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Autore: little_psycho    10/04/2021    1 recensioni
Atsuhina week day 7: free prompt
«Ehi» disse Suga, improvvisamente dietro di lui, «ma quell’uccello ha tre zampe?»
Atsumu fece finta di niente e lo guardò annoiato. «Qualche strana mutazione genetica, visto tutto questo inquinamento.»
L’altro gli diede una spinta scherzosa mentre sentiva il corvo lamentarsi indignato.
Il problema era che- beh, come dire? Il corvo non era un corvo ma il ragazzo che aveva incontrato. Che alla fine non era neanche un ragazzo. Una specie di divinità centenaria che per qualche strana ragione solo Atsumu riusciva a vedere. Che casino. Aveva bisogno di un caffè e di una sigaretta. Poi si ricordò che lui nemmeno fumava.
Genere: Commedia, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Shouyou Hinata
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono contento che non dobbiamo uccidere le stelle. Pensa se ogni giorno un uomo dovesse cercare di uccidere la luna, pensò. La luna scappa. Ma pensa se ogni giorno uno dovesse cercare di uccidere il sole. Siamo nati fortunati, pensò. 

-Ernest Hemingway 

 

Sole, luna e stelle 

 

«Non mi ha ancora scritto» ripeté Oikawa per quella che doveva essere la centesima volta, giocando nervosamente con i lacci del suo grembiule verde scuro e mordicchiandosi l’unghia del pollice. 

«Lo farà» rispose meccanicamente Suga, alzando gli occhi castani al cielo e facendo segno ad Atsumu di tenere la bocca chiusa e di non fare qualche commento cattivo e fuori luogo. L’altro ghignò, ma rimase in silenzio e afferrò due menù per portarli alla coppia appena entrata nel ristorante. 

Era abbastanza divertente che il caro Iwa-chan non avesse chiamato Oikawa dopo essere arrivato sano e salvo in California, ma insinuare una possibile tresca con un bel surfista biondo avrebbe portato urla e pianti, e francamente non valeva la pena spaventare i clienti. Più o meno. 

«Lascialo libero di sperimentare» commentò distratto, posizionando dei bicchieri su un vassoio. 

«Se ti ama ritornerà ~»

Oikawa spalancò gli enormi occhi castani, assottigliò le labbra in una linea sottile. Sembrava avere tutte le intenzioni di salire sul primo volo per l'America. Si alzò impettito gonfiando il petto. Dopo un secondo incassó la testa tra le spalle e si sedette afflitto, rannicchiandosi su uno sgabello.

«E se non mi amasse?»

Tirò su col naso. 

Oh no. 

Atsumu diede una pacca sulle spalle di Suga e si sfilò il grembiule. 

«Tutto tuo» gli sussurrò all'orecchio mentre prendeva il suo zaino. 

«Muori» gli disse Suga di rimando con un tono zuccheroso, passando dei fazzoletti a Oikawa. 

 

***

 

L’augurio di Suga aveva sortito l’effetto sperato, ovviamente. Atsumu non sapeva che talismano voodoo avesse utilizzato o che tempio avesse visitato, ma fatto stava che quel bakeneko grande come una tigre avrebbe decretato la sua dipartita. 

Dalle zanne giallognole e appuntite colava delle bava disgustosa e gli occhi verdi erano spalancati, le pupille dilatate. Anche il respiro era accelerato. Stava letteralmente morendo di fame e l’unico pranzo reperibile era...beh, lui. 

«Buono, gattino» disse con calma, cercando di suonare persuasivo e meno appetitoso. Insomma, di certo non avrebbe potuto biasimarlo se avesse voluto mangiarlo, d'altronde Atsumu non poteva mica negare di essere un bel bocconcino - ce li aveva gli specchi a casa. 

Ma comunque sarebbe stato grandioso ritornare al suo appartamento tutto intero e senza visite improvvise in ospedale. Difficile spiegare al chirurgo come un gatto grande quanto un camion che solo lui poteva vedere gli avesse staccato una gamba. 

Sfilò uno dei pugnali dorati di sua nonna dalla tasca interna della giacca di pelle, lanciandolo immediatamente in direzione degli occhi dello youkai. 

Non sarebbe bastato così poco a ucciderlo, ma privato della vista non avrebbe fatto in tempo a percepirlo arrivare con il Raitejiou. Alzò lo scettro e sentì una scarica di potere attraversargli il corpo e attivare l’arma; era quasi incandescente, sprizzava scintille e le rune disegnate si espandevano sul metallo. 

Poi, le cose divennero improvvisamente confuse. Mentre estraeva il Raitejiou non aveva controllato se avesse o meno centrato l’obiettivo con il pugnale: un solo secondo perso gli sarebbe costato la pellaccia. Il bakeneko l’aveva evitato e gli ero balzato addosso, atterrandolo e provocandogli uno squarcio sulla spalla. Urlò dal dolore, sentendo il sangue che gli colava giù per il braccio e un bruciore allucinante. 

Strinse più forte il Raitejiou tra le mani, ignorando con fatica le vesciche che si stavano formando sui palmi. Il calore era soffocante a tal punto dal bruciargli la pelle del collo e del viso. La testa pulsava e le orecchie fischiavano mentre il mostro ringhiava sopra di lui, schiacciandolo con il suo peso. 

Guardava con timore lo scettro, ma gli ci sarebbe voluto poco per capire che non sarebbe mai riuscito a sollevarlo in tempo con quello squarcio sulla spalla. Sarebbero serviti dei punti di sutura, Osamu era più bravo di lui in quel genere di cose.

Effettivamente aveva preoccupazioni leggermente più impellenti, tipo il suo probabile svenimento. Sbatté gli occhi più volte, cercando gli cacciare il nero che si avvicinava dagli angoli della sua visione. 

Aveva un altro pugnale nella tasca all’altezza della coscia del suo pantalone militare. Allungò il braccio sano verso di essa, facendo oscillare il Raitejiou verso la testa del bakeneko, per spaventarlo. Non aveva la forza di compiere un esorcismo in quella posizione, ma almeno lo avrebbe distratto. Gli artigli della zampa sinistra gli graffiavano il costato, bucando la maglietta. Ormai aveva perso la sensibilità nei polpastrelli e l’idea di svenire non gli sembrava poi così terribile. Peccato che dopo aver divorato lui, l’altro si sarebbe divertito a seminare cadaveri per tutto il quartiere. 

Allungò un altro po’ le dita. Riuscì ad afferrare il manico del pugnale, la presa resa scivolosa dal sudore. Alzò di scatto il braccio e lo conficcò nella pancia del bakeneko. Lo sforzo gli fece emettere un rantolo e rotolò via dalla sua presa per pura forza di inerzia. Mettersi su due gambe non era un’impresa contemplabile. Tenendo più saldo il Raitejiou si ricordò con un verso di dolore della ferita alla spalla, che aveva inzuppato di sangue i brandelli della maglietta distrutta dagli artigli. 

Non la sua performance migliore, certamente. 

A bocconi sul cemento del vicolo vuoto, non vide altre alternative se non quella di alzarsi, esorcizzarlo e poi svenire in pace senza la paura di poter essere mangiato. Per quanto dolorosa, la ferita alla spalla non era certo mortale. Un po’ di sonno gli avrebbe fatto bene. 

Provò a mettersi in ginocchio, ma le gambe non ressero il peso. Lo youkai si stava dirigendo verso di lui, il passo un po’ fiacco per colpa della lama che gli spuntava dallo stomaco, ma comunque più stabile del suo. Il Raitejiou gli stava rendendo la mano quasi viola. 

Ora, Atsumu non un tipo che in situazioni di pericolo si faceva prendere dal panico o piangeva invocando un aiuto divino. Lui manteneva una mente lucida.

Però solitamente non aveva spalle manomesse e mani ustionate ed enormi gatti assassini super resistenti, ecco. Inoltre, spesso e volentieri andava a caccia con suo fratello, che aveva dato forfait per coprire il turno di Suna nel negozio in cui lavoravano. Almeno avrebbe avuto la consolazione di sapere che Osamu si sarebbe rimproverato tutta la vita di aver scelto una cotta a discapito dell’importantissima esistenza del suo gemello. 

Avrebbe potuto chiamare Osamu comunicandogli la propria posizione, o magari aspettare che l’animale lo assalisse e fare quel che poteva con lo scettro. 

Oppure poteva lasciarsi cadere all’indietro mentre il mondo si faceva tutto nero, perchè no. 

 

***

 

Aprì gli occhi lentamente, trovando uno spicchio di cielo aranciato stretto tra i tetti di due palazzi. Rimase immobile per due minuti, accorgendosi di essere steso in un vicolo con qualcosa di morbido sotto la testa. Sentì una frustata di dolore appena provò a muovere il collo, ma doveva ammettere che i dintorni gli sembravano abbastanza familiari. Percepiva un odore ferroso e la mano destra era stranamente pesante e ruvida. Alzò il braccio lentamente per vederla fasciata da numerose bende. Emetteva un debole profumo di erbe. 

«Sei vivo!» esclamò contenta una voce al di fuori del suo campo visivo e Atsumu si ritrovò a chiedersi perché non sarebbe dovuto esserlo. 

Come un flash, gli attraversarono la mente spezzoni di quello che era accaduto poche ore prima: lui che faceva un giro di perlustrazione, i rumori sospetti che venivano dal vicolo, il bakeneko affamato, il pugnale, il Raitejiou surriscaldato, la spalla, la mano, un secondo pugnale e… niente, lì si fermava la storia. 

Si alzò di scatto ignorando i muscoli indolenziti, perché per quanto si sforzasse non riusciva a ricordare di aver finito la bestia. L’aveva lasciata in libertà? Quanto tempo era passato? Aveva chiamato Osamu? E chi era quel nano rosso che lo osservava su di giri? 

«Sì, credo» rispose insicuro, guardandosi attorno e localizzando sia lo scettro sia i due pugnali. Prese la giacca di pelle, l’indossò e la chiuse per coprire la maglia sottostante ormai distrutta. 

Si girò verso quello che a prima impressione gli era sembrato un ragazzino, ma che a ben vedere doveva essere un ragazzo forse di vent’anni con un’incommentabile massa di ricci rossi. 

«Sei parecchio resistente» osservò l’altro guardandolo con curiosità quasi scientifica. Inclinò la testa come un uccellino confuso. «Non dovresti giocare con questo» indicò il Raitejiou con il dito, «lascialo agli esorcisti più esperti.» 

Lo fulminò con un’occhiataccia, gonfiando il petto, con la mezza idea di prenderlo a pugni.

Esorcisti più esperti! 

Lui era l’esorcista esperto. Non si chiese neanche come lo sapesse. 

«Riesco a usarlo benissimo, grazie tante» bofonchiò quasi ringhiando, stringendosi nella giacca. Stava iniziando a fare freddo, ma il tizio davanti a lui sembrava stare una meraviglia nella sua maglietta di cotone a mezze maniche. 

Si aprì un sorriso beffardo sul suo volto. «È abbastanza soggettivo visto che ho dovuto esorcizzare un bakeneko furioso e poi medicarti.» Alzò di nuovo il braccio per indicare le bende che gli avvolgevano le braccia e lì per lì Atsumu ebbe l’impulso di staccargli a morsi l’indice. Che rottura. Ma chi era, comunque? Forse sarebbe stato più prudente chiedersi cosa fosse. «Non c’è di che, eh.» 

Roteò gli occhi, sentendo la base del collo pizzicargli per il fastidio. «Potevi anche lasciarmi qui, nessuno te l’ha chiesto.»

«Che ingrato» fu la risposta a freddo. Contrasse le sopracciglia come se si fosse veramente offeso, ma il sorriso che aleggiava sulle sue labbra diceva il contrario. Atsumu percepì un piccolissimo, minuscolo, microscopico senso di colpa: insomma, aveva soccorso un perfetto sconosciuto, lo aveva curato e aveva esorcizzato al suo posto un mostro che avrebbe potuto distruggere il centro cittadino. Aprì la bocca per chiedere almeno il suo nome - il che era paragonabile a delle scuse per i suoi standard -, però l’altro parlò prima di lui. 

«Certo che siete proprio strani» iniziò stranamente divertito e incamminandosi verso l’uscita del vicolo, la luce rossastra del cielo che baciava la sua figura fino a farlo quasi brillare, «voi umani.»

 

***

«Poi è sparito» cercò di spiegare a Kita, che girava annoiato il suo boba tea con la cannuccia. Quando lo guardava sembrava sempre un po’ spaesato o distante, le pupille verticali come quelle dei gatti aggiungevano alla sua espressione impassibile ancora più immobilità. 

«Non farti troppe paranoie» commentò, «apparterrà a qualche clan sceso in città da poco.» Prese un sorso della bevanda. «lo dovevi almeno ringraziare, però. Come stanno le mani?» Erano come nuove. Non una cicatrice, crosta di sangue rappreso, irritazione, niente di niente. Gli mostrò i palmi senza parlare, come se il suo ex capitano del liceo gli avesse trasmesso la calma piatta che lo contraddistingueva. Forse funzionava come con gli sbadigli: ne fai uno e la persona vicino a te inizia a sentire sonno e sbadiglia, e tu sbadigli a tua volta. Certo che era da un sacco che non si faceva una bella dormita. Probabilmente bastava pensare agli sbadigli per essere contagiato: sbadigliò rumorosamente, stiracchiandosi e poggiando la testa sulle braccia incrociate sul tavolo. 

«Non era un esorcista.» sussurrò sicuro, «Ha detto “voi umani”, quindi...» 

«Non è uno youkai» ragionò Kita masticando attentamente, «perché esorcizzare un suo simile? Anche se quello in questione era uscito fuori di testa, lui cosa ne avrebbe guadagnato? E poi curare un esorcista… letteralmente il tuo lavoro è uccidere quelli come lui.» Poi si corresse. «Come noi.» 

«Ancora con questa storia? Prima di tutto non li uccidiamo, distruggiamo la loro proiezione su questo mondo, ma continuano a vivere nel loro e potranno ritornare quando saranno come prima - grande seccatura. Poi, lo facciamo solo con quelli che potrebbero causare problemi. Terzo, definirti youkai è un parolone. Non riesci neanche a trasformarti in una volpe.» 

«Se ti sentisse mia nonna...» rise Kita, grattandosi una guancia. Probabilmente l’avrebbe rincorso per tutto il negozio con un manico di scopa in mano. Beh, non era colpa di Atsumu se nel corso del tempo avevano continuato a sposarsi con mortali finché la linea di sangue si era indebolita. Meglio per lui, almeno non doveva preoccuparsene. 

Dopo quella fallimentare conversazione non pensò molto al tipo strano, soprattutto perché non aveva molte persone con cui parlarne: ammettere con suo fratello che gli era servito dell’aiuto era fuori discussione, Oikawa e Suga lo avrebbero zittito dopo due minuti, Aran non usciva di casa da almeno due settimane per preparare chissà che esame difficile, Suna e Omi-kun - erano davvero suoi amici?

Che fosse umano, mostro o fatina dei denti non era poi un problema se non causava guai. Dalla finestra notò un battito d’ali dorate. Non ci prestò molta attenzione. 

 

***

Aran non era l’unico a studiare per l’università, eh. 

Almeno era quello che avrebbe voluto dire a quella massa di inutilità che era suo fratello quando gli aveva sbolognato per l’ennesima volta il suo turno di pattuglia per il quartiere. Atsumu doveva studiare e lavorare ed esorcizzare spiriti, e non aveva neanche più il tempo per stare cinque minuti steso sul divano. 

Mentre portava un ordine al tavolo per sbaglio aveva rovesciato un bicchiere d’acqua sul braccio di Oikawa e l’altro era dovuto correre in bagno prima che si potessero vedere le squame iridescenti. Gli aveva ringhiato qualcosa di non molto carino in una lingua che molto probabilmente non era nemmeno giapponese, e per l’ennesima volta si ritrovò a pensare che avevano aperto il locale alla clientela sbagliata. D’altro canto, Atsumu non pensava che alcun essere soprannaturale - tranne Kita e Suna - sarebbe stato molto felice di stare a diretto contatto con un esorcista. 

«Stupido pesce» borbottò astioso calciando un ciottolo sul bordo della strada. Anche se era una sirena, o un tritone, o un misto tra i due. 

Giocherellò con i pugnali, passandoli da una mano all’altra mentre camminava sotto al sole, starnutendo per il polline che si spostava nell’aria. Chissà cosa avrebbe trovato se avesse continuato a camminare all’infinito, sempre in linea dritta, senza pause. Dalla sua posizione la strada sembrava non finire mai. Si guardò intorno socchiudendo gli occhi, circondato da asfalto bollente - perché faceva così caldo? -, un cielo azzurrissimo e alberi da frutto. Iniziò a correre, saltò su un muretto e si diede lo slancio per una capriola, continuò a correre a perdifiato con i polmoni che bruciavano e la maglietta zuppa di sudore, il cuore che batteva troppo forte. 

Si bloccò appena sentì un guaito che era molto più vicino a un ruggito: rinsaldò la presa sui coltelli e ne piantò uno negli occhi di un bakaneko dopo un salto all’indietro. Il primo pensiero fu che era lo stesso incontrato nel vicolo, ma il pelo era diverso e anche le dimensioni. 

Fa’ che non abbia esorcizzato la madre, fa’ che non abbia esorcizzato la madre continuò a pensare mentre prendeva una corda dalla tasca del pantalone.

Era sicuramente più piccolo, ma decisamente più incazzato. Il fatto che ci fossero una madre e un figlio già era un problema, perché doveva esserci una colonia da qualche parte, forse più in campagna. 

«Senti, se adesso ti calmi, potrei anche lasciarti andare» tentò di sembrare convincente. Ovviamente non avrebbe potuto farlo - in quello stato avrebbe sbranato qualcuno. Probabilmente lui. 

Non lo ascoltò, cosa abbastanza prevedibile, che lo portò ad attuare il piano B: afferrarlo per la coda e legargli le zampe posteriori per farlo tornare tra le compiante braccia  materne nei paradiso dei felini. 

Si tuffò verso di lui, usando il secondo pugnale come diversivo, graffiandogli il fianco mentre gli soffiava contro. Chiunque con un minimo di cervello o istinto di conservazione avrebbe detto che era un’idea idiota e non realizzabile ma Atsumu- beh, “è un caso a parte” diceva sempre Osamu, e di certo non poteva negare che non era il tipo di persona che pensava molto prima di agire. 

Lo atterrò con una zampata in pieno petto e l’impatto contro il muro lo lasciò senza fiato. Cazzo. Si tastò il busto e non trovò nessun osso rotto.

«Ci sono due opzioni:» sentì una voce familiare dietro di sé, e lo sforzo di ricordare a chi potesse appartenere gli fece girare la testa. Forse aveva una piccolissima commozione cerebrale. «o sei la persona più sfortunata del mondo, o il più incapace esorcista mai esistito.» 

Le sue sopracciglia schizzarono verso l’alto, stizzite, e masticò tra i denti delle espressioni abbastanza colorite. 

«Invece mi sembra che qui ci sia una sola opzione» gli rispose seccato, ancora steso per terra perché non riusciva a muovere mezzo muscolo. «Mi stai seguendo.» 

La voce apparteneva al ragazzo incontrato nel vicolo. E non poteva essere una casualità. Non esistevano certe cose. 

Lo guardò con la coda dell’occhio, prestando più attenzione alla bestia che di certo non aveva pensato che fosse una conversazione privata e che fosse il caso di lasciarli soli. Beh, maleducato come non pochi.

«Dovresti considerarmi il tuo angelo custode» commentò improvvisamente felice, e dal suo tono doveva star sorridendo. Atsumu sbuffò e reclinò la testa all’indietro. Si era trovato un pazzo da legare. O meglio, uno fuori di testa aveva trovato lui. 

«Non sei un esorcista» disse con voce fievole, calmo come il mare piatto mentre il bakeneko prendeva la rincorsa verso di loro. Non aveva paura. E non sapeva spiegarselo. Si sentiva in una bolla ovattata, calda e sicura, e la scena davanti a lui sembrava allo stesso tempo lontanissima e vicina. Il tepore gli stava portando una lieve sonnolenza, quella che ti colpisce quando ti stendi sotto al sole in primavera e non hai alcuna preoccupazione. 

Il ragazzo davanti a lui aveva un giubbotto di jeans e dei pantaloni neri, svettava nella sua visuale con le gambe divaricate, sicuro di sé, le braccia alzate e i vento che gli muoveva i capelli. C’era un'aura attorno a lui, qualcosa di luccicante e caldo e pericoloso e terribile che lo circondava. La luce aumentò ancora di più e - chiunque, ma proprio chiunque sarebbe scappato a gambe levate perché qualunque cosa ci fosse era sicuramente troppo - Atsumu sentì il proprio cuore saltare un battito. Non sapeva cosa sarebbe successo. O chi fosse veramente l’altro. Non riuscì a fare a meno di sorridere terrorizzato. 

«Cos’è successo?» bisbigliò quando la luce si affievolì. Il mostro era scomparso. Il ragazzo si era girato verso di lui e si era piegato sulle ginocchia per osservarlo. 

«L’ho esorcizzato» spiegò brevemente, allungando la mano per toccargli la tempia con dita che scottavano. Bruciavano come avesse appena preso fuoco. C’era dell’elettricità nell’aria.  «C’è del sangue. Mi ero dimenticato come foste delicati-»

«Voi umani» finì la frase Atsumu al posto suo. Non era un esorcista. Nessuno corpo avrebbe potuto sopportare quel potere. Cercò di scrutare il suo viso, ma era rivolto verso il basso, a guardare chissà cosa o forse a pensare a quale scusa idiota rifilargli per giustificarsi. 

Ridacchiò divertito. «Mi sa che l’altra volta ti ho proprio fatto incazzare» sghignazzò quasi. «Scusa» disse con voce pacata dopo attimi di silenzio, «l’ultima volta che...» si fermò come se fosse imbarazzato. «Di certo non esisteva il verbo far incazzare. O le patatine fritte.» Rivolse lo sguardo verso la strada, assorto, mentre le macchine li oltrepassavano a tutta velocità. «O le automobili» continuò. 

Atsumu non ci stava capendo un emerito niente. Tutto quello che aveva in testa era un dolore sordo alla tempia. 

«Parla potabile» biascicò stanco e sfatto, scivolando per terra e chiudendo gli occhi. Che fatica. Sentì un sospiro. In realtà sarebbe dovuto essere lui quello a sospirare disperato perché un tizio scappato dal manicomio lo aveva salvato ben due volte. Chi si somiglia si piglia avrebbe detto Osamu. Sbuffò frustrato. 

«Beh» ricominciò da capo e Atsumu schiuse una palpebra giusto per vederlo. Il suo profilo sottile era illuminato dal sole, le dita nervosa giocavano con i bottoni del giubbotto. Finalmente si girò nella sua direzione.

«Sei il primo umano con cui parlo dopo mille anni.»

Aveva delle fiammelle danzanti al posto dell’iride. 

 

***

«Non ho ben capito come funziona questa cosa» disse Atsumu al piccolo corvo appoggiato al davanzale della finestra del locale, «ma sono piuttosto sicuro che sia stalking.»

«Sei completamente ammattito?» gli urlò Suga dal balcone e ringraziò che fossero ancora chiusi. «Non è rimasta neanche una persona disposta ad ascoltarti e ora parli da solo?» rincarò la dose continuando a sgolarsi, manco fosse il mercato del pesce di domenica mattina. Sfilò il telefono dal grembiule e se lo portò subito all’orecchio, si girò e lo indicò scocciato. «Sto parlando con ‘Samu!» sbraitò in risposta. Non che fosse molto elegante - ma aveva iniziato lui. Il corvetto dorato alla finestra emise un lieve pigolio, un suono molto più dolce di quello che ci si aspetterebbe da bestiacce del genere. 

«Ehi» disse Suga, improvvisamente dietro di lui, «ma quell’uccello ha tre zampe?»

Atsumu fece finta di niente e lo guardò annoiato. «Qualche strana mutazione genetica, visto tutto questo inquinamento.»

L’altro gli diede una spinta scherzosa mentre sentiva il corvo lamentarsi indignato. 

Il problema era che- beh, come dire? Il corvo non era un corvo ma il ragazzo che aveva incontrato. Che alla fine non era neanche un ragazzo. Una specie di divinità centenaria che per qualche strana ragione solo Atsumu riusciva a vedere. Che casino. Aveva bisogno di un caffè e di una sigaretta. Poi si ricordò che lui nemmeno fumava. 

Tentò di sopravvivere per le successive tre ore con un solo bicchiere di caffeina in corpo, senza molti risultati. Rassegnato pensò all’esame per cui doveva studiare e il giro di ronda da fare prima di tornare a casa. Di solito non incontrava tutti quegli youkai. Sicuramente era insolito che ce ne fossero così tanti fuori di testa. 

«Scommetto che è colpa tua» accusò il ragazzo che camminava accanto a lui, con ancora una piuma gialla tra i capelli. «Stai attirando tutti questi mostri verso di me.»

Lo guardò come se avesse una terza testa. «Se ti volessi morto» iniziò, masticando la lunga liquirizia rossa che aveva tra le mani, «mi basterebbe uno schiocco di dita. E poi, che senso avrebbe voler uccidere l’unica persona che riesce a vedermi?» 

Non sembrava per niente un dio iracondo e pronto a sterminare tutti. Con dei jeans larghi, la felpa aperta su una maglietta bianca e le mani appiccicose sarebbe potuto passare per un normale adolescente. Per uno che frequentava la sua stessa università. 

Le fiamme nei suoi occhi ormai erano calmissime, basse e tranquille. 

«Si sta avvicinando l’estate» considerò lui, tra un morso e l’altro, «di solito in quel periodo i confini tra i due mondi si assottigliano. Forse questo li mette in agitazione.»

Atsumu annuì distratto, guardandolo di soppiatto. Non sapeva cosa in tutta quella situazione lo mettesse a disagio, come se stesse indossando dei vestiti troppo stretti. Lui - lui credeva in quello che vedeva. Okay? Lui credeva perché sapeva. Sapeva che c'erano le volpi nei templi e le sirene sulla costa e il Signore Della Montagna sul monte davanti casa sua nel Kansai. Sapeva che c'erano i mushi e aveva incontrato un mushishi. Non aveva mai visto un dio. Non aveva mai veramente pregato o non gli era mai veramente importato, tranne per le strane domande che si fanno i bambini. Gli Dei esistono? E dove sono? Boh, si rispondeva alla veneranda età di ventun'anni. Chi se ne importa. Gli Dei non lo toccavano e lui non toccava loro. 

«Come ti chiami?» chiese all'improvviso, giusto per riempire il silenzio. Nello stesso momento in cui finì di parlare si accorse che quella mancanza di parole era stata piacevole. Placida. 

«Yatagarasu.»

Fissò la strada davanti a lui. Il modo in cui guardava il mondo che lo circondava aveva un che di personale. Lo sviscerava. Lo apriva e ci cacciava la testa dentro, come se ci fosse qualcosa da cercare, un di più da strappare e analizzare. 

«Siamo in Giappone, vero? Allora sì.»

Rispose all'occhiata confusa di Atsumu con una scrollata di spalle. «In altri luoghi mi chiamo con altri nomi.»

«Però adesso sono con te» considerò, cercando di pulirsi le mani sui pantaloni. Atsumu alzò gli occhi al cielo e gli passò un fazzoletto. 

«Dovresti darmi un nuovo nome. Nuovo millennio, nuova vita!»

«Non sei un cane!» 

«Beh, sono un corvo. Anche uno molto bello, se permetti...»

«No! Cioè, sì, ma- Nel senso, non sei un animale, non posso darti un nome a caso!»

Si fermò in mezzo al viale alberato, esattamente di fronte a lui. Emanava di nuovo quel calore, e il sole sopra di loro brillava con più forza. Yatagarasu - il corvo della dea del sole, giusto? E in altre parti dell'Asia a volte era la rappresentazione del sole. Tante storie diverse e nessuna verità precisa. 

Cos'era? 

Era a due centimetri dal suo viso, le fiamme aranciate contornate da ciglia lunghe come zampe di ragno. Calamitava lo sguardo - non come le statue, non come ci si aspetterebbe da una divinità (con una bellezza rigida, austera, monotona), ma come un salto nel vuoto. Come una battaglia in cui sei sicuro di star per morire. Vivo e luminoso come le onde del mare che sotto la luce sembrano mercurio. 

«Io sono un dio e tu sei un umano» gli disse pianissimo, il respiro caldo contro il suo collo. Era più basso di lui e lo avrebbe potuto distruggere seduta stante. Gli venne da ridere. 

«Non è così che funziona?» 

Si abbassò in un modo che i loro sguardi si potessero incrociare. 

«Non sei il mio dio. Puoi essere chi vuoi.»

 

***

«Hinata Shouyou-sama» si presentò il giorno seguente davanti all'entrata del negozio. Di quel passo chissà cosa avrebbero pensato Suga e Oikawa. 

«Ho in mente tre posti diversi dove potresti ficcarti quel sama.» 

«Sei davvero irrispettoso, considerato che l'ho scelto per te!» 

«Come, scusa?»

«Secondo me Shouyou con il tuo accento suona bene.» 

Lo disse casualmente, inclinando la testa, come se fosse normalissimo e non avesse fatto arrossire Atsumu fino alle orecchie. Ecco. Adesso le sue guance scottavano e chiuse le labbra in una linea sottile. Perché non era imperturbabile come Kita e Suna? O disinvolto come Suga e Oikawa? Brrr, stava davvero in invidiando quei fenomeni da baraccone? 

Rimase zitto per almeno due minuti, impettito davanti a lui cercando di non sembrare un idiota. 

«Shouyou-kun» provò alla fine, quasi stesse confessando un crimine, con il suono della sh che si aggrappava alla lingua come se fosse resina. Aggiunse il kun giusto per dargli fastidio. 

L’altro - Shouyou - annuì soddisfatto, girandogli intorno per poter entrare nel locale, pronto a saltare sul bancone e a dargli fastidio come uno spiritello indisponente, visto che era l’unico a vederlo. 

«Tu?» chiese nel mezzo di una giravolta, facendo oscillare la catenina che pendeva dal jeans. «Come ti chiami?» 

«Atsumu» rispose meccanicamente, superandolo con la testa abbassata, non sapendo se valesse la pena rischiare un infarto sentendo il suo nome detto da Shouyou. 

«Atsumu-san» infatti pronunciò lui neanche un attimo dopo, articolando ogni lettera come se fosse una lingua completamente estranea. 

«Adesso ci siamo presentati» dichiarò con tono solenne, «prima non eravamo nessuno. Ma adesso abbiamo un nome.» 

 

***

«Più ci penso più inizio ad avere l’impressione che tu sia una proiezione della mia mente» gli bisbigliò Atsumu all’orecchio mentre si allungava per prendere le uova sullo scaffale del supermercato e buttarle senza grazia nel carrello. Hinata arrivava al locale e poi spariva, una volta gli aveva chiesto dove se ne andasse e lui gli aveva risposto che non lo sapeva. 

«Esisti realmente?» 

Insomma, lui lo vedeva, ma non sapeva. Non c’era nessuna certezza. Non aveva niente di concreto, nonostante contro ogni ragionevolissimo dubbio Hinata Shouyou fosse fatto di carne e ossa. 

«Ancora con questa storia?» chiese quasi disperato, «Esisto nella stessa misura in cui non esisto, credo. Ma chi passerebbe tutta la vita a farsi queste domande?» 

«Ho un gemello» disse di botto, tenendo il tono basso per evitare occhiatacce dagli altri clienti, «se io ti vedo dovrebbe riuscirci anche lui, no?» 

Non che lui non ci avesse pensato prima, ma da una parte voleva mantenere Shouyou il suo segreto. E forse parlava il suo egocentrismo sfrenato, ma era confortante sapere che c’era qualcuno che senza di te non poteva letteralmente vivere. Esistere. 

Quando i suoi occhi si illuminarono e le fiamme scoppiettarono allegre, si sentì un po’ offeso. Lui non bastava? 

Comunque, alla fine pagò la spesa e gli fece segno di seguirlo fino al negozio di Osamu, dove sperava di non vederlo fare gli occhi dolci a Suna. Sperava, appunto, perché appena arrivati se lo trovarono perso nella contemplazione del suo collega di lavoro, che a dirla tutta, stava malissimo con quella divisa. 

«È bello» decretò osservandolo e Atsumu perse almeno cinque anni di vita, con l’improvviso desiderio che il suo tanto amato fratello cadesse morto in quell’esatto momento. Cosa, poi? I capelli unti dal fumo della cucina? L’espressione da pesce lesso? 

«Abbiamo la stessa faccia» borbottò scontroso, alzando il braccio per palesare la sua - di gran lunga più affascinante - presenza. 

«Appunto» sussurrò Shouyou accanto a lui, improvvisamente paonazzo e caldo - nel vero senso del termine, come una stufa. 

Oh. 

Quando capì che anche lui era arrossito, mentalmente diede la colpa alla torcia umana lì accanto. 

Osamu si avvicinò con andatura strascicata e scocciato, il sorriso di prima non aveva lasciato traccia. 

«Preparo da asporto?» domandò senza neanche prendere il taccuino, guardando attraverso Shouyou come se non ci fosse. «O deve venire qualcuno?» 

L’altro incurvò le spalle deluso, e Atsumu si sentì in colpa per avergli dato una falsa speranza e arrabbiato con Osamu perché non riusciva a vederlo. Non era buono a niente. 

 

***

Se ne andarono in un parcheggio quasi deserto, con i loro sacchetti pieni di onigiri al tonno, affamati e abbattuti dall’unica possibilità andata in fumo. Si stese su una panchina scomodissima, cacciando fuori il cibo e passandolo all’altro, che era rimasto in piedi a osservare il cielo imbrunire. Era una coperta di velluto blu sulle loro teste, senza una nuvola, senza luna, omogenea e perfetta. 

Aveva di nuovo quello sguardo - quella vivisezione del reale, quel bisogno di bucare il mondo con uno spillo e vederlo sgonfiarsi come un pallone -, distante, completamente spaesato, un bambino sul ciglio della strada che parla di quanto è grande l’universo. 

«Avete ucciso le stelle. Chi l’avrebbe mai detto che sarebbero morte prima di me» disse senza spostare l’attenzione dall’alto. Per colpa delle luci della città ormai era veramente difficile scorgerle, ma già in campagna c’era qualche possibilità. Com’era il cielo mille anni prima? 

Si girò verso di lui con un sorrisetto impertinente. «È buonissimo. Sai cucinare come tuo fratello, o sai solo uccidere?» 

Piegò la schiena in avanti per guardarlo dritto negli occhi, i suoi capelli cadevano sul viso di Atsumu come i rami di un salice piangente. I loro nasi si sfiorarono, e Atsumu ancora non riusciva ad abituarsi al costanto contatto fisico dell’altro, e alle sue parole che non sapeva interpretare, e al suo improvviso arrossire, e ai ghigni di superiorità e-

«Forse» iniziò quasi balbettando, paralizzato dalla sua vicinanza, tentato per qualche strana ragione dall’allungare le dita e accarezzargli la guancia per vedere quando fosse calda, «è vero che abbiamo ucciso le stelle. Forse tutte le stelle che vediamo in realtà sono la luce che rimane di quelle morte. Perché viaggia a una velocità diversa e non è ancora arrivata sulla terra.»

Si interruppe per riprendere fiato, socchiuse le labbra mentre Shouyou era ancora piegato su di lui, nello stesso modo in cui si osserverebbe un film di cui ci si ricorda solo il finale. Era riuscito a dare un morso all’onigiri che giaceva abbandonato nella sua mano destra, il vento che gli procurava la pelle d’oca sulle braccia nude. Quando provò a parlare la voce uscì un po’ spezzata, un po’ vibrante. «Poi ci raggiungerà e in effetti la notte non cambierà più di tanto.»

Shouyou accennò una risatina, uno sbuffo d’aria che gli accarezzò la fronte, senza avere nessuna intenzione apparente di sollevarsi ed evitargli un mancamento. «Però» accennò di nuovo, schiarendosi la voce, cercando di darsi un tono, alzando la mano sinistra per indicare un punto sopra le loro teste, «la stella polare si vede.» Si mise a sedere a gambe incrociate sulla panchina e fece segno all’altro di imitarlo. «Fa parte della costellazione del Piccolo Carro e indica il Polo Nord» sussurrò verso la volta celeste che diventava sempre più scura, nera come l’inchiostro. 

«Beh, forse le conosci anche meglio di me» scherzò, riempiendosi la bocca di riso e tonno. Certo che le conosceva meglio di lui. Ci viveva lì, no? Di solito lui non era così. Era molto più… sfacciato? Divertente? Sicuro di sé? 

(Eppure c’era qualcosa in quell’esatto momento che lo spingeva a mostrare altro. Come se stessero condividendo un segreto.) (Come se esistessero solo loro due sulla faccia del pianeta.) (Sentirsi bene da soli con una persona.) (Quante volte poteva capire nella propria vita?)

Shouyou rimase stranamente in silenzio, visto che di solito non riusciva a chiudere il becco per due minuti. Becco. Haha. Capita? Perché era un corvo. 

Ridacchiò da solo alla propria battuta e lui gli gettò un’occhiata confusa. Poi diventò penetrante, e infine terribilmente intima, mentre lasciava vagare gli occhi sul suo volto, nella sua perenne ricerca di chissà cosa. Nessuno l’aveva mai guardato così attentamente, con così tanta voglia di metterlo a nudo, di scavargli dentro e cacciare fuori il suo cuore e- e aprire anche quello, dividerlo in pezzi sempre più piccoli fino ad arrivare al centro per trovare la sua essenza. Gli sarebbe piaciuta? 

Gli sfiorò lo zigomo con i polpastrelli - ovviamente caldissimi, e gli passò per la testa il pensiero che in inverno sarebbe stato la compagnia perfetta -, con un’intensità nello sguardo che non poté far a meno di emettere un minuscolo sospiro. Non si era neanche reso conto di averlo trattenuto. Lo avrebbe baciato, vero? Era il momento perfetto. E lui stava andando in iperventilazione. 

Gli percorse il contorno della guancia con le dita, il suo polso a contatto con il suo collo, e entrambi avrebbero potuto sentire i battiti dell’altro. Il suo polso contro il collo e le sue dita sul volto e i suoi occhi che lo stavano bruciando dall’interno. 

Arrivò ad accarezzargli il labbro inferiore, passando le unghie corte e sottili sul contorno. Poi le allontanò con movimento lenti e gentili di melassa e passò la lingua sul pollice, dove si trovavano dei chicchi di riso che probabilmente gli erano finiti in faccia mentre si era sbafato l’onigiri di fretta e furia. 

«Il riso è più buono dalle tue labbra» disse sorridendo, facendo una piccola pausa. «E l’astronomia» aggiunse con tono sempre più basso, con un’espressione sempre più vulnerabile. «E le risate.» 


 

Chi non crede senza prima vedere è da compatire. Senza fede, come faremmo a sapere cos'è reale e cosa no? Ci sono persone che vedono e tuttavia non credono. E non è forse lo stesso che non vedere? Allora sarebbe tutto quanto un sogno immateriale?! La comprensione di ogni realtà comincia dalla fede. E la fede nasce dall'amore per i propri simili. 

-Osamu Dazai


 

«C’è questo ragazzo, okay?» iniziò di punto in bianco davanti a Oikawa, perché non riusciva a pensare a qualunque altra persona a cui confessare la propria cotta - attrazione? Bisogno di vederlo ogni giorno? Sogno a occhi aperti?

 E poi lui era una sirena. O un tritone. Vabbé, un pesce fin troppo grosso che aveva fama di far innamorare gli uomini e di mangiarseli. (Non che Oikawa lo facesse.) (Non che, a ben pensare, Atsumu lo avesse mai visto pranzare in pubblico.) 

Aggrottò le sopracciglia, pensieroso. «Mica mangi le persone?» 

L’altro lo guardò seccato, massaggiandosi una tempia. «Se non ti muovi con qualsiasi cazzata tu stia per dire, ti affetto e ti metto nel congelatore.» 

«In realtà-beh, non è proprio un ragazzo» riprese per interrompersi nuovamente. Cercò di riordinare le idee mentre Oikawa stava perdendo la pazienza. «Insomma, più o meno. Almeno lo sembra. Comunque, c'è questo quasi-ragazzo e lo vorrei baciare. Davvero tanto» concluse quasi con l’affanno, sentendo un peso che lasciava il suo stomaco. L’aveva detto ad alta voce, ecco. L’aveva annunciato al mondo. 

Rivolse al moro uno sguardo pieno di aspettative. Doveva pur avere un misero consiglio da propinargli. Invece ricevette un’alzata di sopracciglia per niente impressionata. 

«E allora? Che c'è, vuoi lezioni di baci?» domandò con un’espressione beffarda, facendo per alzarsi e uscire dalla cucina per servire ai tavoli. 

Lo bloccò per un braccio, ingoiando qualsiasi tipo di orgoglio avesse mai posseduto in tutta la sua esistenza. «Ma lui è speciale» provò a spiegare con urgenza. 

Oikawa sbuffò. «Tutti sono speciali la prima volta, poi ti passa.»

Utile come sempre pensò nervoso Atsumu, rendendosi conto di essere così disperato da aver chiesto consigli amorosi in giro. Lui. Come se non fosse l’unico tra i suoi amici realmente ferrato sull’argomento. 

«Perciò Iwa-chan se n’è andato?» chiese retorico passandogli davanti, alquanto incattivito. «Perché non eri più speciale?»

«Miya...» ringhiò e in quello stesso momento Atsumu scorse un uccelletto familiare che volteggiava vicino alla finestra.

«Devo andare» disse in tutta fretta, slacciandosi il grembiule e arraffando lo zaino, provando a passarsi una mano tra i capelli nel frattempo. Multitasking, affascinante, spiritoso e strepitoso. Non c’era alcuna ragione per cui Shouyou non dovesse cadere ai suoi piedi. 

«Non credo di avertelo mai domandato» disse appena se lo trovò davanti, «ma perché hai tre zampe?»

«Rappresentano le mie qualità: bello, intelligente e coraggioso.»

Alzò gli occhi al cielo, cercando di trattenere un sorrisetto. Non era dignitoso sembrare disgustosamente felice ogni volta che lo sentiva parlare. «Non c’è “modesto”?»

«La modestia è per chi si sottovaluta.» 

Lo squadrò, rigirandosi le sue prossime parole nella mente. (Poteva?) (Anzi, no, doveva.)  «Difficile provarci con te se ti fai i complimenti da solo» rispose con voce un po’ incerta, ma continuando a guardarlo senza imbarazzo, aprendo le labbra in un sorriso da schiaffi. 

Shouyou distolse lo sguardo, avvampando e Atsumu pensò di aver finalmente detto qualcosa di sensato e figo e magari Shouyou era realmente interessato - perché arrossire altrimenti? -, fino a quando non vide delle piccole nuvolette volteggiare nell’aria. 

«Stai emettendo fumo?!» quasi urlò preso alla sprovvista, «Ti stai surriscaldando?!» 

«Smettila di gridare» gridò Shouyou a sua volta, facendosi aria con le mani a ventaglio, prendendo respiri profondi, «mi hai preso alla sprovvista, ecco...»

«Stavo per uccidere una divinità vecchia come il mondo con una battuta da principiante.»

Lo fulminò con un’occhiataccia. «Sembri troppo soddisfatto.»

«Dove stiamo andando?» Si guardò attorno, e si accorse che aveva seguito l’altro senza pensarci e adesso era sulla cima di una collina. Non gli facevano neanche male le gambe. Beh, tutto quell’allenamento non poteva servire solo a dargli una tartaruga. 

«Lo vedi?» Shouyou ignorò la sua domanda con un’altra e lui girò la testa verso il punto che gli aveva indicato, di fronte a loro. Si stava facendo tardi e il paesaggio illuminato lo rinfrancò. «Intendi questo ponte di legno dall’aria assolutamente instabile su cui non metterò mai piede?» chiese con una voce stridula, osservando con orrore le assi traballanti e le parti in cui il legno marcio era più scuro e le corde erano verdi per il muschio. 

«Mi sono venute in mente tre malattie diverse che potrei contrarre se tocco quel coso.»

«Lo sapevo che ci saresti riuscito!» esclamò Shouyou felicissimo, rivolgendogli un sorriso a trentadue denti, pronto a saltellare. «Sei proprio speciale.»

Gli si chiuse la gola per dare una risposta. Era bellissimo e puro e travolgente mentre gli diceva che per lui era speciale. “Poi passa” aveva detto Oikawa, ma quel momento non era “poi”. Era “ora”. 

Lo afferrò per la manica, e lo tirò verso di sè, pronto ad attraversare il ponte. 

«Quale dio devo pregare per evitare di spiattellarmi al suolo e morire?»

Shouyou rise. 

«Me.»

 

***

Il ponte non traballava, non oscillava, non sembrava neanche reale, molto più simile a camminare letteralmente sul nulla. 

Dopo i primi due passi Atsumu aveva già capito che non avrebbe ceduto e lui non sarebbe caduto, ma non disse niente pur di poter avere la mano di Shouyou attorno al suo braccio. 

«Il cielo è diverso» commentò dopo un po’, alzando il mento. Era più… chiaro? Luminoso? Non riusciva a credere che ci potessero essere tante stelle. Gli sarebbe potuto cadere in testa per il loro peso. 

«Certo che è diverso» gli rispose ancora sorridendo, stringendo un po’ più forte la presa sul suo braccio, «non è lo stesso.» 

«È il mondo degli youkai, vero?» Espirò l’odore fumoso di magia, lo stesso che sentiva a casa di Kita e nei templi di campagna. Acre, agrodolce, un po’ di bruciato, quel tipo che si intrufola nelle narici e non esce più.  

Shouyou annuì, si fermò e si girò verso di lui. 

«È una festa» gli spiegò, «una grande festa per l'arrivo dell'estate. Sai, bancarelle e fuochi d'artificio.» 

Atsumu abbassò lo sguardo per osservare con disappunto i suoi vestiti. Jeans vecchi e un po' sporchi di terra grazie alla gita sulla collina e una maglietta che una volta era stata di Osamu. Oh, e tre pugnali stregati per uccidere youkai. 

«Stai bene così» affermò Shouyou, come se avesse letto nei suoi pensieri. Erano ancora sospesi nel vuoto, sotto un cielo che Atsumu non aveva mai visto e con un ragazzo che voleva terribilmente baciare. O solo abbracciare. O solo a cui poter dire che amava passare il tempo con lui. 

«In realtà» precisò con il tono che si usa quando si sta per spifferare qualcosa che proprio non si dovrebbe, «sei perfetto.» 

Un ah rotolò fuori dalle labbra di Atsumu. Sbattè le palpebre due o tre volte, cercando di calmare il battito fortissimo del suo cuore. Lo sentiva nelle orecchie, nel petto, nella gola. Sei perfetto vibrava in tutto il suo corpo, come le corde di una chitarra, come una canzone, come se l'avesse benedetto. 

«Anche tu» rivelò timidamente, affacciandosi dal ponte mentre parlava, non riuscendo a guardarlo dritto negli occhi. 

Tentò di dargli uno sguardo fugace, giusto per vedere come avrebbe reagito. Sperava che arrossisse e lo guardasse come se l’avesse tradito. Invece i suoi occhi lo accarezzarono come se non lo vedessero davvero, nello stesso modo in cui Osamu lo aveva attraversato senza notarlo. C’era una sottile pellicola che li separava, profonda come l’abisso, secoli e secoli che li dividevano. 

«Sono un dio. Sono nato per essere perfetto.» 

Accennò un sorriso triste e gli fece segno di di seguirlo. «Andiamo, altrimenti finiscono i panini con la carne!»

Appena mise piede sul terreno solido, capì di aver attraversato qualche sorta di barriera, una protezione magica che divideva il mondo mortale da quello magico. Poteva vedere tra gli steli d’erba i Sentieri di Luce - sottili vene di magia, pura luce luminosa e luccicante che scorreva all’interno della Terra. Erano difficili da trovare, o almeno, lo erano nel suo mondo. 

«Se li guardi per troppo tempo diventerai cieco» lo ammonì Shouyou scuotendogli la spalla. Alzò lo sguardo su di lui e già vide i familiari puntini neri oscillare nel suo campo visivo. 

«Non ve lo insegnano nella vostra scuola di stregoni?» 

«Non abbiamo nessuna scuola» iniziò a correggerlo Atsumu mentre si addentravano nella foresta, «e sono un esorcista!» 

Al limitare della foresta si sentiva il suono scrosciante di una cascata e dei canti. Non esattamente melodiosi, forse un po’ striduli; le luci delle lanterne illuminavano il sentiero costeggiato da alberi altissimi.

C’erano kitsune con lunghi capelli rossi e sguardi felini strette in yukata colorati, altre nella loro vera forma, con paffute code pelose e zampe che lasciavano impronte nel terreno. C’erano kappa e sirene che nuotavano nel lago sotto la cascata, nure-onna che serpeggiavano tra le bancarelle sibilando le loro richieste. C’erano anche quelli che Atsumu avrebbe considerato mortali a tutti gli effetti, se non fosse stato per i loro corpi traslucidi sotto l’illuminazione soffusa. 

Shouyou si avvicinò a uno stand da cui salivano volute di fumo profumato, le persone - poteva davvero considerarle tali? - che gli facevano spazio senza che lui chiedesse nulla. 

«Conosco un posto» gli disse con le guance piene, masticando rumorosamente, tendendogli un altro cartoccio bollente.

Il suddetto posto era un’altra altura, ovviamente, e Atsumu gli lanciò un’occhiataccia non indifferente. 

Crollò a terra appena arrivato, sazio e stanco, rotolandosi sul prato. Shouyou lo guardò esasperato e  Atsumu gli afferrò un braccio e lo fece cadere accanto a lui. 

«E dai!» si lamentò dandogli un pizzicotto. 

«Così si vede meglio la luna» commentò indicandola. 

Atsumu sapeva, anche se non era bravissimo in letteratura e probabilmente aveva letto quattro libro in tutta la sua vita al di fuori di quelli scolastici e dei manuali per esorcisti, che Natsume Soseki in un suo libro aveva tradotto “ti amo” con “la luna è bella, vero?”. 

Se due persone guardano la stessa cosa e sentono le stesse emozioni riguardo a essa e lo dicono, è come una dichiarazione d'amore senza parole. 

La luna è bella, vero?  Eppure Hinata guardava la luna con il suo profilo perfetto bagnato dalla tenue luce e Atsumu guardava Hinata e non poteva fregarsene di meno della luna. Hinata era bello. Forse anche quella poteva essere una dichiarazione d'amore, ma restava il fatto che guardassero due cose diverse. A volte non era destino. 

«Quando il sole si spegnerà-» iniziò curioso, piegando il gomito e appoggiando il mento sul palmo della mano, rivolgendosi a Shouyou che era ancora steso a pancia all’aria, la pelle delicata come porcellana e gli occhi che bruciavano quieti. 

«Cosa? Non succederà! Sono troppo giovane!» esclamò ridendo, girandosi anche lui su un fianco per parlargli faccia a faccia. 

«Non dico subito» rispose alzando l’altra mano per difendersi, «ma tra, tipo, otto miliardi di anni.» Lui ascoltava a lezione. Ecco. Però forse quello non era il numero esatto. Mh. 

Shouyou sbuffò. «Non pensavo che tu fossi il tipo da seguire la scienza. Per me è insignificante. Dov’è la fede?»

«La fede non ti aiuterà a non finire la tua fonte di combustibile.»

L’altro aggrottò le sopracciglia. «Cos’è un combustibile?» domandò confuso, strappando uno stelo d’erba e rigirandoselo tra le mani. «Comunque non dirlo in un tempio che altrimenti ti troverai qualche kami pronto a fulminarti.» 

«Gli dei» continuò assorto Shouyou, «Gli dei cambiamo a seconda del credo degli uomini. Si sdoppiano, si uniscono, perdono la loro identità; vengono rinnegati e se ne creano degli altri. Gli umani ci temono perché ci hanno dato poteri inimmaginabili. Ma loro ci hanno creato» emise una risata roca, un po’ vuota, senza felicità. «Basterebbe una parola e torneremmo polvere. Balliamo sul palmo delle loro mani.»

Prese la mano di Atsumu, tracciando dei percorsi invisibili lungo tutto il braccio fino al polso, aprendola a ventaglio, creando dei ghirigori sul suo palmo calloso. Quelle dita sottili e affusolate era completamente diverse dalle sue. Respirò lieve, come se stesse avendo a che fare con un cervo spaventato, e rimase in silenzio. 

«C’è stato un periodo in cui non esistevo. Poi mi hanno creato e sono esistito anche quando prima non c’ero.»

Si avvicinò anche di più, infilando le dita tra le sue, stringendo le loro mani insieme fino a che le nocche diventarono bianche. Era caldissime. Lo stavano bruciando in effetti, ma non gli importava. Poteva farlo. Poteva fare tutto quello che voleva. Era quella la fede? Era quello - era il desiderio di buttarsi ai suoi piedi? Era la sicurezza con cui si faceva toccare da quelle mani fatte di cera bollente? Era- che ne sapeva lui, di fede? Poteva essere niente. 

«Tu credi in me?» chiese all’improvviso, guardandolo fisso, le fiamme nei suoi occhi che scoppiettavano con più forza, violente. 

«Sì» sussurrò subito, nella notte, senza fiato, contemplandolo al buio. 

«Allora esisto» disse con un sorriso nell’oscurità. 

 

***

“Non pioverà” aveva detto Shouyou. “Vuoi saperne più di me? Io ci vivo lassù” aveva continuato offeso, guardando le nuvole grigie che stavano coprendo il cielo in quello che si stava prospettando un temporale estivo da manuale. 

Atsumu lo aveva guardato scettico, per poi scrollare le spalle e facendogli cenno di seguirlo per una stradina secondaria nella speranza di arrivare prima a casa. Ecco il motivo per cui una goccia d’acqua lo aveva colpito proprio in mezzo alla testa, precisissima, mentre si trovava con solo campi attorno, senza poter sperare nell’arrivo miracoloso di un autobus. Mica c’era da incazzarsi, eh. Che ne poteva sapere l’altro? Mica era il dio delle previsioni metereologiche. 

«Stronzo» gli urlò nelle orecchie, afferrandogli una spalla in modo che non potesse sgusciare via, «perché cazzo mi sono fidato di te?!»

«Nessuno ti ha obbligato» ribattè allegro, cercando di allontanare le mani di Atsumu dal suo collo. «E poi sono due schizzi, che succede, ti sciogli?» 

Inspirò con forza, cercando di calmarsi. «Hai ragione», disse, «hai proprio ragione.»

Due schizzi si ripeté nella mente, continuando a camminare a passo svelto, facendo finta di niente. O almeno, finché non lo investì una pioggia simile al getto della doccia.  

In una manciata di secondi fu completamente fradicio, i capelli attaccati alle guance fredde e la maglietta al busto, i calzini nelle scarpe zuppi. Lo zaino di tela con i libri al suo interno doveva aver fatto una fine molto simile. Voleva urlare e strozzare Shouyou che invece era completamente asciutto, e guardava con interessa le gocce che a contatto con la sua pelle sfrigolavano ed evaporavano. 

Lo fissò omicida attraverso le ciglia bagnate che gli rendevano la vista acquosa e quasi ringhiò. «Se ti prendo...» 

Shouyou alzò di scatto la testa, spalancando gli occhi e iniziando a correre per la strada deserta. «Scusa!» urlò a squarciagola, il suono delle loro suole sul cemento bagnato che produceva  ciac ciac continuo. 

Saltò una staccionata e rovinò su un campo, si rialzò subito e continuò a correre mentre Atsumu lo inseguiva con lo zaino che veniva sballottolato dietro la sua schiena, rispondendo alle sue scuse con insulti - ma venivano ingoiati dallo scrosciare assordante della pioggia e lui finì semplicemente senza fiato e con un sacco di acqua in bocca. 

Sul terreno scivoloso era più difficile muoversi e Atsumu pensò a tutti gli allenamenti fatti tra le montagne da piccolo sfrecciando ed evitando gli ostacoli. Praticamente volava sulla fanghiglia, a differenza di Shouyou che stava iniziando a incespicare. Con un ultimo sforzo lo raggiunse e lo afferrò per i fianchi, sfinito e sporco e ancora sotto quella pioggia torrenziale. 

«Scusa scusa scusa» ripeté l’altro tra i denti, affannato. Posò le mani sulla sua schiena per mantenere l’equilibrio e immediatamente la maglietta si asciugò in quel punto, lasciandogli una sensazione di tepore contrapposta al gelo che si stava diffondendo in lui. 

«Meglio?» chiese con un’espressione affettuosa, passando i polpastrelli lungo la sua colonna vertebrale, asciugando tutto il retro della maglietta, sfiorando il suo collo con attenzione, per paura di lasciargli bruciature. Eppure - eppure Atsumu desiderava che premesse le sue dita incandescenti sulla sua pelle nuda e lasciasse dei segni, delle impronte, lunghe ombre scure del suo passaggio. 

«Forse» rispose contrariato, aggrottando le sopracciglia, prendendo la sua mano e stringendola, portandosela alla guancia destra. Shouyou sussultò mentre Atsumu chiudeva gli occhi e si abbandonava al suo tocco. 

Con l’altra mano cercò di asciugargli i rivoli di pioggia sul volto, simili a lacrime brillanti, avvicinandosi sempre di più, le fiamme nei suoi occhi arancioni e blu, tremolanti e bellissime. 

Shouyou era tenero, affranto, vicino a lui, nell’aria attorno a lui, con le dita intrecciate alle sue, reale come non era stato nient’altro nel mondo fino a quel momento. 

«Di cosa sono fatti gli Dei?» chiese in un soffio, i loro nasi quasi si sfioravano, il suo calore che lo stava invadendo e rigenerando e- dannazione, voleva sempre di più. 

«Di energia» disse Shouyou inclinando la testa, «e dei racconti degli uomini.» Si fermò e lo guardò assorto, entrambe le sue mani sul suo volto. 

«Io credo» riprese il discorso con voce bassissima, «di essere fatto anche di te.» 

Atsumu ridacchiò contro il suo palmo, il respiro freddo che riempiva lo spazio tra loro. Non percepiva più quella patina che li separava, la pellicola che li allontanava con decisione. 

Avrebbe potuto- Insomma, a quel punto-

«È strano» interruppe il silenzio Shouyou, guardandolo quasi curioso. «Perché non mi baci? Gli umani prendono sempre ciò che vogliono.» 

Spalancò gli occhi e ingoiò a vuoto, improvvisamente consapevole di quanto fossero vicini. Era una richiesta? Un invito? Una domanda? 

Serrò le palpebre e percorse la distanza che mancava, premendo le sue labbra contro quelle di Shouyou, allungando le braccia per avvicinarlo, timido, sentendolo sorridere contro di sé.

Non c’erano nè le stelle, nè la luna, né ovviamente  il sole. Però c’era Shouyou che sembrava essere tutto. 

 










 

Notes

Le atsuhina weeks sono una benedizione, visto che sono principalmente l’unica ragione per cui scrivo abbastanza attivamente. Avrei davvero voluto sfornare un’altra fic ma lo sfortunato incontro della mia mancanza di ispirazione, l’ossessione per Hades game e l’aver iniziato e finito Chainsaw Man me l’ha impedito. Beh. 

Avevo questa storia in mente praticamente da un anno, dopo aver letto soprattutto racconti di Akutagawa Ryunosuke, Atsushi Nakajima e “Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway; c’è stato un ridondante riferimento alla natura e anche alla spiritualità e principalmente da lì è nata l’idea. Diciamo che neanche io ho un’idea chiara delle fede, quindi quello che viene inteso per “fede” nella fic è un po’ come la vedo io - ecco perché il discorso rimane aperto e neanche Atsumu sa che farsene. (Gli è servita? Serve a qualcosa? Non cambia nulla?) Lo lascio a interpretazioni.  

Mi piace tantissimo l’ipotetica dinamica che potrebbe nascere tra Atsumu, Suga e Oikawa, quindi in un modo o nell’altro cerco sempre di metterli insieme. (Se si usa una lenta di ingrandimento si potrebbe trovare della Atsuoi, giusto per dire.) 

Come al solito caratterizzare Hinata per me rimane un grattacapo, perché ha fin troppe sfumature e vorrei riprodurle tutte, però ho la solita impressione di sbagliare direzione. 

Per quanto riguarda gli youkai: kitsune, bakaneko, kappa, nure-onna e yatagarasu fanno tutti parte del folklore giapponese, mentre sono abbastanza sicura che la mia concezione di sirene sia molto più occidentale. I mushi, il mushishi e i sentieri di luce (sì oggi sono pignola) li ho presi da un anime chiamato “Mushishi” e non credo proprio che si trovino nel folklore, invece per Signore Della Montagna si dovrebbe intendere un animale che abita nella suddetta montagna ed è il garante del suo equilibrio naturale. 

Mia sorella mi ha fatto notare che tradizionalmente il momento dell’anno in cui il mondo mortale e quello magico si toccano è il solstizio d’inverno, però ho preso l’idea dal manga Jibaku Shounen Hanako-kun (insieme a tutto ciò che riguardo gli esorcisti), quindi lasciatemi la licenza poetica - anche perché l’estate è più romantica. Inoltre mi ha chiesto perché Atsumu e Hinata finiscano sempre per rincorrersi nelle mie fic, e forse per me è una metafora del loro rapporto (come dovrebbe essere tutta la fic, teoricamente), o più semplicemente trovo che rincorrersi sia romantico. (Sì, ho concezioni tutte mie sul romanticismo.) Ovviamente quello che aveva in testa era ben diverso da quello che è uscito, ma ormai lo prendo a pazienza. 

little_psycho 









 

 





 

 








 
   
 
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