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Autore: seventhe    28/08/2009    2 recensioni
Lei sapeva esattamente cosa l’avesse portato a tanto. Il bianco non è, a quanto pare, il colore della speranza.
Tifa, Vincent, e quello che significa andare avanti.
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tifa Lockheart, Vincent Valentine
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno | Contesto: FFVII
- Questa storia fa parte della serie 'Warming Up'
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Nota dell’autrice: Questa fanfiction fa parte di Warming Up, che è una serie di one-shot su diverse coppie di Final fantasy VII. Il titolo si riferisce tanto a (1) persone che si scaldano a vicenda quanto a (2) seventhe che si riscalda in un altro fandom prima che quello di FFVIII la inghiottisca del tutto. Inoltre, qualcuno una volta disse: “la brevità è l’essenza dell’ingegno”. Beh, di sicuro non si stava riferendo a me…
Attenzione: l’intero proposito di questa fanfiction è tentare di portare i personaggi un pochino oltre i loro stereotipi*. Non venitevene a strillare ‘OMFG OOC’ da me perché non ascolterò, e anche perché sembrereste dei cretini.
NdT:*Per "stereotipi" seventhe intende chiaramente gli stereotipi del fandom anglofono. La fanfiction è ’OOC’ rispetto a quegli schemi, non rispetto al gioco originale. La storia è stata beta-letta per la prima volta da kar85, poi da caith rikku ed è infine stata faticosamente, non la ricordavo così difficile o.o controllata un’ultima volta dalla traduttrice, che sarei io XD
Non dubito che possa essermi sfuggito qualcosa, comunque, quindi nel caso mi farebbero molto piacere eventuali segnalazioni <3



(in)

Tifa Lockheart - normalmente ottimista, allegra, ed etereamente altruista fino all’esagerazione - era in piedi sulla porta. Era a Nibelheim e faceva freddo. Non si sentiva ottimista, non si sentiva allegra, e (col pigiama sciupato e il naso che colava) vero quanto è vero Sephiroth non si sentiva eterea.

Tifa Lockheart tremava per il freddo, era orribilmente confusa, ed era potenzialmente, egoisticamente arrabbiata.

Vincent Valentine era steso davanti casa sua. Praticamente morto.

(01)

Non capiva come avesse fatto Vincent a sapere che lei era lì visto che non viveva neanche più a Nibelheim. La casa era sua, nominalmente, un regalo della sede di Nibelheim della Compagnia Shinra “Frode, Inganni & Imbrogli”. Ma Tifa non viveva lì; non viveva lì da anni, e non aveva certo intenzione di trasferircisi ora.

Era passato poco tempo dalla Meteora, forse mesi, e nel frattempo erano stati a Midgar, dove avevano scavato tra rovine, arti spezzati, edifici sventrati e pezzi della piattaforma, tutte macerie che ancora scintillavano di schegge di Meteora e linfa Mako. C’erano stati tutti, e per un periodo la morte, la disperazione e il tanfo - neanche la benedizione dell’Holy era riuscita a lavare il puzzo di una furiosa decomposizione dai cadaveri sporchi di Mako - erano stati una battaglia più dura dell’ultima al Northern Crater.

Adesso abitava a Midgar. Viveva fondamentalmente da sola. Anche Barret si trovava a Midgar; era diventato il rumoroso, chiassoso e incazzato capo nero di un’organizzazione di salvataggio che lavorava tra i resti delle macerie e raccoglieva soldi per gli orfani della Meteora. Tifa aveva fatto parte della sua squadra finché erano rimasti gli altri dell’AVALANCHE. Ora che tutti se n’erano andati aveva deciso di aprire un nuovo bar.

Il loro campo a Midgar era diventato uno pseudo-sobborgo: un posto dove pranzare per le famiglie che volevano tornare per chiudere i conti e rendere omaggio alle macerie morenti. La gente stava tornando - non per sempre, perché chi mai l’avrebbe fatto? Ma chi aveva lasciato i frammenti del proprio passato tra le ceneri di Midgar stava tornando per un ultimo sguardo. Tifa pensava che i poveri abitanti dei bassifondi meritassero un posto accogliente per farlo: un posto dove trovare buon cibo, un bar ben fornito, e una spalla su cui piangere mentre si lavavano le scintille di Mako dalle mani sporche e andavano avanti.

Aveva già deciso di chiamarlo The Great Gospel. Barret diceva che era troppo religioso per un’impresa basata sull’alcol, ma lei non gli dava retta. Voleva chiamarlo così per Aeris, perché gestire il bar era una di quelle cose che avrebbero potuto fare insieme: l’angelo Aeris che curava le piaghe dell’anima e Tifa che sorrideva e preparava un Martini forte per le ferite che neanche gli angeli potevano rimarginare. La bella, eterea Aeris, che era tutto quello che esisteva di bello e puro e tutto quello che avevano perso e tutto quello che di notte, al buio, divorava lo stomaco con un non avremmo potuto fare qualcosa?

Il bar sarebbe stato un semplice bar, ma ci sarebbe stato anche un caffè, e il caffè avrebbe avuto dei fiori: i morbidi e graziosi fiori bianchi della chiesa, quelli grossi, luminosi e sgargianti di Wutai, i minuscoli fiorellini medicinali di Cosmo Canyon che neutralizzavano il veleno. Sarebbe stato quello il vero Great Gospel. Avrebbe portato il pianoforte, l’unico ricordo che voleva di quella dimora distrutta, e magari qualcuno sarebbe venuto a suonarlo.

Ancora non sapeva come avesse fatto Vincent a ricordarsi che quella era casa sua (ci era mai stato?) o come avesse fatto a sapere di dover andare da lei. Non aveva detto a nessuno dove sarebbe andata. Il destino era una cosa strana - forse l’aveva vista entrare, o aveva visto le luci accese, o qualcosa del genere?

Tifa non aveva mai avuto alcuna intenzione di tornare a Nibelheim: faceva troppo male. Stava tagliando tutti i legami con il paese, tutti i legami col passato e con Cloud e con tutto quello che aveva dovuto ricordare. Vedere Vincent l’aveva irritata, perché era già pronta e preparata e stava andando avanti, via da lì una volta per tutte, via dal passato, Troppo Lontano Addio Niente Cartoline Grazie.

Comunque: non avrebbe mai detto di no ad un amico nel bisogno, e chissà come Vincent ne era consapevole; ed era andato da lei (in qualche modo, stranamente) per chiederle aiuto. Ed eccola lì, la Tifa schiavizzata e sorridente.

Non avrebbe dovuto essere lì. Era tornata solo per vendere la casa.

(02)

Due giorni e sette giri di incantesimi curativi dopo, Vincent si svegliò. L’incantesimo Life trovò finalmente qualcosa su cui far presa davanti agli occhi di Tifa, e fece veramente presa - il respiro di Vincent s’impennò, e i suoi occhi si agitarono un po’.

Aprì gli occhi. Uno squarcio di rosso e di nulla: Tifa ne aveva vista di disperazione in vita sua, ma mai le era sembrata così simile al vuoto. Le venne in mente che era un po’ spaventata, e quindi chiese: “Vincent, mi senti?”

I suoi occhi si concentrarono su di lei, lentamente, e ipnotizzata com’era da quello sguardo rosso riuscì ad accorgersi di un lampo di sorpresa. “Tifa?” Aveva la voce secca, un raspare insanguinato che contrastava con l’assenza di espressione dei suoi occhi.

Tifa lo zittì come se fosse uno degli orfani di Barret. “Andrà tutto bene, Vincent. Ti ho trovato fuori casa, grazie al cielo, e credo proprio che ti riprenderai. Le tue condizioni erano bruttine, ma tempo un paio di settimane ti sarai rimesso in sesto.”

Vincent non disse nulla. La luce nei suoi occhi si era offuscata, quasi scurita, e le palpebre lottavano per rimanere aperte. “Okay, Vincent, dormi un altro po’,” disse Tifa, la voce affievolita. “Mi prenderò cura di te.” Buffo, no, quanto velocemente ci si riesca a comportare di nuovo come ai vecchi tempi.

(03)


Tre giorni, quattro Full Cure, sette pozioni e un bagno dopo, Tifa scoprì la verità.

Aveva appena adagiato Vincent sul divano interrompendo l’incantesimo di levitazione che l’aveva aiutata a portarlo nella vasca. Non aveva aperto bocca da quando si era svegliato, perciò Tifa si stupì quando cominciò a parlare. Tra l’altro non era mai stato tipo da avviare le conversazioni, quindi c’erano due buoni motivi per rimanerne sorpresi.

“Tifa,” iniziò, la voce ancora asciutta, instabile e inelegante, proprio Vincent che mai era stato privo di eleganza. “Io - il tuo aiuto è apprezzato, ma è - inutile. Mi congederò dalla tua presenza e dalle tue cure quanto prima possibile.”

“Vincent, non fare lo scemo,” replicò, inserendo con un clic una fresca Cure Materia nel suo Premium Heart. “Non mi dai affatto fastidio. Sono molto felice di averti trovato in tempo. Non vivo neanche più qui, sai.”

“Lo so,” mormorò, e la sua voce era vuota quasi quanto i suoi occhi. “Lo so, Tifa.”

Lei sollevò il braccio per lanciare la magia, ma Vincent alzò la mano. “No,” disse. “Io non - io non lo merito.”

Sospirando con fare materno, Tifa si mise le mani sui fianchi e si lanciò in una ramanzina familiare. “Non essere sciocco. Qui non c’entra proprio niente quello che ‘meriti’, c’entra il fatto che voglio aiutarti. So che non lo vuoi, ma non fa niente.”

Allora lui la guardò, e bastò il vuoto di quegli occhi normalmente intensi per bloccarle il braccio in una strana posa difensiva diretta verso l’alto.

“Non lo avevi immaginato?” Il sussurro di Vincent la imprigionò, proprio come l’attiravano i suoi occhi. Il poderoso senso di colpa di Vincent e la sua voglia di redimersi e di vendicarsi li avevano sempre illuminati; quando si erano svuotati?

Tifa rabbrividì, suo malgrado, e chiese anche lei in un bisbiglio: “Vincent, cosa?”

Lui sospirò profondamente. “So che tu non vivi qui, Tifa. Lo sapevo. Ci contavo.” La sua voce era monotona, senza sfumature, vuota, non infelice o disperata. “Per questo ho scelto casa tua.”

Lei abbassò lentamente il braccio. “Scelto per cosa?” Era un bisbiglio.

La guardava fisso negli occhi, e si sentì tremare quando, sempre senz’alcuna emozione, Vincent le rivelò la verità: “Per buttarmi giù.”

(04)

Fu allora che Tifa si arrabbiò veramente tanto.

Sapeva di essere arrabbiata con Vincent, ma ci mise un po’ di tempo a capire il perché. Non poteva smettere di pensarci: aveva invaso pensieri e movimenti, le si dimenava nel petto come un peso di piombo. Era ossessionata e non poteva non pensarci, anche se quel pensiero era un tipo di sensazione quasi perversa che le dava leggermente la nausea.

Sapeva esattamente cosa fosse accaduto a Vincent - esattamente cosa l’avesse portato a tanto.

La storia di Vincent era questa: un bel giorno non molto lontano si era svegliato e aveva capito che la vita non faceva per lui. Il suo corpo presentava molte cicatrici di cui non era responsabile, e molte altre che si era procurato da solo. Ormai redimersi era inutile, perché si era reso conto che non gli era servito a niente contro Hojo o Sephiroth - e se non avesse fatto un sogno lungo trent’anni, forse avrebbe potuto cambiare qualcosa.

Il suo passato era una bugia e un sogno combinati. Aveva perso il suo amore. Aveva perso la sua vendetta. E, con Sephiroth sconfitto e un mondo ferito incamminato sulla strada della guarigione, aveva perso il suo scopo.

È come trovarsi sulla cima più alta di una montagna, la più fredda e aspra di Icicle Town, spoglia di tutto, e guardare giù. Sotto, il nulla. Solo bianco su bianco, lo scherzo di qualche artista strampalato. Hai combattuto e scalciato e urlato e mangiato letame e patito la fame e fatto sacrifici e perso sonno e amici e arti e anni e ti aspetteresti di vedere qualcosa, qualunque cosa. Andrebbe bene anche l’oscurità: nell’oscurità almeno c’è mistero. Invece non c’è nulla, è un canovaccio vuoto. Il bianco non è, a quanto pare, il colore della speranza.

Tifa sapeva che Vincent si trovava lì. Si trovava lì e guardava giù. Tifa lo sapeva perché anche lei era stata lì. Le ci erano voluti anni interi della sua vita per arrivare a un punto che non valeva niente, a fissare nel bianco e a pensare, mentre le mani si serravano sulla roccia e i piedi pedalavano furiosamente per mantenere la trazione. Tifa si era ritrovata su quella stessa vetta solo pochi mesi prima, quando Cloud era sparito e le aveva lasciato solo una breve nota accompagnata da un fiorellino bianco. Bianco come il deserto, bianco come il suo futuro. Un colore vuoto.

Sapeva quale colore vedesse Vincent ogni volta che apriva gli occhi perché aveva affrontato la stessa vetta, ma aveva scelto - violentemente, disperatamente, insolentemente - di vivere.

Ecco cosa la faceva arrabbiare tanto. Vincent e lei avevano perso le stesse identiche cose - perché lui alla fine si era arreso?

(05)

La casa era in buone condizioni: era solo sporca, aveva un piccola crepa sul tetto e un paio di finestre da aggiustare. Tifa si lanciò nelle riparazioni con un fervore disperato. Epurò le stanze, spedendo piccole scatole piene di cose di valore al suo indirizzo di Midgar e bruciando il resto in uno strano rituale simbolico. Vincent l’osservava, seguendo con i vuoti occhi rossi i suoi movimenti, la sua febbre: l’osservava trasformare la sua furia in un’energia pseudo-curativa.

Era di nuovo Madre Tifa, che curava il debole, riparava le cose rotte, si occupava del bisognoso. Faceva parte del suo carattere e della sua anima, sì, ma era pronta ad andare avanti, a diventare qualcun altro. Qualcuno che non provenisse da quel caos che portava il nome di Nibelheim, qualcuno che non provenisse dalle Bugie. Era seccante.

Stava impacchettando vecchi libri in vecchie scatole nello studio quando sentì il lento trascinarsi di Vincent dietro di lei. Tifa si voltò, sorpresa di vederlo in piedi, sorpresa del fatto che lui fosse andato a cercare lei.

I suoi occhi erano vitrei, ma la sua voce era cortese. “Posso forse essere d’aiuto?”

Lei sospirò nel tentativo di non sembrare troppo incoraggiante o contenta. “In effetti potrebbe farti bene muoverti un po’,” rispose. “Ho bisogno di impachettare tutti questi libri, li voglio donare alla libreria.”

Lui si chinò lentamente e si posizionò di fronte a lei; allungò un braccio, afferrò una scatola vuota, e cominciò a sistemarci dentro i libri. Trascorsero tutto il pomeriggio in un pacifico silenzio: un nuovo tipo di silenzio, non quello che aveva regnato dalle parole di Vincent. Lo scrutava con la coda dell’occhio, notando le smorfie impercettibili che faceva quando si girava o si alzava. Tutto sommato, comunque, si stava rimettendo bene.

Riuscirono a svuotare la stanza entro l’ora di cena; scatole di cartone erano ammassate contro la parete di fronte a loro e le finestre brillavano. Mentre lasciavano la stanza lei si ritrovò a dire: “Domani, se ti sentirai bene, inizieremo a buttar giù la carta da parati.”

Non le diede risposta. Quella notte, a cena, ci fu la loro prima conversazione normale. Vincent domandò il perché della pulizia della casa. Tifa spiegò che aveva bisogno di un anticipo in contanti per il Great Gospel, e che la casa avrebbe dovuto essere in buono stato per poter essere venduta sul mercato.

Quando le offrì la sua assistenza lei si limitò ad annuire in maniera vaga, dicendo: “Sarebbe carino.”

(06)

Era salita sul tetto. Si reggeva con le unghie e con le ginocchia a strani strani supporti controventati, e stava inchiodando con un martello le coperture che aveva trovato nella tettoia. Vincent, sotto di lei, era troppo debole per darle una mano sul tetto, ma abbastanza forte da passarle le coperture da una scala; doveva comunque riposarsi tra una copertura e l’altra. E indossavano maglioni e giacche, maledizione: a Nibelheim faceva freddo.

Finì di battere l’ultimo chiodo e si piegò, stile contorsionista, pregando qualsiasi cosa che la costruzione Shinra fosse sufficientemente solida. Uno stano pensiero le attraversò la testa: Se questo tetto può reggere Vincent e i suoi stivali di mezzo quintale di certo può tenere te, ed emise un sospiro di sollievo a bassa voce.

Vincent era lì quando si voltò. Ansimava un po’, ma teneva un’altra lastra nella mano. Tifa fece di nuovo forza sui piedi e tese la mano. I suoi occhi incontrarono quelli di Vincent, e si bloccò a metà movimento. Sembrava stanco, sì, ma era tornato qualcosa in quel fiero sguardo rosso, un piccolo e minuscolo frammento di vita.

“Tifa,” disse, e lei si accorse che la sua voce era quasi tornata alla normalità: cupa, pacata e calma, ma certamente non vuota.

“Hmm?” Si voltò un attimo per allineare la copertura ai suoi fratelli e sorelle, poi tornò a Vincent per ricevere una manciata di chiodi.

“Io -” Fece una pausa, con insolita esitazione. “Devo ringraziarti.”

Tifa lasciò cadere il martello e lo fissò. Odiava essere ringraziata, quasi quanto Vincent odiava essere aiutato. “Vincent, insomma, non fa niente -”

“Non solo sei stata… gentilissima,” continuò Vincent, “… ma non mi hai mai chiesto neanche una volta… perché.”

Tifa distolse gli occhi e le scappò un sorriso, un sorriso vero, il primo vero sorriso che faceva da giorni; lo sentì estendersi a tutta la faccia, e si chiese perché le pareva che il cuore fosse diventato leggero.

(07)


Quella sera, a cena finita, Vincent iniziò a parlare. Avevano mangiato pasta la di Costa del Sol, e tra di loro c’era una bottiglia mezza vuota di vino rosso, una sentinella.

“Apprezzo la tua… discrezione,” disse, riprendendo la conversazione cominciata sul tetto. “Non sono mai stato… loquace.”

“Abbiamo tutti i nostri demoni, Vincent,” replicò lei. “Non ho bisogno di sapere i tuoi.” Tanto ho il sospetto che siano simili ai miei.

“Demoni,” ripeté lui, appoggiandosi con prudenza alla sedia. Era sorpresa che stesse bevendo anche il vino, ma il suo bicchiere era quasi vuoto. “Cosa ne sa una come te di demoni?” chiese, con una voce che le fece pensare che non era stata sua intenzione condividere quella frase con lei. Si sedette più dritta.

“Una - una come me?” ribatté; il suo tono era per metà incredulo e per metà infuriato. “Di che parli?”

Vincent fece turbinare in modo vago il vino nel suo bicchiere. “Non volevo offenderti.”

Ma Tifa sentì la rabbia ribollire in superficie, e nonostante sapesse che se ne sarebbe pentita, parlò. “Credi di avere il monopolio sul dolore e i sensi di colpa, Vincent? La tua intera vita è stata una tortura, quindi nessuno può paragonarsi agli abissi della tua disperazione? Scusa tanto, ma a volte anche noi meri mortali ci facciamo male.”

“Tifa, perdonami,” mormorò, e lei lo fissò immediatamente negli occhi. Brillavano, rosso fuoco, ma ora erano pieni di emozione, fondamentalmente rimorso. Quanto vino sta bevendo?

“Tu sei così forte,” continuò, gli occhi ancora incollati ai suoi, e lei si sentì riscaldare le guance. “Dimentico che la tua forza può dominare il tuo dolore - proviene dal tuo dolore. Il mio mi ha solo portato debolezza.”

Tifa distolse lo sguardo, a scatti. Non sapeva cosa dire a questo Vincent. Le doleva il cuore. “Tu non sei debole, Vincent.” cominciò, ma lui la interruppe.

“E quale parte non lo è?” Vincent aveva una voce talmente colma di silenzioso male che alzò di nuovo gli occhi per studiarlo; i suoi occhi, così meravigliosamente pieni, erano fissi sul bicchiere. “Mi sono nascosto in una bara per una trentina d’anni, lavando i sensi di colpa con i sogni. Sono riuscito a stento a fermare l’uomo dietro tutta questa follia. E poi - non sono stato abbastanza forte neanche per vivere,” bisbigliò. “Così ho incatenato i miei demoni e ho… ho cercato la morte.”

“È - la morte può assomigliare ad una dolce liberazione,” gli bisbigliò Tifa in risposta, senza sapere da dove provenissero quelle parole, sapendo solo che il suo cuore si stava gonfiando di dolore a causa di quel bell’uomo triste dall’altra parte del tavolo.

“Non c’è niente,” Vincent strinse la mano in un pugno sopra il tavolo. “È tutto vuoto.”

In un riflesso improvviso, Tifa allungò le braccia e gli avvolse la mano tra le sue. “Vincent,” iniziò, ma la voce le morì in gola. Lui la guardò, e i loro occhi s’incontrarono: il brillante rosso scarlatto e il colore del mogano velato di lacrime si trovarono sopra il vino rosso e le mani giunte.

“Come hai fatto, Tifa?” Ora la sua voce era cruda, vuota, e Tifa capì di aver visto il vero Vincent Valentine, quello sotto tutti i mantelli, gli abiti e i veli, quello che soffriva talmente tanto da sbiancare la vita. “Come fai a rimanere così forte?”

Lei gli strinse di nuovo la mano e lasciò cadere lo sguardo sul proprio bicchiere di vino, perché non aveva niente da dire.

(08)

“A volte,” incominciò Tifa, osservando la pioggia fuori dalla finestra, “Non puoi essere forte.”

Avevano finito il tetto il giorno prima, grazie al cielo, perché su Nibelheim stava infuriando una tremenda tempesta, con tanto di vento e di pioggia glaciale. Stavano bruciando i resti di vecchia biancheria ammuffita. Con sua sorpresa, Vincent aveva tirato fuori un’altra bottiglia di merlot di Costa del Sol. Si sentiva calda sia per il fuoco che per il vino.

“A volte,” continuò, facendo volteggiare pensosamente il proprio bicchiere, “Non sei affatto forte. Sei solo testardo.”

“E questa non è forza?” chiese Vincent. Erano entrambi seduti sul pavimento di fronte al fuoco, con le schiene appoggiate ad un divano troppo consumato per essere comodo. Lui aveva le gambe stese, poco distanti dal fuoco, le scarpe d’ottone poco lontane dalla fiamma. Lei era raggomitolata in una palla, con le gambe piegate legate dalle braccia.

“No, perché non c’entra niente la vittoria di qualcosa su un’altra cosa,” rispose Tifa, aggrottando le sopracciglia. “Se non combatti non puoi vincere. Semplicemente ti volti e vai da qualche altra parte.”

Bevve un po’ di merlot, sentendolo bruciare mentre scendeva giù. “Mai
esaurire le strade,” disse amaramente. “Se sei abbastanza stupido.”

“La mente questo non sempre può comprenderlo,” replicò lui sommessamente. “La mente non sempre scova la via di scampo.”

Aprì la bocca per parlare, ma Vincent la precedette. “Tifa, tu che avresti fatto?”

Lei scosse la testa, ridendo amaramente, buttando giù un altro sorso, bramando il suo calore. “Vincent, non è una questione di ‘avresti fatto’. Credi che non ci sia passata anch’io?”

Spostò lo sguardo sulla finestra, e poi di nuovo sul fuoco. “Cloud ha lasciato Midgar, qualche settimana fa. Mi ha lasciato una nota e un fiore. Non mi ero neanche accorta che mi aspettavo che lui - rimanesse per sempre. Ma Cloud se ne va, e cosa rimane a me? Un mazzo di ricordi, una città morta, e un nero incazzato.” E un minuscolo fiore bianco, che riassumeva il vuoto della sua vita.

Le labbra di Vincent scattarono verso l’alto. “Presumo che Barret fosse… dispiaciuto?”

Tifa ridacchiò sotto i baffi. “Questo è un eufemismo.” Sospirò, guardando Vincent che le riempiva di nuovo il bicchiere. “E molti ricordi riguardano cose che preferirei non ricordare. Come Sephiroth. Ed Aeris. E il fatto che ho mentito a Cloud, e tanto.” Bevve un altro sorso, cercando di mandare giù anche le vecchie lacrime e la tristezza. “Mi ero creata un piccolo futuro immaginario - sono un’idiota incredibile - e non ho mai preso in considerazione il fatto che si basasse tutto su qualcosa che non esisteva.”

Ecco: l’aveva detto, l’aveva ammesso. Si morse il labbro, cercando di contenere le stupide, vecchie lacrime.

“Eppure,” iniziò lui, colmando pure il proprio bicchiere, “Non sei finita a cercare una tregua su un tetto di Midgar. Hai trovato un’altra strada - una via di scampo.”

Lei posò lo sguardo sul proprio bicchiere e dentro di lei si ruppe qualcosa, in uno strano tipo di liberazione. “Oh, Vincent,” Si chinò a tentoni da un lato fino ad appoggiare la testa contro la sua spalla. “Io non sono un libro di psicologia - neanch’io so più cosa sto facendo. Mi piacerebbe poterti dire qualcosa - qualunque cosa.” La sua spalla era calda. Prese un respiro profondo, inalando l’odore del fuoco, del vino e di Vincent, e si accorse che il tutto assomigliava stranamente alla serenità.

“Siamo molto simili, tu ed io,” disse lui, muovendosi un po’ per continuare a sostenere la sua testa in una posizione più comoda, “Eppure molto diversi.”

Tifa sospirò, assaporò un altro sorso e si rilassò ancora di più. “Allora, Vincent,” rese la sua voce il più dolce e gentile possibile, “Perché ti sei buttato?”

Lo sentì irrigidirsi al suo fianco e si drizzò a sedere, pensando di averlo messo a disagio; ma lui allungò una mano e le rimise la testa sulla propria spalla. “È giusto che tu me lo chieda,” ribatté. “Ma ho paura che possa sembrare sciocco discuterne.”

“Io mi sento già sciocca,” assicurò Tifa arrossendo. “Tocca a te.”

“Molto bene.” Vincent fece una pausa; lo sentì svuotare il vino che gli rimaneva tutto in un sorso. “Il palazzo… aveva dei problemi di instabilità strutturale. C’erano diversi passaggi segreti e molte brecce nei muri. Quando ci tornai avevo intenzione di ricominciare il mio sonno.” Si fermò, come se si preparasse al pezzo forte di una barzelletta. “Il seminterrato era inesistente. La mia… stanza… era stata distrutta.”

In un certo senso era il pezzo forte di una barzelletta; Tifa riuscì a non ridere, perché la risata sarebbe stata amara. Comunque rabbrividì. “Ho provato a vivere come un uomo normale,” continuò Vincent, cambiando ancora posizione e avvolgendo un braccio attorno a Tifa e avvicinandosela per consolare entrambi. “Ma mi è stato troppo difficile affrontare i miei demoni. Neanche per quelle poche settimane che sono stato qui. È stato duro abbastanza per me… contenerli,” bisbigliò debolmente, “per poter saltare giù.”

Le diede un’occhiata. “La mia mente non riusciva a vedere altre strade.”

“E adesso?” chiese lei, cercando di porre la domanda con tutta la leggerezza che era umanamente possibile.

Erano così vicini che percepì il suo sospiro col proprio corpo. “Neanche ora ne vedo altre,” rispose. “È come se… Uno percorre fino alla fine una strada aspettandosi un qualche trionfo, ma lì non c’è niente. Nessun seguito, nessuna ricompensa. Nessun significato. Ogni tuo scopo - è come se la vita stessa si fosse scolorita, avesse perso sostanza.”

“È tutto bianco,” mormorò Tifa nella sua spalla, con gli occhi che le si chiudevano.

“Sì,” sospirò Vincent, “È tutto bianco.” Le sue dita salirono a sfiorarle appena il braccio, correndo su e giù per la sua pelle. “Tuttavia, ho avuto l’opportunità di parlare con qualcuno che ammiro,” aggiunse; la sua voce ora era un divertito sussurro nel suo orecchio. “E a volte non hai bisogno di uno scopo - hai bisogno solo di andare avanti.”

(09)


Quando Tifa si svegliò nel cuore della notte, del fuoco erano rimaste solo braci. Si stiracchiò contro Vincent Valentine, la testa ripiegata contro la sua spalla, un braccio stretto al suo torace. Lui era steso contro il divano; aveva poggiato il mento sulla sua testa e la teneva vicina.

Ancora intontita, risistemò la testa sul petto caldo di Vincent. Lui doveva essersi accorto del suo spostamento, perché alzò la testa dalla sua.

“Tifa?” bisbigliò, la voce profonda, e lei sollevò un po’ la testa. Aveva gli occhi offuscati dal sonno, paragonabili alle braci nel camino. Gli sorrise, assonnata; Vincent ricambiò il sorriso, e improvvisamente si rese conto di quanto fossero vicine le loro facce: sentiva il respiro di Vincent accarezzarle la guancia.

Continuò a fissarlo, e così fece lui, e lentamente i loro sorrisi si sciolsero in un’altra espressione; Tifa sentì la mano di Vincent salirle dietro la schiena, le sue dita strofinarle esitanti il braccio pallido, e un debole formicolio iniziò a propagarsi per tutto il suo corpo. Tremò appena, e lui la trascinò verso di sé, disegnando sulla sua pelle.

Doveva essere ancora mezza addormentata, perché si spinse in avanti, sfiorandogli delicatamente le labbra con le proprie in un gesto tenero. Quando riaprì gli occhi lui la stava fissando con una sorpresa e uno shock così evidenti da farle ghiacciare il sangue e sollevare il capo con un, “Oh, dei, Vincent, non vole-”

Ma poi la bocca di Vincent coprì la sua, e anche i suoi occhi si chiusero di loro spontanea volontà. Le sue labbra si muovevano con quelle dell’ex-Turk, e gli accarezzò il volto con una mano che poi nascose tra i suoi capelli. Sapeva di sonno e di vino. Lui strinse il braccio intorno alla sua schiena mentre il bacio diventava più intenso e si mise a giocherellare con la lingua sulle sue labbra. Lei gli tirò la testa verso la propria e rispose, mentre la mano di Vincent si arrampicava lentamente sulla sua schiena e le stuzzicava la nuca.

S’interruppero, improvvisamente, e Tifa non aveva più sonno: percepiva il proprio battito cardiaco e guardò Vincent. I loro occhi s’incontrarono e stavolta lei sentì che i proprio occhi bruciavano tanto quanto i suoi, quel tenue rosso borgogna che diceva tutto. Sbatté le palpebre. Sul volto di lui c’era un’espressione mortificata così palese che lei si chinò in avanti, di nuovo, e premette deliberatamente le labbra contro le sue, guidando la lingua contro la sua. Vincent rispose nuovamente al bacio.

Si sdraiò sulla schiena, poi, e invece di parlare, gli permise di abbracciarla forte mentre lei nascondeva il capo nell’incavo tra il suo collo e la spalla.

(10)

Tifa guardò l’assegno che stringeva tra le mani. Il suo agente immobiliare aveva stimato un prezzo alto per la casa, malgrado si trovasse nella piccola, lenta Nibelheim, e aveva ricavato una parte generosa di quella somma. Il Great Gospel era suo: questo era il suo inizio. Nibelheim - il suo passato - poteva dirsi finalmente chiuso.

Sentì qualche tenue movimento dietro di lei, e girandosi vide Vincent che si avvicinava. Le porse qualcosa, una piccola ricevuta di carta, e mentre la prendeva non poté non spalancare la bocca: era un assegno simile, dall’agenzia immobiliare.

“Vincent?” Lo fissò, perplessa. “Da dove salta fuori questo coso?”

“Ho venduto il palazzo Shinra,” rispose, in quel modo indifferente e inespressivo tutto suo.

Lei inarcò un sopracciglio. “Ne sei il proprietario?”

“A quanto pare,” spiegò, e questa volta non riuscì a neutralizzare del tutto il divertimento presente nella sua voce. “Nessuno ha avanzato i diritti per quella catapecchia da oltre quarant’anni. Si vocifera che sia infestata. Quando ho rivelato di aver risieduto lì per circa trent’anni, la mia carta di identità è stata una sufficiente prova di proprietà per il venditore.”

“Vincent, è grandioso,” replicò Tifa, sorridendo; tese la mano per restituirgli l’assegno, ma lui fece un passo indietro.

“Cosa vuoi farci?” chiese, agitandoglielo in faccia insistentemente, sventolando il pezzo di carta come una bandiera.

Lui si rifiutava di prenderlo. Alla fine lo raggiunse e glielo schiacciò energicamente contro il petto. “Vincent, prenditi i tuoi soldi.”

Lui la guardò e alzò esitante una mano per afferrarle il braccio. “Pensavo che forse potrei investirlo,” disse con cautela. “Forse potrei mettermi in affari da qualche parte a Midgar.”

Lo sguardo sul suo volto era incredibilmente insicuro; su quello di Tifa, invece, spuntò un ampio sorriso. “Vuoi venire con me? Vincent, questo è anche meglio! Anche se,” disse maliziosamente, “Non prenderò i tuoi soldi.”

“Non ho… alcun desiderio di rimanere qui,” spiegò debolmente. “Se non sono una seccatura, mi piacerebbe venire.”

“Una seccatura?” L’osservò tra le ciglia, ancora sorridendo. “Sei l’unica persona che conosco a cui quella parola non si adatta. Ma sì, preferirei che tu venissi, piuttosto che rimanertene qui da solo. Mi preoccuperei per te, capisci.”

Vincent annuì. “Io… Io ti ammiro, Tifa. Forse potrò imparare a… contenere il vuoto.”

Non è vuoto, Vincent: è solo bianco. Devi solo imparare a capirlo. Tifa avanzò di un passo, avvolgendo le braccia attorno a Vincent e sorridendo nella sua camicia mentre anche lui l’abbracciava.

“Vincent,” disse, “impara a preparare qualcosa da bere e staremo bene.”

(fin)



NdA: Si tratta probabilmente della, tipo, quarta versione di questa storia, senza contare le modifiche varie. Yarg. Per qualche motivo questa è stata durissima.

Ho capito perché queste storie sono così lunghe: sono fermamente contro l’amore a prima vista, e mi piace mostrare un qualche sviluppo prima che tutti inizino a sbaciucchiarsi. Sfortunatamente, questo implica quantità abnormi di sviluppo, ma ehi - abbiate pietà di me.

L’idea mi è venuta dal fatto che ho letto moltissime T-V con Tifa-prossima-al-suicidio (di cui una parte molto buona, il resto imitazioni da quattro soldi) e mi sono detta “Ehi, e se…” Inizialmente l’avevo pensata a più capitoli. Tuttavia, sono molto pigra.

Nota tecnica della traduttrice: Benché questa fanfiction faccia parte, appunto, di una serie di fanfiction, ho creduto fosse meglio postare le one-shot separatamente come in originale perché veramente molto diverse l’una dall’altra, tanto per tematiche quanto per personaggi e generi. È un progetto troppo eterogeneo per essere unificato e segnalato come “Raccolta”. Per chi non conosce il fandom inglese e non ha letto parecchie fanfiction su queste coppie probabilmente queste fanfiction hanno poco a che vedere l’uno con l’altra.
   
 
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