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Autore: Doux_Ange    04/05/2021    0 recensioni
‘Se solo potessimo vedere l’infinita catena di conseguenze derivanti da ogni singolo nostro gesto... E invece ce ne rendiamo conto soltanto quando rendersene conto non serve più a nulla.’
I pensieri di Anna, dopo DM12.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anna Olivieri, Marco Nardi
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Se solo potessimo vedere l’infinita catena di conseguenze derivanti da ogni singolo nostro gesto... E invece ce ne rendiamo conto soltanto quando rendersene conto non serve più a nulla.’ *
 
Sospiro, chiudendo piano la copertina del libro che sto leggendo in queste sere solitarie, prima di mettermi a dormire.
Quanta verità c’è, in quella frase?
Troppa.
Penso che ognuno di noi almeno una volta nella vita si sia pentito di qualcosa che ha fatto, o non ha fatto. O detto, o non detto.
Di qualche silenzio che andava riempito, o di parole che si ammucchiavano in un vuoto inutile.
 
Sarà un’altra notte insonne, come le tante che ho già passato.
I motivi sempre gli stessi.
Gli incubi, pure quelli non cambiano.
Anche i sogni belli hanno sempre quel contorno aspro e cupo a indicare solo il risveglio tetro che mi aspetta.
Non sto dicendo che la mia vita sia brutta, anzi. Se proprio devo essere sincera, avrei più di una buona ragione per essere grata di poter aprire gli occhi ogni mattina.
Ma queste buone ragioni non fanno altro che ricordarmi che tante cose sarebbero potute andare in modo molto diverso, migliore, se io avessi compiuto un’azione diversa.
Cioè, l’azione che avrei voluto, ma non ho avuto il coraggio, o la forza, di fare.
Nell’ultimo anno ne avrei volute cambiare parecchie, di cose, e ho messo in discussione ogni minuscolo dettaglio in ogni istante delle mie giornate.
Il problema è che poi ho sempre tirato dritto seguendo solo l’orgoglio e il rancore, che si sono dimostrati - neanche a dirlo - cattivi consiglieri, a braccetto con la gelosia e il rimpianto.
Se solo avessi detto in questo modo, fatto in quell’altro, pensato un secondo in più, agito un attimo prima...
Tanti se che avrebbero cambiato tutto.
Proprio tutto.
 
Se quel giorno che ho ricevuto la proposta per diventare Caposcorta, al Maggiore La Gumina avessi detto di sì, a quest’ora sarei stata a settemila chilometri da qui. A Islamabad.
E chissà in che condizioni mi sarei ritrovata... Partire non sarebbe stato semplice.
Affatto.
Perché mi sarei portata dietro solo la testa. Il cuore lo avrei lasciato qui, in ogni caso. Avrei contato i giorni al rientro, anche se sarebbero stati a quattro cifre.
Se al Maggiore avessi detto di no, avrei ingoiato un boccone amaro, forse in parte me ne sarei pentita, ma la vita mi avrebbe dato molte altre occasioni per essere felice, ne sono convinta, e sarei stata contenta di essere rimasta.
Il fatto è che alla fine ho scelto di restare, prima di scoprire che invece sarebbe stato meglio per me partire.
Ma non perché lo volessi davvero... Perché sarebbe stato più facile riuscire a pensare ad altro, lontana da qui.
Lontana dall’uomo che stavo per sposare, che amavo immensamente e che mi aveva tradita proprio per quel lavoro a cui avevo finito per rinunciare.
Lontana dalla donna che, per una notte da cancellare, aveva preso il mio posto e che ero costretta a trovarmi davanti troppo spesso, perché il destino è beffardo e aveva deciso che lei dovesse essere proprio la Procuratrice Capo.
 
Stringo gli occhi, prima di riaprirli e fissare il soffitto senza davvero vederlo.
I se avevano iniziato a susseguirsi nel preciso istante in cui avevo lasciato di corsa la chiesa, quando ero inciampata in quei dannati tacchi ma non mi ero fermata perché l’unico pensiero che riuscivo a decifrare, in mezzo a quella confusione, era: vai via, fuggi.
Se glielo avessi detto prima, se non glielo avessi detto affatto, se fossi stata più principessa e meno Zorro, se non avesse risposto lui al telefono, se lo avessi fermato, se gli avessi chiesto di venire con me...
Troppi se e zero risposte.
Perché il futuro non lo si può predire, soprattutto quello che non può più essere.
Se glielo avessi detto prima, magari avremmo potuto trovare insieme una soluzione. Oppure ci saremmo lasciati con due mesi di anticipo.
Se non glielo avessi detto affatto, probabilmente lo avrebbe saputo in seguito dai superiori e si sarebbe infuriato perché non lo avevo informato, oppure avrebbe fatto finta di niente, o avrebbe capito che avevo scelto lui e basta.
Se fossi stata più principessa e meno Zorro, non credo ci saremmo mai conosciuti. Ammesso e non concesso che la nostra storia sarebbe andata allo stesso modo se fossi stata diversa, magari glielo avrei fatto notare, che avevo scelto lui al posto dell’occasione di una vita.
Se non avesse riposto lui al telefono, chissà che avrei deciso, cosa avrei detto al Maggiore il giorno dopo, oltre alla scusa di non aver sentito il cellulare per un imprevisto che era piuttosto evidente già prima che scendessi a prendere quello scatolone.
Se lo avessi fermato, quella stessa sera, oppure quando finalmente sono riuscita a parlargli, a casa di Cecchini... avrei potuto ripetere fino a convincerlo che non era un ostacolo, non lo era mai stato e mai lo sarebbe diventato. Che avevo bisogno di lui e il resto si poteva aggiustare.
Se gli avessi chiesto di venire con me... credo mi avrebbe detto di no. Anche in quel caso si sarebbe sentito un ostacolo, e comunque io non avrei voluto che sacrificasse la sua vita e la sua carriera per me.
Solo a distanza di molti mesi mi sono resa conto che l’unica cosa che avrei voluto sentirgli dirmi, era di non partire.
Perché come gli ho confessato qualche giorno dopo, nella stradina sotto casa, avrei tanto voluto quel lavoro... almeno finché non avevo capito che c’era qualcosa che per me contava di più.
Lui.
Marco.
A tutto il resto avrei potuto rinunciare, ma a lui no.
Perché avere quell’incarico sarebbe stata un’occasione unica e un grande prestigio... ma la vita che mi attendeva insieme a lui sapevo che sarebbe stata tutto ciò che desideravo.
Come lo erano stati quei primi due anni che ci eravamo appena lasciati alle spalle, pronti per quelli a venire.
Avrei avuto il suo amore, e mi bastava. Non volevo altro.
Un’opportunità può tornare. La vita no.
 
Per questo, ciò che invece è arrivato mi ha devastata.
Perché quando Marco, nella sagrestia della chiesa, si era portato le mani al volto, avevo capito cosa fosse successo ancora prima che aprisse bocca. Eppure non ci avevo creduto finché non me lo aveva confessato.
Non so chi dei due fosse più devastato in quegli istanti.
Se non avesse bevuto, se me lo avesse detto prima, se non me lo avesse detto mai, se lo avessi scoperto dopo...
 
Se la risposta alla prima domanda è facile e avrebbe cambiato tutto, quella per le altre immagino avrebbe mantenuto intatto quello che è accaduto dopo.
 
Se avessi ascoltato mia madre, se lo avessi perdonato prima, se gli avessi dato un’altra possibilità, se me ne fossi andata via, se gli avessi chiuso ogni porta invece di esitare...
 
La verità è che le ultime opzioni non sarei riuscita ad attuarle in nessun caso.
Non avrei avuto il coraggio di andar via, non avrei avuto la forza di cancellarlo dalla mia vita.
Per le prime tre, non ho avuto né la forza, né il coraggio in ogni caso.
Un vicolo cieco.
Avrei voluto seguire il consiglio di mia madre perché sapevo che aveva ragione, ma era troppo presto e la ferita bruciava ancora troppo. Avrei potuto perdonarlo prima e dargli la possibilità che mi aveva implorato di concedergli tante volte, ma non ce l’ho fatta.
Per paura.
Ma non che lui mi tradisse o ferisse di nuovo.
Paura che io non fossi abbastanza forte da lasciarmi tutto alle spalle come mamma invece aveva fatto con papà.
Paura di tornare a rinfacciargli il passato, rendendo le nostre vite un inferno.
Paura di dire o fare la cosa sbagliata e distruggerci comunque.
Paura di sentirci colpevoli, paura di ammettere che quel terremoto si era scatenato per causa mia.
Perché io, che avevo sempre fatto dell’onestà un baluardo, gli avevo tenuto nascosto ciò che ci avrebbe cambiato l’esistenza, in un modo o nell’altro.
Anche se avessi scelto lui subito, senza esitazioni, sarebbe comunque rimasto quel ritaglio di dubbio che avrebbe assillato entrambi nei momenti di futura incertezza.
Quella parentesi di distacco ci sarebbe dovuta essere per forza, ci sarebbe servita a capire.
Ma non ho fatto niente di tutto questo.
Non l’ho scelto subito, almeno non coscientemente.
E non l’ho perdonato, ma l’ho tenuto legato a me. Neanche consapevolmente, in realtà.
Ma io potevo distrarmi, pensare ad altro e fare quello che volevo, lui no. Io e i miei silenzi rabbiosi glielo abbiamo impedito.
Per mesi, costretto a espiare un peccato condiviso ma di cui si è fatto carico da solo, non si è mai lamentato.
Non ha mai mollato, o rinunciato. Anche quando ha detto di sì, non era vero.
Perché come Marco conosce me meglio di me stessa, anch’io conosco lui meglio di se stesso.
E so che quel tradimento è stato uno sbaglio, e se potesse tornare indietro non se ne andrebbe neanche.
Perché non ha avuto alcun significato, se non di essere stato un gesto da ubriaco disperato e pazzo d’amore per una donna che aveva preferito il lavoro a lui.
Nascondendoglielo per due mesi, tra l’altro.
Lui ha sbagliato, ma non è che io abbia fatto una gran cosa, anzi. Non mi sono comportata meglio.
Solo che è più facile attaccare per un tradimento fisico, che per uno emotivo.
Anch’io, in un certo senso, l’ho tradito. Solo che mi ci è voluto tempo per dare un nome a quel sentimento che continuava a scavarmi le viscere per venire a galla.
Il nostro problema è sempre stato il tempismo.
Perché quando l’ho capito, ho visto il mio incubo riemergere - l’ennesimo fraintendimento, ma come ho detto, io potevo fare quello che volevo, lui no - e ho preferito fuggire, di nuovo.
Io che non sono mai scappata, non ho avuto il coraggio di affrontare quella conversazione con Marco per mesi interi, finché non è stato troppo tardi.
Cioè, non era troppo tardi, ma io mi sono sentita come se lo fosse.
Perché lo amavo e faceva male.
Lo volevo con me e lo sentivo distante, perché ero stata io a spingerlo lontano, anche se lontano non era.
Quel filo rosso c’era e non si era spezzato, ne ero certa, ma non era ancora il momento di ritrovare l’altro capo, evidentemente.
 
Per questo avevo scelto la via più facile, dopo.
Fingere che quell’imbarazzo e l’affetto per un altro uomo fossero di più per allontanarmi.
Impormi di chiudere gli occhi e la mente. Mettere il cuore sotto chiave e accettare quella strada ignota.
Oscura, cupa, che non avrei mai intrapreso in momenti normali.
Mi sarei fermata molto prima.
Avrei fatto il mio dovere e anche di più, ma non mi sarei lasciata coinvolgere in una storia che era solo una proiezione distorta della mia.
Avrei capito prima che quella era una battaglia che non spettava a me combattere, perché non era la mia da affrontare e vincere.
E si può aiutare solo chi lo vuole, non chi rifiuta la tua mano e ricade negli stessi errori ogni volta, giustificandosi di non essere capace, di non essere all’altezza.
Non tutti gli sbagli hanno scusanti accettabili. Non tutti hanno conseguenze che col tempo possono appianarsi, cancellarsi.
Sergio mi ha trascinata con sé in quel mondo senza regole che non mi è mai appartenuto, ma che in quegli istanti sembrava incredibilmente liberatorio da non farmi capire più nulla.
Avevo bisogno di concentrarmi su altro, di perdermi senza ritrovarmi e riconoscermi, e il suo costante bisogno di rassicurazioni era un buon diversivo per non riflettere sui miei guai.
Volevo che a lui e Ines toccasse una sorte diversa dalla mia, volevo che avessero quel destino che avrei voluto per me, a tutti i costi.
Talmente tanto, che sono diventata cieca e sorda davanti alle avvisaglie che qualcosa non andava.
Non ho voluto sentire, non ho voluto vedere.
Se avessi guardato meglio Sergio, se avessi guardato meglio Marco...
Beh, quasi certamente non sarei finita su un letto d’ospedale, in terapia intensiva, a tentare di vincere la partita con la morte, tanto per dirne una.
Ero così concentrata a contraddire Marco e trattarlo male per puro, sadico rancore, che avevo messo a tacere i suoi tentativi di mettermi in guardia. Non solo da Sergio, ma da tutto ciò che continuavo imperterrita a voler ignorare.
Credo che Sergio non si sia reso conto fino in fondo delle implicazioni della sua scelta. Pensava di poterne uscirne pulito, forse... oppure era semplicemente convinto che sarebbe riuscito a essere troppo lontano quando noi avremmo captato la truffa.
Aveva preso parte a un colpo perfetto, senza farmi insospettire, comprando la mia fiducia e usando la figlia come moneta. L’unica sulla quale non avrei indagato mai. Trascinando la piccola Ines con sé, obbligandola a una vita di clandestinità che io stessa avevo contribuito a darle.
Sarei stata colpevole quanto lui, pur non sapendo niente della scheda nel mio computer. Non sapevo, e proprio per questo avevo lasciato che il piano si compisse indisturbato.
Avrei condannato una creatura innocente a una vita da reietta solo per essere stata una codarda. Per non aver voluto ascoltare. Vedere.
Avrei dovuto pagare.
Se Marco non si fosse preso la responsabilità al posto mio.
Assumendosi tutte le colpe del caso.
Mentre io ero in coma, non aveva esitato un attimo ad affermare che fosse stato lui a suggerirmi di far inserire quella scheda, per beccare i truffatori in flagranza di reato. Un’indagine riservata di cui solo noi eravamo a conoscenza.
 
Ironia della sorte, aveva difeso quello stesso lavoro per cui ci eravamo lasciati.
E io, che mai avrei voluto che lui sacrificasse la sua carriera e la sua vita per me, non ho potuto impedirglielo.
Ha fatto in modo, con quell’ammissione, che io non potessi contestare.
La cosa che più mi fa impazzire è che in quegli istanti non sapeva nemmeno se io sarei sopravvissuta.
Ha rischiato di mandare all’aria tutto ciò che aveva costruito per... per niente.
Perché io non me lo merito, è questa la verità. L’ho trattato male perché gli volevo troppo bene e non lo volevo ammettere.
E se quel giorno in piazza non ho detto nulla, quando l’ho saputo, non è perché io l’abbia dato per scontato.
È che non sapevo cosa dirgli.
Perché ha compiuto un gesto d’amore immenso nei miei confronti. Ha sacrificato ogni cosa perché il mio nome non venisse intaccato, sporcato.
A prescindere dal fatto che mi fossi svegliata o meno. Anzi forse l’ha fatto proprio perché, se non avessi superato la notte, non avrei mai potuto difendermi da accuse ingiuste.
Mi ero fidata dell’uomo sbagliato, per i motivi sbagliati, e ne stavo pagando le conseguenze. Pesanti.
La decisione di vivere o morire non spettava nemmeno a me.
Mi sono svegliata perché qualcun altro è stato testardo al posto mio e mi ha chiesto di aprire gli occhi.
Da sola non so se l’avrei fatto. Non ne avevo né la voglia né la volontà. Non valeva la pena, per me stessa.
L’ho fatto perché sentire la sofferenza negli altri non l’ho mai sopportato.
Soprattutto non la sua. Che mi ha sempre lasciata indifesa.
Lì, sempre in piazza, ho capito di aver commesso un altro errore: dire a Sergio che lo avrei aspettato, quando io stessa sapevo che avrei disatteso quella promessa. Perché le intenzioni non erano quelle apparenti.
Avevo attribuito il nome sbagliato a sentimenti più miti di quanto credessi. Di quanto mi ero imposta che fossero.
Perché c’era stato affetto, tenerezza, indulgenza... ma mai amore. E ne ero sempre stata consapevole. Ma proprio per questo avevo lasciato che mi usasse. Glielo avevo permesso senza oppormi.
Lo avrei aspettato, ma solo per tendergli la mano quando sarebbe uscito e aiutarlo a guadagnarsi un posto, se lo avrebbe voluto. Nient’altro. Mi sono espressa molto male, però. Non so se già se ne è reso conto.
Io so solo che in piazza ho capito che, dopo tutti quei mesi, mi mancava la quotidianità con Marco. Mi mancavano i piccoli gesti, i nostri momenti... le passeggiate con Patatino, i baci la mattina prima di andare al lavoro, le serate sul divano a guardare le partite di calcio, il suo arrosto troppo salato e il brasato pessimo.
Le litigate, il far pace.
Le giornate in ufficio e il rientro a casa.
I silenzi colmi di parole che non avevano bisogno di essere pronunciate.
Le conversazioni fino a tarda notte, per riempire di leggerezza una stanza già colma d’amore.
Vedi, tutto è cominciato con un matrimonio che è finito malissimo... Magari andrà meglio dopo il tuo funerale, vai a sapere!
Così ha detto Marco, davanti alla caserma, quella mattina.
E sapere che nonostante tutto c’era ancora una speranza per noi due, mi aveva fatta sentire di nuovo... me stessa.
Ci sarebbe voluto del tempo, certo, ma forse era finalmente arrivato il momento di lasciarsi davvero il passato alle spalle.
Oppure era semplicemente una mia illusione. Magari avevo capito male, frainteso, dato troppo peso a parole che volevano solo essere gentili.
Mi giro a fissare lo spazio accanto al mio nel letto, vuoto e freddo da troppo tempo.
Sperare in un futuro che non si è realizzato fa solo male.
La verità è che finché Sergio era presente, io avevo potuto stargli addosso e far passare una fiammella per un incendio. Non appena lui è venuto a mancare, però, l’incendio ha svelato di essere soltanto un fiammifero, e si è spento perché non aveva mai avuto nulla che lo alimentasse davvero, oltre al suo bastoncino di legno, consumato in pochi istanti.
Con Marco, invece, sono sempre stata io per prima ad alimentare il fuoco. Con i litigi, la rabbia, il dolore che non facevo mai spegnere.
Non volevo permettermi di amarlo ancora, quindi sfruttavo i pretesti per alimentare una passione di paglia.
L’amore invece si nutre di piccole cose, di tutto ciò che trova sulla sua strada: una pietra che fa inciampare in due braccia sconosciute e familiari, un gelato al sapore di rinascita, una canzone natalizia fuori tempo. Una caldaia rotta e occhi negli occhi. Un invito a cena per un ritardo. La paura di un ostacolo lasciato per caso al posto sbagliato. Un film che nessuno ha visto. Il terrore della fine. Una nevicata in pieno agosto.
E poi, un tableau da rifare, un pouf che cambia significato. La cura per una bambina non figlia. Un abito da sposa conservato per poter sperare. Un ponte di sera, un bacio improvviso. Il perdono. Ancora, la fine che sembra inevitabile. L’amore che risveglia.
Un futuro pieno di nebbia.
 
Quando apro gli occhi, la mattina, mi sembra di averli chiusi da cinque minuti scarsi.
Forse è davvero così, ma ormai non posso farci niente.
Mi obbligo ad alzarmi dal letto e, dopo una colazione frettolosa, indosso la mia fidata divisa per correre in caserma.
Dieci minuti di ritardo.
Non è da me.
I miei sottoposti, infatti, mi salutano con uno sguardo leggermente preoccupato. Ma io faccio finta di niente, rintanandomi nel mio ufficio.
Cecchini neanche ci prova ad avvicinarmi temendo non sia aria, limitandosi a seguirmi con uno sguardo incerto. E come biasimarlo?
Quando sento la porta aprirsi senza che nessuno abbia bussato, capisco ancor prima di alzare lo sguardo chi possa essere stato tanto temerario da entrare senza curarsi di poter essere azzannato.
Marco.
Con un tè caldo in mano.
“Buongiorno!” mi saluta con un sorriso, appoggiando con delicatezza la tazza sulla scrivania e facendo attenzione a non sporcare gli incartamenti. Un profumo inconfondibile si propaga dal liquido bollente.
Gli rivolgo uno sguardo interrogativo che vorrebbe essere infastidito, ma che si ammorbidisce immediatamente non appena lui solleva un sopracciglio e accenna una risata, negli occhi un luccichio giocoso.
Non c’è modo di aggirarlo.
“No, è che... di solito, quando sei nervosa, bevi sempre... questo tè.” si giustifica, leggermente in imbarazzo ma con voce sicura.
Scuoto la testa, divertita e piacevolmente colpita allo stesso tempo, prima di rivolgergli un sorriso e sollevare la tazza, portandomela alle labbra.
L’aroma dolce di vaniglia mi fa tornare alla mente ricordi che mi accorgo di volere disperatamente nel mio futuro.
Abbasso gli occhi, ripensando alla citazione del libro di ieri sera.
Se solo potessimo vedere l’infinita catena di conseguenze derivanti da ogni singolo nostro gesto... E invece ce ne rendiamo conto soltanto quando rendersi conto non serve più a nulla.
Ho sbagliato a credere che l’autore avesse ragione.
Magari non vale la pena rimuginare sui troppi se che avrebbero cambiato la vita intera, questo sì, ma non è vero che rendersene conto non serve a niente.
Serve a non commettere gli stessi errori, a non sprecare le occasioni che il destino ci offre.
E io sono decisa a cogliere al volo questa seconda possibilità.
“Il tè è perfetto, ma...”
Vedo un lampo di terrore attraversare lo sguardo di Marco, che teme di aver fatto la mossa sbagliata.
Ma non è così, anzi.
Le mie labbra si piegano in un sorriso e sento le guance accaldarsi, perché ho paura di tutto quello che potrà succedere, ma so che devo.
Io, quel futuro con lui, lo voglio ancora.
Gli devo un bacio che non sappia di paura, ma d’amore mai spento.
“... ci verresti a mangiare un gelato, stasera? Da me?”
Se dovessi descrivere la sua espressione adesso, direi che è il ritratto della felicità.
“Al cioccolato, con le nocciole tritate sopra.”
 
 
Ciao a tutti!
Ebbene, nell’attesa di trovare il tempo per scrivere la prossima fiaba (già in cantiere), ho pensato di condividere con voi questo testo che avevo buttato giù tempo fa, ma tenuto in un cassetto per tempi più adatti.
Adesso che le riprese stanno per iniziare, mi è sembrato un buon momento per proporre la mia idea, su come le cose tra Anna e Marco potrebbero riprendere la giusta piega. Mi piacerebbe veder sviluppata una situazione simile, ecco... Spero vi sia piaciuta! Fatemi sapere!
A presto,
 
Mari
 
* La citazione è tratta da “Cercando Alaska”, di John Green, che vi consiglio di leggere!
   
 
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