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Autore: _ki_    28/08/2009    1 recensioni
"Mi ha raccontato di aver visto un bosco, molto simile al bosco vicino al paese, in cui ora io sto morendo, ma con molte più foglie e con una luce stranamente rossa. Mi ha detto di aver seguito un orso, che poi si è scansato per mostrarle l’immagine di me, disteso tra le foglie rosse del mio sangue, gli occhi spalancati e un’espressione di terrore dipinta in volto. Guardava la mia fronte macchiata di sangue, le braccia aperte come a chiedere un ultimo aiuto dal cielo, lo sguardo vitreo." In fondo anche Emmett aveva una famiglia, no? Ed ecco la sua famiglia, con i suoi amici, la sua casa... e poi il giorno cruciale. Il giorno della sua morte. Ma anche il giorno della sua rinascita. Spero possa piacere, e le recensioni sono sempre gradite! ^_^
Genere: Generale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Emmett Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il giorno che mi cambiò la vita

 

9-10 luglio 1935

Mi porto una mano ai capelli appena accorciati. Li sento ancora estranei, come non appartenessero al mio corpo, ma so che è solo un’impressione e presto mi abituerò. Ciò che mi duole notevolmente, dopo questo improvviso cambio di acconciatura, è il modo in cui si prende gioco di me Aberforth. Comprendo che possa essere geloso del successo che riscuoto tra le fanciulle del paese, ma non credevo trovasse così tanto interesse nel rendermi ridicolo in qualsiasi occasione. Questo è l’unico vero motivo per cui aspetto con ansia la ricrescita dei miei meravigliosi capelli color della pece.

Mi specchio incerto sull’acqua cristallina del ruscello appena a est del paese dove con la mia famiglia vivo dalla nascita. Il riflesso che lo specchio cristallino rimanda è il volto di un bel ragazzo adulto, i capelli scuri che cadono in riccioli scomposti sul viso, gli occhi di un incredibile blu oceano che mi rende estremamente fiero e il viso di un ragazzo che diventa uomo. Devo ammettere, anche se con estrema riluttanza, che questo taglio di capelli mi rende più affascinante di quanto già non sia.

Allungo un braccio verso lo specchio d’acqua, che al mio minimo tocco s’infrange creando piccole onde circolari che si propagano per una breve distanza. Ritraggo il braccio con la mano grondante acqua. L’avvicino al viso e mi disseto con un certo sollievo: per essere appena incominciata, l’estate appare molto calda rispetto a quelle passate.

“Se dipendesse da te, passeresti il resto della tua vita al fiume” risuona la voce di Miren, chiara alle mie orecchie. Sorrido tranquillo, distendendomi sulle pietre chiare che fanno da sponda a questo ruscello. Abbasso le palpebre per un secondo infinito e mi abbandono allo scrosciare tranquillo dell’acqua contro il letto pietroso del fiume.

Sento delle pietre scricchiolare lievemente quando Miren si accomoda al mio fianco.

“Ti senti così bene in questo luogo, fratello?”

Sorrido, volgendo il mio sguardo verso la ragazza. Ha la carnagione scura, come dev’essere la carnagione di una fanciulla che, incurante dei suoi doveri verso la madre, passa le sue giornate a esplorare i boschi non lontani dal paese.

“C’è aria pura e non disdegno il suono melodioso del fiume” è la mia semplice risposta, poco più di un sussurro e meno di un’esclamazione. Anche Miren si abbandona ad un sorriso.

“Aberforth ti cercava. Così nostra madre. Come me, anch’ella non comprende la tua avversione verso il paese”.

“Non ho alcuna avversione verso il paese. Semplicemente, preferisco i boschi. Come, d’altro canto, mi pare li preferisca tu”.

Il suo sguardo, prima di leggera derisione, ora si riempie di felicità.

“Forse posso darti ragione. Devo dunque riferire a nostra madre che rientrerai in paese solo verso il volgere del tramonto?”. La sua espressione da bambina cattura un altro mio sorriso. Miren ha quindici estati, ancora, ma dimostra la maturità di una donna di venti, anche se dal corpo si capisce la sua dolce immaturità.

“Credo che sia questo ciò da dirle. E, ti prego, non dire ad Aberforth dove mi trovo, per un giorno preferirei stare lontano dalle sue derisioni”. Le strizzo un occhio, un sorriso che increspa le mie labbra. Miren non può fare a meno di ricambiare.

“Non ti preoccupare, Emmett, con me il tuo segreto è al sicuro” e dette queste poche parole, mi scruta ancora un attimo con i suoi grandi occhi blu e si volge verso gli alberi, che l’accompagneranno per un breve sentiero fino a casa. Non ho paura a lasciarla andare da sola, sono più che convinto di avere una sorella con un buon orientamento e anche un certo buonsenso. La vedo dunque sparire tra il folto della foresta con un ultimo, aggraziato svolazzo della veste color del cielo.

Mi abbandono dunque alla musica del fiume, chiudendo le palpebre e portando le braccia dietro al capo, creando così un cuscino provvisorio per la mia nuca.

Ho scoperto da poco la presenza di una nuova fanciulla, in paese. L’ho incontrata poco tempo fa al mercato, mentre accompagnavo Ariana e Miren, stranamente silenziosa, a comprare alcuni ingredienti utili a nostra madre per la cena. Eravamo alla ricerca di pesce, quando è spuntata questa ragazza quasi dal nulla, in compagnia di altre due fanciulle che conosco molto bene. La fanciulla mi ha guardato, abbracciando con lo sguardo tutto il mio corpo, come a voler valutare la mia bellezza. Poi, con un sorriso raggiante indirizzato al sottoscritto, si è voltata verso le sue due amiche e ha incominciato a confabulare cose che, tra il caos del mercato, non sono riuscito a cogliere.

È una bella ragazza. Ha la pelle chiara, di chi non esce molto spesso di casa, il viso dai lineamenti gentili e i capelli color del grano maturo. E ha anche uno sguardo penetrante, che in poche fanciulle sono riuscito a scorgere durante la mia modesta vita. Credo che anche questa nuova ragazza si sia infatuata di me, come d'altronde metà della popolazione femminile del paese. Non me ne dispiaccio, ci sono fanciulle molto carine nel semplice paesetto in cui vivo.

Ridacchio mentre ricordo che Aberforth, di due estati più vecchio di me, si dispiace molto spesso di questa mia popolarità. E mi diverte notevolmente vederlo fumante d’invidia mentre, durante una delle nostre passeggiate per conto di nostro padre, una fanciulla si ferma a guardarmi maliziosamente. Devo ammettere che è un toccasana per il mio orgoglio.

Ricordo con un certo piacere due giorni fa, quando, in compagnia del mio fratello geloso e Miren, mi sono presentato davanti alla soglia di casa dei nostri vicini per chieder loro un favore da parte di mia madre. La figlia dei coniugi Pilcher è una ragazza di appena quattordici estati, ma non appena ha posato i suoi occhi scuri su di me ha incominciato a lanciarmi occhiate maliziose e sguardi accattivanti. Non sono riuscito a contenere le risate mentre vedevo mio fratello furente di rabbia. Lui -che per sua innata sfortuna ha ereditato i capelli rosso fuoco e ricci più di un nido di uccello di mio padre- non attira molto l’attenzione, come invece il sottoscritto riesce a fare. Inoltre, con la sua aria da severo intellettuale, dubito fortemente che molto presto anche una sola ragazza possa posargli gli occhi indosso. Al contrario mio, che a detta di alcuni occupo i sogni di molte fanciulle del paese.

Scappa un’altra risata.

Passo il resto della giornata così, ha ridere delle sceneggiate di gelosia di mio fratello, a riempire lo stomaco dei volatili che tranquilli mi si avvicinano -poco tempo fa, mentre un pettirosso grande come il palmo della mia mano mi si avvicinava tutto tranquillo, Miren ha scherzato dicendo che anche gli uccelli mi venerano, scatenando così un’altra sfuriata da parte di Aberforth- e a dissetarmi con l’acqua limpida del fiume.

Arriva il tramonto che sono comodamente seduto sulla riva sassosa ad accarezzare un castoro che, particolarmente incuriosito dal raduno di volatili, si è avvicinato in cerca di cibo. Ha il pelo fulvo e morbido come i capelli di Ariana. I denti che fanno bella mostra di sé sulle labbra di questo magnifico animale luccicano mentre l’astro dorato del giorno lascia posto a quello argenteo della notte.

“Mi dispiace amico, ma Miren mi ha intimato di ritrovarmi a casa al calar del sole, e certo non posso attardarmi. Ti auguro, mio piccolo amico, di non vedere mai mia sorella arrabbiata” dico con un sorrisino compiaciuto sul volto. Il castoro mi guarda mentre mi alzo e mi sgranchisco le membra indolenzite. Poi, dopo che gli lancio un’ultima occhiata fugace, capisce che non potrò restare ancora con lui a ‘chiacchierare’ e si allontana sgambettando fiero. Mi avvio dunque verso la strada di casa.

“Emmett!” mi accoglie la voce cristallina di Ariana non appena varco la porta d’entrata di casa.

“Ciao peste” saluto prendendola in braccio. La bambina -di appena dieci estati- ride con la sua tipica risata cristallina e mi scocca un bacio in guancia.

“Incominciavo a preoccuparmi fratello. Ma infondo, dovevo ricordare che sei famoso per i tuoi ritardi” risuona la voce di Miren. Guardo oltre il corpicino di Ariana e le sorrido. Questa mi guarda per un attimo, trafiggendomi con il suo sguardo blu notte, quindi si volge verso nostra madre, appena spuntata dalla porta della cucina.

“Sono delusa, figlio mio. Credevo che ancora un po’ di buon senso albergasse nella tua testa. Quando una madre chiama, il figlio deve rispondere. Mi ferisce questa tua ostinazione a non ascoltare le persone” mi dice, ma il suo sguardo sorride.

“Mi dispiace madre. Cercherò di farmi perdonare”.

“Bene, è quello che volevo udire. Vieni in cucina, apparecchia la tavola per una persona in più. Questa sera viene a cena da noi un amico di tuo padre” e sparisce di nuovo in cucina. Aggrotto le sopracciglia in direzione di Miren, che alza le spalle con non curanza.

“Chi sarebbe l’amico di nostro padre?” chiedo, facendo scendere dalle mie braccia Ariana.

“Un collega. Viene dalla città. Porta notizie importanti di lavoro, credo voglia discutere con nostro padre su un nostro possibile trasferimento vicino alla casa dove lui abita con la moglie e le due figlie. Dice che pagano molto meglio in città” e noto dal suo sguardo che porta rancore a questa persona sconosciuta.

Non posso biasimarla, so quanto adora il paese in cui viviamo e come disapprova i cambiamenti. In fondo, neanch’io mi sento particolarmente soddisfatto di questa notizia. Adoro il nostro umile paese e le città caotiche non le tollero volentieri.

“Per me dovrebbe ritornarsene alla sua città. Noi vogliamo restare qui e non interessano a papà le offerte di lavoro che quest’uomo ci porta” borbotta Ariana, mostrando il suo appoggio. Le sorrido.

“Non dire queste cose, oggi. Tienile per te. Anche se, devo ammetterlo, hai tutto il mio sostegno” e le scompiglio i capelli fiammeggianti. Ariana mi sorride e sparisce verso le camere da letto, dove so che incontrerà Aedan e gli spiegherà quello che è stato detto.

“Aberforth non è ancora rientrato in casa?” domando a Miren. Questa, dopo aver lanciato uno sguardo oltre i vetri della finestra, scuote la testa pensierosa e si allontana senza aggiungere altro.

Mi avvio così, un po’ sconcertato, verso la cucina, dove un buon odore si espande e mi solletica le narici.

“Cosa cucini?” chiedo a mia madre, voltata di spalle.

“Qualcosa di accettabile per un uomo che ha fatto tanta strada” è la sua risposta.

Alzo le spalle ed incomincio ad apparecchiare la tavola per otto. Stento a credere che in un tavolo così piccolo possano mangiare tante persone, ma non faccio commenti e in poco tempo mi ritengo libero di potermi rifugiare in camera da letto.

Mi allontano dunque dai profumi dolci della cucina e vado in cerca della stanza di Aedan, il mio fratellino più piccolo, di appena cinque estati. Entro in camera sua che sento la voce trillante di Ariana. La mia sorellina è seduta sul duro pavimento di pietra e sta giocando con il piccolo Aedan ad un gioco con i sassi. Ne ha in mano proprio in questo momento uno tondo e dal colorito molto scuro.

“Ciao piccoli. Lo sai, Aedan, che non devi distenderti sul pavimento, giusto?” chiedo, una nota di divertimento nella voce a guardare quel bambino piccolo e minuto che tanto mi assomiglia, disteso a pancia in giù sul freddo suolo, a guardarmi con i suoi occhi incredibilmente blu e il suo visino tutto paffuto.

“Certo capo” esclama, ma non accenna a muoversi.

Sbuffo con finto nervosismo e mi siedo accanto al piccolo.

“Vostra sorella?” chiedo, immaginando già la loro risposta.

“In camera sua, immagino”.

“Ovviamente” commento, ironico. Noto che ora mi guardano e non giocano più.

“A cosa stavate giocando?”

“Aedan voleva costruire una torre di sassi. Io gli stavo spiegando che con questi sassi a forma di uovo la torre crollerebbe subito. Non mi crede” borbotta Ariana, e capisco dal suo tono di voce che è dispiaciuta della poca fiducia che il fratellino ripone in lei.

“Dai, vediamo. Prova a fare questa torre, Aedan” dico allora, incitando il bambino con lo sguardo. Vedo Ariana gonfiare le guance e incrociare le braccia, offesa. Allora le sorrido e volgo il mio sguardo di nuovo sul piccolo Aedan. Questi, la lingua tra i denti in un’espressione di concentrazione, ha messo un sassolino abbastanza piatto per terra e ora sta poggiandoci sopra un secondo sasso, molto più rotondo rispetto al primo.

Quando, però, abbandona l’oggetto contro il sasso piatto, il sasso tondo scivola sulla superficie liscia del primo sasso e cade a terra con un rumore soffocato. Vedo Ariana sorridere, trionfante.

“Io che avevo detto?”

“Forza Aedan” dico, cercando di trattenere il sorriso alla vista di Aedan tutto deluso. “prova ancora”.

Aedan poggia un altro sasso, un po’ più piatto del precedente, sul primo sasso e questa volta -Ariana sbuffa infastidita- riesce a farlo star in equilibrio.

Rido senza freni.

“Avanti Aedan. Il prossimo” e, per non far arrabbiare la mia sorellina, le regalo un occhiolino. Ma Ariana volta il capo e gonfia ancor di più le guance, sembrando così una gallina particolarmente paffuta.

Aedan prende il sasso che per primo era scivolato sul pavimento e lo poggia sui primi due sassi. Come previsto da Ariana, il sasso cade trascinandosi dietro anche quello che era riuscito a star fermo.

Così il mio fratellino continua per qualche tempo ad ammontare sassi su sassi, arrivando così alla conclusione -non senza molta riluttanza- che probabilmente Ariana aveva ragione.

In quel momento entra Miren.

“La cena è pronta. Porta Aedan e Ariana a lavar le mani, Emmett” dice, e chiude nuovamente la porta.

Mentre mi alzo e aiuto Aedan a far altrettanto, mi rivolto ad Ariana.

“Miren ha avuto problemi quest’oggi?”

La bambina ci pensa su.

“Credo abbia parlato con Delmar. Hanno avuto una discussione, a quanto so. Miren era molto arrabbiata quand’è rientrata in casa”.

Annuisco, soprappensiero, mentre porto i miei due fratellini a sciacquarsi le mani.

Delmar è un vecchio amico di giochi di Aberforth e, si sa da molto, fa la corte a Miren. Lei non l’ha mai voluto, ma stando lui continuamente nelle vicinanze di mia sorella sono divenuti in qualche modo amici. Se hanno avuto una tale discussione da far arrabbiare Miren, allora Delmar deve aver fatto qualcosa di sciocco.

Quando entriamo in cucina il profumo che prima era solo una brezza permea tutta la stanza. Al tavolo sono seduti Aberforth, Miren, nostro padre e un uomo che dev’essere l’amico di cui ha parlato Miren.

Mi siedo di fronte proprio a quest’uomo, così che ho il permesso di guardarlo senza sembrare invadente. Noto che ha il viso rigato dall’età, molto più di quello di mio padre. In compenso, ha due occhi azzurri come l’acqua più cristallina. Mentre incrocio il suo sguardo mi sento quasi in soggezione a fissare quegli occhi tanto chiari, tanto che distolgo velocemente i miei occhi.

Si presenta a noi come Joseph Cavendish. Ha una voce profonda e lenta, dello stesso suono di una musica lontana dal tempo.

A contrario di come la mia mente l’aveva figurato, sembra un uomo tranquillo e posato, che pensa molto alla salute di mio padre e che crede seriamente in un beneficio nel trasferimento nostro in città. Da come lo guarda Aberforth, capisco che la pensa al mio stesso modo. E anche incrociando gli occhi di mio padre percepisco il mio stesso pensiero in lui. Forse ci sarà un nuovo trasferimento tra qualche giorno.

 

All’alba del giorno dopo la cena con Joseph Cavendish sono già in piedi a guardare fuori dalla finestra della camera che divido con Aberforth. Mio padre è sembrato molto deciso sul fatto di volersi trasferire e le continue suppliche di Miren non sono servite a nulla. Il risultato è che, molto probabilmente, tra una decina di giorni saremo in viaggio per la città. Miren, dopo una discussione animata con nostro padre, è uscita dalla cucina sbattendo la porta e si è chiusa in camera sua e di Ariana. Nessuno è riuscito a parlarle e la porta è stata aperta solo per far entrare Ariana a dormire. Ho il sospetto che non rivolgerà più la parola né a nostro padre né ad Aberforth, che durate la discussione ha costantemente sostenuto la parte di nostro padre. Forse proverò a parlarle io, in questa giornata. Non è per vantarmi, ma credo di essere il suo preferito tra i nostri fratelli. Sarà, forse, perché abbiamo solo due estati di differenza e ci comprendiamo più di altri.

Sento distintamente mio fratello mugugnare qualcosa di insensato. Mi volto e lo trovo ancora immerso nel mondo dei sogni. Ha un’espressione tranquilla, quando dorme, molto più angelica della sua espressione da sveglio. Forse devo dire di preferirlo immerso nel mondo dei sogni...

Cercando di far il meno rumore possibile, esco dalla stanza e mi dirigo verso la cucina. Lì trovo mia madre che, come molte delle volte che la guardo, cucina. Mi rivolge un saluto stanco e non alza il volto dal suo elaborato.

Mi siedo così alla tavola e la guardo mentre taglia delle fette di pane scuro. Da piccolo mi piaceva passar la giornata a guardarla cucinare, osservare il modo in cui si aggirava tranquilla tra i fornelli e tagliava le varie pietanze con dimestichezza, senza mai ferirsi. Quest’oggi, mentre la guardo, mi sembra di ritornar bambino.

Passano alcuni minuti e poi la porta si apre, svelando il volto assonnato di Ariana.

“’Giorno” biascica, accasciandosi sulla sedia accanto alla mia.

“Buongiorno tesoro. Come mai sveglia di così buona mattina?2 chiede mia madre, volgendo finalmente lo sguardo lontano dal cibo. Ariana scuote il capo, poi si stropiccia gli occhi con le mani e mi fa un gran sorriso.

“E tu, Emmett, come mai sveglio già all’alba?”

Mi stringo nelle spalle e le sorrido di rimando.

“Pensieri, mia piccola Ariana. Molto pensieri per la testa” è la mia risposta.

“Vediamo che non ti scoppi la testa, allora” giunge una voce alle mie spalle. Voltandomi vedo il volto da bambina di Miren.

“Buongiorno anche a te, Miren. Ancora rabbuiata per ieri sera?”

La risposta di mia sorella è una linguaccia.

“Miren, su. Non fare quella faccia, vieni qua ad aiutarmi, piuttosto” dice mia madre, di nuovo rivolta al suo cibo. Miren, dopo avermi lanciato un’occhiata che significava con buone probabilità ‘salvami, ti prego’, si avvicina a nostra madre e incomincia -di malavoglia- ad aiutarla.

Passano ancora attimi di silenzio, in cui Miren posa sul tavolo, davanti a me ed Ariana, una tazza di latte e delle focacce.

Poi nostra sorella si siede accanto a me ed incomincia a mangiare, mentre anche nostra madre si riposa un attimo e beve un sorso di latte. Ariana beve tutta la sua tazza con un gran sorriso soddisfatto in viso e addenta una focaccia tutta pimpante.

Quando il sole è già alto in cielo io sono già uscito di casa al fianco di Miren -lei deve andare a comprare altro pane per nostra madre, mentre io mi dirigerò come mio consueto nei boschi per godere della poca aria pura che mi rimane prima di ricominciare il lavoro e bere ancora dal ruscello che tante volte mi ha visto affacciato alle sue acque.

“Ci vediamo stasera, Miren” la saluto mentre l’incrocio che dividerà le nostre strade si fa più vicino. La vedo storcere il naso.

“Non sperar troppo Emmett. Può darsi che venga a disturbare la tua quiete estiva anche prima del calar del sole” è la sua risposta mentre si allontana. Sorrido e scuoto il capo. So che farà proprio quello che ha detto.

*§*

Vedo l’enorme animale farsi sempre più vicino. Non ho possibilità di vincere contro la mole dell’orso, né una minima possibilità di fuga. Posso solo aspettare la mia morte, qui, acanto a questo albero dalla corteccia ruvida, chiudendo gli occhi e usando i miei ultimi attimi di vita per ripensare l’ultima volta ai miei familiari.

Il primo attacco dell’animale giunge presto, facendomi piegare così in due dal dolore. Mi scaraventa lontano dall’albero a cui ero inchiodato e l’impatto con il suolo mi toglie il respiro.

Si dice che nel mentre il corpo esala il suo ultimo respiro vien da pensare alla vita che si ha avuto e la ci si vede scorrere davanti come un fiume in piena. Ciò che i miei occhi vedono, però, oltre all’orso bruno pronto per un nuovo attacco, non è la mia vita che mi scorre davanti al viso.

Vedo il volto di Aedan, piccolo ma già consapevole di ciò che fa. Vedo il volto rigato dalle lacrime mentre i nostri genitori annunciano la mia morte. Vedo Ariana, accovacciata accanto a lui, fissare con insistenza il vuoto a lei di fronte, intenta a fare chissà quali pensieri su quello che le hanno appena comunicato. La vedo singhiozzare sommessamente, cercando forse di nascondere le sue debolezze come suo solito. Vedo Aberforth accanto a lei, una mano sulla sua spalla e l’altra a tenersi il viso. Vedo un brillio, in quella mano, forse la sua prima lacrima da che è venuto al mondo. Vedo i miei genitori abbracciati, il volto di mia madre affondato nella spalla di mio padre, il corpo che si muove in preda a singhiozzi che non riesce a reprimere, mentre mio padre, stranamente privo di espressione, le batte dei colpetti lievi sulla spalla. E infine vedo Miren, mentre torna a casa dopo avermi cercato insistentemente lungo le rive del fiume dove mai più metterò piede. La vedo chiedere spiegazione ai miei genitori, ricevere poche parole frammentate dai singhiozzi. Mentre la consapevolezza si fa spazio nella sua mente, la vedo urlare un “No” deciso, il cui eco si propaga per tutta la stanza in cui è radunata la mia famiglia. La vedo correre fuori di casa, incrociare qualcuno che le chiede spiegazioni, che lei non fornisce. La vedo correre di nuovo al fiume, guardarsi intorno, poi buttarsi sulle pietre chiare della riva e stare lì, distesa, a guardare il vuoto, mentre gli occhi piano piano diventano lucidi per le lacrime che vorrebbe trattenere.

L’orso sferra un nuovo assalto e, mentre torno a terra con una fitta al fianco, sento qualcosa di appiccicoso e caldo scorrermi lungo il viso, inumidirmi gli occhi, arrivare fino alle labbra. Sento l’odore dolce e ferroso del sangue, del mio sangue. E sento il ringhio eccitato dell’orso.

Sono strani i pensieri che mi giungono alla mente mentre l’animale sferra il suo attacco decisivo.

Penso ad Aberforth e Aedan, che quest’oggi non ho avuto il tempo di salutare, e al prossimo trasloco che aveva in mente di compiere mio padre. Si farà, o solo per causa mia disdiranno tutto? La mia morte farà restare la mia famiglia in questo luogo impregnato dei miei ricordi o li farà fuggire via, troppo scossi e addolorati per restare ancora dove le piante, il terreno, gli animali e le persone mi hanno visto crescere?

Poi penso a Ariana, che oggi non ho salutato come si deve perché avevo urgenza di discutere con Miren di ieri. Penso a mia madre, con cui ho litigato prima di uscire perché lei vorrebbe che dedicassi più tempo alla famiglia che alla foresta. Si sentirà in colpa per avermi lasciato uscire di casa che eravamo entrambi arrabbiati?

Il mio ultimo pensiero va a Miren. Mentre passeggiavamo per le strade, diretti in due luoghi diversi, mi ha raccontato il sogno che l’ha fatta star sveglia da notte fonda fino all’alba.

Mi ha raccontato di aver visto un bosco, molto simile al bosco vicino al paese, in cui ora io sto morendo, ma con molte più foglie e con una luce stranamente rossa. Mi ha detto di aver seguito un orso, che poi si è scansato per mostrarle l’immagine di me, disteso tra le foglie rosse del mio sangue, gli occhi spalancati e un’espressione di terrore dipinta in volto. Guardava la mia fronte macchiata di sangue, le braccia aperte come a chiedere un ultimo aiuto dal cielo, lo sguardo vitreo.

Quell’immagine di me da morto, mi ha raccontato, l’ha tormentata per tutto il giorno, distraendola perfino dalla litigata con nostro padre. Ora, che saprà di aver sognato proprio quello che è accaduto, cosa penserà di se stessa? Si sentirà in colpa -assurdamente, vorrei aggiungere- per non avermi fatto restare in casa, al posto di farmi andare dritto in bocca alla morte?

Un ringhio riempie le mie orecchie. È strano, ma sembra diverso da quello della bestia che sta distruggendo la mia vita. Più... feroce, meno di desiderio.

Attendo con il sangue che mi cola dalla gola l’ultimo colpo decisivo che mi toglierà il respiro. Ma i secondi scorrono e, dopo aver sentito il tipico rumore di un peso morto che cade al suolo, incomincio a capire che il ringhio che ho sentito non era dell’orso propenso ad uccidermi. Forse, pensa il mio cervello prossimo alla morte, è un altro orso che mi vuole tutto per sé.

Ma ciò che mi solleva dal suolo, un attimo dopo questo pensiero, non sembrano per nulla le possenti zampe di un orso affamato. Sembrano, invece, delicate braccia di un uomo. Molto delicate, dal modo in cui mi prendono con loro con leggerezza e attenzione.

Mentre apro gli occhi in un ultimo disperato tentativo di individuare la persona che mi vedrà morire, il sole sfugge alle fronde voluminose degli alberi e illumina il mio volto. E così si mostra alla mia vista affaticata chi mi ha salvato la vita.

È una donna, la carnagione chiara, i capelli dello stesso colore dei raggi di sole e due profondi, penetranti occhi scuri.

È un angelo, pensa la mia mente morente. E le do ragione.

L’ultima cosa che vedo, prima di lasciarmi abbandonare all’oblio che mi reclama, è il mio angelo che mi porta in cielo con una velocità che avrei creduto impossibile. Finalmente, dopo questa visione, sono sicuro di aver visto tutto quello che c’è da vedere al mondo. Ma non so ancora quanto mi sbaglio...

   
 
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