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Autore: ireland3    30/04/2021    11 recensioni
E' stato divertente intrufolarmi autorizzata in "Una serata particolare" di Madame Grandier e offrire il mio contributo scrivendo dall'angolazione di Andrè. Questa breve storia vuol essere il tentativo di dare un seguito ideale all'ultimo capitolo, mutandone le prospettive, con leggerezza...
"Lo facevo solo per tornare ad essere la donna che ero - che avevo capito di essere - decisamente migliore dell'uomo che per un attimo avevo invocato di diventare..."
Genere: Erotico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Donne, uomini e….pavoni.

Che fosse il sarcasmo dei miei detrattori, oppure la salda ammirazione di chi lodava il mio coraggio, attorno al vasto perimetro di Versailles c’era chi mi descriveva come la figlia di Marte.  In quei precisi istanti, in verità, mi sentivo molto più affine a Mercurio, il messaggero alato, anche se non custodivo altre parole da riferire, se non le mie. Mentre correvo a perdifiato verso il  luogo convenuto per il ballo in mio onore, spronando Cèsar all’inverosimile -se solo mi avesse vista Andrè non avrebbe esitato a redarguirmi dall’incitarlo così, avrebbe temuto gli stessi spezzando il cuore - avevo ancora nitido nella testa il ricordo di ogni parola di quel dialogo remoto, cristallizzato nell’angolo più recondito di me da quand’ero solo una ragazzina: anche quello, al momento opportuno, era stato ripulito da quell’aria nuova che odorava di vita e di leggerezza. Era all’indomani del duello con Girodel, quando la mia divisa allora immacolata attendeva solo d’essere indossata. E vissuta. Mi trovavo al corridoio al piano superiore, non seppi resistere: dietro la porta del salottino privato della mia adorata madre, la stessa, con la gentile pacatezza che la contraddistingueva, cercava di sostenere una conversazione con Hortense, la maggiore delle mie sorelle. Ma il tentativo di tenere un profilo civilmente gradevole, si stava scontrando con la foga di quest’ultima. Contenere la sua veemenza non era affatto semplice: argomento del contendere? Io ed il Generale, ovviamente.
“….ormai è stata allevata e cresciuta così, Madre. Che sia giusto o no, che contravvenga a qualsiasi regola scritta o meno, che sia solo un’utopia per accondiscendere ai deliri di gloria ed onore di nostro padre, Oscar non può più tornare indietro. Non avrebbe senso alcuno, credetemi. “
“E se fosse lei a chiederlo, Hortense? Se volesse godere delle gioie di ogni donna, avere una famiglia sua, dei figli?” Mia madre ci sperava, ancora.
“So bene che vi debbo il rispetto che meritate, ma, quando ci avete dato in sposa, una dopo l’altra, consegnandoci a dei perfetti sconosciuti il cui unico merito era quello di possedere un rinomato blasone, avete mai pensato, voi e mio padre, se fosse davvero ciò che volevamo per noi?”
Ecco cos’era. Ero più donna di quanto non volessi ammettere, di quanto non avessi disperatamente tentato di cancellare, imponendomi di oltrepassare i miei limiti, quelli che credevo fossero impedimenti alla mia indipendenza, al mio riscatto, al mio bisogno. Mirando solo alla continuità del suo ruolo, mio padre mi aveva donato il libero arbitrio. La possibilità di vivere, senza accontentarmi di ripiegare nella comodità di una protezione che imponeva un prezzo: imparare a fingere. Avrei dovuto iniziare adesso perché la tempesta della rabbia e della rivolta si stava per abbattere ovunque? Non potevo. Dentro di sé mio padre lo sapeva, me lo aveva insegnato proprio lui ad essere leale, coerente, fedele a dei principi incrollabili. Dovevo onore a me stessa: non avrei mai potuto imparare ad amare qualcuno. Rispetto e devozione s’imparano, l’amore no. Credo che Girodel lo abbia compreso da solo, quando sotto i fili ramati di un tramonto struggente, gli raccomandai caldamente di dimenticarmi. Rincorsa da questi pensieri, mi sentivo ancor più spronata a concludere quella farsa allestita in mio onore nel più breve tempo possibile. La volontà di riprendere possesso della mia vita mi sospinse verso il luogo prestabilito in modo rapido. Non sarebbe stato anche indolore, non per mio padre. Ma avrebbe capito.
L’edificio imponente appena fuori Parigi mi attendeva con le sue fiere colonne protese verso l’alto, giganti marmorei che ne custodivano l’ingresso. Con che cuore Andrè aveva concesso la sua disponibilità ad accompagnarmi sin qui? Con che cuore avrebbe dovuto aprire lo sportello della carrozza e stringere lieve ed asettico le mie dita per aiutarmi a scendere dall’abitacolo tra l’ingombrante sfarzo di sete e taffetà? Sfuggire al mio sguardo sfuggente, al mio imbarazzo, alla mia stessa vergogna? Continuare a soffocare nella melma silente del suo stesso dolore? Non avrei mai potuto permetterlo. Mai. Era questo che desideravo urlagli poco fa, quando era passato in ufficio per ricordarmi quel fastidioso impegno.  Qualche giorno prima vederlo versare lacrime acide di polvere e sangue, con l’anima in frantumi lì, a pochi passi da me , cocci appuntiti di sofferto dolore che temevo di calpestare se avessi mosso un passo verso di lui, mi era bastato. Mi aveva sopraffatta. E adesso se l’era ricacciata dentro, quell’anima rotta,  ricomposta alla meglio, nascosta nelle pieghe perfette del leale rispetto che provava –o doveva provare - per mio padre. Il Generale era lì, ritto e composto dopo lo scampato pericolo, poggiato ai cuscini con la spessa fasciatura che mostrava a noi tutti la sua vulnerabilità, fatta non solo di carne, che ne scalfiva per un attimo la solennità. Avrebbe forse potuto contraddirlo? Dirgli che no, non sarebbe stato lui ad accompagnarmi al ballo, solo perché era l’unico dei presenti che davvero mi amava, anche se questo non era sufficiente per chiedere formalmente la mia mano? Che sarebbe morto, ancora ed ancora, nell’attesa vuota e dolorosa, lì fuori, come un cane, mentre la casta dei degni di sangue blu si disputava i miei favori? No, non poteva. Non per un amore che credeva solo suo.
Strinsi per un attimo il suo fazzoletto tra le dita, le nocche divennero bianche come il tessuto. Vi respirai le lacrime, quelle mie, che il giorno prima avevano irrigato quel solco riarso che s’era aperto tra noi in quest’ultimo affannoso periodo. S’era insinuato l’inverno nelle nostre vite, calando un lieve, quanto gelido manto di brina che rendeva incolore ciò che restava del nostro mondo dopo quella sera. Dovevo entrare, indossare la mia uniforme come fosse l’armatura di un cavaliere dei tempi andati, ed una beffarda aria di sfida che avrebbe fatto desistere ogni presente dal tentativo di corteggiami. Lo facevo solo per tornare ad essere la donna che ero - che avevo capito di essere-  decisamente migliore dell’uomo che per un attimo avevo invocato di diventare.
Percorsi con determinata sicurezza la scalinata, entrai nell’atrio, agghindato a festa da un tripudio di arazzi e mi diressi nel salone principale, guidata dal rincorrersi di note eleganti e giocose che da lì provenivano. Scostai un pesante tendone di velluto che schermava lo specchio della porta, e sbattei ad intermittenza le palpebre: lo sbirluccichio violento dei cristalli di decine di lampadari, mi aveva per un attimo destabilizzato. Osservai con attenzione tutto quello che mi si parava innanzi: i finestroni affacciati sui giardini coperti di buio, il chiacchiericcio degli astanti che a onde si sollevava per poi abbassarsi  in un flebile brusìo, la foresta multicolore di gentiluomini che mostrava solo esteriormente il suo lato migliore, come tanti pavoni che esibiscono la ruota per ottenere i favori della femmina di turno. L’orchestra ammutolì. I presenti pure. Li misi a fuoco, anche se era impossibile farlo ad uno ad uno, li guardai senza davvero vederli. Ne percepii lo stupore, la delusione, quello scemare improvviso e violento d’adrenalina che solo un’aspettativa mozzata può provocare…Mi osservavano come fossi un animale raro, bellissimo e pericoloso: ero abituata da anni a quel misto di ammirazione tagliata con l’invidia, se non ti uniformavi alla massa modaiola e frivola di Versailles condividendone futilità e pettegolezzi eri sempre considerato superbo ed arrogante, nonché diverso. Sicuramente si erano sperticati in commenti durante l’attesa, fantasticando su ogni lembo di pelle scoperta che avrebbero potuto scorgere dal decolletè dell’abito da sera, di che colore fosse, se sfiorarmi durante un ballo potesse provocarmi un fremito sottile che li avrebbe inebriati a loro volta, se in mezzo alle cosce tenessi nascosta la stessa lama che brandivo con quotidiana sicurezza quando ero al posto di comando. Non pensavo che accorressero così numerosi, non pensavo di esercitare un così forte richiamo. Erano stati allevati nell’ideale assoluto di nobiltà, credendo di far parte della schiera degli eletti, attenti alla purezza del casato, quanto aperti alla possibilità di godere di ogni piacevole debolezza. Cosa pensavano di trovare? Una figura mitologica, metà cortigiana e metà soldato, fasciata di sete cangianti e puledra indomabile a letto? Forse era l’incognita del rischio ad avvincerli di più. Da una come me potevano aspettarsi di tutto, in fin dei conti erano davvero pochi – anzi, forse solo uno – a sapere di me, della mia vita, del mio dolore. Li guardai attraverso, oltrepassando quelle pupille vitree e sconosciute, e mi chiesi ancora se conquistarmi rappresentasse una loro personale sfida, una singolar tenzone su chi ci sarebbe riuscito a farmi capitolare. Credevano davvero che avrei potuto giurare ubbidienza verso uno sconosciuto, il cui unico merito era di potermi comprare con la legalità di un contratto, e che ne avrei potuto condividere l’intimità solo per suggellarne la validità? Che sarei diventata madre per dovere, alla stessa stregua di una semplice fattrice? Che avrei scisso l’amore dal dovere, che avrei potuto accettare di vivere un’esistenza doppia, fasulla, in cui convivevano la moglie devota solo nell’aspetto e la donna che poteva conoscere sentimento e passione solo tra braccia clandestine? I miei genitori, tutto sommato, erano stati fortunati: pur assecondando le aspettative della società, si erano piaciuti, riconosciuti, amati. Un caso raro.
Strinsi un attimo la mascella, quindi, intonai la voce e la modulai con la mia più fiera determinazione: “Signori – una pausa, vi recuperai pure l’eco di una risata – che strana festa è mai questa? Non c’è nessuna dama da far danzare! Non fa per me, ho deciso che me ne andrò…” Girai i tacchi e voltai su me stessa, le spalline dell’uniforme che tintinnavano al rimbombo dei miei stivali sul lucido marmo. “Riprendete a suonare..” feci appena in tempo ad udire, e, di sfuggita, percepii come  il brusio che mi aveva accolta stesse assumendo la profondità di un boato, simile al gonfiarsi delle onde durante la tempesta. Il tempo di raggiungere l’uscita ed accelerai il passo, fin che divenne quasi una corsa. Come quella sera, quando persi ogni mia illusione su Fersen, quando desiderai soltanto tornare il più velocemente possibile a casa, riparata dall’unica esistenza che conoscevo.  Ma adesso una sensazione ben diversa stava covando dentro di me, diramandosi tra le radici del mio cuore, donandogli respiro e linfa nuova e vigorosa.  Percorsi rapida i gradini, giunsi alla spianata antistante: ero libera, potevo essere davvero la donna che volevo continuando a vestire il soldato. Dovevo dirlo a mio padre.
Sentivo scricchiolare la ghiaia sotto i piedi, mentre cercavo con lo sguardo il mio destriero fermo ad aspettare un mio cenno nel buio. La luna si rifletteva sul cortile, giocando coi chiaroscuri del suo pallore. In una delle sue chiazze dipinte al suolo, mi parve di rivederlo. Immoto e ferito, l’anima sofferta che usciva dalle labbra tumefatte e stanche. “Non toccarmi” arrestai incerta il passo, ne udivo ancora le parole. “Ormai lo sai quanto ti amo” non mi guardava, non avrebbe mai voluto farsi vedere così: vulnerabile, spaventato dalla vita, vinto. Si stava mettendo in piedi a fatica, ma non perse mai la granitica volontà di sollevarsi da solo “Non voglio la tua compassione, Oscar, vorrei solo il tuo amore….”non osai di più, quel pomeriggio in armeria. Non osai dirgli che non lo compativo, ma che pativo per lui. Che ero rimasta di sale, che non avevo più fiato, che temevo che persino muovere un muscolo verso di lui potesse fargli ancora più male. E così fu: pensava provassi solo pena. Non sapeva quanto si stesse sbagliando. Per una volta, forse la prima di molte, Andrè Grandier si stava sbagliando. Toccai ancora il suo fazzoletto. La superstizione non mi apparteneva, ma ero sempre più convinta che ormai quello fosse il mio talismano. Un pezzo del suo odore, un alito di ricordo che mi riportava a lui. Poteva bastare così? Mio padre aveva imparato ormai tante cose di me, avrebbe imparato anche a sapermi aspettare. Lui no, aveva atteso già troppo. Non ci sarebbe stato alcun matrimonio. Non adesso. Non scritto. Dovevo dirlo prima a lui.
Feci ritorno subito in caserma, ma Andrè non era più lì. Potevo pretendere forse che consumasse la sua agonia tra quelle mura ostili, che ormai possedevano sempre più l’olezzo marcio di una prigione? Chiesi informazioni ad un mio sottoposto che mantenendosi vago mi illuminò sulla destinazione della maggior parte dei soldati in quelle ore di permesso. Percepivo quel bisogno incontrollato di non poter aspettare, come se dovessi scontrarmi col tempo, per salvarlo da quello che stava diventando il suo personale  patibolo, per allentargli quel cappio invisibile che lo stringeva più d’una corda grezza. Che stava per soffocare anche me. Quando giunsi a destinazione- credo che se anche un cavallo può esprimere dei sentimenti Cèsar mi avrebbe odiato-mi sentii smarrita, proprio ora che mi ero appena ritrovata. Lo vidi. Ammantato di nebbia, solo. Le mani a stringere sé stesso, in un abbraccio bisognoso, che lo riparasse dalla bruma della sera e da quei fantasmi che ci avevano confinato nelle nostre solitudini, che ci avevano reso due sconosciuti. La studiata ribellione di poco fa mi aveva infuso un’incontrollata temerarietà, come quando desideri volare, ma non sai ancora indossare quelle ali che ti faranno assaggiare il respiro del cielo. Scoprii che le mie mani vuote volevano riempirsi di quel calore che solo una carezza sa donare. Che le mie labbra ardevano di una febbre nuova, tremanti per tutte quelle parole non dette, morenti sulla soglia della mia anima. Che si stavano inspiegabilmente crogiolando nel tepore del ricordo. Quello. In un altro tempo, fuori da un’altra locanda di quart’ordine dove avevamo tentato d’annegare noi stessi nel fondo del boccale, ricordai le sue. E tornai a fissarle ora: tumide, vermiglie, convalescenti.
“Oscar…che ci fai tu qui? Non dovresti essere..?” Tremante di quell’umidità che lo vestiva, pareva incespicare nella sua stessa sorpresa, anche se l’intensità dei suoi occhi rivelava una gioia difficile da soffocare. “ Dove, Andrè, dove?!?Te l’avevo promesso, ricordi?”Dentro di me urlavano questi rintocchi. Solo poche ore fa glielo avevo fatto presente. Che non avevo intenzione di diventare il premio di una riffa, che non mi interessava scegliere nessuno…. Che… avevo già scelto….No. Non glielo avevo detto, non così chiaro, non così forte.
“Sono passata in caserma. Mi hanno detto che avrei potuto trovarti qui, con gli altri..” Furono invece le poche frasi che riuscii a ricucire, mentre lo osservavo, confusa dalle mie stesse sensazioni e disarmata. Totalmente. Consapevole che solo il giorno prima quel lembo di stoffa candida aveva permesso ai nostri sguardi di penetrarsi, con una luce diversa, e di sfiorare il bordo delle nostre anime, prima ancora che le punte delle nostre dita, non seppi far di meglio che accampare l’idiozia delle idiozie “ Ti volevo restituire questo…” il suo fazzoletto, appunto. “ E dirti che non mi sposo. Non ora. Forse mai” Non per contratto, non per dovere. A modo mio. Per amore.
                                                                        …………………………….
La solita pioggia battente di metà primavera s’era appena sfogata sulla città. Aprii la finestra del mio ufficio, consapevole che una zaffata d’aria terrosa mi avrebbe subito invaso le narici e la mente, ripulendola così dalla polvere di quei cumuli di sentimenti inespressi e recisi sedimentati dentro di me. La delusione e la confusione passate stavano lasciando il posto a quella consapevolezza nuova, eppure così conosciuta. Poggiai i gomiti al balcone e nello spazio di un profondo respiro decisi che avevo voglia di fare due passi sullo spiazzo antistante, sgranchire le gambe dopo quel mattino uggioso passato tutto a scartoffiare con le mani e gli occhi che correvano volenterosi ai documenti, ma con la testa che girovagava inesorabile oltre la coltre bassa e grigia che incombeva sui tetti di Parigi, quanto sul mio petto.
Quel vento sottile d’oltremanica pungeva ancora, ma ordinava ad ogni strato di nubi di spostarsi per lasciar spazio a macchie incorrotte di azzurro metallico, proprio sopra il mio capo, mentre camminavo con fare indolente sul lastricato del cortile, immergendo il volto in ogni pozzanghera trovassi lungo il percorso. Le mani dietro la schiena, nell’atteggiamento tipico e burbero di mio padre. Non mi trovavo a passeggiare lungo le rive della Senna e feci ammenda più volte con me stessa per mantenermi così, a dover rispettare il minimo del decoro richiesto per il luogo e per il ruolo che qui rivestivo. Ma giocare a specchiarmi nella linea tremula delle piccole chiazze d’acqua aveva solo il potere di infondermi quell’appagante quanto insano senso di libera soddisfazione che perpetrava già da qualche ora, ormai. Dalla sera precedente, per essere precisa….
Avevo sciolto un nodo che mi si era aggrovigliato dentro, come spago ruvido e pungente, ed ora che s’era trasformato in un filo di tenera seta non desideravo altro che poterlo allacciare alla sua anima, con cura e passione. Avrei imparato. Anche se l’istinto non s’impara.
Alzai gli occhi oltre la punta dei miei stivali e lo intravvidi. Poggiava mollemente le spalle ad una delle colonne che facevano da cornice al piazzale interno, dove mi trovavo. Da quell’angolazione non riusciva ancora a vedermi. In compenso di fronte a lui, quindi perfettamente in asse al mio campo visivo, stava Alain, talmente coinvolto nella sua esplicita gestualità di supporto alla conversazione che, a sua volta, non faceva caso a me. Eppure il tutto pareva risolversi nell’eco di un soliloquio, dal momento che Andrè si manteneva stoico ed intellegibile, le braccia conserte, dava soltanto brevi cenni di assenso o diniego,in risposta al fervore impetuoso dell’altro, quando non osava alzare gli occhi al cielo. O alla volta del porticato. Sorrisi cauta a mia volta, tutto sommato avevo speso energie e notti insonni per conquistare la credibilità della squadra: non potevo permettere che quell’impalpabile quanto densissima voglia di star bene intaccasse la severità della mia figura di comandante. E tornai lì, fuori dalla porta di quella taverna, a rimestare i colori della notte, a rinterrogare quel viso che adesso non mi era dato neppure fugacemente di cogliere….
Gli rivedevo in volto quel pallore che raccontava di troppo alcool che circolava nelle vene, buono solo a rallentare i battiti ed ovattare gli incubi, ad allontanare la paura incombente di non essere abbastanza sua. E vaghi lividi che s'erano spenti nell'ocra della guarigione, quella fisica, cicatrici appena palpabili di quelle botte con cui avrebbe voluto prendere il mondo, e che aveva potuto sfogare solo contro pochi meschini. Avrei voluto sistemargli i bottoni della giubba: lui, sempre impeccabile, li aveva maltrattati allacciandoli in malo modo. Feci per allungare la mano, continuando a fissare quelle asole che erano le mie uniche alleate in quel momento di trepido imbarazzo per entrambi. Il tonfo sordo di una porta male in arnese che si spalancava fece irruzione nell’ipnosi di quegli attimi “Comandante! Che sorpresa!!! Come mai ci onorate della vostra presenza in questo buco di culo che sembra essere diventato per una sera l’ombelico del mondo?” Non si poteva certo dire che Alain andasse d’eufemismi. Allacciata a lui, sbucava di sotto la massiccia spalla una donna ch’era impossibile non notare. Di primo acchito la massa corvina dei capelli e l’aria volutamente sfrontata ricordavano la defunta e mai compianta Jeanne De la Motte. Ma a osservarla più attentamente ci si accorgeva di come le generose curve sapessero coniugare la grazia ed il peccato, la dannazione e l’estasi, in grado di restare sospese tra quelle labbra, arrossate da evidenti appassionati passatempi. Mi colpì il suo sguardo: fissava arrogante e sorniona proprio me, anche se spostava le sue iridi nere e calde pure su Andrè, appena accosto. Dava l’impressione di sapere più cose sul mio conto, di quante non riuscissi a fantasticarne io su di lei, solo osservandola. Di tanto in tanto ammiccava con Alain, che, pur di tacitarne l’indisciplinata curiosità, la baciava imperioso e sfacciato, mentre lei tentava di riannodargli il famigerato foulard dello stesso colore del suo abito, attorno al collo. Sì, quel luogo era decisamente troppo affollato-convenni- quasi come la piazza di Notre Dame nel giorno di San Geneviève….
“Comandante Jarjayes! Comandante!” Il colonnello d’Agout mi riportò ancora al rigore dei miei impegni, al grigiore del mio ufficio. “C’è un dispaccio urgente da parte del generale Bouillet, si richiede la Vostra presenza per disposizioni in merito ad una missione importante quanto imminente.” Sbuffai, solo mentalmente. La mia libertà pagava questo prezzo: convivere col dovere. Volsi ancora lo sguardo verso il porticato, i due soldati s’erano fermati, calati in una rigorosa, composta attenzione dopo aver udito quel richiamo. Promisi a me stessa- e a lui ancora ignaro-che avrei saputo abbeverarmi di quei sorsi di felicità che soltanto da poco abitavano in me….
   
 
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