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Autore: Eurus91    10/05/2021    0 recensioni
“È una missione facile Jack. Sarete a casa per cena. Cena un corno, Matty!” Sbotta Jack, mentre il rumore degli spari emessi a raffica fa da sfondo alla conversazione immaginaria tra lui e il suo capo.
[...] Le mani che lo afferrano non sono una sorpresa, ma questo non ha impedito a lui di sussultare e farsi sfuggire un gemito di protesta quando due paia di braccia lo immobilizzano e lo costringono a sedersi su una sedia di metallo, che a Mac sembra essere apparsa dal nulla.
La fanfiction prende parte alla challenge #Youraisemeup sul gruppo Hurt/Comfort Italia
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Genere: Angst, Drammatico, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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“È una missione facile Jack. Sarete a casa per cena. Cena un corno, Matty!” Sbotta Jack, mentre il rumore degli spari emessi a raffica fa da sfondo alla conversazione immaginaria tra lui e il suo capo. 

Il respiro di Jack è veloce, teso per la corsa lungo il corridoio dell’edificio da cui stava fuggendo. Un corridoio che sembrava infinito fatto di strati di cemento irregolare, muffa e un bel po’ di umidità che rendeva l’aria stanti a e pesante.

“Farò saltare questo muro e ti raggiungo Jack. Fidati della scienza, Jack. Oggi cos’è la fiera del contrario?” Urla a nessuno con il fiato sempre più corto mentre continua a percorrere la strada che lo separa dall’uscita con la pistola in pugno e un passo stanco dopo l’altro. Gli spari iniziano a placarsi. Spari singoli che rompono il silenzio che è sceso facendolo sussultare. Preferisce pensare che stiano conservando le munizioni piuttosto che ammettere a sé stesso che i cattivi hanno raggiunto il loro obiettivo.

In altre circostanze il suono degli spari sarebbe stato un rumore bianco; qualcosa in cui immergersi uscendone poi più concentrato ma con Mac in mano nemica e lui che era riuscito a fuggire a malapena questo suono lo rendeva solo più inquieto.

Le mani che lo afferrano non sono una sorpresa, ma questo non ha impedito a lui di sussultare e farsi sfuggire un gemito di protesta quando due paia di braccia lo immobilizzano e lo costringono a sedersi su una sedia di metallo, che a Mac sembra essere apparsa dal nulla. Oppone resistenza, quel tanto che basta per placare il suo istinto di sopravvivenza che gli urlava di correre via e per rendere credibile la  cosa. Distrattamente, mentre uno dei cattivi ragazzi, vestito con una vecchia mimetica, arrotola uno spesso strato di nastro adesivo intorno ai suoi polsi, si chiede se Jack nella missione in cui si è offerto come esca ha provato la stessa cosa. È solo quando l’uomo finisce il lavoro e Mac istintivamente prova quanto siano resistenti le restrizioni, strattonandole un po’ e lamentandosi del bruciore che ne consegue, che realizza quanto pessima sia stata l'idea di farsi catturare per dare a Jack il tempo di scappare e consegnare le informazioni che avevano ottenuto.

Le mani di Jack tremano, ma non ha il tempo per preoccuparsi delle implicazioni di questa nuova scoperta, quando si porta un dito alle orecchie e attiva le comunicazioni. Per un momento il vociare confuso lo stordisce. Le voci di Bozer e Riley sono cariche di preoccupazione dopo il prolungato silenzio radio, fanno domande a cui Jack ora non se la sente di rispondere. Con un certo sforzo ignora i ragazzi e si rivolge direttamente al loro capo. 

«Abbiamo un problema Matty», la radio crepita un po’ «Che genere di problema Dalton?» Jack si passa una mano tra i capelli corti, le parole gli muoiono nella gola, deglutisce un paio di volte e quando si sente più se stesso risponde alla domanda della donna, «Ho qui la pendrive, ma Matty, hanno Mac».

Il silenzio che cala nella stanza, e che Jack può percepire attraverso le comunicazioni, é abbastanza significativo. «Cosa è andato storto?» Chiede Matty. Jack sente l’esitazione nella sua voce, e il rumore dei passi nella War Room ma si lancia comunque nella spiegazione di come le cose sono andate di lato tanto in fretta, si ferma giusto per rispondere ad alcune domande di Riley, «sono abbastanza lontano dall’edificio. Non ho un computer Riley e Mac non é qui per costruirne uno». 

C’è una differenza impercettibile tra l’essere torturati da qualcuno di competente e da qualcuno che non ha la più pallida idea di quello che sta facendo e in questo momento, immobilizzato, da solo in una stanza, con il freddo e l’umidità che gli si insinuano nelle ossa minacciando di farlo tremare, Mac non ha ancora deciso a quale categoria appartengono i suoi sequestratori. C’era da ammettere che era rimasto sorpreso quando hanno impiegato del nastro adesivo piuttosto che delle semplici manette, con le quali aveva una certa familiarità. Questo probabilmente faceva propendere l’ago della bilancia verso la prima opzione. Non che una fosse migliore dell’altra; il dolore, la paura, il senso di abbandono e sconforto, lo si provava in ogni caso ma con il senno di poi questa valutazione avrebbe dovuto farla prima di lasciarsi catturare, ora come ora, sperava solo che Jack avesse messo in salvo le informazioni e sarebbe tornato a prenderlo. 

«Un team Tac sarà lì tra 90 minuti» dice Matty, le sue parole accompagnate dal rumore di tasti che vengono premuti, molto probabilmente da Riley e notifiche di messaggi che vengono ricevuti ed inviati. È strano quanto Jack trovi confortante, ora come ora, questi suoni. Metterebbe volentieri in vendita una delle sue magliette degli Iron Maiden per essere in quella stanza con Mac a discutere di fisica applicata allo Skee Ball. Ad essere sincero si sarebbe accontentato di riavere Mac e basta.

Dopo aver camminato ancora un po’ ha trovato un posto appartato nel bosco. Dal suo nascondiglio ha una buona visuale e sarebbe stato avvertito per tempo se i cattivi decidono di mettersi a giocare con lui; cosa che fino a quel momento non è successa e lui non sa se essere tremendamente spaventato o grato di questo. 

Questa volta è toccato alla voce di Riley interrompere i pensieri di Jack, che stavano andando a spirale. Era rimasto intrappolato nella sua testa e ogni volta che accadeva si sentiva sempre un po’ più vicino a Mac. A questo ultimo capitava spesso di perdersi nei pensieri e per quanto Jack lo prendesse in giro sul punto un po’ lo comprendeva.

«Lo riporteremo a casa» dice Riley, la sua voce vacilla per un attimo, Jack capisce che vuole dimostrarsi più sicura e forte di quanto sia in realtà in questo momento e Jack sente l’improvviso bisogno di proteggerla. Non ha potuto guardare le spalle a Mac perché è un ragazzo tremendamente testardo con l’istinto di conservazione di un sasso ma se ora può rassicurare Riley lo farà. 

«Si. Lo faremo sicuramente», risponde con appena un sussurro non volendo rivelare comunque la sua posizione. Può quasi vedere Riley annuire convinta, quello che omette  però è che sono le condizioni in cui teme di ritrovare Mac a preoccuparlo.

«Per chi lavori?»
L’uomo, lo stesso che lo ha trascinato a forza nella stanza, lo sta fissando a braccia conserte. Lo sguardo corrucciato e le labbra leggermente sollevate come se potesse, ammesso fosse possibile, ringhiare per la frustrazione da un momento all’altro.
Un tavolo è stato portato nella stessa stanza dove si trova, ma di questo Mac non si preoccupa molto. È un tavolo.
«Allora?» Lo incalza l’uomo, quando è evidente che il prolungato silenzio in cui Mac si è chiuso equivale ad una non - risposta.
«Non sono affari tuoi» risponde istintivamente. Anni di addestramento prima e esperienza sul campo poi lo hanno reso particolarmente sarcastico durante gli interrogatori.
«Questo è affare tuo però», il pugno che ricevette in pieno stomaco era un avvertimento a caratteri cubitali del fatto che il sarcasmo non era apprezzato. Pazienza. Il dolore fu immediato, quasi sconvolgente. Tutta l’aria che aveva nei polmoni venne fuori con un rantolo soffocato e per un momento credette di svenire.
«Per chi lavori e dov’è la pendrive?»
Chiede l’uomo, di nuovo, mentre lui fatica a respirare.
«Ehi, ora, un per favore sarebbe gradito», il pugno successivo non fu per niente un sorpresa.
Mac si stava preparando mentalmente al pugno successivo quando un altro uomo, che sembrava molto più giovane di quello che lo stava malmenando, ha fatto irruzione nella stanza. Sembrava agitato, sudato, come se avesse corso la maratona due volte. Dallo sguardo che l’uomo che ormai Mac era sicuro fosse il capo gli lanciò non aveva per niente gradito l’intromissione.

«Un squadra di operatori non identificati si sta avvicinando all’edificio» Dice tutto d’un fiato, mentre lo sguardo non smette di vagare tra il ragazzo ammanettato alla sedia e l’uomo ancora in piedi di fronte a lui, «Abbiamo forse dieci, quindici minuti prima che irrompano».

L’uomo annuisce, passandosi una mano sulla barba incolta. Sembra pensieroso, meditabondo, quasi come se la notizia non lo avesse toccato.

Mac sorride, un sorriso che ha il sapore della fiducia. Non aveva mai pensato che Jack lo abbandonasse neanche per un secondo, sapere che ha ragione, che la fiducia che ripongono l’uno nell’altro è così ricambiata, gli provoca una scarica di adrenalina che lo porta ad un risata quasi incontrollata. «Qualcuno qui è nei guai» aggiunge quasi cantilenando. 

Mac si aspettava una reazione. Un nuovo pugno forse, una tirata di capelli, insomma essere strapazzato un po’; non si aspettava di certo che l’uomo facesse un sorriso sardonico, come se tutto stesse andando secondo i suoi piani. A quel punto Mac aveva la conferma che i suoi sequestratori sapevano quello che stavano facendo, erano esperti e non stavano agendo alla cieca. Un brivido gli nasce nella parte più profonda della pancia e si propaga lungo la spina dorsale, resiste all’impulso di strattonare, nuovamente, le restrizione e deglutisce a vuoto. Non può fare a meno di avere paura. È l’istinto primordiale che gli urla a gran voce che è in pericolo e che deve scappare. 

«Suppongo tu stia parlando di te stesso,» aggiunge il suo sequestratore che si piega sulle ginocchia per essere alla sua altezza. La tuta mimetica che sale lungo le gambe rivelando le caviglie dell’uomo. Ora Mac può vederlo meglio, può vedere una cicatrice che gli attraversa il sopracciglio destro e prosegue fino alla tempia, può notare fili bianchi nella barba e profonde rughe su tutto il viso. 

«Spero che il tuo amico ti trovi in tempo,» gli sussurra all’orecchio e Mac vorrebbe urlare per la frustrazione.

Per la terza volta, in quel giorno, Jack si è ritrovato a ripercorrere quel corridoio. Dire che iniziava a provare un certo odio viscerale per quel posto era come l’eufemismo del secolo. Come la seconda volta aveva il cuore in gola e un’ansia che minacciava d’ucciderlo. Dalle planimetrie che avevano studiato, lui e Mac, prima della missione c’erano soltanto tre stanze in quell’edificio e Jack sperava di individuare la stanza dove tenevano Mac al primo colpo. Non si sentiva a suo agio al pensiero di perdere tempo cercando in altre stanze; aveva la sensazione che il fattore tempo in questa missione fosse importante, più del solito comunque. Come promesso da Matty, il Team Tac arrivato nell’ora mezza successiva, si erano coordinati mentre erano ancora in volo e avevano raggiunto l’edificio nel più breve tempo possibile. Jack era stato intransigente su questo punto.

Più tempo Mac passava in mano al nemico più le probabilità di trovarlo in condizioni gravi aumentavano, inoltre se avessero fatto in fretta sarebbero stati in grado di arrestare anche i terroristi. Due piccioni con un pisello o quello che era, pensa Jack, mentre facendo scivolare la schiena lungo la parete, umida, si avvicina alla stanza in cui sperava tenessero Mac.

«Oh mio Dio, Mac!»
La voce di Jack si alza, raggiunge un tono quasi stridulo quando irrompe nella stanza e si trova davanti Mac. 

Mentre raggiunge il ragazzo con appena due falcate, il cuore gli batte forte nel petto come se potesse saltare fuori da un momento all’altro e correre via. Se fino a quel momento aveva provato paura, ora era terrorizzato. Letteralmente, un terrore che minacciava di lasciarlo impietrito nel posto in cui si trovava, ci volle tutta la sua forza di volontà per non mettersi ad urlare lì e ora. Non era di certo preparato ad un Mac semi cosciente, anche se non si è mai sufficientemente preparati a vedere il tuo partner torturato dal cattivo di turno. Lo sguardo del ragazzo vagava per la stanza senza soffermarsi veramente su nessun dettaglio; il respiro gli usciva in rantoli veloci e una piccola nuvoletta di condensa faceva la sua apparizione ad ogni respiro. Jack cade in ginocchio, ignorando volutamente il dolore che prova quando le ossa toccano il pavimento, e dopo aver estratto il coltello tattico dalla cintura che portava alla caviglia, libera il ragazzo dalle restrizioni che cade immediatamente in avanti come disossato. «Mac?» prova a chiamarlo gentilmente Jack, mentre passa una mano sul viso del ragazzo cercando di attirarne l’attenzione e allo stesso tempo valutare il battito cardiaco che Jack trova preoccupantemente accelerato, «Andiamo Hoss, devi guardami» chiede ancora, questa volta con la voce un po’ più decisa e come se da qualche parte fosse nascosto un comando, lo sguardo di Mac smette di vagare e incastra i suoi occhi in quelli dell’ex soldato.

«Jack?» Chiede incerto il ragazzo, sbatte le palpebre più volte per tentare di mettere a fuoco la figura difronte a lui, ammesso che riuscisse a vedere qualcosa considerato quanto erano dilatate le pupille.

«Eccoti,» Jack vorrebbe quasi piangere per il sollievo, «Puoi dirmi cosa ti è successo?» 

«Veleno?» Mac aggrotta le sopracciglia, si rende conto che la sua risposta doveva venire fuori come un’affermazione piuttosto che una domanda, ma era così stanco e confuso che ritenne la cosa poco importante. 

«Ti hanno avvelenato?» Jack ruggisce quasi, sente la rabbia prendere il posto del terrore, ma si calma immediatamente quando vede gli occhi di Mac chiudersi pericolosamente. 

«Ehi, ora, Mac non è il momento di andare a dormire...» dice scuotendolo leggermente, Mac sussulta quasi come se provasse del dolore e Jack fa una smorfia di compassione, mentre armeggia con il filo della flebo nel tentativo di rimuoverlo.

«Sono sveglio» borbotta Mac ad occhi chiusi, sembra incredibilmente giovane con la pelle traslucida e sudato, «certo, lo vedo.» Replica Jack, che si allontana quel tanto che basta per far lavorare i paramedici.

«Come sta il biondino?»
La voce di Matty questa volta proviene da un semplice cellulare, quello di Jack per l’esattezza, che per fortuna non è servito a Mac per nessuna delle sue magie. La sua voce più distesa e tranquilla dopo gli eventi di quel giorno. 

Erano state ore frenetiche dopo che Jack aveva trovato Mac, semi incosciente, ancora legato alla sedia dove era stato presumibilmente picchiato e l’intero edificio vuoto. Gli ordini erano stati subito chiari, la priorità era Mac, che si è scoperto essere stato dosato con qualcosa. Jack non era stato mai così grato a Matty di aver mandato anche dei paramedici insieme al Team TAC.

«La prossima volta evita di farti usare come punta spilli dai cattivi di turno!» Dice Jack con voce tremante, in un tentativo di alleggerire l’atmosfera che aleggiava nella stanza, mentre un paramedico somministra qualcosa a Mac, che a differenza sua è molto più interessato a conoscere la composizione chimica di quello che sta per scorrergli nelle vene che di quello che ha da dire Jack; «Me lo appunto per la prossima volta,»  mormora il ragazzo, mentre le ciglia svolazzano e rimangono abbassate un po’ più a lungo ad ogni battito ma non si risparmia comunque una faccia disgustata quando sente il liquido freddo dell’iniezione risalirgli attraversargli le vene e risalirgli lungo il braccio. «Non ti azzardare a dire che ci sarà una prossima volta», replica Jack quasi terrorizzato da quell’affermazione. 

«Sta riposando,» risponde con un sorriso sulle labbra mentre gli accarezza i capelli che si muovono seguendo il ritmo delle carezze. Sembrano un campo di grano mosso dalla gentile brezza primaverile.

«Non ha dormito molto in ospedale, lo conosci,» aggiunge Jack con un mezzo sorriso per il ricordo di Mac che quasi litiga con l’infermiera dell’ospedale, dove Matty li aveva indirizzati, per farlo dimettere in maniera anticipata. «Si,» aggiunge la donna sospirando, con ogni probabilità anche lei risentiva del picco di adrenalina che andava scemando.

«Ci siamo andati vicini questa volta», dice Jack dopo un po’, nella conversazione era caduto un silenzio quasi confortevole, passandosi una mano tra i capelli e massaggiandosi distrattamente il collo, come se quel semplice gesto bastasse ad allentare il nervosismo che lo stava perseguitando da quando aveva scoperto che Mac era stato avvelenato.

«Sta bene Jack, lo hai riportato a casa» Matty offre rassicurazione e Jack l’accetta. Aveva bisogno di sentirselo dire; dà un’occhiata alla forma addormentata di Mac, con la testa che poggia sulle sue ginocchia, una coperta grigio topo ad offrirgli calore. 

«Stiamo tornando a casa.»

   
 
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