Smile
– Tokyo,
2009 –
Poche
cose potevano rovinare la giornata di Gojo Satoru, una di quelle era la noia.
Aveva compiuto la missione assegnatagli con successo: vai al luogo destinato,
esorcizza, torna alla scuola di magia. Semplice. Il problema era stata la
mancanza di distrazioni.
Non
c’era stata Iori con cui scherzare e nemmeno Ieiri a cui far fare tutto il lavoro.
Completare la missione da solo era stata una noia completa.
Masamichi aveva deciso di mandarlo in solitaria
a causa della sua eccessiva pigrizia nell’ultimo incarico alla scuola
elementare – accusa mai accettata e condivisa da Satoru – come se dondolare sull’altalena e incitare
Ieri non fossero stati uno sforzo sufficiente. Aveva massimizzato lo spirto di
squadra senza dover girare in tondo nei corridoi, facendo persino i complimenti
a Shouko alla fine della missione.
Ai piani alti non capivano niente.
Satoru
ondeggiò sconsolato il sacchetto della spesa poggiato mollemente a un palo.
Completare
la missione da solo era stata una noia completa.
L’aveva
già pensato, giusto? Giusto.
Nemmeno
la sosta non autorizzata era servita a molto.
Aveva impiegato meno tempo del previsto ad esorcizzare la maledizione decidendo
di fermarsi a metà tragitto in una pasticceria appena inaugurata ad Asakusa. Il delizioso ed invitante profumino era stato
sufficiente ad attirarlo verso la vetrina, la piacente cassiera era stata solo
il colpo di grazia. Si era lasciato convincere ad acquistare la loro nuovissima
e inedita specialità: daifuku ripieni di gelato.
Mochi colorati costituiti da un involucro morbido con all’interno la fresca consistenza
del gelato dagli svariati gusti tra cui aveva dovuto fare una scelta: quelli
alla fragola, al mango, al lampone, al cioccolato, al tè matcha, al mirtillo e
alla menta… purtroppo soltanto quei pochi erano finiti nella sua lista della
spesa.
Tutto
era andato secondo i piani: la maledizione era stata esorcizzata in meno di
quindici secondi ed i mochi avrebbero potuto far festa nel suo stomaco. Se solo
si fosse deciso a mangiarli. Il ticchettare dell’orologio non sbagliava,
l’ulteriore tergiversare avrebbe comportato una flaccida palla di riso piena di
gelato sciolto completamente da buttare.
Lui non voleva questo, li aveva desiderati così tanto.
Perché si era fermato qui in primo
luogo?
Il
suono della carne che incontra altra carne riempì l’aria spaventando gli
uccellini vicini.
Giusto, colpa del moccioso.
«Megumi-chan non trovi il tuo nome così grazioso?»
Satoru
si limitò a fissare il piccoletto incontrato due settimane prima inciampare e
cascare nella riva fangosa fra le risate generali dei ragazzini piazzati davanti
a lui. Anche dall’alto del piccolo rialzo era fin troppo facile seguire la
zuffa infantile. Akihiro e Takeji, così sembrava si chiamassero i due, ad
occhio potevano avere circa un paio di anni in più di Megumi. La stazza
corpulenta sicuramente non giovava a favore del bambino più piccolo che aveva
attirato la sua attenzione sulla via del ritorno, ma non c’era nulla di male
nella situazione generale
Erano
solo le solite scaramucce fra bambini.
I mochi al cioccolato dovevano
essere i primi.
«Cosa
ti prende? Ti sei già arreso?»
Megumi
scivolò nella poltiglia melmosa issandosi instabile sulle piccole gambe prima
di caricare contro il bambino più vicino. Satoru si lasciò sfuggire un fischio
scanzonato alla testata entrata in pieno contro lo stomaco di Akihiro.
Il lampone sarebbe stato il
secondo...no, forse il terzo gusto.
Satoru
fletté annoiato le braccia sulla testa sollevando il sacchetto legato attorno
al polso fin sulla linea degli occhi. Poteva sempre aprire la scatola dei mochi
e godersi lo spettacolo in sostituzione dei popcorn inesistenti, non era un
film ma poteva accontentarsi. Ovviamente i dolci erano gustosi e possedevano la
giusta carica di zuccheri per metterlo di buon umore ma davanti ad una scena
d’azione era sicuramente meglio prediligere qualcosa di salto. I dubbi –
importanti – come quelli richiedevano la giusta soluzione, non esisteva un vero
vincitore tra dolce e salto.
Satoru
incrociò le braccia sul petto, poi dietro la schiena, le poggiò sui fianchi,
sbatté il piede a terra, alzò gli occhi al cielo. La giusta risposta non arrivò
mai durante la sottostante zuffa animalesca dei tre. Lui proprio non riusciva a
trovare il gusto vincitore. Era già stato complicato decidere se rinunciare
alla mora o al lampone nel negozio.
Annuendo
a sé stesso convenne infine che Megumi dovesse avere fame quanto lui per aver
preso a morsi il braccio di Takeji. I dentini avevano oltrepassato il leggero
strato della maglietta penetrando sulla pelle. Secondo il suo modesto
parere il bambino avrebbe dovuto nutrirsi di qualcosa di più salutare della
carne umana, la sua costituzione mingherlina non mostrava di certo una giusta
ed equilibrata alimentazione. D’altronde però, Megumi non era normale.
Quale bambino rifiutava una fetta
di torta al cioccolato?
Dopo
essersi messo in mezzo ed aver impedito la sua vendita Satoru aveva sentito la
necessità di festeggiare. Sottrarre un membro alla famiglia Zen'in
era stata una gioia ed era difficile contraddire la sua come azione egoistica,
di mezzo c’era stato solo il suo personale interesse. Nonostante ciò, aveva comprato una torta da
mangiare con il piccoletto tutto noia e serietà. Tre strati di pandispagna
riempiti di crema al cioccolato e nocciole cosparsi da un denso strato di
glassa caramellata.
Megumi
aveva rifiutato la torta.
No, Megumi aveva gli aveva sbattuto la porta in faccia.
“Futuro potente stregone di sua
proprietà”
Satoru l’aveva pure elogiato in quel
modo ma il bambino era parso proprio strano.
Nemmeno i complimenti aveva preso per il verso giusto, eppure, a suo dire non
aveva aggiunto alcunché di sbagliato.
Megumi era stato troppo permaloso.
Dopo quella giornata l’unica cosa che Satoru aveva capito era il suo personale
ingresso secondario per casa Fushiguro, ossia la finestra della camera di
Tsumiki. La dolce bambina lo aveva accolto con un enorme sorriso offrendogli del
tè ed accomodandosi con lui al tavolo per finire la torta. Rendendogli
difficile credere alla più piccola goccia di sangue in comune con il maschietto
apatico nella stanza accanto.
«Piccolo
scarafaggio questa te la faccio pagare!»
Megumi
non riuscì a spostarsi in tempo finendo per rotolare sul terreno travolto da
Akihiro. Il braccio torto dietro la schiena gli fece sfuggire un lamento,
debole e fugace al contrario di quello scaturito dai due pugni scagliati in
sequenza sulla sua faccia.
Le guance dolenti gli offuscarono la vista impedendogli di evitare il
successivo gancio sulla pelle martoriata della gota destra. Irritato per la
situazione esalò un ringhio rabbioso riversandoci dentro tutta la sua
frustrazione sputando impudentemente contro Takeji. Al rivolo di saliva
rossastra discendente sul viso del bulletto poté provare un briciolo di
godimento prima di slanciarsi quel tanto necessario a colpirlo sotto il
mento.
Il
dente volato via dalla bocca fu l’apice della sua soddisfazione.
Megumi
saltò con tutta la forza a disposizione sui piedi di Akihiro approfittando
dell’attimo di smarrimento. Il ragazzino lasciò la presa ferrea permettendogli
di svincolarsi e sgattaiolare qualche passo più lontano. L’idea di scappare totalmente
via era fuori discussione, non avrebbe dato loro la soddisfazione di tornare a
tormentarlo l’indomani.
Avrebbe continuato a reagire finché la vittoria non sarebbe arrivata.
Detestava quegli stupidi bulletti.
Avevano fatto piangere la povera Reika rubandole il peluche e sebbene lui le
avesse restituito l’orsacchiotto ad ora di pranzo, i due non avevano preso bene
il suo atto. La maestra sopraggiunta aveva solo posticipato la resa dei conti
attualmente in corso.
Nessuno
gli avrebbe impedito di dar loro una lezione o di finire massacrato provandoci.
Forse.
Improvvisamente
il suo contatto con il suolo venne meno.
«Ohi,
ohi, Megumi-kun, è così che passi il tuo tempo?»
Sussultando
leggermente alla vocina idilliaca Megumi sollevò di scatto la testa verso lo
strano ed inquietante individuo privo di qualsivoglia tatto. Satoru l’aveva
afferrato per il retro della maglia facendolo oscillare come un sacco di
patate, incurante delle sue rimostranze e delle gambe scalciate nel vuoto.
Per
essere uno stupido allampanato aveva più forza del previsto.
«Cosa
vuole ora?» sbottò infastidito agitando le braccia incapace di arrivare a
toccare la sua schiena, la felpa stretta attorno al busto gli stava facendo
mancare l’aria «Aveva detto che ci saremo rivisti tra qualche mese!»
«Ho
detto davvero così?» domandò retoricamente il giovane uomo portandosi una mano
al mento pensoso, quella con cui stringeva il povero bambino ora librato
nell’aria «Oh beh, si vede che ho cambiato idea!»
Megumi
si ritrovò nuovamente penzoloni a mezza altezza sotto gli sguardi perplessi dei
due bambini che non capivano da dove fosse sbucato lo strampalato individuo.
Era apparso dal nulla dietro alla loro preda torturandolo in maniera non
dissimile da loro.
«Oh,
voi bravi bambini, volete una caramella?» incurante delle proteste Gojo
si sistemò gli occhialini da sole con un colpetto di polso frugando nelle
tasche prima di mostrare un enorme sorriso «Mi piacciono tanto quelle alla
ciliegia ma anche quelle al limone non sono male, forse un po’ troppo acide ma
potete prenderle se volete!»
Akihiro
e Takeji si scambiarono un’occhiata inquieta arretrando simultaneamente di un
passo alla mano tesa ricolma di involucri colorati mentre Megumi dondolato
avanti e indietro a causa dei gesti scanzonati sentiva di essere vicino al mal
di mare.
«No…la
ringrazio ma la mamma dice di non accettare roba dagli sconosciuti»
Akihiro
annuì in accordo salutando velocemente insieme all’amico prima di allontanarsi
il più possibile dallo strano uomo che poteva tranquillamente essere uno di
quei malati ossessionato dai bambini da cui li avevano messi in guardia i
genitori. Finché era interessato a Megumi loro potevano andarsene via illesi,
era uno sacrificio equo per la loro incolumità.
Quegli
occhi azzurri intravisti sotto gli occhiali erano risultati troppo inquietanti.
Con
sommo orrore Megumi notò Akihiro e Takeji darsela a gambe squadrandolo con
occhi di vendetta, l’indomani non avrebbe dovuto fare i conti con loro ma con
tutta la banda. Situazione che in quel momento avrebbe comunque prediletto e
pregato accadesse presto.
«Oh
no, sono andati via» commentò tristemente Gojo guardando il palmo con le
caramelle prima di rivolgerlo con rinnovato entusiasmo al ragazzino sempre più
simile ad una scimmia infestata dalle pulci «Megumi-kun,
vuoi una caramella?»
Megumi
avvertì l’improvviso impulso di detestare maggiormente quell’uomo piombato
improvvisamente nella sua vita.
«No!
Non le voglio le sue caramelle!»
«Perché
no? Mi avevano detto che ai bambini piacevano»
Satoru
borbottò sconsolato e sovrappensiero tra sé appuntandosi di riferire alla
cassiera della pasticceria quanto inutile fosse stato il suo consiglio. La
donna doveva aver conosciuto altri tipi di bambini o era lui ad aver trovato
davanti la famosa eccezione, non era stato per nulla fortunato.
Megumi si stufò presto di ascoltare i commenti sconclusionati blaterati
sottovoce.
Scalciando
con energia provò a colpire l’uomo nel fianco immobilizzandosi del tutto per la
sorpresa. Lo strano campo attorno all’intera figura gli impedì persino di
sfiorarlo e spingersi ulteriormente non cambiò le cose.
Qualunque
cosa Satoru avesse attorno a sé, lo rendeva irraggiungibile.
«Ci
sono! Vuoi quelle alla menta?»
«No!
Vorrei che mi lasciasse andare!»
«Oh,
ok»
Il
sibilo lamentoso sfuggì dalle labbra del bambino quando la sua faccia colpì il
terreno. La sua richiesta era stata presa alla lettera. Senza avvertirlo Gojo
aveva semplicemente lasciato la presa sulla sua maglietta girando sui tacchi
per tornarsene dalla strada da cui era venuto mormorando qualcosa sui lamponi e
il cioccolato.
Megumi
premette i palmi nella terra faticando a rialzarsi senza sentir bruciare il
ginocchio sfregiato in quell’ultima caduta. Soffiò lievemente sulla ferita
strizzando gli occhi al pizzicore sopraggiunto, conscio di dover trovare una
scusa credibile per evitare le domande di sua sorella. Entrare in casa coperto
di sangue e graffi non era sicuramente la mossa giusta per passare inosservato.
Al
suono dello specchio d’acqua infranto Gojo si voltò ad osservare il bambino
accovacciato sulla sponda del fiume con la faccia infilata nell’acqua. La
rossastra luce del tramonto riverberò scintillante sulla lastra ondeggiante dissolvendosi
in piccole onde attorno alla massa corvina. I capelli fradici appiattiti sulla fronte
tornarono a galla rendendo il giovane attaccabrighe apparentemente più piccino
ai suoi occhi. Il lembo della felpa miracolosamente immacolato strofinato sul
rivolo di sangue fuoriuscito dal naso ne accentuò soltanto la vera età.
Il
fango e il sangue incrostati erano stati lavati via lasciandosi alle spalle un
volto lattiginoso con un alone scuro sotto l’occhio destro e una guancia
gonfia. Le stesse manine portate sul naso bloccarono a fatica l’epistassi prima
di essere immerse nuovamente nelle acque che non avrebbero lavato via la
macchia nemmeno se il bambino fosse rimasto lì a sfregare per tutta la notte.
Sinteticamente:
Megumi aveva un aspetto miserabile.
«Certo
che ti hanno conciato per le feste»
Megumi
sbatté gli occhi frastornato inclinando il capo all’indietro per inquadrare il
volto dell’uomo sopraggiunto alle sue spalle. I penetranti occhi azzurri lo
fissavano dall’alto in basso facendolo sentire una piccola formica al suo
confronto, spiacevole sensazione per nulla mitigata dalle lunghe gambe
lievemente divaricate.
Un gigante restava comunque un gigante anche con la schiena leggermente
curvata.
«Non
sono affari suoi» il nasino arricciato e le guance gonfiate distrussero la
frase tagliante attentamente elaborata rendendo Megumi quello che realmente
era, un bambino infastidito «Avrei chiuso la questione se lei non si fosse
messo in mezzo»
Gojo
si definiva di per sé una persona strana ma era certo che quello inginocchiato
ai suoi piedi fosse un bambino con dentro il caratteraccio di un adolescente.
Una personcina decisamente poco piacevole. Un po’ come il protagonista di quel
manga poliziesco a cui si era da poco appassionato.
«Oh,
come siamo suscettibili. Se non fossi arrivato a quest’ora saresti a piangere
in quell’angolino» Satoru cinguettò allegramente indicando un punto a caso
sotto al ponte premurandosi di lasciare al bambino buffetti non richiesti sulla
piccola testolina bagnata «Non hai una buona tecnica, prima di ingaggiare una
rissa dovresti imparare a tirare dei pugni. Chiudi la mando in modo sbagliato,
così ti fai male tu non l’avversario»
Megumi
nascose istintivamente la manina dietro la schiena arrossendo per l’umiliazione
anche se Satoru dalla sua angolazione poteva comunque osservare il pollice
arrossato e le nocche sfregiate. Era stato preso in giro, di nuovo. Nessuno gli
aveva insegnato a combattere, lo stesso Satoru gli aveva detto che avrebbero
iniziato un qualche allenamento fra alcuni mesi. Tsumiki diceva sempre che non
c’era nulla di male nel fallire al primo tentativo ma lui non la vedeva allo
stesso modo, soprattutto in una lotta.
Megumi riteneva quella sensazione d’insuccesso deplorevole, a maggior ragione
davanti colui che sembrava deliziarsi delle sue sventure.
Odiava sentirsi inutile.
«Arrivederci»
Al
burbero saluto Satoru sollevò gli occhiali da sole osservando leggermente
perplesso il bambino scrollarsi la terra di dosso. Gesto insolito se si
considerava il fango seccato sul resto dei suoi vestiti che avrebbero richiesto
un doppio lavaggio in lavatrice – magari infilandoci lo stesso bambino dentro –
ma non del tutto strano quanto la compostezza con cui si era allontanato.
Megumi non l’aveva nemmeno guardato incamminandosi verso casa senza voltarsi
indietro. Un passo a destra, uno a sinistra, di nuovo a destra leggermente
fuori asse ma non più dal lato opposto.
Aveva smesso di poggiare completamente il piede sinistro.
Sarebbe arrivato a casa?
Non
che a Satoru importasse l’effettiva salute del bambino – non erano affari suoi –
il suo compito l’aveva assolto, ma il padre perdente che aveva ammazzato aveva
creduto davvero molto nel potenziale del piccoletto e lui ci aveva rimesso la
faccia per accaparrarsi quel futuro stregone. La scuola aveva accettato di
sborsare fondi con la promessa di vederlo come studente, non poteva certo
tornare e dire:
“Il moccioso è morto investito da
un camion”
oppure
“Il marmocchio è annegato nel fiume”
Gojo
fermò il fluire dei suoi pensieri scuotendo la testa. In realtà, quelle erano
scuse che avrebbe potuto rifilare tranquillamente a chiunque gli avesse fatto
domande.
Se Megumi fosse restato indietro avrebbe segnato da solo il suo destino.
Megumi
serrò le labbra leccandosi il sangue raggrumato mentre stringeva nervosamente
l’estremità della felpa extralarge di due taglie più grandi appartenuta a
Tsumiki. L’aveva accettata soltanto per necessità, non avevano avuto soldi a
sufficienza per comprarne una.
«Megumi-kun!»
Accelerò
il passo facendo finta di non aver sentito la civettuola voce di Gojo che lo
chiamava a squarciagola. Quando i passanti servivano non c’erano mai, nemmeno
tra la folla si sarebbe potuto confondere lungo quella riva desolata. Megumi avrebbe
volentieri continuato ad ignorare Satoru, mettendosi anche a correre e
sopportare il dolore alla caviglia se necessario, ma per la seconda volta nella
giornata si ritrovò sollevato da terra.
«La
smetta! Non sono il suo pupazzet-»
Megumi
quasi non soffocò per la mancanza d’ossigeno non solo per la nuova stretta sul
retro della felpa ma per la palla verdognola infilatagli in bocca. Satoru per
zittirlo gli aveva sbattuto sulla faccia un mochi al
tè matcha aggiustando alla meglio la presa attorno al suo busto. Megumi si
ritrovò a stringere fra le mani la piccola pallina colorata non facendo più
caso al terreno sottostante e all’essere portato in giro in modi stravaganti.
La
sua attenzione era catturata totalmente dal dolcetto verdognolo mozzicato.
«All’interno
c’è del gelato?»
Gojo
squadrò il piccoletto da sopra gli occhiali chiedendosi se avesse solo
immaginato il tono di sorpresa tanto distante dalla solita apatia fino a quel
momento conosciuta. Annuì non riuscendo a distogliere lo sguardo dalle piccole
dita strette attorno al dolcetto che oltre alle manine aveva impiastricciato
anche i lati della bocca.
Megumi aveva fatto del suo meglio per non sporcarsi ulteriormente portandosi le
dita appiccicose alle labbra. Tra fango, acqua di un fiume di città e terra
circostante, sicuramente il bambino si sarebbe fatto un bel po’ di anticorpi. Satoru
pensò di farglielo notare ma si trattene per seguire incuriosito la traiettoria
di quegli occhietti blu.
Megumi con l’indice rimasto tra le labbra era rimasto ad osservare la scatolina
con i mochi stretta sotto l’altro braccio, lasciandogli l’autocompiacimento per
le sue abilità multitasking. L’aveva aperta con una sola mano.
«Uhm,
vuoi un altro mochi?»
Megumi
alla domanda sembrò risvegliarsi dal suo stato riflessivo scuotendo
vigorosamente la testa in segno di diniego. Gojo sollevò le sopracciglia
esasperato spingendo la scatola davanti la faccia del bambino che con le
orecchie arrossate tornò tentennante a guardarla. I successivi interminabili
secondi di completa calma non furono di buon auspicio. La camminata di Satoru
proseguì silenziosa spingendolo verso l’unica effettiva conclusione, quella di
riporre la scatola nel sacchetto ma il timido accenno di movimento gli bloccò l’azione.
Megumi aveva allungato titubante il braccio arrestandosi a metà per lanciargli
uno sguardo circospetto, quasi si aspettasse di vede la scatola allontanata da
un momento all’altro. Sospetto non lontano dalla verità, Satoru avrebbe voluto spostarla
per ridere ma uno dei suoi pochi neuroni gli suggerì che sarebbe stato meglio
non farlo.
Seppur ancora esitante, Megumi assicuratosi di non vederla sparire davanti i
suoi occhi afferrò con la manina una delle palline nella fila marrone.
Cioccolato.
Satoru
si limitò ad osservare di sottecchi il mochi tenuto
stretto quasi fosse un tesoro prezioso mai visto. Al posto di Megumi l’avrebbe
mangiato in un sol boccone senza prestarci tutta quella attenzione, il bambino
non doveva aver avuto molte occasioni per godersi un dolcetto. L’aria tenera e
indifesa gli ricordò qualcuno di ben diverso dall’uomo con cui si era scontrato
mortalmente.
«Grazie»
fu la flebile vocina in un ringraziamento affondato nel gelato.
Diffidente, apatico, noioso.
Gojo
l’aveva etichettato così al primo incontro. Troppo sveglio per la sua età e
troppo razionale per accettare qualunque forma di divertimento. Silenzioso e
composto era sembrato semplicemente perfetto, appetitoso al punto giusto per
una famiglia alla ricerca di bambini da plasmare e plagiare.
Lui
avrebbe dovuto limitarsi a impedire la vendita e null’altro.
Addestrare un futuro stregone come tanti altri.
Il
sole calò oltre l’orizzonte illuminando con gli ultimi raggi di luce il timido
sorriso estasiato appena accennato. Una curvatura leggera contornata dal
cioccolato che invano Megumi tentava di pulir via con la piccola lingua.
Il bambino era capace di sorridere.
Guardando
quel sorriso Satoru non riuscì a impedirsi di sorridere ironico a sua volta.
Si era infilato proprio in un bel
guaio.
Note
finali
Penso
che prima o poi farò rientrare questa one-shot in una raccolta di momenti,
quando lo studio non mi divorerà e sarò una persona libera.
In una vita passata qualcuno mi avrà maledetto.
Per
ora però ringrazio tutti coloro che sono passati a leggere la storia! 💙
Aky
Questi personaggi
non mi appartengono, ma sono proprietà di Gege Akutami; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo
di lucro