delle guance, che davano l’impressione di essere quasi sul punto di strapparsi.
Le pupille nei suoi occhi erano dilatate, enormi, non nascondevano minimamente l’eccitazione e l’entusiasmo che stava provando in quel momento.
Il braccio destro procedette in avanti, fermandosi a mezz’aria, lungo il perimetro adiacente al suo petto, accompagnato da quello opposto che fece aderire la bocca del martello alla superficie del paletto, pronto a sferrare un bel colpo.
Il respiro di Victor accelerò, in preda al panico ed al terrore, ma Edward si premurò di rassicurarlo: « Non preoccuparti, Victor. Presto la tua anima sarà purificata e raggiungerai anche tu il campo di grano, l’alba di una nuova esistenza. »
Un colpo secco e tutto divenne buio.
E nel bosco tornò finalmente il silenzio.

 
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