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Autore: Mikirise    30/03/2021    0 recensioni
“Comunque oggi devo tornare a... beh” dice. (...) Atsushi struscia le mani una contro l’altra, con una punta di nervosismo. Akutagawa ha ruotato gli occhi. Beh. Dovrebbe spiegare perché non può-... “Prima di andarmene devo fare tutte quelle cose burocratiche. Dovrei firmare alcuni documenti, dimostrare che ho un posto in cui vivere. È un po’...” E comunque non può vivere in questo appartamento. Non ha abbastanza soldi. I pochi spicci che ha non coprirebbero nemmeno la metà delle spese. Atsushi deve andarsene da lì.
Eppure non si muove.
o, Akutagawa voleva proprio parlare con questa persona facile da amare di cui tutti continuavano a parlare e finisce in una situazione scomoda.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsushi Nakajima, Ryuunosuke Akutagawa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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alberi sulle montagne, rami sugli alberi

 
What night is tonight,
we are rowing on the river.
What day is today,
I get to share a boat with a prince.
The prince's kindness makes me shy,
take no notice of the people's mocking cries.
Ignorant, but not uncared for
I make acquaintance with a prince.
There are trees in the mountains and there are branches on the trees,
I adore you, oh! You do not know.
(Yuèrén Gē, Shànshuō)
 

1. Alberi sulle montagne

Dazai-san gira il lecca-lecca tra le labbra, e sembra star pensando a una risposta seria alla domanda di Ryunosuke. Dondola i piedi sul genkan. Si è rotto il braccio, cadendo da sopra un balconcino del primo piano. È caduto sul tettuccio di una macchina, che ha ricevuto, come souvenir dell’esperienza, la forma perfetta di un corpo umano e una visita alla concessionaria. A Dazai-san non importa. Dicono che si sia buttato dal balconcino di proposito, ma la motivazione cambia di volta in volta. Voleva scappare da un certo Kunikida. Voleva sentire il brivido del parkour. Era uno dei suoi tanti attentati al suicidio. La morte non è reale, se riesce a sfuggirgli così tante volte, ha sentito dire una volta Ryunosuke. Lo ha sentito dire da Dazai-san stesso. Non sarebbe un problema, se fossero solo parole, quelle che dice, ma lui continua ad agire, come un bambino, pronto a dimostrare che la morte, non avendola mai vissuta non esiste. Non ha nessun rispetto per se stesso o per il suo corpo. A Ryunosuke questo non interessa. Per questo è uno dei pochi che può ancora entrare in casa di Dazai-san.

Dazai-san muove le dita delle mani, per chiedere il bicchiere d’acqua che Ryunosuke tiene tra le dita. Continua a non dire una parola, e Ryunosuke spera davvero che sia perché sta pensando alla sua domanda. Gli porge il bicchiere di acqua e lo vede giocare con il lecca-lecca, girandolo sulle labbra come se fosse un bambino.

Non è una domanda strana, quella che gli ha fatto. È, invece, una domanda logica.

Ryunosuke ha diciotto anni, ha lasciato la scuola appena è stato possibile, ha la licenza media, è vero, ma è anche vero che ha vissuto in questa città per molto tempo. Mentre i ragazzini della sua età studiavano, lui doveva trovare un posto in cui dormire, sapere come guadagnarsi il pane. Forse non è stato sempre innocente e ha rubato e truffato per poter continuare a vivere, ma appunto, lo ha fatto per sopravvivere. Sa dove trovare le telecamere, come evaderle, come sembrare innocente, come essere il più forte. In più, proprio perché è bravo a scappare e a nascondersi, conosce le strade della sua città come se fossero le sue tasche. Da bambino sapeva dove nascondersi, in quali giardini si poteva infilare senza pericolo, sapeva già come girava il mondo. E col tempo le sue capacità di sopravvivenza sono migliorate. Per questo gli è sembrato strano che Dazai-san, per un lavoro pratico, sulla città, sul fare giri per la spesa ma anche controllare quello che succede per le strade non abbia scelto lui, ma una feccia pescata dall’orfanotrofio.

Ryunosuke ruota gli occhi al pensiero. Rimane seduto composto sul pavimento riscaldato. Dazai-san tiene le finestre aperte per la maggior parte dell’anno, anche adesso, che è inverno e che fuori gela. Ha pescato una feccia dall’orfanotrofio e lo ha messo per le strade di Yokohama, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Beh. Non lo è.

Ryunosuke in un orfanotrofio non ci è mai stato. Per il governo lui è morto a dodici anni. Non paga le tasse, non ha una residenza ufficiale, se mai si ammalasse di sicuro non saprebbero dire nemmeno che tipo di sangue ha nelle vene (A)(nel caso dovesse servire, Ryunosuke ricorda perfettamente che il suo tipo di sangue è A). Scappava dai poliziotti che volevano portare lui e Gin da qualche parte e poi -e poi? Cosa? Dividerli? Dire loro che non sono veri fratelli? Trovare modi per non farli incontrare mai più? Gli orfanotrofi sembrano il pezzo di mondo più disgustoso che Ryunosuke abbia mai visto. E lui di posti disgustosi ne ha visti. Ed è da un posto del genere che viene Nakajima Atsushi. Protetto dalle mura di una chiesa, con il cibo pronto in tavola, ancora non si è diplomato. Sedici anni di una vita tranquilla e placida. Ryunosuke non lo ha mai incontrato, ma sente davvero di odiarlo anche soltanto per questo.

Ha solo chiesto perché lui. Dazai-san arriccia le labbra, muovendo il lecca-lecca avanti e indietro. Perché lui. E ancora nessuna risposta.

“Tu hai mai incontrato una persona tanto amata, Akutagawa-kun?” gli chiede Dazai-san, a sua volta. È stato Dazai-san a trovare Nakajima Atsushi. Sembra che lui fosse stato trascinato da qualcuno in città, per visitare un’università, o qualcosa del genere. Un lavoro. Ryunosuke davvero non sa i dettagli. E nella sua ricerca, un’esplorazione che ha poco a che fare con l’accademia, ha incontrato Dazai-san, rinchiuso in un bidone della spazzatura che gridava contro dei tanuki ribelli. È stato poco prima del tuffo dal balconcino che gli ha rotto il braccio. Sembra infatti che dal cassonetto della spazzatura a un volo di venti metri il passo sia corto. Nakajima Atsushi lo ha seguito nel salto, chissà perché, e ne è uscito incolume, atterrando sulle gambe come se fosse stata roba da poco. Quando ha visto Dazai-san col braccio rotto, lo ha portato in ospedale. Almeno questo racconta Dazai-san. Sembra che il giorno dopo, Nakajima Atsushi si sia presentato con un paio di graffi sul viso e un misterioso livido sulla schiena. “O almeno, qualcuno che sia facile da amare.” Dazai-san punta il lecca-lecca contro di lui.

Ryunosuke inclina un po’ la testa. “No” risponde, dopo averci pensato su. Non è nemmeno qualcosa a cui pensa, quando incontra una persona. Non è così che le classifica.

“Atsushi-kun ha avuto il posto perché è un ragazzino facile da amare” risponde alla fine Dazai-san, guardando verso il giardino. Tira su una gamba, per infilare il piede sotto la coscia. “Al contrario tuo” aggiunge poi, appoggiandosi alla finestra.

“Cosa mi renderebbe facile da amare?” chiede Ryunosuke, con le sopracciglia aggrottate. Non capisce come questa caratteristica di una feccia dell’orfanotrofio possa rendere lui una seconda scelta. Si morde l’interno delle guance. Gli fa male il petto e non sa se è una risposta emotiva, questa, oppure un attacco di asma (non dovrebbe vivere in un posto con così tanto fumo). E cosa vuol dire, poi, essere facili da amare? Non ha senso. Nessuno lo è. C’è sempre qualcosa che non va, nelle persone.

“Niente.” Dazai-san si gira verso Ryunosuke con un sorriso. “Tu non puoi fare proprio niente, per essere facile da amare. Per questo non ti ho proposto.”

Ryunosuke abbassa lo sguardo, mantiene le sopracciglia aggrottate. Immagina sia facile essere amato, quando intorno a te non c’è stato altro se non amore. E comunque queste cose non gli interessano. “Se non volevi prendermi sul serio” mormora, stringendo i pugni “Allora potevi anche non rispondermi.”

Dazai-san continua a sorridere. Ryunosuke davvero non capisce che cosa trova di tanto divertente in tutto questo.





[How can others understand what I feel? They cannot -unless they have experienced the very same thing]

“Presidente” chiama a bassa voce Atsushi, con lo sguardo puntato verso le sue stesse cosce.

Sente di star sudando freddo. Sente proprio un pozza di sudore formarsi sotto le ascelle, mentre dietro le ginocchia diventa scivoloso e ha una voglia matta di togliersi i guanti. È a malapena marzo, fuori fanno meno di otto gradi centigradi (ha controllato, prima di venire fino a qui) e le finestre dell’ufficio del presidente sono ben chiuse. Nonostante si trovino nel suo ufficio (niente di più lontano da una casa tradizionale giapponese), Fukuzawa-san, il presidente, il grande capo, lo ha fatto sedere composto sul pavimento, con le ginocchia puntate verso il basso e i talloni rivolti verso l’alto. Atsushi alza uno sguardo verso Fukuzawa-san, poi lo abbassa di nuovo, stringendo i pugni.

Non ricorda di aver fatto qualcosa di male. Non ha rotto la stampante, è stato Ranpo-san, puntandoci sopra i piedi mentre mangiava le sue merendine. Atsushi si trovava solo lì. In più, quella faccenda è stata sistemata da Kunikida-san, che, mentre Ranpo-san dava la colpa ad Atsushi che doveva fotocopiare troppi documenti, ha sospirato e fatto un gesto stanco con la mano. Atsushi ha sentito le orecchie iniziargli a bollire, mentre sentiva di venire accusato per qualcosa che non aveva fatto (all’orfanotrofio, poteva voler dire perdere un pasto intero) e Kunikida-san gli aveva passato una mano sulla spalla, borbottando che Ranpo-san non lo stava dicendo sul serio e che nessuno comunque gli avrebbe creduto. Forse Ranpo-san è venuto a lamentarsi con Fukuzawa-san? Forse la faccenda non era stata liquidata via come se niente fosse?

Atsushi tira giù il mento, cercando di nascondersi dietro le spalle. Sta per compiere diciannove anni. Il tempo di ritirare il diploma e sistemare le valigie, giusto quello ha, prima di ritrovarsi per strada. Ha passato gli ultimi sei mesi a cercare un appartamento in città, con l’aiuto di Tanizaki-kun e Naomi-san, per non finire sotto i ponti quando l’orfanotrofio finirà le scartoffie per mandarlo via. Il patto che hanno con lo stato è di prendersi cura degli orfani per il tempo che serve loro a diplomarsi, da lì in poi se la devono vedere loro. Quando Tanizaki-kun gli ha chiesto se si sentisse un po’ nostalgico o se lo facesse sentire male lasciare così in fretta quella che doveva essere casa sua, Atsushi non ha mentito. Andarsene dall’orfanotrofio è una benedizione. Ma le cose cambiano, se perde il lavoro per colpa di una stampante che non ha rotto.

Si sfrega le mani contro i pantaloni. Senza lo stipendio dell’agenzia, anche se è modesto (tarato per uno studente liceale, aveva detto Dazai-san, appoggiato da Kunikida-san), Atsushi si ritroverà senza cibo, casa, amici e finirà per morire sulle rive del canale che porta al mare. Gli viene da piangere, a pensarci. Anche i vestiti che indossa, gli sono stati dati da Yosano-sensei e Kunikida-san. Dovrebbe ridarli indietro? Sono gli unici abiti eleganti che ha, oltre alla divisa scolastica, che comunque deve lasciare in orfanotrofio. Quindi si ritroverebbe quasi nudo, perché tre magliette e un pantalone non contano, senza soldi cibo o una casa. Finirà per rubare e lo porteranno in prigione, in cui verrà maltrattato per il resto della sua vita. Perché tornerà a rubare per non morire di fame e Atsushi non crede di essere così furbo da non farsi beccare e...

“Mi dispiace” mormora, guardando verso il basso. Il presidente non è una cattiva persona, potrebbe anche tenerlo in agenzia, ma detrargli dallo stipendio i soldi che gli servono. Solo che lo stipendio è troppo basso, Atsushi si ritroverebbe a non poter mangiare. Morirebbe di fame, piangendo vicino a...

“Atsushi-kun” lo chiama Fukuzawa-san. Ha un tono severo. Lui ha sempre un tono severo. Ogni volta che parla, ad Atsushi sembra che debba dare un ordine, oppure che voglia rimproverare. Viene chiamato dai dipendenti dell’agenzia ogni volta che succede qualcosa di grave, oppure ogni volta che devono prendere una decisione importante, che, viste le personalità che gravitano intorno a questo ufficio, possono essere sia questioni di vita o di morte, cosa fare con un caso, chi deve rimanere vicino a un ferito mentre Yosano-sensei lo cura, ma anche dove dovrebbero andare a mangiare la sera, chi dovrebbe pagare. Fukuawa-san prende tutte queste decisioni come se fossero ugualmente gravi. È un brav’uomo. Atsushi si sta iniziando a chiedere se davvero ha rotto lui la stampante. Se venisse cacciato, se lo meriterebbe. Portare questi problemi a... “È arrivata questa, per te.”

Atsushi sbatte le palpebre e alza lo sguardo verso Fukuzawa-san, che a sua volta fa un cenno con la testa per indicargli la lettera. La fa scivolare sul pavimento, accompagnandola con la mano nello spazio di Atsushi. Quindi non è stato chiamato qui per la stampante. Ah. Okay. Allora. Allora forse non finirà a vagabondare per la città. Okay. Cioè, no, sì, gli viene da piangere, ma okay. Allunga il braccio per prendere la lettera e la gira tra le mani. È così sollevato che non fa troppo caso al mittente. Non è nemmeno strano che a sua posta arrivi in agenzia, visto che di solito le lettere che arrivano in orfanotrofio vengono rubate e mai portate al destinatario. Fukuzawa-san gli aveva detto di farsi recapitare in ufficio qualsiasi cosa ordinasse, dai quaderni per studiare alle cose più stupide, come peluche o macchinette per le corse (ha anche aggiunto che non era molto sicuro di cosa facessero i giovani di oggi per divertimento, mentre Yosano-sensei rideva di tutta la conversazione che avevano avuto Atsushi e Fukuzawa-san). Atsushi non si è mai fatto recapitare niente in ufficio. I soldi li ha davvero spesi solo per scuola e trasporto (l’orfanotrofio è lontano) e per, un giorno, poter dare la caparra e un anno di affitto in anticipo per un appartamento che sarà solo suo.

Atsushi apre la lettera e la gira tra le mani. Un sigillo ufficiale. Una firma importante. Un è stato ammesso. Davvero tante parole e poi università.

Atsushi apre la bocca, alza le sopracciglia, sorpreso. Deve -pensa di dover rileggere questa lettera. Quindi. L’università ammette Nakajima Atsushi nella facoltà di Educazione e Scienze Umane, e al corso di Letteratura Giapponese, con ammissione anticipata rispetto ai suoi coetanei e poi tante altre parole. Atsushi sbatte le palpebre. Aspetta. No. Forse dovrebbe leggere di nuovo. L’università Nazionale di Yokohama ammette lo studente numero di matricola 35378, Nakajima Atsushi, al corso di…

“Qual è il verdetto?” chiede Fukuzawa-san. La sua immagine stoica barcolla un po’. Sembra impaziente.

Atsushi non ricorda nemmeno quando ha compilato la richiesta di iscrizione. O meglio, ricorda di aver compilato la richiesta di iscrizione, insieme a Kunikida-san e Yosano-sensei che lagnavano, perché fare Scienze Umane è come non laurearsi affatto. E ricorda come erano seduti uno a destra e l’altro a sinistra e sospiravano ogni volta che Atsushi scriveva qualcosa negli spazi bianchi. Yosano-sensei lo ha aiutato a compilare il curriculum scolastico, scegliendo le attività extra-curriculari da inserire, quali documenti allegare per mostrare la veridicità delle sue parole e Kunikida-san ha controllato che la burocrazia fosse in ordine, facendogli compilare il foglio coi dati personali una decina di volte. Atsushi ricorda come Fukuzawa-san sia comparso da dietro la porta e gli abbia ricordato di inserire l’indirizzo dell’agenzia come indirizzo di casa. E Tanizaki-kun, che sospirava ogni volta che gli chiedevano perché lui non avesse deciso di continuare gli studi. Ricorda, quindi, quando lo ha compilato. Non ricorda il momento in cui ha mandato la richiesta. Aveva dimenticato di star aspettando una risposta.

“Sono...” inizia a dire. Deglutisce. “Sono stato ammesso.”

“È stato ammesso!” grida Kenji-kun dietro la porta dell’ufficio.

Fukuzawa-san annuisce. “Congratulazioni.” E continua ad avere un tono severo, ma ha un sorriso dolce. “Ora puoi goderti i tuoi ultimi giorni da liceale.” Ah, stiamo fingendo che questa conversazione non viene spiata da sette persone fuori da quest’ufficio? Okay, va bene.

Atsushi si lascia sfuggire un sospiro. Essere stato ammesso non vuol dire comunque che potrà frequentare un’università. Tra le tasse, i libri, i trasporti pubblici, frequentare verrebbe a costargli quasi quanto guadagna in agenzia, se non di più. Certo che c’era un motivo se aveva dimenticato di star aspettando una risposta ed era che qualsiasi fosse stata, il risultato sarebbe stato lo stesso. Ma gli piace quanto tutti abbiano preso a cuore questa faccenda.

“Visto il tuo cambiamento di status” continua Fukuzawa-san. “Devo chiedertelo. A te, piacciono i gatti?”

La porta dell’ufficio si spalanca con Kenji-kun che tiene in mano uno striscione con sopra scritto un c’è sempre l’anno prossimo!, seguito da Tanizaki-kun e Naomi-san, che tengono le braccia ben alzate, a festeggiare.

“Avete sbagliato il lato dello striscione” fa notare Fukuzawa-san, indicandoli.

Tanizaki-kun inclina la testa per leggere lo striscione e si piazza davanti a Kenji-kun, per non far leggere ad Atsushi la scritta. Dietro di lui, Naomi-san e Kenji-kun si muovono divertiti da una parte all’altra per cambiare il lato visibile dello striscione. Dalle loro risate, Atsushi sa che questo piccolo incidente non è stato proprio un incidente. È una cosa così da loro da farlo quasi ridere.

“Vi ringrazio” dice, portandosi una mano sulle labbra, per nascondere il suo sorriso. “Ma comunque non penso di frequentare.”

Ha mandato la richiesto solo perché gli piaceva l’idea di essere stato raccomandato. Gli piaceva l’idea di essere stato chiamato. Lui. Chiamato per qualcosa. Scelto per qualcosa.

È una bella sensazione.

 




Atsushi dondola i piedi sulla sedia dell’infermeria, senza maglietta, in attesa che Yosano-sensei faccia la sua visita di controllo settimanale. Punta i palmi sullo spazio della sedia che non occupa e cerca di non incontrare nessuno con lo sguardo, concentrandosi sul tabellone delle lettere che usano per controllare la vista.

Per quanto dicano che Atsushi è stato preso in custodia da Dazai-san quando è entrato in quest’agenzia di detective, Atsushi pensa che la persona che davvero ha deciso di prenderlo dall’orecchio e insegnargli la maggior parte delle cose che sa, sia stato Kunikida-san. E forse per questo motivo, la persona da cui Atsushi si è più nascosta in questi ultimi due anni e mezzo (al di fuori dell’orfanotrofio) è stato proprio Kunikida-san. Il posto più sicuro per nascondersi nell’agenzia, è l’infermeria, aveva mentito a se stesso Atsushi, solo per poi rendersi conto che Yosano-sensei è forse una delle dottoresse più pericolose in circolazione. Perché, a quanto pare, alle persone di quest’ufficio ci tiene parecchio e si rende conto di lividi, piccoli dolori al braccio che non dovrebbero essere normali e dei movimenti che le persone fanno quando non vogliono che una certa parte del corpo faccia male. Non si preoccupa tanto dei tagli e dei labbri rotti, ma delle ferite che le persone nascondono sì. E Atsushi mentirebbe a se stesso se non dicesse anche che Yosano-sensei è un po’ sadica e ama studiare il dolore fisico.

“Ispira” gli ordina, posando il cerchio di metallo sulla schiena di Atsushi. E Atsushi prende un respiro profondo e trattiene il fiato per qualche secondo. “Ora espira” ordina di nuovo Yosano-sensei. E Atsushi tira fuori tutta l’aria che ha in corpo. “Con una costola incrinata non puoi andare da nessuna parte” dice poi.

Atsushi alza il mento, per poterla guardare, anche se sottosopra. “Ho una costola incrinata?” le chiede, con le sopracciglia aggrottate. Non gli sembra di avere una costola rotta, però. Si porta una mano sullo stomaco e poi su, verso il petto, dove un'ombra violacea macchia la pelle. Non gli fa nemmeno male. Tira in avanti la testa. Se c’è una costola rotta, la faccenda è seria. Lui pensava fosse soltanto un livido. “Beh, comunque non è stato fatto apposta, c’è poco da fare.”

“Non devi fare troppi sforzi. Lo dico a Kunikida. E devi prendere gli anti-dolorifici.” Yosano-sensei si toglie i guanti bianchi e li posa su una vaschetta, vicino al lettino. “Quando hai intenzione di trasferirti?” Sembra essere irritata. Fa il giro del lettino per sedersi vicino ad Atsushi e ha uno sguardo serio. Tiene in mano le bende mediche e le apre con fare stizzito. Atsushi non fa che portare problemi ovunque vada e gli dispiace per questa cosa, vorrebbe non avere il talento di complicare tutto quanto in continuazione. “Se vuoi frequentare l’università o no è solo una tua decisione, ma da quel posto devi andartene il prima possibile.”

Atsushi prova a sorridere. Sforza una risata, ma non gli esce molto bene, motivo per cui si limita a sospirare. “A vent’anni sarò maggiorenne” dice, alzando un dito della mano. Poi scrolla le spalle. Yosano-sensei non ride della battuta. Atsushi ha quasi diciannove anni. Rimanere nell’orfanotrofio fino alla sua maggiore età potrebbe voler dire farsi male più del necessario, soprattutto se si è odiati dal direttore, come lui. Questo lui lo sa, non è un idiota. “Stavo già cercando un appartamento in città” Muove le mani con fare nervoso, strusciandole una contro l’altra. “Fukuzawa-san ha detto che mi darà un aumento per anzianità.”

Yosano-sensei aggrotta le sopracciglia. Atsushi distoglie lo sguardo. Che è un errore, perché Yosano-sensei è forse la persona più tranquilla in questa stanza, che è tutto dire. E quando gli occhi di Atsushi incontrano quelli di Akutagawa, seduto con le gambe incrociate vicino al letto in cui sta dormendo Dazai-san, spera, per una frazione di secondo, di non essere mai stato visto. Di non essere stato notato, eh, sì, anche se si trova nel bel mezzo dell'infermeria mezzo nudo. Akutagawa lo guarda con una punta di disprezzo (niente di nuovo) e Atsushi prende un altro respiro profondo, inclina la testa e cerca la sua camicia bianca, per abbottonarsela senza dire una parola in più.

“Gli antidolorifici” gli ricorda Yosano-sensei, con un sospiro. “E non ho capito perché voi due non potete andare d’accordo” continua a bassa voce, ma non sembra essere irritata dal modo di comportarsi che hanno loro due.

Atsushi si alza in piedi e tira su le bretelle nere. Ci passa sopra le dita, mentre Yosano-sensei prende le medicine e Akutagawa schiocca la lingua contro il palato, tornando a guardare verso Dazai-san. Dovrebbe andare a comprare altri vestiti. Atsushi sbatte le palpebre e non riesce a non farsi scappare un sorriso, pensandoci. Quando è arrivato qui, col suo gakuran il primo giorno di lavoro, hanno tutti ruotato gli occhi. Kunikida-san non faceva che ripetere che in un posto di lavoro si deve essere professionali e quando Atsushi ha confessato di non avere degli abiti eleganti, Yosano-sensei lo ha trascinato nella zona commerciale di Yokohama e gli ha preso dei vestiti simili a quelli che indossava lei. Il fermacravatta, invece, glielo ha regalato Kunikida-san. Ma... “Forse è ora di andare a comprare altri vestiti.” Non può certo continuare ad andare in giro coi maglioni col cappuccio quasi rotti dal tanto essere usati. Ad aprile sarà un ragazzo di città.

“È una buona idea” risponde Yosano-sensei. “Un tuffo nella vita adulta.”

Atsushi si guarda la cravatta. Ha cinque completi, uno per ogni giorno lavorativo. Ma, appena uscirà dall’orfanotrofio, avrà del tempo libero. Non ci aveva mai pensato.

Deve sbrigarsi a trovare un appartamento qui intorno.

 



Atsushi sistema le graffette sulla scrivania, con le sopracciglia aggrottate, per unire i documenti che Ranpo-san e Dazai-san hanno lasciato sparsi per l’ufficio in un ordine non proprio logico. Deve sistemare tutto questo disastro prima che arrivi Kunikida-san, altrimenti ci saranno due persone che piangono in questo ufficio e nessuno dei due sarà Ranpo-san o Dazai-san. Atsushi cerca le diverse scritture che compilano i documenti, quella disordinata di Dazai-san e quella pigra di Ranpo-san e li divide in colonne, per poi cercare di capire l’ordine giusto in cui sistemarli. E, in tutto questo, Akutagawa sta seduto accanto a lui e ogni tanto si gira a guardarlo.

Il suo rapporto con Akutagawa è -beh. È come il rumore delle unghie sulla lavagna di gesso. Come i capricci di un bambino. Come i calzini bagnati dentro una scarpa asciutta. Praticamente, una rottura di coglioni. E Atsushi non capisce come sono arrivati ad avere un rapporto del genere, visto che ha sempre fatto di tutto per non pestare i piedi a nessuno. In linea generale, se ad Atsushi non fai niente di male e se sei una persona a grandi linee buona, non c’è la possibilità di stargli antipatico. Akutagawa -non gli sembra una persona cattiva, in realtà. Non pensa sia un cattivo ragazzo, non pensa nemmeno che abbia ammazzato qualcuno -cioè, beh, non crede, ma si è presentato come l’essere più cafone che Atsushi abbia mai incontrato e con cui abbia mai parlato. La prima volta che ha imprecato contro qualcuno, Atsushi ha imprecato contro Akutagawa. Ogni volta che Atsushi ruota gli occhi o sembra voler prendere a calci qualcuno, Tanizaki-kun o Dazai-san commentano, divertiti, ah, Atsushi ha un problema con Akutagawa. Ogni volta che ha voglia di fare qualcosa che non può andare bene col suo modo di comportarsi normale, qualcuno nell’agenzia ride e commenta ah, Akutagawa!

“Quindi non mi vuoi aiutare” mormora Atsushi, passando i fogli da una parte all’altra. “Starai solo lì, a fare lo scemo.”

“Non mi pagano” è la semplice risposta di Akutagawa. Che sarebbe anche una buona risposta, se non fosse che allora che cosa ci fai qui a meno di trenta centimetri da Atsushi a fissarlo come se gli avesse ucciso il cane.

Non gli ha ucciso il cane, vero?

Atsushi si immobilizza con i fogli in mano e gli occhi sbarrati. Non capisce perché gli viene il dubbio di aver fatto qualcosa che sa di non aver fatto. Deve smetterla di fidarsi così poco della sua stessa memoria. Non ha ucciso nessun cane. Scuote un po’ la testa e ricomincia a controllare i documenti. I fogli compilati da Ranpo-san sono macchiati di caffè e crema. Sono da ricopiare, correggendo gli errori e poi farli firmare a Ranpo-san, perché i pagamenti e i dati che sono stati raccolti per le indagini non diventino illegali. Quelli di Dazai-san, invece, sono inservibili. Atsushi deve chiedergli di compilarli una seconda volta. In più, dopo aver visto dei documenti così mal compilati, Atsushi sta iniziando a chiedersi se anche lui non ha fatto dei disastri coi casi che lui stesso ha seguito e risolto. Deve fermarsi dall’aprire il cassetto in cui tiene i suoi documenti e passare uno per uno in rassegna, per vedere di non aver fatto disastri. Anche se è una cosa che ha già fatto, questa. Anche se è una cosa che ha fatto più di una volta. Uhm. Deve concentrarsi sui documenti di Ranpo-san e Dazai-san. I docume-...

“Jinko” lo chiama Akutagawa. Gli prende il mento e gli gira la testa per guardarlo. Poi allunga il collo e lo bacia. Il contatto non dura nemmeno tre secondi (sotto i tre secondi non sono baci, ne hanno già discusso e hanno deciso che è così)(nell’ultimo periodo questi non-baci è come se fossero aumentati)(è strano). Atsushi ha giusto il tempo per allontanarsi che Akutagawa ha già in faccia la sua espressione disgustata e si permette anche di schioccare la lingua contro al palato.

Ha schioccato la lingua contro il palato ad Atsushi. Ha fatto tsk a lui.

Atsushi allunga la gamba per dargli un calcio sulla coscia e allontanarlo. “Se non hai intenzione di aiutare, dovresti solo andartene” gli ringhia contro, poi. Si morde l’interno delle guance, irritato, arrabbiato. Non lo sopporta quando fa così.

Soprattutto perché Akutagawa ruota gli occhi, infila le mani nella tasca della giacca e va via, senza nemmeno salutare.




[People change; moment by moment. What strange creatures we are.]

Dazai-san sta sdraiato su una panchina del belvedere, con le caviglie incrociate e un lecca-lecca alla mela, che deve aver rubato da Ranpo-san. Il sole sta sorgendo. Atsushi si è coperto nella sua bella giacca blu e controlla quale sarà l’ultimo treno della giornata.

Sono a malapena le otto del mattino, a scuola, gli hanno detto, non ci deve andarci per forza visto che gli esami sono già finiti e, vista la sua ammissione anticipata, lo trattano sempre più da universitario che da liceale. A maggio scade il tempo che si è dato per trovare una casa. È quasi metà marzo. Il tempo si muove in fretta e lui sta in piedi, vicino alla panchina, col cellulare in mano, a far finta di essere impegnato a cercare qualcosa.

Atsushi ha l’abitudine di andare a dormire alle otto di sera e svegliarsi alle cinque del mattino. Ogni giorno pensa che potrebbe prendere l’ultimo treno per tornare all’orfanotrofio e trovare i cancelli chiusi e qualcuno che gli ha buttato fuori quei tre maglioni che ha, per fargli capire che non deve più tornare. Non ha il coraggio di non tornare all’orfanotrofio, però. Lasciare l’orfanotrofio sarebbe diverso dall’essere cacciato. Prendere la decisione di andarsene via, per qualche ragione, gli sembra più spaventoso di quanto lo sia non avere altra scelta.

È strano come i suoi pensieri siano lucidi, la mattina presto, prima di incontrare qualcuno o parlare per davvero.

Non aveva mai preso il treno di prima mattina. Non conosceva quell’odore di aglio, non sapeva nemmeno quanto potesse essere freddo un mezzo pubblico, quanto potrebbe essere pieno, nemmeno. La mattina, Yokohama sembra una città tutta nuova, e gli vengono in mente le parole di Akutagawa. Tu nemmeno la conosci, questa città. Forse ha ragione. Vorrebbe passare il resto della sua vita a conoscerla. Gli piace il mare. Il porto. Non aveva mai visto il sole sorgere a Yokohama. Vorrebbe poter vedere il mare più spesso. Poi c’è una donna che passa, vicino alla panchina su cui Dazai-san è sdraiato e guarda prima lui, poi fa una smorfia, vedendo la faccia di Atsushi.

Atsushi si sistema il cappuccio sulla testa e tira un pochino il tessuto, per coprire la parte del viso gonfia. C’è poco da fare quando ti fanno male e comunque continui a pensare che devi tornare a casa. “Sono caduto” mormora e abbassa lo sguardo verso la punta delle scarpe.

Dazai-san è una di quelle persone che pensano che quello che succede all’orfanotrofio sia abbastanza normale. Quando parla ad alta voce, Atsushi deve dire che la sua è una casa famiglia. Ci sono solo otto bambini sotto i diciotto anni lì, e ognuno di loro deve dire anche di essere trattato bene. C’è un sistema di punti che mette qualcuno sopra oppure sotto in una classifica e a seconda della tua posizione puoi ricevere dei premi oppure si può venire puniti se, come Atsushi, finisci sempre nella parte più bassa della classifica. Che ogni tanto ci scappi uno schiaffo, una spinta, una caduta difficile da spiegare, per quello che dice Dazai-san, è normale. E questa cosa dice soltanto ad Atsushi che anche Dazai-san è cresciuto in un posto simile e che ha dovuto pensare fosse normale. Ognuno ha il proprio modo per sopravvivere.

Dazai-san alza lo sguardo verso Atsushi, aprendo un solo occhio. “Già” dice, chiudendo di nuovo gli occhi.

Atsushi si guarda intorno e sistema il capelli in modo che facciano da barriera contro sguardi troppo curiosi. Non c’è nessun caso che è stato affidato loro, nessun posto in cui Atsushi si deve infiltrare, nessuna informazione da contestualizzare, ed è stato Atsushi a chiamare Dazai-san, anche se non si aspettava che rispondesse e venisse fino a qua.

“Puoi dire che ti hanno derubato” commenta Dazai-san, con mezzo sospiro. Tiene le dita delle mani intrecciate dietro la testa. Guarda verso l’alto, pensando a qualcosa. “Tutti i soldi?”

“Ne ho salvati un po’” risponde Atsushi. Ha un nodo alla gola e gli pizzica il naso. “Ma non penso siano abbastanza. Anche con l’aumento di cui stava parlando Fukuzawa-san, non penso che potrei dare una caparra entro maggio e gli appartamenti costano davvero tanto.” Vorrebbe passarsi una mano sul viso, ma sente già lo zigomo fargli male da quando ha tirato su il cappuccio. Arriccia il naso. “Non ti sto chiedendo un prestito.”

“No, per quello dovresti chiamare Kunikida-kun.”

Atsushi sbatte le palpebre e abbassa lo sguardo, ancora una volta. Forse non dovrebbe farsi vedere in agenzia fino a che non gli si sgonfia lo zigomo. Sarebbe più facile, se solo non gli servissero i soldi. “Ti volevo chiedere se potresti prendere quello che sono riuscito a salvare.” Deglutisce. Ha quasi pianto quando si è reso conto che i più piccoli non hanno fatto la spia sui suoi soldi nascosti sul soffitto del bagno. Pensava davvero di aver perso tutto, quando uno dei ragazzi ha detto che ad Atsushi piace spendere i soldi come se fosse ricco. E pensava che non ci fosse nessuna speranza, quando ha guardato il direttore controllare tra le sue cose e lo ha accusato di essere un ladro. Ha perso più della metà dei soldi, va bene, non importa, deve proteggere quello che gli rimane. “Se li tenessi tu, non potrebbero trovarli.”

“Tipo una banca.”

Atsushi arriccia di nuovo il naso e si accovaccia, portandosi una mano sul cappuccio. “Volevo aprire un conto in banca, ma non posso senza il permesso del mio tutore legale.” E comunque non trova il coraggio per andarsene dall’orfanotrofio e iniziare un altro tipo di vita. Lo zainetto di Hello Kitty che ha sulla schiena lo ha rubato al ragazzino che ha fatto la spia ed è uscito di casa, fingendo di dover andare a scuola. Dentro ci ha nascosto i soldi. Tutto quello che ha, tranne quello che gli serve per i trasporti pubblici e qualche pasto sporadico. “Ti volevo chiedere questo favore.”

Dazai-san non risponde. Nel caso la risposta fosse negativa -Atsushi non ha la più pallida idea di dove altro andare o a chi chiedere. Aveva pensato di chiedere aiuto a Lucy, che lavora nella caffetteria sotto l’agenzia da ormai qualche mese. Lei dovrebbe poter capire e Atsushi si fida abbastanza di lei da sapere che non scapperà coi suoi risparmi. In più, anche Lucy ha messo da parte molti soldi per poter vivere liberamente a Yokohama. Sarebbe facile, spiegare a lei, ma Atsushi voleva comunque provare a chiedere a Dazai-san. Solo per sapere la sua risposta.

Gli pizzica lo zigomo. La pelle deve essersi rotta per il colpo ricevuto. Atsushi ha le mani fredde, ma sa che non deve toccarsi le ferite aperte. Soprattutto se non conosce lo stato delle sue mani. Se sono pulite, sporche, che cosa ha toccato.

Atsushi tira su col naso e lancia uno sguardo al mare. Yokohama sembra quel tipo di città che non ha un vero confine, grazie al mare. Puoi prendere una barca e navigare per chilometri e comunque quella sarebbe lo stesso Yokohama. È una delle cose che Atsushi non riesce a togliersi dalla testa. Quanto è grande questa città. Quante persone ci vivono.

“Atsushi-kun” lo chiama Dazai-san, con un’espressione calma. Muove il lecca-lecca tra le labbra. Non sembra voler dire chissà che cosa. “Non penso tu debba più tornare in quella casa-famiglia. Per oggi, almeno.”

Atsushi tiene i talloni staccati da terra e sente le spalle tremargli a quelle parole.

Una volta, Kunikida-san, mentre gli spiegava le varie prese per difendersi, gli ha detto che va bene anche scappare. Se l’avversario è più forte di te, se ti stanno puntando un’arma alla testa, se ci sono delle condizioni che ti fanno capire che sei con le spalle al muro, senza possibilità di vittoria, va bene arrendersi. No. Non arrendersi. Scappare. Arrendersi vorrebbe dire rinunciare a qualcosa, alla propria vita, alla propria salute. Ma se scappi stai facendo qualcosa. Si deve scappare col cervello, ecco tutto. Kunikida-san dice sempre che basta che le cose le fai col cervello. E Dazai-san gli sta dicendo che forse la cosa migliore adesso è scappare.

Atsushi ci pensa su. Mancano due settimane alla cerimonia di chiusura della scuola. Il che vuol dire che deve tenere duro per due settimane e poi potrà trovare un qualche rifugio qui a Yokohama. Potrebbe anche chiedere di venire ospitato, ma sa benissimo che l’ospite dopo tre giorni puzza e non vuole dare fastidio a nessuno. Non ha abbastanza soldi per permettersi una casa, comunque. Tira giù la testa, nascondendola tra le braccia. Sente che questa situazione non ha nessuna vera soluzione. Lui da solo non ha nessun potere per scappare da qualche parte. Ha resistito per quasi diciotto anni questa tortura. Pensa di riuscire a superare due settimane. E poi potrebbe chiedere a Fukuzawa-san se può dormire in ufficio, nel caso ci fosse un abbassamento delle temperature. Lì non darebbe fastidio, dormirebbe su un letto dell’infermeria. Sarebbe solo una cosa temporanea.

Quando oggi il direttore si renderà conto che Atsushi è mancato a scuola…

“Sono solo due settimane.”

Atsushi sfila lo zainetto di Hello Kitty e lo appoggia vicino alla panchina. Dazai-san lo guarda annoiato. “Succedono molte cose in due settimane” dice. Prende lo zainetto di Hello Kitty, poi scuote la testa. “Dallo ad Akutagawa. Lui sa sempre dove nascondere cose o persone.”

“Non mi aiuterà.”

“Digli che ti ho mandato io, allora.” Dazai-san si siede sulla panchina, con lo zaino ancora tra le mani. “Così siamo sicuri che ti aiuterà. E tieni.” Tira fuori dalle tasche degli occhiali da sole sporchi e graffiati. “Così puoi coprire il…”

Atsushi fa una smorfia. Così sembrerà soltanto un idiota. Ma immagina che non ci sia altra soluzione. Sa anche dove si trova Akutagawa adesso (non perché vuole) e non può certo presentarsi all’agenzia in questo stato. Anche se gli servono davvero i soldi, adesso. “Gli dirò che mi mandi tu” borbotta, sconfitto. Spera solo di non incontrare nessuno, allora, nel negozio di kimono degli Izumi.

 




Atsushi non può entrare nel negozio di kimono della famiglia Izumi.

Rimane in piedi, con le spalle verso il negozio, nascosto dietro un albero, mentre il sole sale sempre più in alto nel cielo e le persone continuano a camminargli intorno, senza farsi nessuna domanda. Almeno c’è il sole. Se fosse stato nuvoloso, un idiota con gli occhiali da sole sarebbe stato di sicuro più sospettoso. Per adesso, non può fare che aspettare e sperare che ci sia un momento per poter parlare con Akutagawa senza che nessuno li veda. Non si preoccupa molto di Akutagawa e di quale potrebbe essere la sua reazione, perché, se c’è una cosa che Atsushi sa fare è riconoscere le persone come lui e Dazai-san. Il problema sta in Kyoka-chan, in piedi vicino ai kimono, avvolta nel suo kimono rosso, che saluta con cortesia i clienti con un leggero inchino e le mani unite sul grembo.

Atsushi si morde l’interno delle guance. Non pensa di essere stato visto, motivo per cui può provare una fuga calma e pulita, senza errori. Non pensava Kyoka-chan sarebbe stata presente in negozio. Credeva fosse a scuola. Se per lui erano le ultime settimane da liceale, per Kyoka-chan queste erano le ultime settimane prima di diventare una liceale. Secondo quello che gli ha raccontato, è stata ammessa in una scuola femminile, gli aveva anche mostrato la divisa, con le orecchie rosse e un enorme sorriso. E sembrava essere contenta, perché se Atsushi si fosse trasferito in città, sarebbe stato più facile per loro incontrarsi e magari andare a mangiare delle crepe insieme. Certo non può preoccuparla in questo modo proprio adesso.

Il sole non è ancora altissimo e Atsushi deve cercare di nuovo il cellulare dentro lo zainetto di Hello Kitty, per controllare le ore.

Gli piacerebbe avere una vita un po’ più tranquilla. Quando Kyoka-chan gli ha chiesto quale fosse il suo sogno, non aveva potuto non dire una cosa del genere. Vorrebbe vivere una vita in cui la cosa più brutta che potrebbe succedergli è finire il latte e nessuno che gli gridi contro perché il latte è finito. Magari un posto in cui il latte non è finito perché glielo hanno rovesciato sui capelli. E sempre Kyoka-chan, dopo aver visto Atsushi in piedi vicino ad Akutagawa, gli ha chiesto che tipo di persona lo farebbe innamorare.

Qualcuno di gentile, ha risposto Atsushi. Non gli importa molto altro. Gli piacciono le persone gentili e potrebbe innamorarsi, un giorno, di una persona gentile. Forse.

Atsushi prende il cellulare tra le mani e chiude bene lo zainetto, dopo aver controllato che non manchi niente. Non è solo una questione dei soldi che è riuscito a salvare. Il cellulare. Il quaderno degli appunti che gli ha regalato Kunikida-san. Il buono per la pizza scaduto che gli ha dato Tanizaki-kun. La canna da zucchero che gli ha lasciato Kenji-kun quando è andato ad aiutarlo in fattoria la settimana scorsa. Controlla che tutte queste cose siano al loro posto. Non può perdere nulla. Anche se Atsushi ha pianto per aver perso la metà dei soldi (ed essere stato picchiato, certo), la verità è che più dei tre quarti delle lacrime venivano dall’aver perso anche delle piccole cose che i membri dell’agenzia gli hanno regalato negli ultimi due anni. E non solo loro. I fermagli che aveva scelto con Naomi-san e Kyoka-chan, ad esempio, sono persi per sempre. Sono oggetti che non avrà mai più indietro.

Atsushi si passa un dito sotto gli occhiali da sole, per stropicciarsi un occhio, mentre si dice che è inutile piangere sul latte versato. Si gira per andare verso il parco della zona, ma viene fermato da Akutagawa, nel suo kimono nero e blu, che lo guarda con un’espressione annoiata. Uhm? Quando è arrivato qui?

Atsushi aggrotta le sopracciglia e si gira per vedere che Kyoka-chan non si sia resa conto di loro due. Appena riesce a vederla, dietro la vetrina, che sorride a un cliente, torna a guardare Akutagawa, che ruota gli occhi.

“Mi ha chiamato Dazai-san” gli spiega Akutagawa. Atsushi non gli presta molta attenzione. Sta di nuovo sudando freddo. Non vuole certo far preoccupare Kyoka-chan e forse dovrebbe muoversi più in fretta, andare in un posto in cui non saranno visti. Akutagawa ruota gli occhi e lo afferra dal gomito, per trascinarlo due alberi più lontano. “Mi ha chiamato Dazai-san” gli ripete. Sembra star anche perdendo fiato. Non è abituato a fare grandi sforzi.

Atsushi lancia uno sguardo alla mano pallida di Akutagawa sulla sua giacca. È quasi sicuro che quelle mani sono fredde. Le conosce anche troppo bene, lui, per non sapere che non sono gelide. Controlla dove si sono fermati. Kyoka-chan da qui non può vederli. È anche vero che Akutagawa sta lavorando, quindi non può rubargli troppo tempo, motivo per cui si sfila lo zainetto dal braccio e glielo passa. “Potresti tenerlo tu?” gli chiede, guardandolo dritto negli occhi. “Appena trovo casa tornerò a prenderlo, forse un po’ prima, perché, beh, sì, dentro ci sono i miei soldi, sai. Tipo banca. Poi trovo un modo per ripagarti, beh, dovresti aspettare un po’. Quel tanto che basta per prima guadagnare e poi -beh, ma se non vuoi, capita, non è che lo devi fare per forza perché te lo ha detto Dazai-san.” Atsushi lancia un altro sguardo al negozio di kimono. Non ce ne sono molti, qui intorno.

Akutagawa gli muove il cappuccio, per scoprire parte dello zigomo gonfio. È un movimento che gli prende pochi secondi, giusto il tempo per Atsushi di muovere il viso verso di lui. Ritira la mano in fretta e guarda lo zainetto di Hello Kitty. Atsushi si morde l’interno della guancia per non sbottargli contro. Comunque glielo ha detto che se non vuole farlo può anche non farlo. Il kimono nero gli sta bene. Lo aveva già pensato. La sua divisa da lavoro gli sta bene. Almeno non sta curvo nel suo giubbotto nero e non sembra uno yokai pronto a rubare l’anima di qualcuno. Anche se sembra ancora che un soffio di vento lo potrebbe prendere e far volare via. Okay. In tutto questo, Akutagawa non sta rispondendo. Atsushi fa per ritare la mano e lo zainetto, ma, di nuovo, la mano di Akutagawa lo ferma, prendendolo dal polso.

Okay, quindi?

Atsushi alza un sopracciglio. Akutagawa rimane in silenzio per qualche altro secondo, prima di dirgli: “Il mio turno finisce all’una.” Gli lascia andare il polso. Akutagawa tiene lo sguardo basso. Continua a studiare quello zainetto di Hello Kitty. “Torna all’una. Aspettami davanti alla pasticceria. Lo prendo lì, questo coso.”

Akutagawa non ha la più pallida idea di cosa ha dovuto passare Atsushi per poter rubare questo zainetto. “Dovresti portare un po’ di rispetto” borbotta, abbracciandolo con fare protettivo.

Akutagawa si gira su se stesso e torna nel negozio di kimono, per finire il suo turno, lasciando Atsushi con tre ore da riempire e nemmeno un soldo. Beh. Questo vuol dire che potrà fare un bel giretto in libreria. Se riesce a nascondersi abbastanza a lungo, forse potrebbe anche finire quel libro che aveva lasciato a metà… come si chiamava? Luce, vento e poi…?

 



Atshushi si era dimenticato che leggere con gli occhiali da sole è stupido, frustrante e lo fa sembrare un idiota. Anche andandosi a nascondere da qualche parte, non si sentiva abbastanza tranquillo per poter leggere con serenità. Quindi ha abbandonato la sua idea di leggere ed è andato a finire sul tavolino della pasticceria due ore prima del previsto, con un tè troppo zuccherato e il cellulare aperto su una pagina di annunci di lavoro. Ha fatto il conto e potrebbe cercare di farsi assumere in un konbini, magari durante il turno di notte per riprendere abbastanza soldi. Atsushi si passa le dita sulla fronte.

Lo zigomo gli pizzica e sta iniziando a sentire come gli pulsa. È anche questo il motivo per cui non è riuscito a leggere. Per quanto la sua mente sia lucida, il dolore gli annebbia la vista e ci sono momenti in cui, anche se lui non vorrebbe, gli iniziano a lacrimare gli occhi per il dolore. Non è niente in confronto a -a tante altre cose che ha subito, in realtà. La costola incrinata ce l’ha ancora, alla fine. Ha il petto fasciato da quando Yosano-sensei lo ha trovato che barcollava per non fare troppi sforzi con la parte superiore del corpo. Tra gli oggetti che gli sono stati sequestrati, ci sono anche gli antidolorifici che gli aveva dato per non farlo stare troppo male. Due al giorno. Una la mattina e una la sera, gli aveva detto. E stai attento a non diventarne dipendente. Ad Atsushi non piacciono molto gli effetti degli antidolorifici così forti. Lo fanno sentire stordito. Si addormenta troppo facilmente. Non lo fanno sentire al sicuro.

È mezzogiorno e quarantacinque e Atsushi gira il cucchiaino nella tazza. È riuscito a infilarci cinque zollette. Quando Tanizaki-kun lo vede bere il tè in questo modo, ride e dice sempre che la vita è già troppo amara per bere del tè amaro. Atsushi sa che nel tè non ci dovrebbe andare lo zucchero. Si lascia cadere in avanti e preme la fronte contro il tavolino bianco. Non ha la più pallida idea di che cosa dovrebbe fare, adesso.

Adesso nel presente e adesso che sa che dovrebbe scappare dall’orfanotrofio e che non può farlo. Non ha ancora pianto tutte le sue lacrime per quello che ha perso. Era diventato troppo arrogante, aveva troppa fiducia in se stesso. Si era sentito, per mezza giornata, intoccabile. Perché anche se non voleva frequentare l’università, un’università lo ha accettato, perché ha un lavoro, perché ha delle persone intorno con cui parlare. Era anche giusto che poi sia successa una cosa del genere, per riportarlo alla realtà. Non può pensare di star per chiudere un capitolo della sua vita, perché, anche se trovasse un modo per scappare adesso, anche se non tornasse più in orfanotrofio, sarebbe sempre il ragazzino che è scappato dall’orfanotrofio. Sarebbe sempre la persona che ha sopportato per quasi diciannove anni botte e punizioni senza pensare di scappare. Per un pasto caldo al giorno. Perché era il suo modo di sopravvivere. Cosa potrebbe dire questo di lui? Che tipo di persona potrebbe diventare a questo punto una volta libero?

“Oi, Jinko.” Atsushi sente delle dita premergli contro la testa coperta dal cappuccio. “Andiamo.”

Atsushi aggrotta le sopracciglia. Alza la testa, per vedere Akutagawa, in piedi davanti a lui, il suo solito, orrendo, lunghissimo giubbotto e quella stupida posa che ha, in cui si incurva un po’, forse per prendere meno spazio. “Dove?” gli chiede. I colori dietro gli occhiali da sole sono offuscati. Non ha intenzione di muoversi, se Akutagawa non gli dice dove stanno andando. Bravo a nascondere cose e persone, ricordi? Non sia mai che decida di ucciderlo e nascondere il suo corpo da qualche parte.

Akutagawa studia a sua espressione, la sua faccia, prima di sedersi sul tavolino proprio davanti ad Atsushi e sospira. Allunga le braccia per prendere a tazza di tè e ne beve un sorso. Non batte ciglio, quando sente che il tè è più zucchero che tè. Anzi. Atsushi incrocia le braccia, ci punta sopra il mento e sente i lati delle labbra rimanere piegati verso il basso, anche se lui non vorrebbe.

“Lo hai colpito anche tu?” gli chiede Akutagawa.

Atsushi non muove la testa, rimane immobile, ma abbassa lo sguardo. Fissa la tazza tra loro due. Non si aspetta che Akutagawa capisca quello che lui sta provando, perché non sono mai stati nella stessa posizione. Atsushi è cresciuto in un orfanotrofio. Akutagawa dagli orfanotrofi ci è scappato fino a quando ha compiuto sedici anni. Non ci ha dormito una notte in orfanotrofio. Atsushi non sa che cosa ha fatto Akutagawa per sopravvivere insieme a sua sorella, ma sa che sta seduto proprio davanti a lui, un po’ anemico, forse, ma vivo. Se qualcuno lo colpiva in faccia, Akutagawa rispondeva colpendo la persona col doppio della forza. Se ora Atsushi gli confessasse che, quando il direttore lo colpisce, lui non alza nemmeno le mani per difendere il suo stesso viso, Akutagawa si irriterebbe e basta. Non può capire tutte le dinamiche di potere, o come può vivere una persona come Atsushi, che non vale abbastanza nemmeno ai suoi stessi occhi per difendere il suo stesso corpo. Quindi lascia cadere la testa di lato, mentre sospira.

“Quel Kunikida di cui parli sempre, non ti ha insegnato a difenderti?” chiede ancora Akutagawa.

Atsushi guarda lo schermo del cellulare e si rende conto che sono proprio adesso le tredici in punto. “Puoi tenermi lo zaino, fino a che non trovo un appartamento?” gli chiede a sua volta. Vorrebbe chiudere questa faccenda il prima possibile. Dovrebbe tornare all’orfanotrofio per le sette di sera, se Akutagawa non vuole aiutarlo, dovrà andare fino a sotto l’agenzia e nascondersi da tutti loro e cercare di parlare con Lucy e per farlo avrà bisogno di tempo e molta pazienza. Ha bisogno di una risposta adesso.

“Non mi rispondi?”

“E tu?” Atsushi sistema la testa sul braccio. “Non mi rispondi?”

Akutagawa ruota gli occhi e continua a bere il tè di Atsushi. Atsushi si morde l’interno delle guance e sospira per l’ennesima volta. Vorrebbe davvero chiudere la conversazione il più in fretta possibile. “C’è un posto in cui puoi stare già da adesso” gli dice Akutagawa, posando la tazza sul tavolino. Batte piano l’indice contro il tavolino. “Solo che ci devi andare adesso. Se non ci vai ora qualcun altro potrebbe occuparla.” Parla senza muovere le labbra. Borbotta, mormora, non parla con chiarezza. Ma le parole arrivano fino ad Atsushi. Akutagawa non aspetta una risposta, perché sembra avere ancora qualcosa da dire. Tira fuori la mano dalla tasca e sbatte, davanti al naso di Atsushi un vasetto quasi vuoto di pillole. Atsushi non ci mette molto a capire che sono antidolorifici. “Se non ti sbrighi facciamo tardi.”

Atsushi alza la testa dal tavolo. “Devo occupare una casa?” gli chiede. “Tipo abusivamente?”

Akutagawa schiocca la lingua. “Se preferisci finire per strada rimani qui.” Poi si alza in piedi. Aspetta qualche secondo perché Atsushi capisca che sta davvero cercando di aiutarlo. O qualcosa del genere. I miracoli di tirare in ballo il nome di Dazai-san!

Atsushi prende le pillole dal tavolo e le infila nello zainetto. “Porto la tazza” gli fa sapere, indicando la pasticceria.

Nel fondo della tazzina, lo zucchero in eccesso si è mischiato alle foglie di tè.

 



Atsushi apre un po’ la bocca, quando Akutagawa lo trascina davanti al complesso di appartamenti vicino all’agenzia. E non è stupido. Atsushi non è stupido, si è reso conto di starsi avvicinando al suo posto di lavoro. C’era stato un momento in cui ha pensato che Akutagawa volesse trascinarlo in agenzia e ha provato a scappare, solo per poi venire fermato da una mano sul polso, stretta come se da quella dipendesse la sua vita. Atsushi odia fare favori ad Akutagawa e Akutagawa odia fare favori ad Atsushi. Se lo voleva portare davanti a Yosano-sensei, allora Atsushi avrebbe dovuto accettare la sua punizione. Ma questo complesso -non pensava che lo avrebbe davvero portato in un posto sicuro.

Akutagawa prende delle chiavi dalla tasca e inizia a salire le scale. Atsushi lo segue ed è sicuro che in questo posto, una volta, qualche tempo fa, ci deve essere stato. Si guarda intorno, segue Akutagawa e -perché, se deve occupare l’appartamento Akutagawa ha delle chiavi? Non dovrebbe solo, beh, entrare? Atsushi non ha mai fatto una cosa del genere, ma sa che ci sono delle regole. Qualcuno in casa ci deve sempre essere, per fare in modo che nessuno entri quando qualcuno non guarda. Ci sono i turni di guardia, nessuno ha davvero le chiavi proprio per questo. Atsushi -per essere un detective non è poi così intuitivo. Ci mette ben quindici minuti a capire che cosa sta succedendo.

Il complesso di appartamenti vicino all’agenzia, che ha visto una volta qualche anno fa, il modo in cui Yosano-sensei gli ha chiesto quando aveva intenzione di trasferirsi e Dazai-san che gli ha detto di non tornare all’orfanotrofio. Akutagawa che è bravo a trovare posti e a nascondere cose o persone, e che ha ricevuto, questa mattina, una chiamata da Dazai-san.

La campanella suona solo quando Akutagawa gira le chiavi nella porta di un appartamento con sopra il numero 502. Akutagawa entra in casa e non si piega nemmeno per togliersi le scarpe, cammina soltanto e un passo prima ha le scarpe, il passo dopo è scalzo. Atsushi sbuffa una mezza risata, guardandolo. Si siede sul genkan e si slaccia le scarpe. Sul mobiletto delle scarpe, c’è un foglio bianco con sopra solo una frase. Atsushi allunga il collo per leggerla.

Benvenuto a casa.

Iniziano a tremargli le mani.

Atsushi deglutisce e posa la fronte sulle ginocchia. Le scarpe che si doveva togliere, rimangono lì, ai suoi piedi, ancora un altro po’. E gli pizzica il naso, quando chiude gli occhi.

“Togliti gli occhiali da sole” gli ordina Akutagawa. “E togli il cappuccio.”

Atsushi vorrebbe rispondergli male, ma in questo momento è così sopraffatto dalla sensazione di aver trovato un posto sicuro, da non riuscire a trovare nessuna parola, nessun’altra emozione che non sia sollievo. Si toglie gli occhiali da sole e prova a non piangere, perché soltanto lui sa quanto potrebbero fare male delle lacrime salate sullo zigomo non trattato. Tiene il cappuccio sulla testa, perché -beh, se dovesse scoppiare a piangere davanti ad Akutagawa sarebbe davvero imbarazzante, oltre che doloroso. Gioca, piuttosto, con la ciocca di capelli sulla tempia, nella speranza di nascondere il viso.

Akutagawa sospira con pesantezza e lascia le chiavi sul mobiletto delle scarpe. Atsushi gli dà le spalle, ma sa come si muoverebbe. Se gli dessero uno scenario, anche il più strano e improbabile, saprebbe come si muoverebbe Akutagawa. Ha fatto questo gioco con Kyoka-chan. Non ha sbagliato un movimento nel negozio di kimono. Lei ha riso tanto per questo, unendo le mani insieme. Akutagawa si siede accanto ad Atsushi con un tonfo.

“Jinko” lo chiama.

Atsushi non risponde. Non è riuscito ad andare oltre il genkan. Vorrebbe vedere questo appartamento. Vorrebbe chiamare Fukuzawa-san e chiedergli quanto gli deve di affitto, se davvero può venire a vivere qui anche da subito e ringraziarlo per lasciargli questo spazio per nascondere lo zaino. Lo ripagherà lavorando il doppio e se ne andrà appena troverà un appartamento e cercherà di non fare rumore e di non dare fastidio e-...

Akutagawa gli sposta il cappuccio, per scoprire la tempia. “È diventato rosso.”

Atsushi arriccia il naso. “Vuol dire che sta guarendo” risponde, cercando di fermarsi dal toccare lo zigomo.

“L’occhio” lo corregge Akutagawa. Non gli ha tolto il cappuccio. Conosce i limiti che non si devono superare. Sa quando deve chiedere il permesso per fare qualcosa. Anche se non sembra, anche Akutagawa è una persona -beh, forse non buona, ma decente. Sufficiente. Mediocre, forse. Conosce il minimo della decenza umana. E adesso studia l’occhio di Atsushi, con le sopracciglia aggrottate. È davvero messo così male? Atsushi non si è guardato allo specchio da ieri sera. “Hanno lasciato roba per curarti.” Akutagawa prende le scarpe che si è tolto nemmeno dieci minuti fa e sembra volersene andare. In effetti, non si è tolto nemmeno la giacca. Forse se ne vuole andare per davvero.

Eppure non si muove.

Atsushi si gratta la tempia, rompendo il contatto visivo tra loro due. Il loro rapporto è già strano così com’è, non vorrebbe certo renderlo più strano. “Comunque oggi devo tornare a... beh” dice. Parla giusto per parlare. Non sa che cosa dovrebbe dire ad Akutagawa, in un momento del genere. Vorrebbe poter parlare con Yosano-sensei, o con Kunikida-san, con Dazai-san, soprattutto con Fukuzawa-san, perché se non fosse per loro, in questo momento, non starebbe in un posto che sa essere sicuro. Entrare qui è stato come arrivare all’agenzia, quando pensa che non potrebbe succedergli niente di così brutto da essere irreparabile. È una cosa brutta, non avere il senso del proprio posto nel mondo, ora che ci pensa. Deve sbrigarsi a tornare all’orfanotrofio e farsi di nuovo una bella doccia con acqua fredda, per ricordarsi in che tipo di mondo vive.

Non sembra trovarsi in un momento o in un posto reale. Sembra quasi un sogno, questo. La sensazione di aver fatto cadere un peso che si portava dietro, averlo lanciato sulla soglia di casa, la sensazione di essere entrato in un posto caldo, in cui può togliersi la giacca senza rabbrividire -sono sensazioni nuove. Lo fanno sentire come se si fosse inebriato del profumo dei fiori di campo. Non sa nemmeno lui cosa vuol dire questo. Sa che non può rimanere troppo tempo qui, però.

Atsushi struscia le mani una contro l’altra, con una punta di nervosismo. Akutagawa ha ruotato gli occhi, quando ha sentito quello che doveva dire. “Prima di andarmene devo fare tutte quelle cose burocratiche. Dovrei firmare alcuni documenti, dimostrare che ho un posto in cui vivere. È un po’…” E comunque non può vivere in questo appartamento. Non ha abbastanza soldi. I pochi spicci che ha non coprirebbero nemmeno la metà delle spese. Quindi anche Atsushi deve andarsene da lì.

Eppure non si muove.

Akutagawa studia il viso di Atsushi. Le sue pupille si muovono da una parte all'altra, come se stesse pensando a qualcosa di importante. Atsushi segue lo sguardo di Akutagawa, che cade sulle scarpe nere ancora ai suoi piedi. Lo guarda allungarsi e slacciargli una scarpa, con un movimento veloce delle dita. Poi Akutagawa torna a guardare Atsushi. È il suo modo per capire se ha fatto qualcosa che non doveva fare. Slacciare i lacci delle scarpe è un po' il modo che hanno i bambini per dare fastidio, ma Atsushi non sente di essere preso in giro o vittima di un dispetto. Per questo inclina la testa.

Akutagawa prende questo gesto come un permesso per slacciargli anche l'altra scarpa. Se anche non c'è fretta, nei suoi gesti, c'è una precisione veloce. “Jinko” lo chiama e con una mano gira il mento di Atsushi, perché i loro nasi si tocchino mentre con l'altra mano gli muove il tallone, per togliergli una scarpa.

Appena Atsushi si rende conto del piede scalzo, muove lo sguardo verso i suoi piedi, cosa che deve irritare Akutagawa che chiude gli occhi e unisce le loro labbra in qualcosa che Atsushi ormai nemmeno più chiama bacio. Sotto i tre secondi non valgono. E, comunque, voleva solo sfilarsi l'altra scarpa. È incredibile quanto Akutagawa abbia bisogno di attenzioni.

Atsushi sente la testa leggera. In realtà, sente tutto il corpo leggero. Come quando si svegliava la mattina e sentiva la testa fresca e pensava ah, sì, questa sarà una bella giornata. Quelle giornate finivano quasi sempre male, con lui in punizione, o con qualche parte livido su braccia e collo, ma qui è diverso. Atsushi non ha una vaga sensazione che non succederà niente di brutto. Atsushi ha la sicurezza che in questo appartamento non gli succederà niente di brutto. Ed è una sicurezza pericolosa, soprattutto quando lo porta a calciare via le scarpe e salire a cavalcioni su Akutagawa. Perché sente un corpo reale. Qualcuno di solido. Gli piace trovarsi in un posto che non è reale, ma gli piace anche che Akutagawa, sotto di lui, è carne e ossa e dita che si muovono.

Non è la prima volta.

Atsushi lo bacia. Non è la prima volta che succede. Un bacio tra loro, sopra i tre secondi, con le labbra che si muovono e saliva e altra roba. Atsushi chiude gli occhi e spinge Akutagawa sul pavimento, mentre strofina il naso contro la sua guancia. Non sa descrivere il profumo di Akutagawa. Sa solo che è familiare. E quell'odore familiare gli fa venire voglia di baciarlo con più foga. Posa una mano sul petto di Akutagawa e sente una mano di Akutagawa prenderlo dal fianco, muoversi verso la schiena. È la prima volta che Atsushi prende l'iniziativa però, perché… Il pensiero viene fermato. Atsushi ora come ora ha voglia di sentire il sospiro di Akutagawa accanto all'orecchio, motivo per cui muove il mento per approfondire il bacio, chiudendo gli occhi. Vuole sentire le sue dita e la sua risata e qualsiasi cosa abbia da offrire adesso.

Akutagawa, con la testa posata sul pavimento di legno, alza una mano e la posa sulla ferita aperta di Atsushi. Atsushi aggrotta le sopracciglia. Le dita di Akutagawa pizzicano contro di lui e le mani gelide portano sia dolore che sollievo. Il cappuccio della felpa di Atsushi cade sulla sua schiena e lui apre gli occhi, per incontrare lo sguardo curioso di Akutagawa. Lo zigomo di Atsushi pulsa. Fa troppo male per continuare qualsiasi cosa avesse voglia di fare soli pochi secondi prima. Non si è rotto nessun incantesimo, ma Atsushi pensa di essere un po’ tornato in sé. Quindi scuote la testa, per liberarsi da quel tocco.

Beh, comunque lui… “Io devo tornare a...” Non sa come dovrebbe finire la frase. Non riesce a dire casa. Si tira indietro. Scivola giù dalla gambe di Akutagawa e lancia uno sguardo alle sue spalle, per vedere le sue scarpe gettate sul genkan. Ha la testa leggera. Lui non inizia mai queste cose. Di solito segue la corrente, lascia che sia Akutagawa a baciarlo, lascia che sia Akutagawa a toccarlo, lascia che sia Akutagawa a portare avanti qualsiasi cosa lui volesse. Sente la faccia calda e lo zigomo pulsare ancora e ancora e ancora. Non ha mangiato niente di solido, quindi non può nemmeno prendere l’antidolorifico. “Grazie per…”

Akutagawa si alza a sedere, facendo forza su un braccio. Lascia che Atsushi si sieda di nuovo accanto a lui, ma appena lo vede cercare di alzarsi, lo prende dal gomito, per fermarlo.

In Akutagawa non c’è niente di delicato. Questa è una cosa che Atsushi sa. Ma non è nemmeno così forte da fermare Atsushi, se si volesse liberare. Lo tira verso di lui. “No.” E non aggiunge nient’altro, perché se lo facesse non sarebbe Akutagawa Ryunosuke, la persona più irritante al mondo.

Atsushi cade su di lui con un tonfo secco, ed eppure Akutagawa non cade sul pavimento. Atsushi si morde l’interno delle guance e c’è la possibilità, non così palese, non così improbabile, che se tornasse all’orfanotrofio adesso, una parte di Atsushi morirebbe. O, beh, una parte di lui ne soffrirebbe davvero tanto. Non ha mangiato niente. Il corpo inizia a fargli davvero tanto male. Non è solo la faccia, lo zigomo che è così caldo e gonfio da dargli l’impressione di tenere un occhio chiuso. Sta iniziando a sentire un dolore nella zona delle costole, quella costola incrinata di cui parlava Yosano-sensei, forse. E c’è anche -ad Atsushi piace il tipo di calore che ha il corpo di Akutagawa. Certo. Ovvio che sia così. Altrimenti non avrebbero questo loro patto implicito. Non si farebbe toccare da lui, se in un qualche modo non gli piacesse.

Akutagawa gli lascia andare il gomito, solo per passare il braccio intorno alla sua vita, e Atsushi posa la testa sulla sua scapola, come se fosse un cuscino, senza pensarci su troppo. Akutagawa lo tira con sé, per finire entrambi sdraiati sul pavimento dell’entrata di casa e Atsushi sbatte un paio di volte le palpebre, guardando la parete bianca davanti a lui.

Il corpo gli fa così male che pensa di non potersi muovere più. Gli brucia la guancia. Non ci vede bene da un occhio. Non sa descrivere bene il profumo di Akutagawa. Ha la testa leggera. Sa che non può succedergli niente. Non vuole piangere davanti ad Akutagawa. Anche se è un pianto a lieto fine.

Ed eppure sta piangendo sopra Akutagawa, che finge di non rendersene conto.

 




Atsushi continua a guardare il vuoto che prende forma in una parete bianca, mentre ascolta il respiro di Akutagawa. Il suo petto sale e poi scende e poi sale di nuovo. Sembra esserci qualcosa nei suoi polmoni, perché fa fatica a respirare. C'è del muco nei suoi polmoni o roba del genere. Atsushi ha pianto tutte le lacrime che aveva in corpo. Il fianco schiacciato contro il pavimento dà un po' fastidio, ma non ha intenzione di muoversi, così come Akutagawa non ha intenzione di parlare.

Nessuno dei due si muove, quando la porta di apre. Atsushi non ha bisogno di vedere chi è la persona alla porta. Sa chi è. Lo sa perché il cuore di Akutagawa ha perso un battito e perché c'è solo una persona in questo mondo che potrebbe avergli chiesto di portarlo qui e assicurarsi che non andasse via.

Atsushi guarda la parete bianca. Sbatte piano le palpebre. Ha finito tutte le lacrime, non c'è pericolo che scoppi a piangere una seconda volta, anche perché non c'è più motivo per farlo. Abbassa un po' il mento e, se avesse il permesso di farlo, stringerebbe il corpo di Akutagawa come se fosse un peluche.

Dazai-san si inginocchia accanto a loro due e muove la ciocca di capelli di Atsushi, per coprire l'occhio e lo zigomo. “Hai fatto un buon lavoro" dice, ma né Atsushi né Akutagawa sa con chi si sta congratulando. "L'ultimo treno è già partito."





[In days gone by I never repented of my acts. I was sorry always only for what I didn’t do.]

“Ragazzino" lo chiama Kunikida-san. Ha un tono irritato. Forse perché Atsushi è ormai al suo secondo piatto di curry e ha capito che ha una voglia matta di ordinarne un terzo. "Togli il cappuccio e gli occhiali."

Atsushi sbatte le palpebre. Tira su lo sguardo, per vedere Kunikida-san che ha un'espressione seria sul viso. Atsushi ha saltato due giorni di lavoro. Quello di ieri, nascosto in un'appartamento che sa di dover lasciare il prima possibile, e oggi, trascinato fuori dalle orecchie da Kunikida-san che lo ha portato a mangiare. Sono due giorni che Atsushi non mangiava un pasto come si deve. Senza mangiare, non può nemmeno prendere le pillole per il dolore, quindi è rimasto accucciato in un angolo senza nemmeno la forza per cercare un futon su cui sdraiarsi. È grato a Kunikida-san per il pasto. No, non ha intenzione di togliersi gli occhiali da sole o mettere giù il cappuccio. Quindi si concentra di nuovo sulla sua ciotola di riso e ricomincia a mangiare.

Kunikida-san non è conosciuto per la sua pazienza. Assottiglia lo sguardo e posa i gomiti sul tavolo, per guardare con più intensità e attenzione Atsushi, che si passa la manica della maglietta sul lato della bocca. Si vergogna di aver fatto un gesto del genere, e sa che non ha nemmeno un posto per portare a lavare i suoi vestiti (bianchi). Dovrebbe fare più attenzione.

“Ti devo accompagnare a prendere le tue cose?” gli chiede Kunikida-san, con mezzo sospiro.

Atsushi ci pensa su. Le sue cose. I libri di Stevenson. I suoi tesori perduti. Atsushi inclina un po’ la testa, forzando un sorriso. “Ho già tutto” risponde. Se c’è una battuta che soltanto gli orfani possono capire è come riconoscere qualcuno senza famiglia. Tutto quello che hanno, o che avranno mai, entra in una busta di plastica, che trascinano da una parte all’altra del mondo. Perché tutto quello che appartiene a loro, appartiene alle persone a cui sono state affidate. Atsushi ha rubato uno zainetto, per non doversi muovere da una parte all’altra della città con una busta di plastica al polso. Ci sono cose che ha lasciato all’orfanotrofio perché gliele hanno tolte, ma quelle sono le perdite in un gioco che conosceva bene. “Non ho lasciato niente.” Almeno non lo ha fatto perché voleva.

Kunikida-san unisce le mani sul tavolo. Atsushi non vuole pensare troppo e muove il cucchiaio per il curry sul piatto bianco, che ha lasciato pulito. “Devi farti controllare da Yosano-sensei” dice Kunikida-san. Ha di nuovo un tono duro. “Gli fai vedere quell’occhio. Gli fai controllare le costole. Non ti chiedo di fotografare i lividi perché immagino che…” Kunikida-san non finisce la frase. Si limita a scuotere la testa e a lasciare che un piccolo sospiro esca dalle sue labbra. “Per i prossimi giorni -so che se ti dicessi di riposare non lo faresti, quindi voglio che vieni all’agenzia e il mio maestro ha chiesto che i giorni di convalescenza voi li passiate insieme. Vi occuperete della tua transizione dall’orfanotrofio a qui. Fukuzawa-sensei sarà il tuo garante, tutore, datore di lavoro, chiamalo come vuoi.” Prende un fazzoletto pulito e lo passa ad Atsushi.

“Devo andare a scuola per informare loro che non frequenterò queste ultime due settimane” pensa ad alta voce. Prende il fazzoletto dalle mani di Kunikida-san e lo ringrazia, con un cenno della testa. A questo punto, non ha intenzione di tornare all’orfanotrofio. Non vuole nemmeno tornare a scuola da solo. Ha già diciotto anni, nessuno può costringerlo a tornare all’orfanotrofio, anche se non è del tutto maggiorenne. Ma non si sa mai. Se avesse qualcuno accanto, si sentirebbe più tranquillo. “Ci posso andare con Fukuzawa-san?”

Kunikida-san ruota di nuovo gli occhi. Se continua a farlo, prima o poi, gli occhi potrebbero uscire fuori dalle orbite, dal tanto ruotare.

“Non -io non ho fatto assenze o ritardi, fino a ora” lo assicura Atsushi, tirandosi un po’ in avanti. Ha anche alzato un po’ la voce e ora sente le orecchie diventargli rosse per la vergogna. Kunikida-san non commenta questo suo comportamento. Rimane a fissarlo. Atsushi sente che questo è peggio di un qualsiasi altro rimprovero. “Non pensavo di farne.”

“Pensavi di andare a scuola con la faccia ridotta così?” gli chiede Kunikida-san.

Sembra una domanda a trabocchetto.

Atsushi si morde l’interno delle guance. Non può fingere che questa sia la prima volta che lo colpiscono in faccia così forte da fargli venire un occhio nero, o fargli gonfiare uno zigomo, a questo punto non pensa che Kunikida-san gli possa credere. È anche vero, però, che se le scuole coi gradi più bassi erano coordinate dal personale dell’orfanotrofio e quindi quando era più piccolo era più facile trovarlo in condizioni pessime, visto che Atsushi si era trovato un lavoro ed era stato ammesso in un liceo al di fuori dell’orfanotrofio, erano stati più attenti a non lasciare segni visibili di calci e pugni. Erano anni che il suo viso non era conciato in questo modo, motivo per cui si chiede se si era un po’ rammollito e se per questo adesso non riesce a sopportare il dolore che i graffi e i lividi portano con loro. Anche se non avessero avuto questa accortezza, però, sarebbero state poche le persone che gli avrebbero fatto domande. Queste, dalle loro parti, sono cose normali. Succedono a tutti. Atsushi non se la sente di dire una cosa del genere a Kunikida-san, però, motivo per cui tiene lo sguardo basso, unisce le mani sulle cosce e decide di non rispondere.

Kunikida-san non sembra proprio sapere che cosa fare, in situazioni del genere. E Atsushi non si aspettava certo che sapesse cosa fare. Per quanto voglia far finta di esserlo, non sembra un adulto completo, ancora, non sembra quel tipo di persona che conosce tutti i lati del mondo. “È per questo che nei prossimi giorni starai con Fukuzawa-sensei" borbotta, prendendo qualcosa dal suo quaderno. "Anche se dici che hai preso tutto dalla tua vecchia casa, hai anche faccende da sistemare e lo puoi fare solo con lui. Questa…" Tira fuori una carta di debito nera. La fa strisciare sul tavolo verso Atsushi. "... è la tua nuova carta. Basta coi contanti, ne avevamo già parlato. Caricheremo qui il tuo stipendio, mensilmente. Hai già parlato del tuo aumento con Fukuzawa-san, d'ora in poi non andrai da Tanizaki-san a prendere lo stipendio. Se ti derubano, basterà bloccare la carta e i soldi non verranno persi."

Atsushi prende la carta in mano e la gira tra le dita. Non ha un posto in cui metterla, quindi si limita a guardare Kunikida-san. “Mi dispiace per il disturbo" riesce a dire. Sarebbe strano ora infilarsela in tasca e Atsushi non si è portato lo zainetto di Hello Kitty. Deve muoversi quando Kunikida-san non lo sta guardando. "Non volevo creare problemi."

“Pensa piuttosto a come renderti utile.” Kunikida-san scuote la testa. “Almeno sapremo che tutto questo disastro ne è valsa la pena.”

“Mi dispiace" ripete a bassa voce Atsushi. E gli dispiace davvero. Gli dispiace così tanto che non ha nemmeno voglia di un terzo piatto di curry.

“Ho sentito che vuoi pagare l'affitto dell'appartamento.”

Atsushi annuisce piano. “Appena sarà possibile, vorrei ripagare per affitto, luce e...”

Kunikida-san scuote la testa. “Puoi anche farlo, ma non è necessario. Quelli sono gli appartamenti adibiti per il personale dell'agenzia. Pensala come se tu avessi già pagato l'affitto lavorando per Fukuzawa-sensei. Devi pagare il condominio e la luce, nient'altro. Puoi iniziarlo a fare dal prossimo mese. Ah. E puoi portare tutti i gatti che vuoi. Fukuzawa-sensei mi ha detto di sottolineare questo fatto.” Kunikida-san tamburella col dito. “Solo una cosa è importante.”

Atsushi tira le mani sotto il tavolo, giocherellando con la carta di debito. Non ne aveva mai toccata una. È più piccola di quello che pensava. Si chiede quanta forza ci dovrebbe mettere per spezzarla. Annuisce verso Kunikida-san.

“Ho avuto anche io diciotto anni. So che cosa vuol dire avere il tuo… ragazzetto… il tuo ragazzetto e penserai che avere un posto tuo è un buon -che quell'appartamento sia un buon posto per incontrarsi. Certo, sì, noi in ufficio conosciamo Akutagawa-kun e sappiamo che è un br-... beh, è di sicuro un ragazzo, e queste sono scelte che puoi fare solo tu, certo, nessuno ti andrà contro, mai. Solo -vorrei che portassi rispetto al posto in cui stai dormendo. Capisci quello che ti voglio dire?”

Atsushi assottiglia lo sguardo. Ha detto ragazzetto. Si gratta il polso con una punta di irritazione. “Solo che io e Akutagawa non stiamo insieme" gli risponde, alzando lo sguardo verso di lui. Ha la vista offuscata dagli occhiali da sole, verissimo, ma è una cosa buona che adesso Kunikida-san non veda lo sguardo che indossa. Atsushi sente che non è gentile, anche se non lo può dire con certezza. Decide di guardare da un'altra parte, posando il mento sul palmo della mano. "Akutagawa lo voglio il più lontano possibile dal posto in cui dormo. Quindi -in realtà non ho capito, ma non c'è nessun problema. Akutagawa non metterà più piede lì."

Kunikida-san alza un sopracciglio. Non ha preso niente da mangiare per sé. Guarda il suo quaderno, forse alla ricerca di qualcosa che potrebbe o dovrebbe dire in situazioni come queste. “Non che siano affari miei.” Tamburella di nuovo il dito contro il tavolo. “Vuoi un altro piatto?”

Kunikida-san è una brava persona.

 




Atsushi apre la porta dell'appartamento per entrare nello stesso momento in cui Akutagawa sta aprendo la porta dell'appartamento per uscire. Ci sono molte domande da fare, in questo momento. Ridammi la chiave di casa. È inquietante che tu sia qui. Sono appena tornato, non ho voglia di litigare. Atsushi opta per: “Kunikida-san non ti vuole qui.” Si toglie gli occhiali da sole e li posa sul mobiletto delle scarpe, per poi saltellare su un piede solo. Akutagawa gli porge un braccio per appoggiarsi e Atsushi lo prende senza nemmeno pensarci, per togliersi le scarpe. “Nel caso poi ti vedessero i vicini.”

Akutagawa aggrotta le sopracciglia. “Quali vicini?” gli chiede. Si tira indietro, lasciando Atsushi su un piede e con una sola scarpa. Deve essersi reso conto di stargli facendo un favore. “Beh, comunque se non mi vuole qui…” Cerca di superare Atsushi, per uscire dall’appartamento.

“Beh, ma se ora ti vedessero i vicini?” chiede Atsushi a sua volta, fermandolo sulla porta. “Rimani, no? Poi si può sapere che cosa ci fai qui e dimmi che hai delle chiavi tue e non che hai rotto una qualche finestra per entrare.”

Akutagawa inclina un po’ la testa, si guarda intorno. Deve star pensando alla risposta giusta da dare. Atsushi non ha molta fretta. Si sfila la giacca, sistema la borsa che Naomi-san gli ha regalato per metterci dentro la carta di debito e i suoi documenti d’identità e si stira la schiena. Non sente nessun vento freddo dentro casa, nessuno spiffero. Quindi se anche Akutagawa avesse rotto una finestra, per lo meno poi ha fatto in modo di coprire tutto quanto. “Ho forzato la serratura” dice alla fine Akutagawa.

Atsushi arriccia il naso. “No.” Scuote la testa, muove le mani in aria. “No, lo so che non è vero.” Chiude la porta dietro le spalle di Akutagawa ed entra in casa. Ha ancora un odore nuovo, questo appartamento. Sa un po’ di polvere, un po’ di deodorante per ambienti al pino (dall’odore crede che lo abbia scelto Kunikida-san, ma non ne può essere del tutto sicuro) e un po’ di riso bollito. C’è poco di Atsushi qui. “Voglio la tua copia delle chiavi. È davvero troppo inquietante che puoi entrare in casa mia quando non ci sono.”

Sul tavolino in mezzo al monolocale, c’è un vassoio di carta pieno di dolci, coperto da una plastica trasparente.

Akutagawa rimane in piedi vicino alla porta, con le braccia incrociate. Deve star pensando a cosa fare, mentre Atsushi si guarda intorno. “Hai portato i dolci?” Atsushi cammina verso il tavolino, inginocchiandosi davanti ai dolci con una certa eccitazione. Ci sono due mochi e quattro dango bocchan. Atsushi si porta una mano sulle labbra e chiude gli occhi, pregustando il sapore in bocca.

“No. Erano già qui.”

Atsushi arriccia le labbra. Sfrega le mani contro i pantaloni e sospira. “Ranpo-san li avrebbe già mangiati se li avesse portati lui, o qualcuno dell’agenzia. Se ci fossero parti con zucchero o vuote direi che me le hanno portate loro.” Alza un sopracciglio e poi scrolla le spalle. Beh. Non si aspetta che Akutagawa ammetta di aver fatto qualcosa di gentile per lui. Atsushi non va matto per i dolci, ma non dice mai no quando gliene offrono. “Non ricordo di averne mai mangiati senza fretta. Mi rimanevano incastrati nella gola, per questo. Sai, no?, quella cosa del -quando ti mandano a prendere del pane e puoi prenderne uno in più, magari, e mangiartelo da solo, no?, e però quel pezzo di pane di solito non è così buono, perché te lo devi mangiare in fretta. Sai, la sensazione? Del pezzo di pane in più, del mangiarlo con avidità senza che nessuno ti possa vedere, ma la cosa che -beh, alla fine non ti godi il sapore. Non ti sazia nemmeno.” Atsushi punta i gomiti sul tavolino. Abbassa lo sguardo. Sorride. “Questo tipo di cose.”

Akutagawa si toglie le scarpe. Inizia a sbottonarsi la giacca. Piano piano. Lui non sembra mai avere fretta. “Ho sempre diviso il pezzo in più con Gin” gli risponde.

Atsushi posa il mento su una mano a coppa. Tiene la testa girata verso di lui e gli scappa un sorriso. Beh, sì, certo che Akutagawa non ha mai mangiato un pezzo di pane in più da solo. “Sei tutto un fratello maggiore tu” ride. Con la mano libera, giocherella con la plastica che copre i dolci. Si chiede come possono essere dei dolci che non sono mangiati di fretta per non farseli rubare. Che Akutagawa lo voglia ammettere oppure no, questi sono dolci di Atsushi e di nessun altro. Nessuno può venire a prenderli e nessuno glieli può togliere da sotto i denti. È capitato, all’orfanotrofio, che Atsushi fosse stato spinto a vomitare i dolci che aveva mangiato. Ricorda la sensazione di bruciore nella gola, le lacrime che gli uscivano dagli occhi e l’odore sulle sue mani, che non voleva andare via. “I dolci sono peccato” si lascia sfuggire.

Akutagawa, che si sta sedendo vicino a lui, gli lancia un’occhiata confusa e Atsushi muove la mano, da sotto il mento a dietro il collo, mentre cerca di ridere ancora.

“Era una cosa che diceva il direttore dell’orfanotrofio” dice, fingendo di non star dando alle sue parole nessun peso. “C’erano tanti motivi per cui i dolci erano proibiti. Per i dolci, anche quelli più insignificanti come le caramelle, si litigava e molte volte ci picchiavamo anche solo per una caramella consumata. Pensa te. Una cosa così piccola che poteva portare tanta zizzania. Quindi il direttore e i maestri e i preti continuavano a ripetere che i dolci erano una tentazione del diavolo che si insinuava in noi per creare il caos. I dolci che facevano cadere nei peccati come la gola e l’avidità. E ti facevano mentire. Ah e, certo, c’era anche la questione del…” Atsushi muove la mano davanti al viso. Che cose strane da ricordare in momenti come questo. “Lascia stare.”

Akutagawa non risponde. Lo fissa, ma non risponde. Di solito è difficile farlo stare zitto e adesso vuole far diventare matto Atsushi dandogli il trattamento del silenzio. Forse era davvero meglio lasciarlo andare via quando si sono visti. Atsushi decide di aprire i dolci, a questo punto. Non gli interessa avere una risposta da Akutagawa, ora che ci pensa bene. Aveva anche assicurato a Kunikida-san che non sarebbe più entrato in questa casa. Eh. Forse doveva davvero davvero cacciarlo quando ne aveva la possibilità.

Akutagawa allunga la mano per far girare la testa di Atsushi verso di lui. Ha uno sguardo concentrato. Gli studia l’occhio, che è ancora rosso, ci vorranno giorni perché torni alla normalità, gli ha detto Yosano-sensei. Per il livido sullo zigomo, invece, è bastato chiedere aiuto a Naomi-san, per non dover tenere il cappuccio in testa. Ha coperto il livido con un colpo di pennello, per così dire. E adesso non gli fa male, anche se Akutagawa tocca le parti che si stanno rimarginando, perché è stato riempito di antidolorifici. È già tanto se ha coscienza di sé, in questo momento.

“I preti pazzi del quartiere ripetevano sempre che i dolci sono degli afrodisiaci” completa il pensiero di qualche secondo prima Akutagawa. Lo dice senza scoppiare a ridere, come se fosse una cosa seria. Proprio come i preti dell’orfanotrofio ripetevano questo vecchio mantra, mentre lo punivano per aver rubato delle caramelle, che Atsushi non aveva nemmeno rubato. Akutagawa scuote la testa.

Atsushi alza un lato delle labbra. “Ah, quindi è una cosa che dicono tutti i preti” ride. Si muove, per liberarsi dalla mano di Akutagawa sul viso. “Beh, non so nemmeno se questa cosa ha una base scientifica. E noi non sapevamo nemmeno di che cosa stessero parlando, se devo essere sincero. Ma continuavano a ripeterci di non mangiare dolci e lo sanno tutti che questo è il modo per rendere qualcosa desiderabile agli occhi dei bambini. Il gusto del proibito.” Sospira. “Beh, faccio il tè e li mangiamo?”

Akutagawa prende un dango tra le dita. “Vogliamo provare?”

“Cosa?”

“Se lo zucchero ha effetti afrodisiaci.”

Passa qualche secondo. Passa più di qualche secondo e nessuno dei due sembra volersi muovere. Akutagawa ha fatto un cenno con la testa, per far capire ad Atsushi che sta aspettando una risposta e la testa di Atsushi è troppo impegnata a chiedersi come fa Akutagawa a essere così bravo a portare la conversazioni su questi porti. Cioè, no, davvero. Un vero maestro della conversazione e avrà detto, sì e no, tre frasi nell’ultima mezz’ora. Complimenti. Seduttore. Da chi ha imparato? Dazai-san, forse? Ha insegnato queste tecniche a sua sorella? Atsushi, nella sua testa, gli sta facendo una ovazione. Applaude con tutta la forza che ha in mente e, dalle labbra gli esce un: “Già. Per la scienza.” E non ha nemmeno il tempo di finire la frase che Akutagawa gli infila una delle polpette in bocca, con la grazia di un infermiere da un film horror.

Atsushi prova a masticare, mentre Akutagawa gli bacia lo zigomo sano, prendendogli la testa tra le mani. Atsushi prova a ingoiare, ma sente che il boccone che Akutagawa gli ha infilato in bocca è davvero troppo grande e si ritrova a chiudere gli occhi e tossire. Akutagawa si tira indietro e Atsushi continua a tossire e tossire. Sente proprio un pezzo che gli è andato di traverso e il naso che gli brucia.

Akutagawa gli batte una mano sulla schiena, per farlo tossire con più forza. Un pezzo della polpetta al tè verde esce dal naso di Atsushi e gli trema il labbro a guardarlo perché questo è davvero… “Non me lo sono goduto per niente.” Si inumidisce le labbra e scuote un po’ la testa. Questi sono i suoi primi dolci fuori dall’orfanotrofio. Nessuno verrà a prenderlo o a tirarlo sul pavimento per punirlo. Atsushi sbatte le palpebre. Questi sono i suoi dolci. “Akutagawa. Senti. Vorrei godermeli questi dolci. Scusa.”

Akutagawa si siede di nuovo vicino a lui, con un tonfo. Atsushi lo vede ruotare gli occhi, ma non si lamenta. “Dammene uno. Non mangiare da solo da egoista.”

Atsushi sorride. “Tu puoi mangiare solo un mochi.”

Akutagawa prende il suo dango bocchan e fulmina con lo sguardo Atsushi, che non riesce a smettere di ridere.

“Ah, sì, volevo chiederti. Tu sei bravo a scegliere vestiti, giusto?”

 




Fukuzawa-san, il presidente, si muove con grande eleganza, accompagnando Atsushi fuori dal suo vecchio liceo. Ha parlato con il direttore scolastico e anche col direttore dell’orfanotrofio, ha accompagnato Atsushi a firmare davvero tanti documenti e ha ringraziato i professori per essersi presi cura di Atsushi fino a quel momento. La scuola finirà tra una settimana e mezza, quindi questa è pura formalità. Atsushi ha in mano il suo diploma, ben stretto tra le mani e indossa per l’ultima volta la sua uniforme nera, sopra una felpa bianca che gli ha prestato Tanizaki-kun, perché secondo lui Atsushi deve smettere di vestirsi con felpe di Winnie the Pooh e andare in giro con zainetti di Hello Kitty.

Atsushi non ha detto una parola rivolta al presidente, in tutta la mattinata. Gli è stato al fianco, con la schiena dritta, cercando di dimenticare come Tanizaki-kun gli abbia detto che passare il tempo con Fukuzawa-san è un po’ come passare il tempo con il professore durante una gita scolastica. Lo ha detto per dargli fastidio, prenderlo un po’ in giro, ma le sue parole sono rimaste impresse nella testa di Atsushi, che sente di star tremando per la paura di aver fatto, o di fare, un passo falso.

Ha lasciato la busta coi suoi libri in macchina. Fukuzawa-san ha distratto i preti, mentre Atsushi era entrato nella sua vecchia camera e aveva cercato nei suoi nascondigli i libri che ha comprato in questi anni. Sono, per la maggior parte, delle raccolte di favole, e i suoi due libri preferiti di Stevenson. L’isola del tesoro. Lo strano caso del Dottor Jekyll e del signor Hyde. I libri sono avvolti in vecchi stracci, li ha portati fuori come se fossero dei vestiti sporchi. E non sa come ringraziare Fukuzawa-san per il favore che gli ha fatto, uno dei tanti. Pensava che fossero persi per sempre e un po’ si era arreso al pensiero di aver perso anche quelli. E ora ha i suoi libri, il suo diploma, un appartamento, un lavoro… Kunikida-san ha ragione e Atsushi deve iniziare a pensare a come rendersi utile.

“Non hai degli amici da salutare?” gli chiede Fukuzawa-san. Cammina a un passo lento. Guarda gli studenti del liceo, alla ricerca di qualcuno che potrebbe aver riconosciuto Atsushi. “Qualcuno che conosci?”

Atsushi si guarda intorno. Ha passato gli ultimi diciotto anni da solo. No, non ha nessuno da salutare e nessuno che potesse chiamare amico. Prima di arrivare all’agenzia, Atsushi parlava a malapena. Girava voce, trai suoi compagni di classe, che non avesse una voce. Oppure che fosse stupido e che le parole per lui fossero più difficili da pronunciare. I suoi voti a scuola erano buoni, ma questo non fermava i suoi compagni da prenderlo in giro ogni volta che apriva bocca. E nessuno voleva nemmeno avvicinarsi al ragazzo con la divisa smessa. Atsushi passava la maggior parte del tempo in biblioteca, nascosto tra gli scaffali. Non può dire queste cose a Fukuzawa-san. Anche perché sarebbe inutile. Non si può cambiare il passato.

Atsushi scrolla le spalle. Ci deve pensare bene, a trovare un posto a cui dire addio. Ci deve essere almeno un angolo di questa campagna infernale in cui si è sentito… “Non c’è proprio un posto” dice, portandosi una mano sul mento. “Non c’è proprio una persona.”

“Tra tutte queste persone, non hai legato con nessuno?”

Suona un po’ come un rimprovero. Atsushi abbassa lo sguardo. Non sa che rispondere, perché venire rimproverato per essere stato incapace di fare amicizia con qualcuno è un po’ come venire rimproverato per aver letto troppi libri invece di essere andato a dormire. Sa che una persona come lui ha bisogno di persone intorno. Si è dovuto appoggiare a Fukuzawa-san, a Kunikida-san, a Yosano-san per potersi trovare in un posto che adesso può definire come tranquillo e sa che l’essere umano ha bisogno degli altri per continuare a sopravvivere. La sua incapacità di trovare una singola persona che lo trovasse non pietoso ma almeno simpatico, qualcuno con cui scambiare un paio di parole durante le ricreazioni, dice molto di lui.

La verità è che, in Atsushi, c’è ben poco da amare e ben poco con cui simpatizzare. Motivo per cui, per lui, è andato bene vivere la sua vita da liceale da solo. Ma ora che si ritrova davanti a una persona che in lui sta investendo, che gli sta dando un’opportunità… Le orecchie di Atsushi diventano calde, mentre guarda le sue scarpe e continuano a camminare.

Fukuzawa-san posa una mano sulla testa di Atsushi. È un gesto veloce. Come la posa, la ritira. Aspetta che Atsushi alzi lo sguardo. Il suo occhio non è ancora guarito. Da questa mattina, si riempie di lacrime, senza che Atsushi capisca il perché. “Mi ero chiesto perché non hai cercato aiuto prima, Atsushi-kun” dice Fukuzawa-san, appena escono dal portone della scuola. “Perché siamo dovuti arrivare a una situazione simile per fare in modo di tirarti fuori da questo posto. Quindi ora che so che prima di arrivare a Yokohama non hai avuto nessuno con cui parlare di quello che ti succedeva, non posso che dire che era qualcosa che avrei dovuto evitarti. Questo isolamento. Nonostante questo è importante che tu sappia che se anche hai dimostrato la tua forza, sopportando per questo lungo periodo senza lamentarti, saresti stato altrettanto forte se avessi chiesto aiuto.”

Atsushi sente di non star capendo. “Ho portato solo problemi” borbotta.

Fukuzawa-san guarda rima a destra e poi a sinistra, per poi continuare a camminare per la strada di campagna, come se lì ci fosse sempre stato. Devono scendere la collina, per poi camminare verso il canale che gli agricoltori usano per irrigare i campi e lì la macchina che li ha portati fino a qui li riporterà a Yokohama. A casa. Atsushi non è molto sicuro di quello che deve fare, ma pensa sia una cosa sicura seguire i passi del presidente.

“Ti trovi bene nell’appartamento?”

Atsushi fa un saltello per tornare a camminare al suo fianco. “Sì.”

“E ti trovi bene nell’agenzia?”

Atsushi sorride. “Sì.”

“Anche i tuoi colleghi si trovano bene con te.” Fukuzawa-san non cambia espressione. Continua a camminare. “E io so che tu fai di tutto per poter fare del tuo meglio. Mi basta questo. Ho fondato l’agenzia, anni fa, per fare in modo che Ranpo-kun potesse usare la sua mente a fin di bene. Poi vi siete uniti voi, uno dopo l’altro. E non sei il primo che chiede scusa per azioni già compiute, problemi già portati. Quindi ti risponderò nello stesso modo in cui ho risposto a ognuno di voi.”

Atsushi alza di nuovo lo sguardo per incontrare un sorriso da parte del presidente. Non lo aveva mai visto sorridere. Gli tremano un po’ le dita delle mani, perché non ha mai visto un sorriso del genere. E se ha mai visto un sorriso del genere, non lo ha visto rivolto a lui. È un sorriso così dolce, che gli fa venire voglia di piangere.

Fukuzawa-san posa una mano sulla spalla di Atsushi e gli dice: “Portami tutti i problemi che vuoi. Li risolveremo insieme.”

Atsushi abbassa lo sguardo, di nuovo. Le lacrime adesso gli salgono su tutt’e due gli occhi e cadono sulla strada.

 




“A me, quell’Akutagawa comunque non piace” dice Lucy. “Quindi meno male che non è venuto.”

Atsushi cammina portando le borse di carta in cui ha piegato i suoi nuovi vestiti, soprappensiero. Ci sono tante persone intorno a lui e deve stare attento a non urtarle, motivo per cui Lucy lo ha preso sottobraccio e ha iniziato a guidarlo per la strada pedonale. Si chiede come mai. Cioè, sì, nel senso. Si chiede perché, a Lucy, Akutagawa non piace.

Atsushi pensava nemmeno che loro due si fossero mai incontrati, non pensava che uno dei due potesse avere un’opinione sull’altro, a dirla tutta. Non le dà nemmeno torto, poi. Akutagawa è quel tipo di persona che quando la conosci ti viene voglia di prenderla a calci e poi a pugni e gridarle di stare zitto, per cinque secondi, stare solo in silenzio. Forse Akutagawa, quando è passato per il bar in cui lavora Lucy, deve averle detto qualcosa di scortese mentre Atsushi era in bagno. Forse hanno litigato. O forse sono quei tipi di persone che non vanno d’accordo e basta e, anche lavorandoci sopra, anche facendoli conoscere, smussando un po’ i loro caratteri, è impossibile che si possano abituare l’uno all’altra.

Lucy continua a camminare, con un passo allegro. In mezzo al quartiere commerciale, sembra essere diventata un tutt’uno con l’ambiente e, se non fosse per i suoi capelli rossi, Atsushi direbbe con certezza che è cresciuta in questa città. Nella sua gonna lunga, i capelli intrecciati intorno alla testa e il suo grande sorriso, Lucy ama spendere soldi e avere tante cose colorate intorno a lei. È una delle cose che ti rimangono se sei cresciuto in posti come gli orfanotrofi. Non avevi tante cose, da piccolo. Il cibo era contato, il pane sempre sbocconcellato, e mancavano anche cose più superflue come dei giocattoli, che sapevi che non erano tuoi. Il non avere niente ti porta, una volta cresciuto, a volere tutto. L’uniforme dell’orfanotrofio di Lucy era un pantalone e una maglietta grigia, non le lasciavano portare i capelli lunghi. Adesso acconcia i capelli come vuole lei, indossa tutti i colori che le piacciono, compra tantissimi giocattoli con cui poi non gioca, come se fosse una bambina viziata. Spende i suoi soldi per gli amici che non ha avuto da piccola. Non ne esci più. Quei posti sono luoghi che ti porti dietro, in un modo o nell'altro.

Ognuno ha il suo modo per sopravvivere.

“Avete mai parlato, te e Akutagawa?” le chiede, inclinando la testa. “Non lo sapevo.”

“Non ho mai parlato con lui” risponde Lucy. Stringe la mano intorno al braccio di Atsushi. “Non mi interessa parlare con lui. Ho visto quello che dovevo vedere. E sentito quello che dovevo sentire. Ehi, Atsushi. Quella ragazzina, Kyoka. Non le avevi detto che a te piacciono le persone gentili?”

Atsushi scrolla le spalle. “Beh, sì.”

“Ci sono molte persone gentili, quindi non capisco come tu sia finito con quell’Akutagawa.” Ah. Quindi è questo il problema. Lucy sembra essere un po’ irritata da questa faccenda. Sospira e si sistema una treccia sulla spalla, mentre camminano. “Quel Dazai, il tuo collega, mi ha detto: ah, non ti devi preoccupare di queste cose, perché, sai?, al nostro Atsushi-kun queste cose romantiche non interessano.” Lucy imita molto male le voci delle persone, ma non è il momento di farglielo notare. “E io ci credo che a te le cose romantiche non interessano. O almeno ci credevo. Ma sembra che tu abbia una specie di relazione con questo Akutagawa. E quindi mi sono messa a guardarlo e -a parte che hai dei gusti che lasciano a desiderare, fattelo dire. Lui è proprio brutto. Potevi scegliere qualcuno di carino, non pensi? Almeno carino. Ma poi c’è questa cosa che ha… questo -questa cosa che… non faceva che cercare Dazai.”

Atsushi ride. “Sì, è vero, è una cosa che fa.”

“Ma se in quella stanza ci sei tu, dovrebbe guardare solo te” ribatte Lucy, girandosi verso di lui. “O almeno dovrebbe guardarti. Dovrebbe trattarti bene, dovrebbe trattarti come la cosa più preziosa in questo mondo perché… santo cielo, Atsushi, non ti posso lasciare a un damerino che non sa nemmeno quante persone gli stanno lasciando tra le mani una delle cose più preziose della loro vita, non pensi?”

Atsushi sbatte piano le palpebre. Lucy distoglie lo sguardo. Il viso inizia a diventarle rosso. Le orecchie sembrano prendere fuoco.

“Non io” continua. “Nel senso. Io non gli sto lasciando proprio niente e nessuno. Di te non m’importa niente, eh, quindi puoi fare quello che vuoi io dico per -per quella ragazzina, Kyoka, tu sei uno importante e poi… uhm, magari pure per… per…” La sua voce si affievolisce e Lucy rimane in silenzio. Il suo passo è meno allegro, di sicuro si sente anche in imbarazzo.

“Sai che anche per me tu sei un’amica preziosa.” Atsushi continua a camminare e la trascina con lui. Non le lascia andare il braccio. Lucy è stata una delle sue prime amiche qui a Yokohama. Qualcuno che gli ha mostrato che all’orfanotrofio si sopravvive, che prima o poi le persone si dimenticano che sei orfano, che se ti appoggi alle persone giuste, puoi formarti una nuova vita. Non sarà mai abbastanza grato a Lucy, per tutto questo. “E nessuno sta lasciando un bel niente ad Akutagawa, perché noi non abbiamo nessuna relazione. Sta iniziando a essere stancante che tutti pensano che stiamo insieme. Non stiamo insieme.”

Lucy sospira. Atsushi non sa nemmeno dove stanno andando, loro camminano e basta. “È che, sai?, quando lui è al bar e tu sei al bar, io lo vedo.” Posa la tempia sul braccio di Atsushi. “Che tu guardi solo lui.”

Atsushi si gira verso Lucy, di scatto. Lei non sembra essere scossa da questo gesto.

“Ci sono tante persone intorno a te, che sono gentili, Atsushi. Davvero tante che sono gentili e che ti vogliono bene e che ti guardano adesso e vedono quell’occhio e quello zigomo e la fascia delle costole e vorrebbero solo starti accanto ed essere -vorrebbero averti convinto loro a rimanere, quando sei rimasto in quell’appartamento. Ce ne sono così tante, che ti adorano, forse non in modo romantico, ma sono sempre lì e tu scegli di innamorarti dell’unica persona che non rimane lì per te. Che non sta lì per te. Che guarda una persona che non sei te. Mi chiedo che merda ti hanno messo in testa. Perché hai scelto una persona che non sceglierà te. E tu ridi.” Lucy fa una smorfia. “Provi amore per una persona che non ne può provare, perché è ossessionata da un’altra persona e, da idiota, ridi.”

Atsushi arriccia le labbra.

Beh.

A questo non sa proprio che cosa dovrebbe rispondere.
 



Atsushi sistema i documenti da portare nell'ufficio di Fukuzawa-san tra le mani. La cartella di Kunikida-san, colorata di un verde perfetto nello spettro del verde, non ha nessuna macchia ed è quasi inutile controllarlo, al contrario delle altre cartelle. Il rapporto di Dazai-san, invece, non è stato nemmeno messo in una cartella, glielo ha lasciato sulla scrivania, mentre grondava di sangue, seguito da Akutagawa che lo reggeva dalle spalle. Beh. Almeno questa volta Dazai-san ha una scusa per aver consegnato un rapporto incompleto, al contrario di Ranpo-san, che gli ha dato dei documenti sporchi di dolci e di macchie di cioccolato. Atsushi ha copiato il rapporto, lo ha corretto, completato, correndo dietro Ranpo-san da una parte all'altra, cercando di corromperlo con merendine, poi ha infilato il tutto in una cartella gialla.

Il giallo per Ranpo-san, il viola per Yosano-sensei, per Kunikida-san verde, invece. E da lì chi è stato reclutato da chi ha lo stesso colore. Quindi Atsushi è stato assegnato, come a Dazai-san, il colore verde, Tanizaki-kun viola, eccetera eccetera. Atsushi non se n'era mai reso conto, è stato il presidente a spiegarglielo, come gli ha spiegato che più che per avere prove concrete di non star andando contro la legge coi loro rapporti, li usa per sapere che cosa stanno facendo, quanto sono produttivi e se hanno bisogno di qualcosa. Prima di Kunikida-san, i rapporti si facevano a voce al presidente. Per Fukuzawa-san sarebbe ideale che ognuno di loro presentasse il proprio rapporto a lui in persona e che facessero riassunto a voce, ma viste le sue giornate impegnate è quasi impossibile fare una cosa del genere. Questo rende molto triste il presidente.

Atsushi non si era reso conto nemmeno di quanto fosse impegnato Fukuzawa-san. È quasi una settimana che è stato assegnato come suo assistente ed è quasi una settimana che non ha un momento libero. Ci sono pranzi di lavoro, riunioni con tante persone, lavori da smaltire, casi da accettare e casi da rifiutare, anche la scelta di a chi affidare un caso prende molto tempo e dà molti grattacapi, soprattutto perché Atsushi è fuori dai giochi e così anche Kenji-kun, preso dai suoi lavori in campagna. Loro due sono un ottimo supporto fisico, anche se mancano di esperienza, mentre molti membri dell'agenzia mancano di forza fisica e questo vuol dire mandarli in posti che sono possibilmente pericolosi per loro. E, okay, Dazai-san si ferisce a ogni missione, come se fosse un bambino, per motivi stupidissimi.

Atsushi non ha mai sentito Fukuzawa-san lamentarsi, ma, ora che passano molto tempo insieme, lo sente molto spesso sospirare.

Non vuole portargli più problemi di quanto abbia già fatto.

Si muove per il corridoio dell’agenzia e, mentre controlla di aver sistemato i rapporti nel modo giusto, di non aver confuso i colori, o le scritture oppure… Sbatte la spalla contro la spalla di -ah, di Akutagawa. Atsushi era pronto a chiedere scusa, ma a vedere quella faccia non riesce a non ruotare gli occhi. “Uhm.” Beh, ha comunque tantissimo da fare e non ha tempo per stare dietro a qualsiasi pensiero che loro due possono avere. “Ciao.” E cerca di riprendere a camminare, ma Akutagawa studia il suo viso, come ha fatto da una settimana a questa parte.

L’occhio di Atsushi si sta curando bene e così anche le costole. Adesso, di visibile, c’è solo un’ombra violacea sul viso e una sempre più piccola macchia rossa nella sclera in basso. Atsushi sospira, guardando da un’altra parte. Se ha finito, gli piacerebbe tornare a lavoro il prima possibile.

“Oi, Jinko” lo chiama Akutagawa, avvicinandoglisi.

Sì, beh, magari la prossima volta. Atsushi gira la testa prima che Akutagawa lo possa non-baciare. Davvero. Non è dell’umore. “Ho da fare” borbotta, correndo verso l’ufficio del presidente.

Non guarda nemmeno l’espressione di Akutagawa. Dovrebbe tornare in fretta in infermeria, comunque, Dazai-san potrebbe svegliarsi da un momento all’altro.




[Am I not a discordant string in the divine symphony?]


“Mi hanno detto che stai facendo venire le palle blu ad Akutagawa-kun.”

Atsushi ingoia l’acqua che stava bevendo e inizia a tossire, portandosi la mano sul petto. Ci mette un po’ per riprendersi. Tossisce per trenta secondi buoni, con le lacrime agli occhi, piegandosi un po’ in avanti sulla sedia, con le mani sulle labbra. Appena finisce, cerca di prendere un respiro profondo e Dazai-san lo guarda con un sorriso curioso, sbattendo un po’ le palpebre, come se non avesse detto niente di inappropriato.

Dazai-san aggrotta le sopracciglia, con un’espressione divertita, prima di aprire di nuovo bocca. “Stai facendo venire le palle blu ad Akutagawa-kun” ripete, alzando un dito. Ha ancora il braccio ingessato e Yosano-sensei ha detto che questa volta ha esagerato e che deve ricordarsi che non tutti hanno il corpo dei ragazzini dell’agenzia, che sembrano fatti di plastica. Dazai-san non ha neanche spiegato come è riuscito a conciarsi in questo modo, è solo una cosa che è successa.

Atsushi si schiarisce la gola e posa il bicchiere d’acqua sul mobiletto vicino al letto dell’infermeria e prende uno spicchio di mela che ha tagliato poco prima. “Si è lamentato con te?” gli chiede. Morde la mela e alza lo sguardo verso il soffitto. Si è trasferito a Yokohama due settimane e mezzo fa e ha iniziato a evitare Akutagawa più o meno una settimana fa, è anche vero che non hanno combinato niente da prima del suo trasferimento, perché -Atsushi posa una mano sulle costole. E quando non sentiva dolore, si era concentrato sui dolci. “Quanto è infantile” sbotta, scuotendo la testa. Certo che andava a lamentarsi da Dazai-san, da chi altri? Atsushi prende un altro spicchio di mela. “Devi mangiarli questi” dice. Ma se Dazai-san non vuole mangiare e lui si può mangiare tutta la mela non è davvero un problema.

Dazai-san si appoggia al cuscino. Non la smette di sorridere. Chiude gli occhi, piuttosto. “Non è venuto a lamentarsene. Tutti gli altri lo stanno facendo al posto suo. Dovrebbe essere contata come tua abilità speciale il rendere Akutagawa-kun più tranquillo con le tue capacità in camera da letto.”

Atsushi fa una smorfia di disgusto. È davvero a un passo dall’alzarsi e andarsene via. “Non è...”

“Le tue abilità sotto le lenzuola.”

“Dazai-san, dovresti davvero…”

“Sto parlando di voi due che fate…” Si porta una mano vicino alle labbra e continua a bassa voce. “...sesso.”

“Non penso sia legale che tu mi parli in questo modo” gli dice, incrociando le braccia. “E comunque, non è che Akutagawa non può andarsi a cercare qualcuno con cui sfogarsi. Lascerei questo ruolo anche subito, se questo volesse dire non vedere più la sua stupida faccia. Non è un accordo esclusivo.”

Dazai-san aggrotta le sopracciglia. Apre gli occhi, come se Atsushi avesse detto qualcosa di strano. “Non -voi due non avete un rapporto esclusivo?”

“Io e Akutagawa non abbiamo proprio un rapporto” mette in chiaro Atsushi. Apre una mano, senza rendersene conto, per fare cenno di fermarsi, anche se il palmo viene rivolto al pavimento. “Non capisco perché tutti continuano a ripeterlo, ma io e lui non stiamo insieme, non abbiamo nessun accordo esclusivo, proprio nessun accordo, se un giorno lui decidesse di prendere un aereo e andarsene in -in America, che ne so, senza dirmelo e scomparire, a me non farebbe né caldo né freddo. E se io decidessi di andarmene in Scozia a cercare le bozze di Stevenson, sarebbe lo stesso per lui.” Sbuffa, scuotendo la testa. “Lasciatemi respirare.”

Dazai-san non riesce a fermare il sorriso che gli si forma sulle labbra. Sembra anche troppo divertito dalla situazione. “Ah, davvero?” chiede ancora.

Atsushi ruota di nuovo gli occhi. Tutte le volte che parla con Dazai-san, Atsushi sente di capire perché Kunikida-san sembra essere sempre di cattivo umore. Dazai-san è difficile da sopportare, anche se gli vuoi molto bene.

Se c’è una cosa che Atsushi ha imparato, stando con le persone, è che è vero che l’affetto a volte non ha a che fare col piacere. Che le persone ti possono piacere ma non per questo vuoi loro bene e che le persone possono non piacerti sempre ma che il tuo affetto per loro è imperturbabile e solido in una parte del tuo corpo, pronto a lottare per loro.

Atsushi arriccia le labbra. Anche corpo e testa sono due cose diverse. Vorrebbe avere le idee un po’ più chiare e certo che anche a lui piace passare il tempo con Akutagawa, gli piace il suo tocco, è il motivo principale per cui sono arrivati a questa situazione, ma è anche vero che è così tanto confuso. Ognuno ha il suo modo per sopravvivere. Si rende conto che il suo è diverso da quello di Lucy o da quello di Dazai-san. È diverso e molto più problematico se ci pensa bene. Perché nel suo modo di sopravvivere, potrebbe star ferendo una persona -e quella persona non è Akutagawa.

“Ho finito il mio turno di stare qui con te” annuncia, alzandosi dalla sedia. “Il tempo non finiva più.”

“Più passa il tempo, più ti comporti come Kunikida-kun.”

Atsushi gli fa la linguaccia, posando la mano sul pomello della porta, per andarsene via.

 




Kyoka-chan ha lasciato andare la giacca di Atsushi solo dopo avergli strappato la promessa di venirla a prendere sabato e di andare a fare un giro sulle giostre insieme. Non è una bambina, ha voluto ricordare, ma comunque dovrebbero andare insieme alla ruota panoramica e Atsushi non dovrebbe scomparire così, non importa in che condizioni stia la sua faccia, non dovrebbe scomparire in questo modo. Atsushi si accarezza la nuca, guardando verso il basso. Si rende conto di averla fatta preoccupare, ma si rende anche conto che Kyoka-chan ha quattordici anni e non dovrebbe entrare in contatto con certe -certe cose. Se Atsushi si fosse presentato nello stato in cui si trovava due settimane fa, l’avrebbe solo fatta preoccupare.

Akutagawa sistema il kimono che Fukuzawa-san ha ordinato sul tavolo. Alza lo sguardo verso Atsushi, poi ruota gli occhi e inizia a piegarlo. È stato lui a mandare via Kyoka-chan indicando dei clienti. Ha anche detto: stare sempre in mezzo ai piedi non ti porterà niente di buono. E Kyoka-chan è arrossita dalla rabbia, per quelle parole, ha stretto i pugni, lanciato uno sguardo veloce ad Atsushi ed è andata alla porta, per salutare i nuovi clienti.

“Dovresti essere più gentile, con Kyoka-chan” dice Atsushi. Non gli piace essere stato mandato qui. Se avesse avuto meno dignità, sarebbe andato da Fukuzawa-san e gli avrebbe detto che avrebbe fatto tutto, tutto quanto, qualsiasi cosa avesse voluto, anche andare a pulire la postazione di Ranpo-san, se gli avesse permesso di non andare al negozio degli Izumi. Si asciuga il sudore dei palmi delle mani sul pantalone. Ma questo non solo sarebbe stato irresponsabile, sarebbe anche stato da ingrati. “Poi è colpa mia che l’ho fatta preoccupare.”

Akutagawa schiocca la lingua contro il palato e continua a piegare con cura il kimono. Prima in due parti. Poi in quattro. Si piega per prendere la scatola in cui lo metterà e sistema la carta velina nel fondo. “Sì, è colpa tua” gli dà ragione, senza nemmeno alzare lo sguardo.

Atsushi deve concentrarsi per non dargli un pugno in faccia. Chiude gli occhi. Prende un respiro profondo. Non è nemmeno la cosa peggiore che gli abbia mai detto, quindi è inutile arrabbiarsi o iniziare a litigare. Questo deve essere un lavoro pulito. Atsushi entra, Atsushi prende il kimono, Atsushi se ne torna in ufficio (e non lava la postazione di Ranpo-san). Non vuole rovinarsi la giornata con quest’idiota. “Beh, allora non dovresti trattarla così” decide di rispondere. “Dovresti trattarla bene almeno perché è la figlia dei tuoi datori di lavoro. E lei è una brava ragazza. Non capisco che rabbia hai contro le brave persone.”

Akutagawa alza il kimono, con le braccia e lo infila nella scatola. “Sono affari miei come la tratto.” Piega il kimono con due gesti precisi. “Questo kimono non ha le misure del tuo di capo.”

“Sai le misure del mio capo?” Atsushi assottiglia lo sguardo. Questa sì che è una cosa inquietante, ma non è poi così strana, visto il posto in cui si trovano. Akutagawa non lo degna di una risposta proprio per questo. Atsushi passa il suo peso da una gamba all’altra, con fare nervoso. “È mio” confessa poi, con lo sguardo basso. “Non lo avevo mai visto ma è per questo che mi hanno mandato. Dicono che per i giorni speciali tutti nell’agenzia hanno un kimono da cerimonia. Non lo mettono proprio tutti, ma...”

Akutagawa studia il kimono, poi la faccia di Atsushi. Decide di non dire nulla. Sistema la carta velina intorno al kimono, prima di chiudere la scatola e prendere un nastro. In un qualche modo, questo suo silenzio è anche peggio di quello che Atsushi pensava di poter sentire.

Non ha mai avuto un kimono. Mai. Neanche uno smesso dai ragazzi più grandi. I preti dicevano che desiderare dei bei vestiti o dei vestiti costosi ti faceva peccare di vanità. I kimono rientrano in entrambe le categorie, quindi Atsushi immagina che potevano farti cadere nel peccato doppiamente. Ma quel kimono è suo. E lo può indossare quando vuole. Anche questo è stato un regalo dell’agenzia, anche se in realtà, per comprarlo, hanno fatto una colletta tutti quanti. Il colore è stato deciso da Dazai-san. Atsushi sente di star ricevendo un bel po’ di regali negli ultimi tempi. Davvero non sa come ringraziare. Non sa nemmeno se dovrebbe accettarli. Casa sua inizia a riempirsi di tutti i tipi di oggetti e nessuno glieli può buttare via. Casa sua sta diventando una fortezza e lui il drago che veglia sul tesoro che ci nascondono dentro.

“L’ultimo giorno di scuola” dice Akutagawa, facendo un nodo sulla scatola. “Vorranno festeggiare questo.”

Atsushi assottiglia le labbra, per non mostrare il suo sorriso. Scuola è finita in modo ufficiale per tutti, adesso, e lui ha il suo diploma dentro l’armadio da qualche giorno. La primavera sta arrivando e con lei tutte le allergie e gli starnuti e i fiori e i colori. Vorrebbe non essere venuto fino a qui, ma è contento di poter ritirare il kimono e vorrebbe mostrarlo a Tanizaki-kun e Naomi-san. Vorrebbe anche vedere quali hanno scelto loro. Quasi gli dispiace che non ci siano grandi festival nelle prossime settimane.

Akutagawa porge la scatola ad Atsushi e, quando entrambi la stanno reggendo, per puro caso, Atsushi sente i polpastrelli di Akutagawa vicino alle sue dita. E per un momento -sembra solo ad Atsushi, di sicuro, che il tempo si ferma in quei zero virgola tre secondi in cui si sono di nuovo toccati. Sono settimane che non si toccano, giorni che Atsushi gira la testa quando Akutagawa prova a baciarlo. La prima volta ha usato la scusa del lavoro. La seconda volta ha puntato verso un quadro e ha fatto finta di volerlo vedere più da vicino. E la terza volta si è portato una mano sulle labbra e ha fatto finta di essere sorpreso. E da lì Akutagawa ha ruotato gli occhi e non si è più avvicinato troppo. È strano che non si sia andato a lamentare da Dazai-san. Ma sì, certo che ad Atsushi manca il contatto fisico. Il loro contatto fisico. Ma -ma.

“Arrivederci” dice Akutagawa con un tono monocorde.

“Prima Kyoka-chan, poi me” sbuffa Atsushi, scuotendo la testa. “Non sai proprio trattare con le brave persone, uh?”

“Tu non sei una brava persona.”

Atsushi ruota gli occhi. “Detto da te, è un complimento.”

 




È difficile da spiegare a parole, ma Atsushi prova a farlo, mentre sistema il giardino condominiale insieme a Tanizaki-kun. Era una cosa che voleva fare da quando è arrivato qui. Sistemare il giardino.

All'orfanotrofio non lo facevano mai stare vicino a un orto. Dicevano che qualsiasi cosa lui toccasse moriva in pochi giorni. Qualcosa sul demonio che agisce attraverso le mani di Atsushi. E attraverso il suo stomaco. Infatti, non importava quanto Atsushi provasse a mangiare, all'orfanotrofio, aveva sempre fame. Cercava di riempirsi con i piatti di riso, un qualsiasi contorno, qualcosa che gli desse almeno l'illusione di essere sazio. Una volta, il direttore lo aveva tirato via dall'orto, con la faccia nella terra, alla ricerca di fragole, peperoni, carote, anche l'aglio, non gli importava. Era stato punito per questo. Due pasti al giorno li aveva assicurati, aveva detto il direttore, come è possibile che non gli bastassero? Perché trai suoi bambini si nascondeva un disgustoso ladro come lui? Atsushi poteva mangiare quanto voleva, avrebbe sempre avuto fame. Non sarebbe mai stato sazio.

Ma non era questo il punto. (Anche se si sta rendendo conto di quante volte gli hanno dato del maledetto in termini prettamente religiosi.)(Cose di cui non ci si rende conto fino a quando non è troppo tardi, immagina.) Beh, quindi, Akutagawa.

Se deve mettere a parole la sua relazione con Akutagawa, non saprebbe da dove iniziare, a essere sincero. Non vanno d'accordo, Akutagawa fa sempre arrabbiare Atsushi e ci sono momenti in cui Atsushi riesce a vedere qualcosa di simile all'odio negli occhi di Akutagawa, quando stanno insieme. La prima volta che si sono incontrati, sono finiti per arrivare alle mani. E così alla seconda, terza, quarta volta. C'erano volte in cui non parlavano nemmeno, si saltavano alla gola e Atsushi colpiva il petto di Akutagawa, quando era troppo vicino e Akutagawa lo insultava più forte, quando lo guardava. Non capisce davvero come siano arrivati a questo punto. Con Atsushi se si chiede se c'è dell'affetto nel suo comportamento con Akutagawa, se questo affetto è qualcosa che dovrebbe seguire.

È iniziato tutto perché Akutagawa non ha un tocco gentile, ma non lo ha mai nemmeno colpito, non sul serio, non dall’alto di una posizione non sua. Ad Atsushi piace il contatto fisico. Non lo sapeva prima di arrivare in agenzia. Non aveva mai pensato, prima, a come gli piace stare vicino agli altri e non ha mai pensato di avere davvero qualcuno che avrebbe voluto accanto o a cui prendere la mano o su cui posare la testa. I bambini dell’orfanotrofio sono dei rivali, in realtà, non si ha tempo per istaurare un qualsiasi rapporto di amicizia con loro e, anche se ci fosse stato un sentimento simile, la posizione di Atsushi lo isolava, se non in modo fisico in modo emotivo. Nessuno vuole stare con la persona odiata dal direttore, soprattutto se il direttore è la fonte principale di sostegno nell’ambiente in cui ti trovi.

Atsushi ricorda che la prima volta è stato dopo un fine settimana di isolamento.

Non ricorda cosa aveva fatto, è successo più di un anno fa, molto prima del suo compleanno. Era appena tornato nella sua stanza e forse aveva dimenticato di pulirla o forse aveva dimenticato che era il suo turno portare un qualcosa da una parte all’altra dell’orfanotrofio, poteva anche essere successo che avesse, senza volere, portato con sé un vecchio libro dalla biblioteca e che qualcuno, un prete o il direttore, se ne fosse reso conto.

Era stato preso dal braccio e rinchiuso in una camera di isolamento. Per ben due giorni. Un solo pasto al giorno. Atsushi aveva fame, si annoiava e aveva appoggiato la testa contro la parete, guardando il muro grigio davanti a lui. Non era certo la prima volta. In isolamento ci è finito così tante volte che non basterebbero i numeri coi nomi che conosce per contarli. Quindi ogni tanto chiudeva gli occhi e pensava al suo libro preferito di Stevenson. L’isola del tesoro. Bastava chiudere gli occhi e non era più lì, dentro quella stanza buia e senza finestre. Era in mezzo al mare. Era lontano. Stevenson ha viaggiato in Asia, quando era in vita. Ha visto tante cose. Atsushi amava leggere i suoi diari e immaginare com’erano i posti che Stevenson aveva visto. Sembrava una persona molto libera. Gli sarebbe piaciuto essere libero come lui.

E quando era uscito, il lunedì dopo non aveva sentito poi chissà quale differenza nello stare dentro la stanza o fuori. Finché non ha incontrato Akutagawa in agenzia.

Hanno litigato anche quel giorno. Atsushi era di cattivo umore. Forse lo era anche Akutagawa. Hanno litigato, sì, ecco, e poi è successo che Akutagawa ha inclinato un po’ la testa e gli ha preso la faccia tra le mani e lo ha baciato.

Atsushi ancora non capisce il perché. Al momento non gli è importato del perché. Dopo due giorni senza aver visto nessuno, non solo aveva potuto litigare con qualcuno, ma sentiva anche un tocco, un tocco che non era cattivo, che non gli voleva fare del male. E non era gentilissimo. Le labbra di Akutagawa non lo sono mai. Anche lui sembra quel tipo di persona che ha sempre fame. E a lui in quel momento interessava il tocco. Quel tocco. Il tocco di Akutagawa. È stata quella la cosa importante, sì.

I preti dicono sempre che avere un qualche desiderio fisico è peccato. Voler mangiare è peccato, volere troppo è peccato, voler sentire il tocco di qualcun altro è peccato, il sesso è peccato. E Atsushi era così arrabbiato e allo stesso tempo disperato che non gli era importato di fare peccato, anche se nella sua testa c’è sempre questa voce dietro l’orecchio che gli dice tutto quello che ha e che sta prendendo è qualcosa di rubato. Ci sono volte in cui il senso di colpa è più forte del piacere e ci sono momenti in cui il piacere è più forte del senso di colpa.

Ma non provava niente per Akutagawa.

Atsushi non ha chiesto a nessun altro di toccarlo, perché gli sembrava che solo Akutagawa non si trovasse in una posizione da cui giudicarlo. È tutto, è l’unico motivo per cui gli andava bene questo loro modo di essere. Fino a che non c’è stata una volta in cui -non è una cosa di cui si era reso conto, era solo che dopo aver parlato con Lucy ha iniziato a pensarci su e c’è stato questo momento, in cui Akutagawa ha avvolto la testa di Atsushi in un braccio. Lo aveva fatto per non fargli sbattere la testa contro il pavimento. Erano scivolati a terra, sdraiati e Akutagawa aveva stretta la testa di Atsushi, per non fargli male. Pensa sia stato quello il momento in cui Atsushi ha iniziato a provare qualcosa. Che non è una cosa buona. Provare emozioni, volere qualcosa di più, non solo è peccato, è anche un modo per essere degli arroganti, come diceva il direttore.

E comunque, non pensa che Akutagawa provi qualcosa per lui. Non gli sembra di poter sopportare il suo tocco, ora che vorrebbe che le dita che si sfiorano, un bacio, posare la testa sul suo petto, vogliano dire qualcosa. Prima era più facile. Se Akutagawa non prova niente -tutto questo non ha nessun significato. E Atsushi non lo sa cosa ci deve fare con le cose senza significato.

Atsushi sistema gli attrezzi per il giardinaggio di lato e inclina la testa, per guardare la pianta di prezzemolo che ha appena trapiantato. Non sembra messa in buone condizioni. Forse dovrebbe versarci sopra un po’ d’acqua. Non si è mai preso cura di una pianta.

“Beh” risponde Tanizaki-kun, alzando le sopracciglia. Posa il mento sul braccio, accucciato vicino ad Atsushi. “Questi sono -sono davvero tanti pensieri.”

Atsushi ha provato a mettere tutto a parole e in modo più chiaro possibile. Tanizaki-kun è il suo unico amico della sua stessa età. È stato il suo primo amico, anche, motivo per cui era solo ovvio che prima o poi si sarebbe andato a lamentare da lui. Almeno per schiarirsi le idee. Non che abbia davvero funzionato. E parlare di sesso è più imbarazzante che farlo. Avrebbe preferito rimanere in silenzio, a questo punto. Giocherella con la terra.

Tanizaki-kun si gratta la fronte e si lascia cadere seduto sul cortile. “Ho due cose da dirti, credo. Ma non sono molto bravo in queste cose, quindi non te la prendere se dico cose che ti offendono.”

Atsushi alza una spalla. Non capisce che cosa ha sbagliato con questo prezzemolo. Se non si adatterà in fretta, finirà per morire per colpa di Atsushi. È davvero un disastro.

“La prima cosa è che non ti ho mai sentito parlare così tanto. Cioè, sì, no, tu con me parli ed è divertente parlare con te. Ma tu non sei una di quelle persone che prendono sempre una posizione. Ed è -davvero difficile a volte capire quello che stai pensando sul serio per questo motivo. Noi ci conosciamo da due anni, ma io non ti ho mai visto arrabbiato, né sono mai riuscito a farti arrabbiare. La prima volta che ti ho visto parlare con Akutagawa, è bastato che lui dicesse una cosa sbagliata su Yosano-san e tu gli hai mollato un ceffone che è risuonato per tutto l’ufficio.” Tanizaki-kun alza un lato delle labbra. “È stato divertente.”

Atsushi fa una smorfia. È stata la prima volta che si sono picchiati, lo ricorda.

“A me, come persona” continua Tanizaki-kun. “Quel tipo non piace per niente. È scortese, non fa che lamentarsi e tratta male Naomi. Mi sarebbe piaciuto che ti fossi impelagato in questa situazione con una persona più sopportabile. Però penso anche che sia un bene che una persona così ti faccia arrabbiare o che ti faccia reagire. Se lui ti piace, dovresti, penso, farci qualcosa con questi sentimenti. Prenderli. Reclamarli. Hai vissuto tanto tempo all’orfanotrofio, quindi immagino che sia solo normale per te pensare che dovresti prendere qualcosa per te, ma -sarebbe davvero molto bello sapere che ti arrabbi e che rincorri le cose che ami o che lotti per i suoi sentimenti. E te lo meriti. Di prendere qualcosa per te. Te e basta.”

Atsushi fa una smorfia con le labbra. Tanizaki-kun è molto lucido nel dare consigli, a quanto pare.

Tanizaki-kun posa una mano sulla vecchia maglietta di Atsushi. Sorride. “La seconda cosa è che credo che tu non sappia riconoscere l’affetto che ti viene dato, quindi ti devo dire che io ti considero mio amico e che ti voglio bene.”

“Anche io ti voglio bene!” esclama senza perdere un secondo Atsushi, raddrizzando la schiena e girandosi a guardare Tanizaki-kun. Sente le guance diventargli rosse, perché non ricorda di averlo mai detto a Tanizaki-kun, ma è sincero, prova davvero un profondo affetto per lui. Doveva dirglielo prima, forse.

“Okay. Quindi. Se non sei sicuro di che cosa prova Akutagawa per te, perché non gli spieghi che cosa sta succedendo e non glielo chiedi direttamente?”

Atsushi deglutisce. Torna a fissare il cemento sotto di loro. Perché -lui aveva sempre fame e più mangia meno si sazia. Più ha meno è contento. Più riempie meno si sente.

Tanizaki-kun chiude le mani in due pugni. Stringe i gomiti. “Combatti, Atsushi!” lo incita. “Sono sicuro che andrà tutto bene. E se Akutagawa ti rifiuta, troveremo qualcun altro e io tirerò un sospiro di sollievo, perché passare con lui i fine settimana di Cluedo mi sembra una delle cose peggiori che potrebbe mai succederci.”

Atsushi sbuffa una risata. Tanizaki-kun ride insieme a lui.

 



Atsushi sta seduto davanti ad Akutagawa, con le ginocchia unite e giocherellando con le mani. Tiene lo sguardo basso. È stato lui a dirgli di venire fino a casa sua, perché voleva parlare. Ora come minimo dovrebbe parlare. O almeno fare qualcosa. Dovrebbe dire qualcosa come ehi, Akutagawa, ho avuto una rivelazione in queste settimane e ho pensato di parlartene, perché credo che potrebbe cambiare il tipo di rapporto che abbiamo. Vorresti ascoltarmi? Ma dire una cosa del genere ad Akutagawa… Atsushi stringe i denti. È un po’ una rottura essere in una posizione del genere con Akutagawa.

Akutagawa si alza in piedi e Atsushi allunga la mano e lo tira di nuovo giù, seduto, un po’ più vicino a lui, questa volta. Se ne voleva di sicuro andare. Ma Atsushi non ha ancora detto nulla, quindi come minimo dovrebbe almeno aspettare. No? È strano che Akutagawa abbia accettato di venire in casa sua, ora che ci pensa. Forse crede che Atsushi lo abbia chiamato per un incontro casuale di… Atsushi sente la faccia diventargli calda e lascia andare la giacca di Akutagawa, che sbuffa, incrociando le braccia.

“Cos’è che vuoi?” gli sbotta contro, girandosi verso di lui. “Stringi i tempi, ho cose da fare.”

Atsushi non pensa che Akutagawa abbia qualcosa da fare. Lavora dagli Izumi solo part-time, passa la maggior parte delle sue giornate dietro a Dazai-san, nella speranza di -bah. Atsushi non ha nemmeno mai capito il rapporto che questi due hanno. Sembra che Dazai-san abbia salvato Akutagawa e Gin da qualcosa. Sembra che per questo Akutagawa non riesca a toglierselo dalla testa e che voglia in un qualche modo essere visto da lui. Pensieri infantili. Atsushi vuole davvero avere a che fare con un tipo del genere? Muove un po’ il mento, guarda verso il soffitto, per pensare. Vuole davvero…?

Akutagawa sospira con pesantezza, tirando indietro la testa, per mostrare tutta la sua impazienza. Cafone.

“Lo sapevi che alla fine i dolci non sono un afrodisiaco?” sputa senza pensare. “Sembra, anzi che riduca il desiderio sessuale. Non -cioè, non è che stessi facendo delle ricerche, è solo che mentre stavo leggendo… uhm. Sono andato in biblioteca questa settimana. Non avevo mai avuto il tempo di farlo, ma Fukuzawa-san ha detto che aveva bisogno di andarci e io lo devo accompagnare fino a quando Yosano-sensei mi dice che devo farlo e siamo rimasti lì per un po’ e mi ha detto: puoi fare quello che vuoi. Quindi mi sono messo a leggere e per caso mi è capitato di leggere questa cosa. Scientificamente, i preti dicevano un sacco di cazzate.”

Akutagawa rilassa le spalle, distoglie lo sguardo. “Chi lo avrebbe mai detto.” Atsushi non sa cosa rispondere. Rimane seduto con le mani unite sulle cosce. Akutagawa ruota gli occhi. Apre la bocca e poi la chiude. Atsushi vede, con la coda dell’occhio, come si sta mordendo le guance. Apre di nuovo la bocca, per dire qualcosa. Poi la chiude. E okay. Adesso lo sta davvero incuriosendo ad Atsushi. “Le costole” dice alla fine Akutagawa, ruotando gli occhi.

Atsushi si tocca il lato del petto. Le costole non gli fanno male da un po’, ma Yosano-sensei dice che ha bisogno di ancora qualche settimana di riposo. Si è anche presa la libertà, ha detto, di prendere un appuntamento per controllare lo stato delle ossa di Atsushi e vuole controllare il motivo per cui, pur avendo cominciato a mangiare tre pasti abbondanti più due merende, non riesce a prendere peso e, anzi, ha perso due chili, scendendo a cinquanta. Eppure a lui sembra di stare bene. Quindi risponde: “Stanno bene.” Aggrotta le sopracciglia. Sono stato il motivo per cui Akutagawa si era fermato, un mese e mezzo fa, ora che ricorda. Le costole. Aveva posato la mano sulle sue costole e aveva detto: ti fa male. Non era nemmeno una domanda.

Stanno seduti, uno accanto all’altro, in mezzo al monolocale di Atsushi. È stato Atsushi a chiamarlo qui. Voleva parlare e ora non trova il coraggio di farlo. E Akutagawa ha risposto ed è venuto fino a qui. Magari dovrebbero fare qualcosa con questo tempo, invece che starsene in silenzio.

Atsushi abbassa lo sguardo. Continua a pensare a quel momento in cui erano dietro al negozio degli Izumi e aveva sentito una fitta, ma non aveva fermato il loro bacio. Continua anche a pensare a quel momento di mesi fa, quel lunedì dopo un fine settimana passato in isolamento. Atsushi aveva posato la testa sulla spalla di Akutagawa e l’aveva trovata spigolosa e gli era quasi sembrata inospitale. E non se n’era reso conto, in quel momento, ma Akutagawa stava trattenendo il respiro. “Senti Akutagawa” gli inizia a dire, posando un gomito sul tavolino e poi la guancia sulla mano. “Ma io ti piaccio, per caso?”

Akutagawa fa una smorfia. “Che cosa?” gli chiede. Ha la bocca aperta e sembra essere sorpreso.

Atsushi inclina la testa, mostra il collo. Non voleva chiederglielo. Nel senso, non era questo che gli voleva chiedere, perché lo ha chiamato qua per parlare dei suoi sentimenti, certo non di quelli di Akutagawa, ma sta mettendo insieme dei punti. Piacere e affetto, come già sa, non vanno sempre a braccetto. Akutagawa, per qualche motivo, è sempre scortese, sempre scontroso, quindi per vedere i suoi momenti di gentilezza ci si deve mettere dei buoni occhiali e controllare i suoi movimenti momento per momento. Akutagawa è gentile con sua sorella. La tratta bene. L’ascolta sempre. Akutagawa è stato attento alle ferite di Atsushi, ha sempre provato a rendersi il più ospitale possibile, nei loro momenti di intimità. È sempre attento. Ricorda anche le cose più stupide. Si rende conto delle emozioni di Atsushi in fretta. Forse Akutagawa -può essere che Akutagawa in un qualche modo si sia affezionato ad Atsushi? E se è così, in che modo? E gli piace Atsushi? Sembrano cose importanti da sapere.

Akutagawa ruota gli occhi e sembra volersi di nuovo alzare per andarsene, ma Atsushi è veloce, lo afferra di nuovo dalla giacca e lo tira verso il pavimento, usando il peso del suo corpo per riportarlo giù. Questa volta non gli lascia andare la giacca. Rimane ben aggrappato con una mano, per non farlo scappare.

Non è che abbia voglia di sistemare qualsiasi sia il loro rapporto adesso. Non vuole nemmeno sentirsi dire da Akutagawa che gli piace, oppure sentirlo arrabbiato perché no, Jinko, hai proprio capito male, il mio unico desiderio riguardante te è di vederti o sotto terra o sotto di me. Frase che Akutagawa gli ha già detto, quando stavano mangiando insieme, qualche mese fa. Ed è divertente, come frase, perché Akutagawa non ha abbastanza forza fisica per uccidere Atsushi e Atsushi sta difficilmente sotto Akutagawa.

È una battuta che lo fa ridere. Atsushi non ha il controllo sul lato delle labbra che si piega verso l’alto. Deve guardare da un’altra parte, per evitare lo sguardo di Akutagawa. Lo deve star irritando parecchio. Beh, che importa? Ad Atsushi piace la faccia che Akutagawa fa, quando è irritato.

“Oi, Akutagawa” lo chiama, tirandosi in avanti. Quando Akutagawa gira la testa , ruotando gli occhi, Atsushi si avvicina quel tanto che basta per baciarlo.

Pensa che per oggi potrebbe bastare. Alla fine, è davvero tanto tempo che nemmeno si sfiorano e Akutagawa dovrebbe davvero andare a scaricarsi da qualche altra parte, visto che Atsushi non lo ha certo chiamato per andarci a letto. Qui, lui aveva intenzione di sistemare il macello in cui si sono cacciati, anche se è ancora confuso e anche se non ha idea di quanto di questo sia affetto, quanto sia piacere e quanto sia il desiderio di un qualsiasi tocco dopo i diciotto anni di isolamento in orfanotrofio. Akutagawa è pur sempre la prima persona in tutto il mondo, in tutta la sua vita, che lo ha toccato sul serio. Beh. Quindi. Atsushi è più confuso di prima, ma non ha la pazienza di non soddisfare i suoi bisogni. Poi, dei bisogni di Akutagawa se ne occupi lui. Non sono affari di Atsushi, comunque. Crede. Beh. Non sa. Non così tanto. E quindi cerca di tirarsi indietro, solo per sentire la sua testa acchiappata tra le braccia di Akutagawa, che lo spinge verso di lui.

Eh. Beh. Ecco. Chi è Atsushi per dire no, a questo punto?

 




Non è che Ryunosuke voglia incontrare questo Nakajima Atsushi. Anzi. Il contrario. Ryunosuke vive meglio la sua vita, ignorando l’esistenza di questo tipo. Ryunosuke vorrebbe che Nakajima Atsushi non esistesse, che non fosse mai nato. Ma purtroppo si ritrova a dover incontrare Nakajima Atsushi. Sotto richiesta di Dazai-san. Dazai-san gli ha detto: Atsushi-kun viene da fuori città e non ha molto tempo per conoscere bene qui intorno, mentre tu qui ci sei nato, lo conosci come i palmi delle tue mani, giusto? Quindi non sarà un problema portarlo nei posti che ci servono. Certo non lo posso lasciare a Ranpo-kun, non pensi? Ryunosuke non ha la più pallida idea di chi sia questo Ranpo-kun e non gli importa nemmeno saperlo. Deve incontrare quel Nakajima Atsushi, adesso. E deve anche passare del tempo con lui, a quanto pare.

Si trascina verso l’ascensore del palazzo, solo per poi rendersi conto che è rotto. Sbatte la fronte contro la parete. Vorrebbe davvero uccidere chiunque gli capiti tra le mani, adesso. Si aspettano che lui faccia le scale? Tutte quelle scale? No. Sbatte di nuovo la fronte contro la parete. Piuttosto preferirebbe morire.

Ci sono due o tre ragazzi all’entrata del palazzo. Un tipo alto, una tipa con la voce mielosa e un tipo che sembra uscito fuori da un programma di moda, in cui qualcuno chiede aiuto a dei tipi famosi per sistemare lo stile di un loro amico. Ryunosuke vede solo quella parte dei programmi. Non gli importa di vedere che cosa faranno al guardaroba di quel povero sfigato, gli importa vedere per dieci minuti buoni delle persone che dicono di voler bene a qualcuno vendere quel qualcuno e insultarlo su una rete regionale o nazionale. È divertente. Quel tipo dell’entrata potrebbe essere venduto dagli altri due in qualsiasi momento. Anche questo sarebbe divertente.

Akutagawa alza un lato delle labbra e poi sente come il suo petto si stringa e, per un attimino, sia difficile respirare. Tossisce due volte, portandosi la mano sulla bocca. Ugh. Non ci tiene a salire fino all’ufficio, ma non vuole nemmeno deludere Dazai-san.

Si passa una mano sulla giacca nera e prova a prendere un respiro profondo, che viene bloccato da qualsiasi cosa ci sia nei suoi polmoni e Ryunosuke si trova di nuovo a tossire.

“Tutto bene?” chiede il ragazzo vestito di merda. Senza preavviso con solo qualche balzo, si ritrova vicino a Ryunosuke, con la testa inclinata, per vedere la sua faccia. “Penso stia avendo un attacco di asma!” grida verso capelli di merda e voce mielosa, poi torna a concentrarsi su Ryunosuke. “Hai un tuo inalatore? O preferisci che andiamo a prenderne uno noi o... okay, no, giusto, tu mica puoi parlare, quindi direi che…” Cerca qualcosa nelle sue tasche, dandosi schiaffi sulle cosce e poi sul sedere.

Tsk.

Ryunosuke ruota gli occhi (attacco asmatico questo gran cazzo) e si passa la manica della giacca sotto il labbro inferiore. “Non sono fatti tuoi” dice e guarda il ragazzino davanti a lui alzare un sopracciglio e poi sbuffare una risata. “C’è un altro modo per salire fino all’ufficio dell’agenzia dei detective?”

“Sei un cliente?” chiede Atsushi. Porta dei guanti che non servono a un bel niente se non a far sudare i palmi delle mani e gelare le dita. Solo i deficienti si metterebbero dei guanti simili. “L’ascensore è fuori servizio, per ora. Entro domani sarà operativo, hanno detto. Avevi un appuntamento?”

“Atsushi” lo chiama capelli di merda. Atsushi? Come Nakajima Atsushi? “Quello è Akutagawa.”

Nakajima Atsushi inclina un po’ la testa ed è la prima volta che lui e Ryunosuke si guardano negli occhi. È la primissima volta che si incontrano, la primissima volta che si vedono. Nakajima Atsushi sbatte le palpebre. Ryunosuke lo studia dalla punta dei capelli, che sono stati appena tagliati, male, con un buco sulla tempia e diverse lunghezze sulla nuca e sui lati, alle scarpe, che sembrano essere sul punto di bucarsi. Come aveva pensato Ryunosuke prima di incontrarlo, Nakajima Atsushi è una feccia dell’orfanotrofio e si nota a occhio nudo. Eppure, guardandolo per la prima volta all’entrata dell’edificio della sua agenzia, davanti a quell’ascensore rotto, Ryunosuke ha aggrottato le sopracciglia e ha capito quello che voleva dire Dazai-san.

Nakajima Atsushi ha il viso di una persona tanto amata. O che potrebbe essere tanto amata.

Ryunosuke infila le mani nelle tasche della giacca e schiocca la lingua. Certo. Lo capisce adesso, purtroppo. Chiude le mani in due pugni. Lo capisce.

“Mi ha guardato e ha schioccato la lingua” dice Nakajima Atsushi, girandosi verso capelli di merda. “Sul serio?

Ryunosuke non risponde. Si tira indietro. Esce dall’edificio. Lo capisce. Avrebbe preferito non capire quello che Dazai-san voleva dire, ma adesso capisce e lo odia. Lo odia tantissimo Nakajima Atsushi, per questo.



 

 

  
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