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Autore: Blue_Bones    27/08/2009    0 recensioni
Le mie protagoniste non fumano quasi mai e stanno tutte in America, ma questa mi è uscita così: con le winston rosse, una tazza di caffè che spande il suo aroma nel monolocale dal pavimento color dell'ebano e le black devil riservate per le paseggiate serali sulla riva della Senna in cui si fermava ad osservare gli artisti di strada. Una scrittrice fallita dei bassifondi della "sua" Parigi.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Parigi
La riva della Senna che preferivo era certamente quella frequentata dagli artisti di strada. Parigi era
sempre stata un sogno, fin da quando ero piccola. Mio padre era un musicista da cui avevo preso
ben poco e mia madre nemmeno la ricordavo, morta quando ero piccolissima. Non ascoltavo
musica, non molta almeno, se non contiamo quella che sentivo lì, seduta sulla panchina. Me ne
intendevo però, ma non era il mio mondo.. Io vivevo per scrivere e scrivevo per vivere.
I personaggi sempre diversi: sempre ispirati ad un nuovo artista che vedevo un Lunedì o un Giovedì.
Il giorni restanti lavoravo in un bar, giusto per pagarmi l’alloggio scomodo in cui vivevo. Le serate
erano simili, a casa o lungo quella riva. Immaginavo che la donna addobbata a festa, con il
cagnolino che le scodinzolava, fosse una contessa o una nobile; che il ragazzino che suonava il sax
sarebbe diventato un mito del jazz. Ne avevo visti tanti, di artisti intendo, diventare grandi. Vivevo
per ricostruire storie improbabili basandomi sulla persona che più attirava la mia attenzione. Avevo
solo un amico in quel posto e lo vedevo di rado, sempre occupato, com'era, a trovarsi nuovi lavori.
Le sere in casa erano le più proficue: mi sedevo sul divano di pelle nera con la mia vecchia e
sgangherata macchina da scrivere in braccio; una tazza di caffè fumante ad aspettarmi in caso di
bisogno, lì sul tavolino, disseminando il monolocale del suo profumo e il chilo di zucchero pronto
ad essere capovolto direttamente nella tazza. Nel portacenere una sigaretta fumata a metà che
ancora spandeva il fumo acre, mischiandosi all'aroma di caffè. Winston Rosse o Black Davil alla
vaniglia. Ma fumo poco, anche se sembra strano, lo faccio solo quando sono in ritardo con una
consegna. Il mio nome risplendeva, si fa per dire, logicamente, nelle librerie dei bassifondi, di quelle
che avevano ancora voglia di aiutare gli emergenti che non scrivevano di solo sesso. Non che i miei
personaggi fossero tutti stinchi di santi, anzi mettevano in mostra i lati più depravati del mondo, ma non
lo facevano con la pretesa di mettere la parola “amore” ovunque. Il mio “abbagliante” nome si
vedeva anche in qualche dipinto paesaggistico in esposizioni di poco conto, ma ero soddisfatta di
avere qualche ammiratore, ammiratrice per la verità, costante. I paesaggi erano la sola cosa che
sapevo dipingere, per il resto, disegni e ritratti, ero negata. Adoravo Maggio, era certamente il mio
mese preferito, quando l’inverno si scioglieva e volava via e non faceva più così freddo da impedirti
di star fuori ad ammirare il paesaggio per più di cinque minuti. I temporali primaverili che
spazzavano via lo smog erano sicuramente il lato più divertente per Leon, che non perdeva un
secondo a sfottermi per la mia fobia dei fulmini. Io facevo l’offesa ogni volta che mi scriveva un
messaggio tipo “dove sei nascosta ora?”, ma poi ridevo e mi rilassavo. Ero single, come se avessi
avuto tempo per una relazione. Un tatuaggio spiccava nel mio braccio, racchiudendo la mia vita: la
mia storia. Una rosa nera con una mezzaluna. Nessuno dei miei libri aveva sfondato, ma avevo un
discreto successo.
Quella sera avrei lavorato. Abbandonai la storia di Victor, un cantante
dell’opera che non veniva accettato a causa delle origini poco nobili che aveva e del fatto che
vivesse su di una panchina, lì intrappolata sul foglio di carta in mille lettere. Riposi, con cura, la mia
tazza preferita al suo posto e ripescai la rossa che stava finendo sul portacenere. Recuperai il
cappotto e uscii nel tiepido freddo che ancora bussava alle porte della capitale, in quei mesi. C’era
ancora un insistente via vai di gente per le strade e la Tour Eiffel risplendeva come non mai. Parigi
è sempre stata così: piena di vita e di frenesia e di luci, già, non dimentichiamoci delle luci. Se
adoravo maggio, amavo la vista di quel posto tinto di bianco, sotto una coltre di neve, ma io e il
freddo non eravamo affini e mi limitavo a fotografarla nel breve tragitto tra “Les Cafè” e il mio
appartamento, se così potevo chiamare i miei sessanta metri quadri di pavimento color dell’ebano in
cui vivevo. Quando entrai Sophie mi fece un cenno di saluto e disse « C’è un tipo nuovo di là con il
capo. » la guardai, esprimendo tutto il mio disappunto in una faccia che racchiudeva l’espressione
“Un altro novellino?”, lei scrollò le spalle poco interessata e io mi infilai la divisa pensando a che
carte avrebbe giocato il novizio per essere accettato tra gli accoliti, anche se detta così sembriamo
più una setta che dipendenti di un Cafè. Il capo uscì dall'ufficio: era alto e nerboruto, con due occhi
porcini e acquosi e un viso bonario sempre aperto in un sorriso, il capo si chiamava Josèph ed era
seguito dal fancazzista più scassapalle che conoscessi « Leon » biascicai irritata e lui mi salutò
allegramente lisciandosi i lunghi capelli mogano e fermandoli in una coda alta che non lo
rendevano effeminato. Sospirai e abbandonai la posa rigida che avevo
assunto per accogliere il principiante, visto che Leon era tutto tranne che un pivello « Cara, hai la
serata libera devo testare il signorino, qui. » lo guardai arricciando le labbra, un palese gesto di
disapprovazione, più per il fatto che mi avesse chiamato “cara” che per la serata libera, visto che,
dopo due settimane di straordinari, mi ci voleva proprio. Mi congedi dai tre e presi un block notes per le
ordinazioni, praticamente certa che mi sarebbe servito, e mi immersi nuovamente nella calca
parigina che andava via, via, sfoltendosi. Le luci, in quella parte della riva, erano più rade, ma più
soffuse e trasmettevano emozioni diverse, più forti e prepotenti, facendoti ringiovanire di dieci
anni e dandoti un leggero senso di irrealtà, come quando sei sbronzo. Solo che dopo non c’era il mal
di testa lancinante post sbornia, almeno, l'unica volta che mi era successo, io dalle sbornie avevo ricavato
solo quello. Ai lati delle strade, gitane indaffarate a prevedere qualche futuro e bambine che
lavoravano troppo presto, ginnaste, che nella vita non avrebbero fatto altro fino a quando non
avessero dato alla luce un altro piccolo portento. Mi sedetti nella solita panchina e presi una
sigaretta dal contenitore nero, l'accesi e cominciai ad aspirare intrappolata in una
nebbiolina che ovattava maggiormente il paesaggio già sfocato dalle luci. Vecchi pittori si
perdevano tra dipinto e realtà con le barbe lunghe e bianche intrise di colore e il solito odore della
tempera o dell’olio che si fondeva con quello più soave e meno pungente della vaniglia. Parigi era
quella, che mi dicessero quello che volevano, che ingannassero gli altri, ma la mia Parigi era quella.
Mi strinsi nel cappotto nero con un brivido e cominciai a fantasticare sulla possibile storia di un
ragazzo che stava sul bordo del letto del fiume, intento a strimpellare una melodia sconosciuta, ma così
incantevole da meravigliare anche me. Mi sfuggì di mano la sigaretta, ma non toccò nemmeno il
suolo: una mano, che prima mi aveva incantata, mentre suonava una vecchia acustica, mi porgeva
la sigaretta. Ero rimasta, dunque, a fissare il vuoto. Ripresi la mia sigaretta dalle mani curate del
ragazzo che l’aveva recuperata e dissi « Grazie » lui sorrise e, sedendosi affianco a me disse « Di
nulla » sorrisi quando lui mi domandò « Cosa ci fa una bella ragazza come te, in giro a quest’ora, da
sola? » ridacchiai « So difendermi. » dissi semplicemente e chiesi « Chi sei? » e lo guardai: era
castano, con lunghi capelli mossi e ricci e gli occhi nocciola e mentre rispondeva osservavo la sua
bocca piena muoversi e solo dopo sentii ciò che sussurrava, come se audio e immagini non fossero
sincronizzati « Mi chiamano Sebastien. Ma sono quello che preferisci, qualunque cosa vuoi che io
sia. » il suo tono era basso e roco, da seduttore « Quante volte lo hai fatto? » chiesi, sicura che avrebbe
capito Lui mi fissò sorpreso e disse « Spesso, ma lascio perdere quando vedo che si farebbero fare
qualsiasi cosa. » Schietto il tipo, vero? « E quindi, secondo te, chi sono? » un soffiò, seta sulla pelle e
carezze proibite, era così la sua voce. Lo guardai per un attimo e ci pensai, lo osservai nei vestiti
usurati e stinti, ma che gli stavano bene, nella carnagione color caffellatte, molto diversa dalla mia:
lattea che si tingeva d’ambra solo sotto il sole estivo. Osservai le unghie tagliate e i polpastrelli
leggermente provati dalle corde della chitarra. Guardai l'orecchino al lobo e il mento quasi glabro,
di barba appena fatta, annusai il pungente odore di dopobarba e i riflessi rossicci dei capelli, le
spalle larghe e rassicuranti, anche se non avrebbero dovuto apparirmi come tali, annuii a far intendere che
avevo una vaga idea.
Lui mi studiò nel mio cappotto nero, nei jeans stinti e nella maglietta, di cui si intravedeva
appena un lembo rosso, mi scrutò negli occhi nocciola, più chiari dei suoi, quel giorno, verdi scuro
e nei capelli castano chiarissimi con riflessi biondi e rossicci. Le mie labbra piene e rosse. La mia
seconda. Il mio metro e un barattolo di marmellata. Osservò le mie orecchie leggermente appuntite,
non come gli elfi naturalmente, ma meno tonde del normale con i lobi bucati: uno a sinistra e tre a
destra. Osservò le mie unghie placcate di blu notte e mi chiese « Tu, invece, chi sei? » Tirai su la
manica del braccio su cui si intravedeva il tatuaggio della rosa e lui l’osservò. « Mi chiamano
Françoise e forse il mio nome è quello che sono. Secondo te chi sono? » chiesi sussurrando senza
riuscire ad ottenere il suo stesso risultato, ma, a giudicare da come gli brillarono gli occhi ero stata
abbastanza convincente « Francesca in italiano, ma ha origine tedesca. Libera e indipendente, sì,
sembri tu. Ma un nome non fa una persona, non mi hai ancora detto chi sono io » lo guardai e
sorrisi, magari un giorno avrei scritto di lui, ma sapevo già abbastanza « Tu, tu sei Parigi. »
Parve sorpreso, ma era vero: era artista, bello, sensuale e misterioso che ti provocava stordimento.
Cominciai a scribacchiare lasciando che mi guardasse.


Space:
Ok è assurdamente assurda questa storia. E’ molto pacata a mio parere, non frenetica come le mie
solite. Lei secondo me è psicologicamente lesa, ma anche io lo sono perciò. Sebastien è un emh..
non so lì ho creati io questi personaggi quindi penso, presumo e spero, tocchi a voi recensire e dirmi
che ne pensate. Chi è mio lettore abituale sa che le mie protagoniste non fumano quasi mai, ma lei
mi è venuta così, nel monolocale con il pavimento color dell’ebano, le Winston rosse e il caffè
zuccherato sul tavolino, con le maniere poco dolci e docili e l’orgoglio grande, testardaggine alla
fine, con la passione per le storie, i paesaggi e la fotografia e, cosa stranissima, con pochissimo vero
interesse per la musica.
   
 
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