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Autore: Julie Sarret de Angrogne    07/04/2021    0 recensioni
E se Erik e Jack the Ripper fossero amici di vecchia data legati da una misteriosa maledizione? Feroci delitti, simili a quelli avvenuti a Londra undici anni prima, turbano la Parigi di fine secolo. L'ispettore Michaud indaga, ma una intraprendente e pasticciona giornalista si mette di mezzo scombinando i piani di tutti quanti. Pastiche benevolmente ironico delle tematiche e i personaggi creati da Leroux, Kay, ALW, Rider Haggard e Pierre Benoit, con debiti verso scene di film famosi. Fantastico, ironia, un pizzico di grand guignol, malizia, sesso soft, qualche parolaccia, molte sorprese.
Genere: Azione, Satirico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Erik/Il fantasma, Sorpresa
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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INTERVISTA COL FANTASMA



(Dove si parla di Legione Straniera e antiche leggende e



una piacevole cena viene interrotta da un ospite sgradito)



 



L’uomo che aprì la porta reggeva un candeliere ed era vestito come un valletto del settecento: marsina, pantaloni al ginocchio, calze bianche, scarpe con la fibbia dorata, parrucca incipriata… E portava una maschera: bianca anch’essa e ancor più impenetrabile di quella di Erik, poiché aveva soltanto le fessure per gli occhi, che alla luce delle candele apparivano come due macchie nere. Con un gesto della destra impeccabilmente inguantata di bianco, le fece segno di seguirla.



Era un vero e proprio invito, quello che le era stato recapitato a mano quella mattina da un fattorino. Un biglietto in fine carta bianca che recava un orario e l’indicazione di una certa porta di servizio nel palazzo dell’Opéra. Era scritto con inchiostro rosso e una calligrafia elaborata e precisa, e firmato semplicemente “Erik”. Almeno aveva avuto la decenza di non esibire il suo preteso titolo di “Fantasma”.



Se fosse stata una donna appena prudente e soltanto cautamente curiosa, avrebbe evitato un appuntamento notturno con uno sconosciuto. Dopotutto, quello poteva davvero essere lo Squartatore. Il fatto che avesse una convivente non significava nulla. Ma lei aveva imparato da tempo a tenere a bada i saggi suggerimenti della prudenza e si abbandonava con passione al vizio della curiosità. Certo non era incosciente. Tutte le sue borsette, anche le più eleganti, non erano mai così piccole da non poter contenere una pistola.



Seguì il valletto muto, compiacendosi del fruscio del suo abito da sera nella vastità silenziosa di sale e corridoi. Erano anni che non aveva occasione di vestirsi in modo così elegante. Respinse in fondo alla mente i ricordi dolorosi che cercavano di riaffiorare come sempre al calare della notte. Forse, si disse, accettare lo stravagante invito del sedicente Fantasma era l’ennesimo tentativo di tenerli a bada.



Senza la silenziosa guida in marsina si sarebbe certamente persa. Non era mai stata all'Opéra, e anche se ci fosse stata non avrebbe mai saputo come orientarsi nella semioscurità, men che meno passando da un ingresso secondario.



La fiamma delle candele strappava infiniti luccichii dagli alti specchi, le dorature, i cristalli dei lampadari, i marmi lucidi di colonne, camini, pavimenti... Il Grand Foyer era un immenso caleidoscopio, ma nel buio quasi completo non si riusciva a vedere molto. A sinistra di quello che doveva essere, secondo Rasselie, l'ingresso principale del teatro, si apriva il piccolo spazio circolare chiamato Salone della Luna.



Al suo centro, sotto le decorazioni argentee del soffitto e il lampadario di cristallo, adesso spento, era apparecchiata una tavola rotonda ricoperta da una tovaglia ricamata sulla quale stavano stoviglie di porcellana e un candeliere a tre bracci. Altri candelieri su alti steli erano disposti lungo il perimetro, sotto gli specchi. Erik la aspettava, in piedi accanto a una delle due sedie dall’alto schienale disposte dall’uno e l’altro lato della tavola. Vestiva come un perfetto gentiluomo, con un completo da sera nero dai risvolti profilati di raso, panciotto, camicia candida e cravatta di seta sulla quale brillava una spilla. La maschera era d’argento. Per intonarsi alla sala, immaginò Rasselie, anche se i disegni della volta si perdevano nell’oscurità dalla quale le fiamme delle candele rubavano appena qualche scintillio.



- Prego, sii la mia gradita ospite.



Scostò lui stesso la sedia e la fece accomodare, poi andò a sedersi all’altro capo della tavola. I suoi gesti erano cortesi e misurati al punto da sembrare affettati, e Rasselie ebbe l’impressione che il sedicente “Fantasma” si stesse prendendo gioco di lei. Cosa che stuzzicava ulteriormente la sua curiosità. La tavola era apparecchiata perfettamente, con quei piatti di finissima porcellana bordata in oro zecchino, posate d’argento e bicchieri di cristallo.



- È davvero un peccato che questo teatro non abbia un ristorante disse Erik in tono leggero e discorsivo. - Credo fosse nel progetto originale di Monsieur Garnier ma le finanze finirono prima che potesse essere completato. Sai che Garnier è morto meno di un anno fa?



Intanto, un altro paio di personaggi anch’essi vestiti come valletti settecenteschi e mascherati, erano arrivati spingendo dei carrelli.



- Spero che il menu sia di tuo gradimento. Proviene dalle cucine di quel nuovo hotel, il Ritz. Garantito dal grande Escoffier. Io mi accontento dell’arte culinaria di Meg, ma non posso certo imporla ai miei ospiti.



- Ne hai spesso, di ospiti?



- Non così spesso come una volta, per mia fortuna. E loro.



Meglio non indagare su quel commento. Ma le fiamme delle candele disegnavano scintilli beffardi negli occhi d’ambra e rivelavano un sorriso sulle labbra sottili.



- Cominceremo con ostriche e salmone in salsa di cetrioli. E poi avremo riso alla creola, trote in courte bouillon, salsicce di leprotto ai tartufi, insalata Francillion, crema di asparagi... E per dessert pesche Melba, sorbetto di limone e di fiori di cannella. Si voltò verso uno dei valletti.- Vini?



Senza proferire parola, il valletto gli mostrò un paio di bottiglie.



- Ah, perfetto. Bordeux, annata ottima... Hai mai assaggiato lo Chateu-d'Yquem?



- Scherzi? È fuori dalla mia portata.



- Allora stasera avrai questo piacere, grazie a Erik.



Silenziosi come ombre, i valletti cominciarono a servire in tavola. I loro gesti erano misurati e precisi, sembrava quasi che eseguissero un rituale.



- Chi sono queste persone? Sembrano… sì, sembrano quasi automi.



- O forse sono fantasmi. In un certo senso… C’è chi li chiama “I cacciatori di correnti d’aria”, i chiudiporte, vecchi attrezzisti che nessuno ha avuto il coraggio di licenziare, sarte e ciabattini troppo anziani per lavorare, gli ammazzatopi e gli addetti alle fucine per il riscaldamento e all’impianto fognario. Hanno trascorso qui tutta la loro vita, non conoscono più altro mondo che questo. Vivono nei sottoscala del teatro, o nelle soffitte come me. Non hanno altro posto dove andare. Le passate amministrazioni se li sono dimenticati, le rivoluzioni di palazzo li hanno ignorati; all’esterno, la Storia è trascorsa senza che se ne siano accorti, e nessuno si ricorda più della loro esistenza.*



Rasselie rise. Cominciava a divertirsi. - Sei un vero maestro nel raccontare frottole.



- Consideralo uno dei miei molti talenti. E parte del mio fascino.



Rasselie assaggiò il salmone. Era davvero ottimo.



- Perché hai voluto che venissi qui? chiese poi. - E come potevi essere sicuro che sarei venuta?



- Sei a caccia di storie, no? E io posso dartene da riempire volumi.



- Storie vere?



- Forse. Capisci, Rasselie... Era la prima volta che pronunciava il suo nome, e lo fece allungando le esse in una specie di sibilo. - Posso raccontarti qualsiasi cosa. Qualsiasi. È un mio privilegio. E tu non avresti modo di capire se sia più vera delle storie che altri hanno inventato su di me.



La sfidava. Era un gioco. Forse pericoloso.



- Ma prima, bella signora, devi pagare pegno. Raccontami qualcosa di te.



Lei scosse la testa. - Non credo che ne valga la pena.



- Questo sta a me deciderlo, non credi? Allora… Cominciamo dal tuo nome. Non l’avevo mai sentito.



- È il nome di una pianta. Ed era anche il nome della fattoria dove lavorava mio padre prima di sposarsi. Reymondet è il mio cognome da ragazza. Joly è… era quello di mio marito. Sono vedova. Da quasi cinque anni. Mio marito era un poliziotto. Una sera… eravamo sposati da poco più di due anni… è uscito per andare al lavoro e non è più tornato. Ucciso da un ladro in fuga. L’aveva detto tutto di un fiato, così la voce le si spezzò sull’ultima frase.



- Lo hanno arrestato?



- No. E io non ho smesso di cercarlo.



- E se lo trovassi? Lo uccideresti?



- Forse…



Lui notò la sospensione dopo quella parola, il respiro trattenuto. Si appoggiò allo schienale della sedia, come se attendesse da lei un’altra precisa parola. E davanti al suo silenzio, dopo qualche momento pronunciò: - … Ma?...



- A volte penso che la sua morte non mi arrecherebbe nessun conforto. Preferirei saperlo in catene, al bagno penale, per mille anni, a scontare ogni giorno, ogni minuto, il dolore che mi ha inferto.



- Hai capito che la peggiore condanna è la vita.



Un attimo di silenzio. Rasselie abbassò lo sguardo sul piatto.



- Immagino che tu non abbia figli. Inquisitivo, ma la sua voce era gentile.



- No. Ma probabilmente è meglio così. Un figlio senza padre...



- Spesso i figli senza padre sanno cavarsela molto bene. Figli di puttana, zingarelli, marmousets, “gesù bambini” dei bordelli... Non immagini quali strategie di sopravvivenza sappiano elaborare. Su quelle ultime parole il tono di voce si era fatto più cupo, e a Rasselie sembrò di udirvi una nota di amarezza.



- Adesso basta. Mi hai invitata per raccontarmi le tue storie, no?



- E su quale giornale avrò il piacere di leggerle?



- Non lo so. Io non sono alle dipendenze di nessuno. Scrivo storie, e loro me le comprano. Non sempre, ma abbastanza spesso. Non importa che siano credibili o meno, basta che siano sensazionali. E questa lo è: una cena e un’intervista con il famigerato Fantasma dell'Opera. Rasselie si guardò attorno, divertita e ammirata. - Non te la passi davvero male. Valletti imparruccati, posate d’argento, cucina del Ritz ...



- Vuoi sapere come posso permettermi tutto questo? In un certo senso siamo colleghi. E concorrenti. A bassa voce, ma in tono sicuro e morbido, canticchiò: - ”Che cosa faccio? Scrivo. E come vivo? Vivo”. E, vedendo lo sguardo completamente sbigottito di Rasselie, aggiunse: - È un’opera, “La Bohème” di Puccini. Racconta di studenti squattrinati, aspiranti poeti e… donne perdute. Comunque è così che io mi guadagno da vivere: raccontando storie, come te. Ne ho raccolte abbastanza in giro per il mondo, e tante ne ho vissute, che non mi basterà il resto della vita per metterle tutte sulla carta, perciò ho deciso di regalartene qualcuna. E no, non ti dirò con quale pseudonimo mi firmo. Spesso scrivo per altri rispettabilissimi autori in crisi di idee. Non sono l’unico. Ci chiamano “scrittori fantasma”. Più che appropriato, nel mio caso. E poi, ovviamente, compongo musica. Non opere immortali, qualcosa di più consono ai gusti del volgo. Il genere di cose che puoi sentire nei bistrot o da un organetto per la strada.



- Mi prendi in giro.



- Davvero non penserai che il buon direttore Rémy mi paghi ventimila franchi al mese per evitare che io gli distrugga il teatro. Non è nel mio stile appiccare il fuoco alle quinte o far precipitare lampadari in platea. E poi, non è mai caduto nessun lampadario. A staccarsi è stato un contrappeso che pesava meno di cinque chili, ma ha ammazzato una povera donna alla sua prima serata all’opera. Quando si dice il destino. I giornali però, quei giornali a cui vendi le tue storie, hanno detto che a cadere giù come una pera troppo matura era stato l’intero lampadario, una pera di bronzo e cristallo da mezza tonnellata. E di chi era la colpa? Del Fantasma dell'Opera, ovviamente. Come la morte di quell’attrezzista, Joseph Bouquet. Era pieno di debiti, per questo si è impiccato. Anche se farlo la sera di una prima è stato davvero un gesto di cattivo gusto.



Rasselie ricordava l’episodio, definito un delitto dai giornali dell’epoca e attribuito allo spettrale abitatore dei sotterranei del teatro.



- Dunque tu saresti soltanto un tranquillo gentiluomo che preferisce risiedere nei sottotetti di un teatro invece che in un comodo palazzo di città; stravaganza perfettamente comprensibile, le soffitte hanno un loro indiscutibile fascino.



- So accontentarmi di poco. C'è stato anche un periodo, nella mia vita, in cui ho vissuto nel lusso. In Persia. Ma il prezzo da pagare, alla fine, si è rivelato troppo alto.



Difficile immaginare quali sentimenti passassero dietro la maschera che rifletteva la fiamma delle candele. A volte, quando guardava direttamente verso di lei, sembrava che il viso fosse inondato di luce; poi, a un minimo movimento del capo, un incresparsi veloce di ombre cancellava e riscriveva i lineamenti.



- Vediamo… Comincerò con il soddisfare alcune delle curiosità che so essere comuni a chi indaga sul mio passato. Se ho ucciso delle persone? Sì. Con il lasso del Punjab? Anche. È una tecnica rapida, silenziosa e pulita. L’ho appresa nella setta degli Assassini. Ah, sorridi. Già non mi credi. Non importa. Immagino però che il più grande interrogativo sia: questa maschera nasconde davvero un orrore indicibile, come raccontano in molti? Sì. Il particolare su cui si sbagliano è che… non sono sempre stato così. Non sono nato mostro, non sono stato onta e orrore di nessuna madre. A dire il vero, non sono troppo sicuro della sua identità. Ti risparmio le lacrimevoli vicende della mia infanzia. Sono nato in un bordello, ho vissuto con gli zingari, girato per le fiere… Ma non nel ruolo di fenomeno da baraccone, questo è certo. Ero saltimbanco, illusionista, imbonitore e… borseggiatore. Mentre il pubblico assisteva alle esibizioni dei miei colleghi circensi, io alleggerivo le tasche dei signori. Vestito con proprietà ed eleganza, mi mescolavo a loro e li derubavo. Non avrebbero mai sospettato di un giovane a modo, e non potevano riconoscere in me il saltimbanco che avevano visto esibirsi poco prima. Come ti ho detto, allora avevo un aspetto normale. Persino bello. Anzi, probabilmente molto bello, visto che ho spesso dovuto difendere la mia virtù. Anche nella Legione Straniera. Lo diresti mai? Ma è lì che ho conosciuto l’uomo che adesso si fa chiamare Jack.



Rivelazione così inaspettata che Rasselie si immobilizzò con la forchetta a mezz’aria e la bocca semiaperta.



- Non conosco il suo vero nome continuò lui, imperturbabile. - Nessuno te lo chiede, nella Legione. Lui si faceva chiamare Pierre Morhange, anche se era palesemente britannico; io divenni Benoît de Saint-Avit.



Rasselie posò la forchetta sul piatto. In un gesto istintivo, le dita della mano sinistra sfiorarono il manico del coltello. Gesti che non sembrarono aver attratto l’attenzione di Erik i cui occhi dorati guardavano oltre di lei, inseguendo i ricordi. Anche lui aveva smesso di mangiare.



- Eravamo molto simili: due giovani mascalzoni sfrontati, audaci, in cerca di avventura; e di denaro, ovviamente. Facemmo amicizia. Ma la disciplina della Legione Straniera non faceva per noi. Alla fine disertammo insieme. Ci trovavamo in Africa, una terra che abbonda di leggende su città perdute, regni sconosciuti e tesori favolosi. Andammo vicini a lasciarci la pelle, inseguendo questi sogni, e più di una volta ci salvammo la vita a vicenda.



Si interruppe per bere un sorso di vino.



- Ottimo commentò a mezza voce, poi riprese: - Venne il momento in cui uno di quei nostri folli sogni sembrò avverarsi. Avevamo ascoltato molte leggende nei villaggi e lungo le carovaniere, ma una di essa sembrava ritornare più insistente delle altre, con particolari che differivano di poco da una versione all’altra. Pierre… Jack, aveva una capacità da enigmista per collegare i vari indizi. Così ci ritrovammo impegnati in una vera e propria caccia al tesoro. Il fiume aldilà delle sabbie del deserto, le cascate, il volto di donna scolpito nella roccia, il passaggio tra le montagne innevate, e infine… la Città!



Erik fece un gesto con la mano che reggeva il bicchiere: scintillii di granato sul cristallo, scintillii di stella dalla gemma dell'anello.



- Le mura erano di pietra azzurra e avevano porte di bronzo decorate con disegni intricati, forse lettere in una lingua misteriosa. Mentre ci avvicinavamo le vedemmo spalancarci per accoglierci.



"Senza neppure dover dire 'apriti Sesamo' " pensò Rasselie.



- Quella città sembrava essere abitata esclusivamente da donne: dalle bambine alle vecchie, passando per le giovani. E queste erano perlopiù di grande bellezza. Avevano quasi tutte un fisico come fino ad allora avevo visto soltanto nelle contorsioniste del circo e nelle danzatrici, snello e e flessibile. La loro pelle bruna riluceva di unguenti profumati, e i capelli, neri e folti, ricadevano in treccioline sottili ornate di nastri colorati e fiori. Indossavano abiti di stoffe così sottili che sembravano un vezzo per rendere più attraenti i corpi che lasciavano intravedere con generosità. E che corpi!



Lo disse con una nota di golosità non diversa da quella con cui gustava il cibo. Per essere un fantasma, aveva un ottimo appetito.



- La lingua che quelle donne parlavano tra di loro non somigliava a nessun idioma che avessi mai udito, ma alcune conoscevano anche l’arabo e, sorprendentemente, diverse lingue europee, abbastanza per farsi comprendere. Sebbene nel loro isolamento non ricevessero spesso visite di viaggiatori stranieri, ci dissero, questi erano sempre i benvenuti; l’ospitalità presso di loro era sacra. Ci mostrarono la città, che era un unico grande giardino nel quale le abitazioni, piccole e basse, di quella stessa pietra celeste e leggera che formava le mura, quasi scomparivano sotto piante rampicanti cariche di fiori, come fossero cresciute dal suolo stesso insieme a esse. Potevamo trattenerci presso di loro a nostro piacimento per rifocillarci e riprenderci dalle fatiche del viaggio. Ed erano davvero ospitali; molto ospitali, come ci fu chiaro fin dalla prima sera che trascorremmo nella città, quando due bellezze vestite soltanto di gioielli entrarono nell’alloggio che ci era stato assegnato.



Rasselie centellinava il vino ascoltando affascinata. Quell'uomo era uno straordinario affabulatore e la sua voce calda, perfettamente chiara anche quando si abbassava a un bisbiglio, ricordava quella di un ipnotizzatore.



- Così cominciò il nostro soggiorno in quel paradiso terrestre, anche se Pierre ogni tanto vedeva serpenti. I serpenti del sospetto. “Hai mai sentito parlare delle Amazzoni, Benoît ?” mi diceva. “Queste si faranno scopare da noi finché non le mettiamo incinte e infine… zac! Ci taglieranno la testa. O ci sacrificheranno a qualche divinità. Che poi, per noi, il risultato non cambia”. I suoi timori erano anche i miei, ma la vita che conducevamo nella città era troppo piacevole, davvero simile alla vita nell’Eden. Se anche eravamo destinati a finire scannati, non esisteva modo migliore di trascorrere i nostri ultimi giorni in un mondo che non ci aveva dato molto. Inoltre, c’era un piccolo problema. Non tanto piccolo, in verità.



Una pausa a effetto. Poi: - “E come facciamo a uscire dalle mura?" gli dissi. "Le hai viste, le sentinelle. E una volta là fuori ci aspetta soltanto un viaggio a ritroso verso il deserto. Comunque, non voglio neppure andarmene a mani vuote. Un paio degli ornamenti che ciascuna di loro indossa come fossero collane o bracciali di nocciole potrebbe sistemarci per un bel po’ di anni”.



Un sorriso fugace tra gli scintilli della maschera; il sorriso di un ragazzino che medita una monelleria.



- Su quello ci trovavamo entrambi d'accordo. Cominciammo a studiare un piano che, in quell’ozio torpido, non progrediva gran che; anzi, sembrava cercare ogni giorno nuove secche e nuovi pantani in cui arenarsi. Poi arrivò un momento i cui le nostre ospiti ci dissero che eravamo pronti per incontrare Lei, la loro regina, e ci scortarono nel cuore del suo palazzo, scavato nella viva roccia della montagna. E solo quando ci trovammo alla sua presenza, per la prima volta nella mia vita compresi a quali vette di bellezza può giungere una creatura umana. A differenza delle donne d’Africa, aveva la pelle chiara, e i suoi capelli erano davvero, come dicono i romanzieri, oro filato. Non ho mai più rivisto capelli simili fino a quando... Un'esitazione, la voce di Erik si incrinò, ma l'incertezza durò un attimo brevissimo. - Si chiamava Ayesha, ma per la sua gente era "Colei a cui si deve obbedienza". La dicevano immortale, eternamente giovane, e sostenevano che questo potere le venisse da una Fiamma inestinguibile custodita in una caverna, al fondo del palazzo, nelle profondità della montagna. Naturalmente non potevamo prendere sul serio quella storia. Che nei dintorni esistessero miniere d’oro e gemme di ogni tipo, a quello credevamo, sì. Ogni donna della città si portava addosso una fortuna. Ma la curiosità che era stata instillata in noi cresceva giorno per giorno, alimentata dall’inattività alla quale eravamo costretti. L'unico sforzo fisico che ci veniva richiesto era soddisfare le brame carnali di quella popolazione di donne. Pierre… O Jack, chiamiamolo così per comodità, decise di scoprire se la Fiamma esistesse davvero. Se il suo potere era così grande, impadronircene ci avrebbe resi ricchissimi. Chi non vorrebbe essere giovane per sempre, vivere per sempre? Ovviamente avremmo venduto quel segreto soltanto alle persone più ricche del pianeta, immortalità e giovinezza eterna non sono per i miserabili.



Di nuovo un sorriso malizioso.



- Riuscimmo a scoprire che la misteriosa Fiamma era custodita da un gruppo particolare di “vestali”. Erano le sole a girare abbastanza vestite e prive di ornamenti. Ragazze giovanissime e graziose. Il loro incarico, come venimmo a sapere, richiedeva purezza e castità. Insomma, le poverine erano le uniche, in quella città, che non potessero godere dei piaceri della carne. Perciò mi fu facile sedurre una di loro. Probabilmente non aspettava altro, a giudicare da come si diede a me con fiducia. Non ricordo il suo nome e neppure il suo viso. La convinsi a condurci fino alla grotta della Fiamma, e spiammo Ayesha mentre compiva il suo rituale. La guardammo spogliarsi degli abiti… che corpo stupendo!… e immergersi nella Fiamma.



Erik fece una pausa e bevve un altro sorso di vino. Rasselie notò un lieve tremito nella mano che reggeva il bicchiere. Emozione o un principio di ubriachezza?



- La Fiamma era diversa da qualunque altra avessimo mai visto prima. Si innalzava dal pavimento di pietra come una colonna di luce bianca, non ondeggiava, non si torceva come fanno le fiamme, e non spargeva luce attorno a sé. Stava lì, abbagliante e pressoché immobile, sembrava una cascata che scorresse lentamente verso l’alto, appena animata da striature azzurre e violette. Non crepitava, non ruggiva. Il suono che produceva era… sembrava che cantasse. Una melodia sublime e terribile, così terribile da consumare chiunque osasse ascoltarla, pensai. Come quella fiamma avrebbe dovuto consumare il corpo di Ayesha. Ma lei stava in quel fuoco, in piedi, immobile, a braccia spalancate, e il corpo perfetto e i lunghi capelli risplendevano, ma senza ardere.



La voce si Erik si era affievolita su quelle ultime parole che si smorzarono in un profondo sospiro. Altro sorso di vino, prima di riprendere: - Quando uscì dalla Fiamma appariva più bella e radiosa che mai. La sua pelle risplendeva di una luce d'alabastro, satinata e soffusa. E quella visione bastò a farci capire che quanto ci avevano raccontato, se pure incredibile, era vero. Adesso dovevamo soltanto trovare il modo per impadronirci di una scintilla di quel potere... Abbagliati, storditi, stavamo per ritirarci nell’oscurità; ma in un attimo ci trovammo circondati dalle guerriere della regina, armate dei loro archi, le frecce incoccate e puntate su di noi. Lei diede un ordine in una lingua sconosciuta, sonora e melodiosa come la voce della Fiamma, e alcune delle guerriere, lasciati i loro archi, si precipitarono su di noi e ci spinsero a terra, immobilizzandoci. Quelle maledette donne, quanto cedevoli e compiacenti apparivano nell’amore, tanto forti e determinate erano nella lotta... Hai assaggiato la trota?



Rasselie fece un piccolo segno d'assenso.



- "Poveri miseri piccoli uomini!" Ayesha ci sovrastava, vestita solo dei suoi lunghi capelli, e la sua voce grondava disprezzo. "Siete venuti per rubare il segreto della Fiamma? Ebbene, io ve ne farò dono". La vidi andare in un angolo buio della caverna, dal quale ritornò poco dopo portando tra le mani qualcosa che assomigliava a una grande coppa scavata in un blocco di ametista. Si avvicinò alla Fiamma, e una scintilla azzurra zampillò come acqua nella gemma cava. "Voi siete cristiani e immagino abbiate ricevuto il battesimo della vostra religione" continuò. "Un rito che non lascia segno se non nell’anima. Ma io vi darò un battesimo che lascia il suo segno anche nella carne, così che dovunque andrete, tutti riconosceranno su di voi il marchio della Fiamma". Le guerriere ci tenevano immobili sul pavimento di pietra l’uno accanto all’altro, così che ad Ayesha bastò un gesto soltanto, una lieve rotazione del polso candido e sottile… E la Fiamma fu su di noi. La caverna riecheggiò il nostro duplice urlo di agonia.



Rasselie aveva smesso di mangiare per osservarlo mentre parlava: così tranquillo, così apparentemente sincero. Lui colse il suo sguardo, interruppe il racconto e disse: - Spero di non averti rovinato l’appetito.



- Niente affatto. E poi?



- Poi... Di nuovo la sua voce: “Perché pensate che Dio proibì ad Adamo ed Eva di mangiare il frutto della conoscenza? Esistono forze e poteri che non sono fatti per gli uomini comuni. Solo gli iniziati, puri nell'anima e nel corpo, possono dominarli e piegarli al loro volere. Tutti gli altri sono destinati a esserne sopraffatti, usati come schiavi e infine distrutti. La vostra avidità vi ha condannati a vagare in un mondo di oscurità e sofferenza, fino a quando la Fiamma si compiaccia di liberarvi e abbandonarvi all'inferno al quale appartenete". Quindi, rivolta alle sue donne, continuò: "Portateli nel deserto. Li aspetta un destino peggiore di qualunque morte”.



Rasselie era consapevole di avere in faccia l'espressione un po' ebete di una bambina che assiste alle proiezioni particolarmente fantasiose di una lanterna magica, ma il sedicente Fantasma possedeva davvero abilità da incantatore.



- Per settimane vagammo nel deserto aspettando la fine, ma non venne. Di giorno, il raggi del sole scavavano nelle nostre piaghe; il gelo notturno era lame arroventate. Come avesse potuto, quel fuoco infernale, risparmiarci la vista non sapevo. Forse soltanto perché potessimo vedere l’uno nell’altro la devastazione dei nostri lineamenti. Alla fine, fu una banda di predoni a salvarci. Pensarono di poter ricavare ancora qualcosa dalla nostre carcasse malandate e ci vendettero come schiavi. Ma avemmo la fortuna, se così si può dire, di essere acquistati dal Vecchio della Montagna. È così che nella Setta degli Assassini chiamano il loro capo. I disperati come noi, che più nulla avevano da perdere, rappresentavano un ottimo acquisto. Saremmo stati disposti a tutto, pur di sopravvivere. E così fu. Ci insegnarono come uccidere in modo rapido e silenzioso chiunque ci venisse ordinato di eliminare, senza chiedere mai perché. Un tempo eravamo stati soltanto avidi e scellerati; adesso diventammo spietati e infami. Il Vecchio ci noleggiava, per così dire, quando qualche potente desiderava liberarsi di un nemico o di un cortigiano scomodo. Fu così che finimmo alla corte dello scià di Persia. Lui era… affascinato, dal nostro talento.



Un miagolio gentile e musicale. Inalberando la coda come un vessillo, postura fiera e andatura vellutata, la gatta siamese era entrata nella sala e cominciò a strusciarsi alle gambe di Erik. Lui la prese il braccio e le servì un boccone dal suo piatto.



- Bellissima, la mia principessa...



- Il suo nome... osservò Raselie - È lo stesso di quella donna che ti ha ridotto... be', come sei. Perché l'hai chiamata così?



- Diciamo che è una sorta di... memento.



Accarezzò il pelo serico e la gatta cominciò a fare le fusa, premendo la testolina contro il palmo della mano. Poi, con una di quelle improvvise e rapide decisioni che i gatti sanno prendere a volte, saltò sulla tavola, l'attraversò e andò a strofinarsi contro la spalla di Rasselie.



- Le piaci osservò Erik.



Lei l'accarezzò, e la bestiola sembrò accettare il suo tocco senza alcuna diffidenza. Rasselie notò il sontuoso collarino che indossava, simile a un braccialetto di brillanti.



- Ma come sei elegante, una vera reginetta.



Erik sfoggiò di nuovo il suo sorriso malizioso. - Sono diamanti veri.



- Scherzi?



- Apparteneva alla gatta favorita dello scià.



Rasselie rise. - Certo che in quanto a fantasia... S'interruppe di colpo ritraendo la mano, perché la gatta aveva all'improvviso rizzato il pelo ed emesso una sorta di ringhio minaccioso. Ma non era con lei che ce l'aveva. Fissava il buio aldilà delle sue spalle.



Rasselie fece per voltarsi ma Erik alzò una mano in un gesto imperioso. - Non muoverti. Si guardò rapidamente attorno e chiese in un sussurro: - Hai sentito?



- No, cosa...



- Lui è qui.



Si alzò e l’afferrò per un polso. La stretta era decisa e quasi dolorosa.



- Vieni con me, devi nasconderti.



La trascinò nella galleria accanto, che era completamente al buio.



- Rimani qui. E zitta.



Un passo leggero echeggiava da qualche parte nella vastità marmorea del teatro, non si capiva da quale parte provenisse ma si stava avvicinando; e dopo poco Rasselie udì una voce risuonare chiara e beffarda.



- Felice serata, my friend.



Anche senza quel "my friend" Rasselie aveva già riconosciuto l'accento inglese con il quale era stato pronunciato il saluto.



- Non posso dire altrettanto ribatté Erik. - Perché sei qui?



- Nostalgia. Una risposta che sottintendeva un'alzata di spalle, così immaginò Rasselie. - E curiosità. Quando ho cominciato a udire queste storie, queste ciance su un fantasma che si nascondeva nei sotterranei dell’Opéra di Parigi, mi sono ricordato di quando favoleggiavi sulla tua futura ricchezza: "Un giorno avrò un palco tutto per me all'Opéra!". Hai realizzato il tuo sogno, Benoît .



- Il mio nome è Erik.



- Come ti pare. Cos’è in fondo un nome? No, non mi metterò a citare Shakespeare, stai tranquillo. Immagino che di drammi, anche se in musica, tu possa godere ampiamente in questo teatro. Un attimo di pausa; poi, in tono fintamente sorpreso e beffardo: - Ho interrotto una cenetta intima, o tutto questo è per me? Mi stavi aspettando?



- Cosa vuoi da me?



- Sto cominciando a soffrire un po’ di solitudine, sai. Era bello quando lavoravamo in coppia.



Rasselie riusciva a vedere del nuovo arrivato poco più della sagoma di spalle. Indossava mantello e cappello a cilindro di colore scuro, probabilmente nero, e del viso si distingueva solo qualcosa di pallido quando l’uomo girava leggermente la testa nella sua direzione. Insomma, Squartatore o chi altri, era solo un’ombra.



- Non ti basta quello che hai combinato a Londra, e Dio solo sa dove nel resto del mondo? Non puoi continuare a uccidere in questo modo.



- Oh, da che pulpito! Il costruttore di trappole e raffinati strumenti di tortura, il sicario dello scià, il progettista delle "Ore rosa di Mazenderan"!



- Questo appartiene al passato.



- No, Benoît . L’illuminazione a gas sta cedendo il posto a quella elettrica, la gente comunica a distanza, la fotografia prende vita nel cinema, raggi invisibili ci consentono di spiare all’interno del corpo umano, presto viaggeremo nel sottosuolo di questa città e voleremo al di sopra di essa, forse l’uomo metterà piede persino sulla Luna, come Astolfo, o Cyrano… Ma noi resteremo gli stessi. Per omnia secula seculorum. Legati per sempre l'uno all'altro. La veggente di Samarcanda ci ha mentito per un pugno d’oro, e io ne sono la prova.



- E allora perché continui a uccidere?



- Perché mi piace, mi dà sollievo. E non è meglio questo? Il potere che abbiamo, Benoît: il potere di vita e di morte sull’umanità!



La tentazione di uscire dal nascondiglio, perlomeno sporgersi un pochino di più per vedere e sentire meglio, era forte; e probabilmente avrebbe ceduto se non si fosse sentita tirare leggermente per una manica.



La voce di Meg al suo orecchio, appena più forte di un respiro, ma piena di terrore: - Vieni con me.



- Ma Erik...



- Lui non corre nessun pericolo… spero.



Con il suo passo leggero di danzatrice, Meg la guidò con sicurezza per le sale semibuie, fuori dal teatro, in un cortile a malapena illuminato.



- Là! esclamò indicando una massa informe in un angolo. - Aiutami a togliere il telo.



Le due donne tolsero il pesante telo di incerata che ricopriva l'oggetto, rivelando un veicolo assai simile a un basso calesse, tranne per il fatto che era privo di stanghe.



- Dove attacchiamo i cavalli? chiese Rasselie.



Meg sogghignò.



- Questo arnese ne ha otto in pancia. È un modello derivato dalla Ideal che Erik ha fatto costruire su richiesta con alcune modifiche. Può arrivare a cinquanta chilometri all'ora. Sia lodato Herr Benz!



 



* cit. "Il Fantasma dell'Opera" di Gaston Leroux


   
 
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