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Autore: Aggrodolce    10/03/2021    1 recensioni
Da bambino credeva che sarebbe bastato liberarsi di suo padre per essere libero, ma aveva sbagliato.
In sua madre, c’era sempre stato un po’ di Takami, un recondito ricordo che altro non faceva che dare forza alla catena che lo teneva in trappola. Catena che ora non esiste più, né mai più esisterà.
Blackbird, fly.
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[SPOILER CHAP299][songfic][oneshot][introspettiva]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Best Jeanist, Hawks
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Blackbird
 

Blackbird singing in the dead of night
Take these broken wings and learn to fly
All your life
You were only waiting for this moment to arise”


 

Carte delle più svariate provenienze in terra a coprire assi luride e logore.
Il suono sinistro del vento che passa tra le fronde degli alberi che intravede dalla finestra – e dalla finestra soltanto, che sbattono contro le lamine di metallo che coprono il tetto di quel tugurio che chiama “casa”.
Il ticchettio indistinto delle zampette di qualche animale, un insetto forse, che di tanto in tanto attraversa lo spazio tra sé ed il muro, o tra sua mamma e la televisione.
Ecco, la televisione. Gli eroi sono in azione, Keigo riconosce la melodia che anticipa sempre i programmi che li raffigurano.
Il suo preferito utilizza il fuoco. È fortissimo, riesce sempre a salvare tutti. Se fosse vero, forse potrebbe salvare anche la sua mamma. Potrebbe portarli via di lì, in modo tale che se anche suo padre urlasse e si disperasse, crollando nella più totale e logorante paranoia, sarebbe inutile: loro sarebbero spariti per sempre.
Ma gli eroi non esistono, e l’unica cosa che rimane al piccolo Keigo è la libertà di sognare. È l’unica cosa che suo padre non può portargli via, anche se a volte, quando lo costringe in un angolo per essere sicuro che non possa scappare e comincia a picchiarlo per un motivo o per un altro, o un altro ancora, a volte Keigo crede di perdere anche quella.
A volte vorrebbe volare via.
Spiccare il volo e allontanarsi per sempre da suo padre, dalle urla, dalle botte; dalla paura che reprime perché in fondo la mamma non è cattiva, e sa di dover esser forte anche per lei.
A volte vorrebbe essere un eroe: l’eroe alato, il più veloce di tutti che corre in aiuto dei bisognosi quando gli prudono le ali.
Sarebbe bello volare.
Ma al suono del vento, degli insetti e della televisione, si aggiunge quello delle assi del pavimento scricchiolanti calpestate dagli stivali sporchi di suo padre, e quello della porta sbattuta con rabbia, e di nuovo delle urla, perché quell’uomo non sa fare altro che urlare.
E urlare.
E urlare.

Sarebbe bello se quelle urla cessassero.
Se d’improvviso quella voce smettesse di esistere, non importa come, non importa perché.
Sarebbe bello portare la mamma fuori, perché lui lo sa, lo sa che guarda tanta televisione perché non può uscire fuori, se non quando glielo ordina suo padre, proprio come lui.
Ma a lui non importa della televisione, quando rimane a casa da solo perché a suo padre “non serve” gli piace stare in silenzio. Solo lui, e il giocattolo che sua madre gli ha comprato con i pochi soldi che era riuscita a trafugare da sotto l’Asse D’Emergenza quando era più piccolo, più piccolo di sei anni.
Che bel momento era stato: soltanto lui, la mamma, il cielo, le strade, i negozi. Le uniche urla che sentiva provenivano dalle macchine in coda per la strada, uguali a quelle della tv.
Sarebbe bello, ma le assi scricchiolano di nuovo e Keigo si volta verso la porta, sperando che suo padre sia solo stanco e lasci in pace lui e sua mamma.
Ma sulla porta, che questa volta non sbatte, suo padre non c’è.
C’è solo la sua mamma.

La città non è come la ricordava. I palazzi sono uguali, le persone intorno le stesse, ma è tutto diverso.
È diverso, perché la sua mamma gli stringe forte la mano senza una meta, senza un obbiettivo.
È diverso, perché non dovranno tornare a casa: suo padre è stato arrestato, la polizia lo ha portato via, è stata sua madre a dirglielo, prima di uscire, prima di scappare, di afferrargli la mano e correre via gli ha rivelato che il suo eroe preferito, quello del suo giocattolo, proprio quello ha fermato e catturato suo padre, consegnandolo alla polizia.
È diverso, perché gli eroi esistono davvero.
È diverso, perché ora è libero.
È come desiderava, ma la mamma non sembra felice. È spaventata, non sa che cosa fare, e gli dice di fare come faceva suo padre perché in fondo hanno bisogno di soldi e non c’è altro modo per riuscire ad averne se non fare come faceva lui: rubare, talvolta uccidere. La legge del più forte.
Keigo vorrebbe dire alla sua mamma che è sbagliato, che non lo vuole fare, ma è tutto ciò che gli rimane. E se renderla felice significa sporcarsi le mani, allora è ciò che farà.

Un sacchetto di plastica con dentro due ramen istantanei ed una confezione di biscotti è tutto ciò che il piccolo Keigo tiene tra le mani.
È tutto ciò che è riuscito a comprare per far mangiare lui e la sua mamma: ha sfilato una banconota da cinquecento yen dalla tasca di un signore con una delle proprie piume, è entrato in un negozio e ha pagato. È stato facile: l’uomo al bancone non si è fatto domande, e Keigo non ha fatto in modo che gliene ponessero.
È quasi mezzogiorno, deve sbrigarsi. Non può lasciare la mamma da sola per troppo tempo, anche se è brava a nascondersi è lui che se ne occupa, non reggerebbe da sola.
Il percorso per fortuna è facile: bisogna attraversare la strada due volte, poi andare a destra ed infine sempre dritti.
È strano.
Le ali gli prudono, gli prudono tanto. È come se le piume volessero fare tutto da sole, vogliono fargli vedere qualcosa lungo la strada che ha appena attraversato.
Keigo si volta e poi è tutto confuso.
Ricorda il camion ed il suono del suo imponente clacson.
Ricorda il rumore delle ruote sulla strada che tentano disperatamente di frenare.
Ricorda le urla, tante urla.
E ricorda le proprie piume schizzare via dalle ali come proiettili, una per ogni persona presente, sinché di presenti non ce ne sono più.
Ricorda il fumo, l’auto ed il camion distrutti, e gli occhi di tante persone tutti su di sé.
Ricorda di essersi nascosto, ricorda il cuore quasi uscirgli dal petto e le ali tremare come le sue gambe, e ricorda i volti di due signori vestiti di nero che gli fanno tante domande.
Lui risponde che non lo sa, non lo sa cosa è successo.
In fondo, lui voleva solo portare alla sua mamma da mangiare; ma poi ha visto quelle persone in pericolo e le sue ali si sono mosse da sole, le piume in volo, ed una grande, fortissima adrenalina lo ha pervaso. Come se avesse sfogato tutti quegli anni recluso in una volta sola.
Però, non sa se ha fatto bene.
Lui in fondo non è un eroe, anche se gli piacerebbe.
Gli piacerebbe aiutare le persone, salvarle, come l’eroe che ha salvato lui pochi giorni prima.
E la risposta dei due signori a quell’affermazione gli suona tanto strana quanto, in qualche modo, interessante.
Gli dicono che se vuole può diventare un eroe, ma prima deve portarli dalla sua mamma.
Keigo non lo sa perché ha acconsentito, nonostante le raccomandazioni quasi disperate della mamma di non parlare con nessuno, di limitarsi a trovare soldi con cui andare avanti.
Sente di averla tradita, la sua mamma. Ma quei signori, forse, sono l’unica speranza che hanno.
Sono le sue piume a dirglielo. Percepiscono che non c’è niente di cui aver paura, che lui e la mamma staranno bene.
Che da quel giorno in avanti, il bambino spaventato e solo, isolato nel proprio piccolo, lurido angolo di mondo e la donna succube e smarrita non esisteranno più.
Lui li farà sparire per sempre, come è sparito per sempre suo padre.
Il suo desiderio di volare via è divenuto realtà, ed ora si libra nel cielo, imparando a sfruttare le correnti di vento, ad evitare gli ostacoli e a non avere limiti sinché le proprie ali saranno spiegate.

 

Blackbird singing in the dead of night
Take these sunken eyes and learn to see
All your life
You were only waiting for this moment to be free”



Le strade dal finestrino della macchina sembrano tutte uguali. Una dopo l’altra. Forse è la morfina, forse sono le medicine.
Forse è quella specie di museruola che è forzato a portare. Antiestetica, certo, ma necessaria.
Jeanist sta guidando, concentrato come al solito. Hawks lo intravede con la coda dell’occhio, che grazie al proprio quirk, nonostante la stanchezza, il fatto che sia più morto che vivo, e le maledette curve che compongono la strada, è come se lo stesse guardando diritto negli occhi; o al limite, molto accuratamente dallo specchietto retrovisore.
Le sopracciglia gli si contraggono e rilassano in una espressione stanca. Il collega è talmente concentrato che non si accorgerebbe delle proprie condizioni neanche attirando la sua attenzione a gesti; la strada sembra essere ancora lunga, o forse no. È talmente stanco che gli sembra di stare vivendo in un limbo, un loop infinito di curve, segnali stradali, clacson e rumore di pneumatici.
Gli occhi hanno cominciato a sembrargli di piombo nonostante abbia dormito sino a poco tempo prima.
Probabilmente non dovrebbe considerare tutti quei colpi di sonno un buon segno, forse sta impazzendo. O forse è arrivato il suo Grande Momento e se ne andrà in grande stile, come in uno di quei Musical americani che ogni tanto ha intravisto alla tv, nei servizi streaming a sua completa disposizione, profumatamente prepagati.
Già si vede, confuso con gli angeli del Paradiso in cui gli Americani credono tanto: la regia neanche dovrà sprecarsi nel budget. Le ali in fondo le ha già. Non che ora le abbia davvero, ma, è proprio il caso di dirlo, grazie al cielo ricresceranno.
Anche se già immagina l’imbarazzo nel dover spiegare il colore rosso cremisi delle proprie ali contrapposto a quel classico bianco candido. Come dire, si lavora con quel che si ha.
Ed a seguire, tante, troppe canzoni arrangiate dai migliori compositori che l’America abbia mai avuto che narrano della sua vita e del perché sia finito lì.
Per fortuna avverte la voce di Jeanist informarlo che sono giunti a destinazione.
Ancora qualche minuto e si sarebbe realmente addormentato per svegliarsi, forse, chissà quando.
L’edificio che hanno di fronte è una meravigliosa casa di periferia, completa di balcone, giardino e diverse stanze.
Hawks si fruga in tasca e ne estrae un paio di chiavi, con cui apre il cancello che dà sul giardino e successivamente anche la porta della casa stessa.
La casa di sua madre.
La casa che la Commissione ha profumatamente pagato a sua madre da anni, per essere precisi. Una casa da sogno, con parquet italiano, tappeti persiani, enormi spazi interni, televisione al plasma, ogni comfort.
Eppure, gli appare vuota.
Se i propri sospetti sono fondati, sono ormai giorni che in quella casa non abita più nessuno, men che meno sua madre.
Jeanist non fa altro che seguirlo, ma dopotutto non potrebbe fare altro. È stato già abbastanza cortese ad accettare di accompagnarlo sin lì.
Potrebbe osservare quella casa per ore, perdendosi nei più piccoli particolari: dalla scelta dei mobili, all’esplorare ogni stanza, ogni angolo. Perché quella casa sa di sua madre, di ciò che aveva sempre desiderato, ed al contempo è una perfetta gabbietta per uccelli.
Un modo per tenere buona una persona che sa troppe cose, comprata con oggetti di pregiata fattura, vitto, alloggio: una splendida prigione dorata, ma Hawks ragiona troppo poco con la compassione e troppo con il cervello – ne sarà fiera la Commissione, per non capire che sempre di una prigione si tratta.
Potrebbe perdersi nei più splendenti dettagli di quel castello dei sogni, ma l’occhio, per quanto stanco e non al massimo delle proprie capacità, gli cade su di un biglietto posato su un mobile; un pezzo dello sfarzo che li circonda, tanto ben mimetizzato che avrebbe potuto ingannare chiunque altro, ma non lui. Non lui, che rimane pur sempre il figlio di sua madre.
Non ci vuole molto per trarre le conclusioni: non solo sua madre non è in casa, forse in quella casa non tornerà mai. E non gli serve leggere il contenuto del biglietto per saperlo, è la casa stessa a suggerirglielo.
Quel biglietto però pare chiamarlo: non per curiosità, né perché spera di trovare informazioni su sua madre. Nulla di tutto quello è ciò che gli interessa.
Anzi, al contrario: è quasi del tutto sicuro che in quel biglietto troverà un addio, ed in fondo è ciò che spera di trovare, perché confermerebbe i propri sospetti, il motivo per cui è lì, per cui ha chiesto a Jeanist di condurlo in quel posto anziché fargli compagnia in ospedale.
Il motivo per cui ha scelto di fare il bambino cattivo anziché il soldatino in riserva.
Lentamente, afferra il piccolo pezzo di carta e ne legge il contenuto.
Se solo Jeanist potesse vederlo. Da dietro quella museruola costrittiva, Hawks sta sorridendo.
Un sorriso enigmatico, accennato, a labbra chiuse, tremanti ed esitanti, ma al tempo stesso deciso, come se fosse pervaso da un incontrollabile senso di sicurezza.
Soltanto una volta nella vita aveva provato la sensazione che gli sta montando nel petto istante dopo istante, tra le mura di quella prigione.
Ironico.
Ciò che prova è un forte, indomabile senso di libertà.
La prima volta che si era sentito libero invece non poteva saperlo, ma stava per mettere piede in una prigione mascherata da desiderio, proprio come quella casa.
Una enorme voliera, verde, rigogliosa, ampia: ricca di stimoli e capace di metterlo alla prova, di farlo volare come aveva sempre sognato.
Ma con una invisibile, lunga, insidiosa cordicella ad una caviglia, come ogni uccello ammaestrato che si rispetti deve portare.
Ora, tra le mura di quella prigione d’oro, d’avorio o d’alabastro, seppure non propria, lo sa.
Sa di essere finalmente libero.
Libero davvero, senza più corde a ricordargli di non poter superare certi confini, senza più catene a tenerlo imprigionato nonostante la vita superficialmente invidiabile che agli occhi di tutti ha sempre vissuto.
È libero.
La Commissione a un punto morto, quella lettera camuffata da biglietto, sua madre sparita forse per sempre; da bambino credeva che sarebbe bastato liberarsi di suo padre per essere libero, ma aveva sbagliato.
In sua madre, c’era sempre stato un po’ di Takami, un recondito ricordo che altro non faceva che dare forza alla catena che lo teneva in trappola.
Catena che ora non esiste più, né mai più esisterà.
Non permetterà più a nessuno di controllarlo, di intrappolarlo, costringerlo.
Con un movimento lento ma deciso si sfila la museruola dal volto, celebrando quel momento di consapevolezza anche nei fatti, con ciò che può mostrare visivamente a chi gli sta intorno, come a godere sino in fondo di ciò che finalmente ha acquisito.
Per la prima volta, per la prima, vera volta in tutta la vita può decidere di se stesso, può assaporare, vivere sulla pelle e sentire nell’animo cosa significa realmente essere liberi.
 

Blackbird fly”

  
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