Storie originali > Avventura
Segui la storia  |       
Autore: Avion946    05/06/2021    0 recensioni
Paolo Carlisi, un giovane reporter di guerra, profondamente segnato da una sconvolgente esperienza avuta durante un pericoloso, recente episodio del suo lavoro, decide di cercare di dimenticare il passato e di recuperare la sua serenità interiore effettuando un lungo viaggio turistico lungo il percorso della mitica ‘66’, la Mother Road. Sarà invece un percorso che, attraverso la conoscenza di persone ‘speciali’ e di paesaggi incredibili e misteriosi, lo porterà ad acquistare una diversa visione della realtà che lo circonda e della sua vita.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
                                                                                   V° Giorno
La sua guida, bussando discretamente alla porta, svegliò Paolo, avvisandolo che lo aspettava per partire verso le destinazioni successive. Dopo una colazione veloce, ripartirono verso est, verso il Nuovo Messico. Prima però, avrebbero visitato alcuni posti, seppure in fretta, perché comunque significativi. Will non accennò affatto al viaggio del giorno precedente e Paolo non si sentiva pronto ad affrontare l’argomento, seppure avrebbe avuto da rivolgergli moltissime domande. Non sapeva da dove cominciare e poi lo seccava un po’ il fatto che l’altro lo considerasse ‘strano’. Così in silenzio uscirono dalla cittadina diretti verso un posto che sui cartelli stradali veniva indicato come Flagstaff, lontano circa 15 miglia. Attraversarono la cittadina lentamente ma senza fermarsi. Paolo ebbe però occasione di notare come l’atmosfera del posto, l’architettura, rimandassero comunque ad un’aria da vecchio west, come se anche lì le cose fossero rimaste immutate, come se il tempo fosse trascorso più lentamente che altrove. “Ora andiamo a visitare un sito particolare – disse Will – In realtà ci passiamo, più che altro, perché è lungo il tragitto e poiché si tratta senza dubbio di una curiosità, sarebbe stupido non andarci. Guarda là”. E indicò al suo compagno di viaggio un cartello che segnalava, a circa 10 miglia, una località indicata come ‘Meteor Crater’. Poco dopo, l’auto lasciò la strada principale, prendendo una strada sulla destra e dopo un breve percorso, giunsero ad una grande costruzione in mattoni rossi ad un piano, costruita su un rilievo. Will parcheggiò nella zona sottostante poi, sceso dall’auto, disse all’altro di seguirlo, preparandosi a vedere qualcosa di particolare. Paolo non vedeva nulla di speciale. Poi all’improvviso si trovò davanti uno scenario incredibile. Infatti alla fine del rilievo apparve sotto di lui una ampia zona dove c’era un vastissimo cratere con i bordi netti e di forma circolare. Era enorme e Paolo si chiese cosa mai potesse averlo causato “Impressionante, vero? – gli chiese la sua guida notando il suo stupore – Questo è un cratere causato da una meteora 50.000 anni fa. E’ il sito del genere meglio conservato al mondo. Qui, è arrivato questo bolide di appena 45 metri di diametro ma sembra ad una velocità che dicono sia stata di 26.000 miglia all’ora. Un impatto terribile, che ha causato questo cratere di circa un miglio di diametro e circa 150 metri di profondità. Per non parlare della devastazione del territorio circostante per circa 150 miglia. In realtà i cratere era molto più profondo ma nel tempo si è riempito di sedimenti e  fino a qualche centinaio di anni prima, al suo interno c’era un lago”. Paolo si rese conto che per la seconda volta in un paio di giorni stava osservando qualcosa di unico, di enorme. Qui però, malgrado fosse accaduto qualcosa di sconvolgente, non sentiva l’energia, la potenza collegata ad un fenomeno naturale di quella portata. Era come se dopo tanto tempo, il territorio si fosse riequilibrato, come una ferita rimarginata di cui resta però una grossa cicatrice, niente di più.  “Quello è il centro visitatori – disse l’indiano indicando la costruzione a fianco a loro – ti interessa visitare il sito?”.”Cosa ci troverei?”. “Il sito ospita testimonianze dell’impatto, detriti del meteorite, una sala in cui vengono proiettati film relativi all’evento. Si possono prenotare visite guidate al cratere, attraverso sentieri che si snodano sui suoi fianchi. Naturalmente sono in vendita i soliti souvenir e l’ingresso  costa 18 dollari”. Paolo declinò l’invito ad entrare. Quello che vedeva da dove si trovava era più che sufficiente. Una bella esperienza ma forse, per quello che aveva vissuto il giorno precedente, non aveva suscitato in lui quello stupore cui aveva accennato Will. Così risaliti in macchina, ripartirono. Tornati sulla strada principale, percorsero circa 60 miglia, raggiungendo  la cittadina di Winslow. Will lasciò la strada principale per percorrere una via indicata con il nome di Terza Strada, che altro non era che il vecchio tracciato della 66,  che permetteva di attraversare l’abitato. Anche in questo caso Paolo notò le solite caratteristiche delle cittadine che avevano attraversato fino a quel momento. Medesime costruzioni, medesimi locali e segnali indicanti musei a tema. Motel, ristoranti, souvenir e si chiese perché Will l’avesse portato in quel posto. Avevano appena sorpassato una grossa segheria,  su cui spiccava la scritta “Hight Desert Forest Products”, nella quale si vedevano montagne di tronchi, ed un aeroporto chiamato ‘Lindberg’ con due piste, segno che quel posto, invece, doveva avere una certa rilevanza. Sulla destra l’immancabile linea ferroviaria con decine e decine di vagoni merci in attesa sui binari morti. Ad un incrocio notò una grande statua in bronzo e chiese alla sua guida se si trattasse di un personaggio importante. “Certo- rispose l’altro, fra il serio ed il faceto- Importantissimo. Intanto devi sapere che questo posto era una importante stazione della ‘Atlantic and Pacific Railroad’ , passaggio di migliaia di persone, fra dipendenti e passeggeri. Nel 1985, venne aperta la i40 che tagliò fuori la cittadina. Di nuovo, dalla sera alla mattina si creò il vuoto. Ma la gente ha reagito bene e ha trovato il modo di sopravvivere dignitosamente, naturalmente anche del turismo di quanti percorrono la 66. Poi, un giorno, un complesso musicale che si fa chiamare “Eagles”, scrisse una canzone, un grande successo, in cui si parla di una ragazzo che aspetta all’angolo di una via nella cittadina di Winslow. Ritornò la notorietà, la curiosità  ed allora ecco la statua con tanto di turisti che ci si fanno le foto – Poi dopo una pausa, riprese - So che ti stai chiedendo perché siamo qui. C’è una cosa che ti voglio far vedere, che ti dovrebbe interessare sia come uomo che come giornalista. Ecco, siamo arrivati”. Il pickup lasciò la strada ed entrò in una zona che sembrava un semplice parcheggio. A Paolo ricordava una normale area di sosta lungo una autostrada. Poi Will scese dall’auto e lo invitò  a seguirlo. E all’improvviso, quasi protetto da una macchia di pini, apparve una sorta di monumento. Paolo provò una forte scossa perché capì subito di che si trattava. Il monumento consisteva semplicemente in due terrazze sovrapposte in pietra e su quella superiore si trovavano due spezzoni di travi di acciaio paralleli, posti in verticale ed alti circa quattro, cinque metri. Ad una di essa era ancora attaccata una piastra d’acciaio estremamente contorta. Il tutto coperto d un leggero strato di ruggine. Sul fianco della terrazza superiore era scritto : “United we stand”. L’indiano gli confermò che si trattava di resti provenienti dalle ‘Twin Towers’ e che la bandiera malridotta che sventolava a fianco, che il ragazzo aveva appena notato, proveniva dal Pentagono dove era issata assieme ad altre, quando esso fu colpito in quello stesso giorno. Davanti a tutto, un cippo su cui una targa di bronzo portava incise delle parole che dicevano che il popolo dell’Arizona, davanti a quelle testimonianze ed a quella bandiera, si impegnava a non dimenticare, mai quanto accaduto. Paolo era sconcertato, confuso. Quel luogo tranquillo, solitario, con il sussurro del vento che faceva muovere le chiome dei pini, l’erba, gli alberi e poi quel simbolo di violenza, terribile, atroce, di cui ricordava ancora le spaventose immagini. Sentì che gli si stavano inumidendo gli occhi. Si stava commuovendo per la sorte di quegli sconosciuti, mentre non aveva mosso ciglio davanti alle atrocità a cui aveva assistito personalmente. Si chiese se gli stesse succedendo qualcosa, qualcosa dentro. Se per caso c’entrasse quel folle viaggio che aveva intrapreso così, d’istinto, fidandosi delle parole di sconosciuti???. “Allora, valeva la pena di vedere questo posto? – chiese l’indiano. “Si, certo – rispose deciso Paolo che intanto si era ripreso. Una testimonianza importante, importantissima. A ricordo di un azione terribile, incredibile. Ma tutta questa violenza, sempre, anche quando meno te lo aspetti. Ieri, la natura, oggi gli uomini, ma comunque sempre violenza e soprattutto morte”. “Dipende da come guardi le cose. Quello che vedi è quello che ti porti dentro, quello che vuoi vedere. Prova a pensare a questo posto invece come ad un luogo di pace, di riflessione, di distacco. Apprezza l’impegno che è stato preso da parte di queste persone, di non dimenticare mai quello che è accaduto a quella povera gente, di coltivarne la memoria”.”Purtroppo non ci riesco, anche se devo ammettere che questo monumento mi ha commosso, cosa che non mi accadeva da molto tempo”. Accettando il nuovo punto di vista suggerito dalla sua guida e concentrandosi in tal senso, Paolo, accomodatosi su un grosso masso davanti a quel particolare monumento, rimase seduto per parecchio tempo, accorgendosi che effettivamente, in quel luogo non si respirava un clima teso, di tragedia, morte. C’ era un’atmosfera di pace, come a dire quel che è stato è stato, ricordatevi di noi ma soprattutto cercate di fare in modo che questo  non accada più a nessuno. Stranamente gli tornò in mente la frase che aveva letto sulla lapide posta sulle colline delle Termopili a perenne ricordo del sacrificio dei 300 Spartani. Su quella lapide, il poeta Simonide, aveva fatto scrivere: “O straniero, annuncia agli Spartani che noi qui giacciamo in ossequio alle loro leggi”. La stessa atmosfera, la stessa sensazione. Semplicemente un messaggio da recare alle loro case, per far sapere che essi avevano compiuto il loro dovere. Una grande lezione, pensò. Calmo, tranquillo, silenzioso, Paolo risalì sul pickup dove l’altro lo aspettava e partirono di nuovo diretti per la prossima destinazione. Dopo circa 35 miglia raggiunsero una cittadina chiamata Joseph City. Al suo ingresso un grosso cartello a forma di coniglio, pubblicizzava la cittadina e contemporaneamente un noto e antico ristorante. Will imboccò la strada principale, ma poi curvò a sinistra sulla Westover Avenue per fermarsi poi davanti ad un piccolo locale chiamato Mr G’s Pizza & Subs. “Un altro italiano – disse ridendo il ragazzo – Ma allora tanto sarebbe stato che fossi andato a farmi un giro sulla Costa Amalfitana!”.”Non so dov’è questo posto di cui parli ma ti assicuro che qui mangerai dell’ottimo cibo italiano ma anche messicano, se preferisci. Solo, fatti consigliare. Ora per alcuni giorni mangeremo veramente all’americana che, a quel che so, da alcuni europei non è considerato molto salutare. Ti consiglio perciò di approfittare di questo ottimo locale”. Naturalmente il proprietario si mostrò molto cordiale con Will, segno che anche lui era un suo amico di vecchia data e ancora di più lo divenne quando seppe che anche l’altro ospite era italiano. Il servizio fu veloce ed il cibo abbastanza buono, tutto considerato. Dopo il pasto l’indiano lasciò Paolo a bere  un bel caffè ‘americano’ sotto una pergola, e sparì, come al solito, per i suoi misteriosi impegni per circa una mezz’ora. Al ritorno, svegliò il ragazzo che intanto si era appisolato, e ripartirono questa volta diretti alla cittadina di Holbrook, distante poco più di 15 miglia. Questa volta però l’indiano, raggiunta la cittadina, rimase sulla i40 limitandosi a costeggiare l’abitato. “Non c’è nulla di interessante in questo posto? – chiese Paolo. “Certamente che c’è. Ognuna di queste cittadine , per la sua storia, le sue vicende ed i suoi abitanti è unica. Qui troverai ad esempio una forte testimonianza delle tribù native. Architettura, musei, ristorazione. Alla fine dell’abitato, c’è perfino un hotel che, al posto delle camere ha una ventina di wigwuam, le tende indiane. Naturalmente sono realizzate in muratura ma l’effetto è sorprendente. Non dimentichiamoci che qui siamo al centro della contea navajo. – Poi continuò – In realtà siamo venuti per un altro motivo. Proseguendo sulla nostra strada a circa 20 miglia da qui, c’è un’altra bellezza naturale che vale la pena di visitare, la foresta pietrificata, ne avrai sentito parlare”.”Si, ma non so cosa sia. Cosa c’è di speciale?”.”Bene, la foresta, in realtà, non c’è più. Ci sono però a terra numerosissimi fusti di legno pietrificati. Legno fossile. Ma di bello c’è che i tronchi hanno assunto l’aspetto di vere pietre, di tanti colori, alcuni addirittura sembrano cristalli, conferendo a quella zona un aspetto particolare che gli è valso l’appellativo di Paint Desert. Naturalmente non è consentito raccogliere  souvenir perché gente senza scrupoli saccheggerebbe il sito. Ci sono delle piccole imprese organizzate che sono autorizzate a commercializzare modeste quantità di legno fossile tenendo in cambio dei piccoli musei relativi alla zona ed alla sua storia. Poco fa siamo passati vicino ad uno di essi. Era il DoBell Ranch. I ranger che pattugliano la zona, sono molto severi con chi viene sorpreso a prelevare ricordini”.”Mmm, a proposto di ranger, non è che anche qui hai qualche conto in sospeso con qualcuno di loro?”.”No, tranquillo, anzi. Abbiamo infatti un permesso speciale per fare una cosa che in realtà non è autorizzata molto spesso. Se ti ricordi, quando siamo stati a Wilson, ti ho portato all’edificio del ‘Williams Kaibab National Forest’ dove ho potuto chiedere una concessione in questo senso. Possiamo passare la notte in tenda in uno dei posti più belli della zona, se te la senti”. Paolo ricordava l’accesa discussione a cui aveva assistito da lontano fra la sua guida ed il ranger. Non doveva essere stato facile ottenere i permesso. Per qualche motivo, l’indiano ci teneva molto a portarlo in quel luogo. “Certo che me la sento, perché non dovrei?”.”Campeggiare in quel luogo può rivelarsi un’esperienza particolare. A volte molto intensa. E’ un privilegio, ma non è gratuito. La foresta a volte fa strani scherzi e chiede un prezzo”. “Non ricominciare a fare l’indiano con me – disse Paolo fra il sostenuto ed il divertito – tanto non mi spaventi, o almeno non mi spaventi più”.”Io non ‘faccio’ l’indiano – rispose Will, leggermente seccato – io ‘sono’ indiano. E non voglio assolutamente farti paura, semmai ci penserà la foresta”.”Ma cosa c’è in questo posto, forse i fantasmi?”.”Possibile, ma solo quelli che ti porti dentro. Ed ora andiamo perché prima di stasera abbiamo molte cose da fare”. Fino a quel momento il lato sinistro della strada era stato chiuso da un’alta parete di roccia che, all’improvviso, si interruppe, mostrando un’ampia vallata più o meno circolare, invisibile dalla strada. Questa, che in quel punto assumeva il nome di ‘Petrified Forest Road’, percorreva tutto il perimetro della vallata formando un anello. Appena all’ingresso di quella zona, Will fermò il mezzo al parcheggio del centro visitatori, chiamato ‘Pietrified Forest National Park’ presso il quale doveva essere autorizzato e registrato in via definitiva il loro permesso di pernottamento. Dopo pochi minuti, si misero di nuovo inviaggio. Passarono davanti a delle piazzole di osservazione contrassegnate con i nomi ‘Paint Desert Rim’, Kacina Point, e quello a cui erano diretti, ossia come Paolo scoprì, era un posto chiamato ‘Chinde Point’. Raggiungendo la loro meta, erano passati davanti ad una strana struttura alberghiera, costituita da una serie di elementi cubici incastrati uno con l’altro, il tutto ricoperto di malta di colore rosso mattone, che avrebbe dovuto richiamare l’architettura dei ‘Pueblos’ di  quella zona. Era il ‘Paint Desert Inn’, costruito durante la grande depressione ed ora ancora adibito a punto di partenza per escursioni nel parco. Arrivati al Chinde Point, si trovarono in un grosso slargo con delle tettoie, lungo i bordi, per riparare le macchine dalle intemperie. Fra le tettoie c’era anche un piccolo fabbricato in mattoni, ad un piano, che ospitava i servizi essenziali. Non si vedeva nessuno. Dopo aver parcheggiato, Will iniziò a scaricare il necessario per passare la notte all’aperto. Caricatisi dei vari involti, compresa la tenda, cominciarono ad inerpicarsi per un sentiero che si dipanava fra le alture. Paolo osservò che la zona che era sembrata quasi desertica, ospitava invece una grande quantità di piante e, con grande sorpresa, notò anche del Ginseng giunte a maturazione. Strano trovarlo in quel posto ma Will aveva detto che quello era un luogo speciale per cui non valeva la pena di stupirsi. Alla fine, giunsero ad un boschetto di bassi pini del tipo americano e lì, l’indiano iniziò a montare il campo. La tenda fu rizzata a ridosso di un robusto tronco di pino e la buca del fuoco era già scavata su un lato del piccolo spiazzo, segno che quel posto era visitato ed utilizzato spesso da qualcuno. Da dove si trovavano, la vista era spettacolare, considerando che  i raggi del sole, che aveva cominciato a tramontare, dando a quel paesaggio, dei colori incredibili. Davanti al sole che quietamente tramontava,  Will messosi in ginocchio, cominciò ad intonare un canto della sua tribù. Paolo che ormai con il suo compagno non si meravigliava di nulla, rimase in disparte perché sapeva che l’altro era convinto di star facendo qualcosa di importante. Si accorse che ripeteva spesso le stesse parole ed ogni tanto raccoglieva con tutte e due le mani delle manciate di terra che poi faceva ricadere facendola defluire lentamente dalle dita separate. Poi, con un profondo inchino ad un sole ormai quasi completamente tramontato, terminò la sua cerimonia e riprese i preparativi per allestire il bivacco. Prima che fosse completamente buio, il fuoco era stato acceso e la cena stava cuocendo. Will stava preparando una zuppa di fagioli e erbe aromatiche che aveva colto poco prima. Paolo aveva notato anche che alcune erbe che l’indiano aveva raccolto, erano state messe da parte e poi poste in un pentolino a macerare. Non volle cadere nella tentazione di chiedere cosa stesse combinando l’altro per non dargli soddisfazione. A parte, nella cenere, erano state messe delle patate ad arrostire. Cena vegetariana quindi quella sera. Mentre cenavano alla debole luce del fuoco, l’indiano spiegò che in quel posto non sarebbe stato rispettoso mangiare carne  o pesce. Quel luogo aveva una sua sacralità. Paolo dovette riconoscere che il cibo era comunque decisamente buono e infatti fu consumato tutto e in fretta. Poi comparvero le solite bottiglie di birra fresca. “Il luogo non ha nulla in contrario contro la birra? – chiese scherzosamente il ragazzo. “Non ho notizie in merito – rispose l’altro senza dare segno di essersi offeso. “E quindi quella cerimonia che hai fatto??? poco fa, a cosa serviva, sempre contro serpenti ed altro?”.”No. Chiedevo ospitalità per passare una notte serena e con un sonno tranquillo”.”E ciò dipende da questo posto? Ci sono forse fantasmi o peggio?”. “Te l’ho già detto prima. Qui c’è una magia molto potente ma non cattiva, almeno non malvagia. I fantasmi ce li portiamo noi. Li abbiamo dentro di noi, ci accompagnano ovunque e spesso condizionano la nostra vita – fece una pausa e prese il pentolino con le erbe messe a macerare. Tolse le erbe e mise il pentolino, con il liquido che conteneva, sul fuoco. Paolo, per le parole che aveva udito poco prima aveva sentito un brivido nella schiena ma non sapeva nemmeno lui a cosa fosse dovuto. “Le pietre fossili normalmente sono usate dalla nostra gente per curare malanni e dolori antichi, sia del fisico che dell’anima. Ma quando sono presenti in questa quantità e grandezza, il loro effetto è molto potente e fanno, per la persona che si ferma in mezzo a loro, quello che ritengono più giusto, per aiutarla a superare problemi o momenti difficili”.”E come fanno ad ottenere questo risultato?”. “Con la loro antichità e la loro essenza, scavano nell’animo delle persone e, se lo ritengono opportuno, rivelano loro il vero aspetto delle cose, a volte delle verità che nascondono nel loro essere più profondo. Quando mi portarono per la prima volta in questo posto, venni a cuor leggero, sicuro di non avere conflitti dentro di me, di essere padrone di me stesso. Ma questo luogo, mi ha aperto gli occhi, mi ha mostrato delle cose che io facevo finta di non vedere, di non sapere”.”E questo ti ha cambiato?”.”Non molto, purtroppo – rispose l’indiano guardando il fuoco - ma ho imparato a convivere con ciò che di me stesso  non mi piace molto, però è sempre parte della mia vita. Senza di loro sarei un’altra persona ed avrei un’esistenza limitata. Ci sto lavorando però”.”Quindi stanotte avrò una visita, delle visioni, o cosa?”.”Forse nulla, forse ti farai semplicemente un bel sonno e domani mattina, al tuo risveglio mi prenderai in giro. Saranno i tuoi fantasmi a decidere se mostrarsi o no. Se vorranno farlo questo è il posto giusto”.”Ma sarà spiacevole, doloroso, che cosa devo aspettarmi?”. “Quando sei venuto da me, mi hai detto delle cose. I tuoi occhi, spesso, dicono delle cose. Le tue parole, i tuoi gesti raccontano di un qualcosa che ti porti dentro, ma che sta ben nascosta nel tuo profondo. Tu ci convivi, apparentemente senza rendertene conto, ma quella cosa dentro di te, sta facendo danni. L’energia necessaria a coprirla, a nasconderla, sarà sempre maggiore. E verrà sottratta ad altre azioni, ad altri aspetti della tua vita. L’amore, la pazienza, la condivisione, la curiosità ed altri elementi altrettanto importanti ne risentiranno. Ora, evidentemente qualcosa ti ha profondamente colpito. Da li parte tutto, e forse per poter reagire nel modo giusto, occorre sapere di cosa si tratta, sempre che tu te la senta di accettare la sfida. Cerca di capire, di ricordare cosa ti ha portato qui, cosa ti ha indotto ad intraprendere questo viaggio che, te ne sarai reso conto, non ha nulla a che fare con il turismo. Paolo rimase in silenzio, fissando il fuoco. Sapeva che l’altro aveva ragione. Qualcosa gli era successo, laggiù dove aveva fatto il suo ultimo viaggio. Non ricordava nulla ma doveva essere stato qualcosa di terribile se la sua mente aveva ‘blindato’ il ricordo. Il dottore che l’aveva curato per i traumi e le ferite, in proposito gli aveva detto che i fatti sarebbero riemersi quando fosse stato pronto. Ma chissà cosa voleva dire. Che voleva dire ‘essere pronto’ per riacquistare un ricordo, forse dolorosissimo, forse terribile? Con questi pensieri, alla fine il ragazzo si preparò a dormire. Entrò nel suo sacco a pelo, rifiutando ancora la comodità della tenda e, sapendo di non poter prendere sonno, si limitò a farsi affascinare dallo spettacolo delle stelle, cosicchè, quando scivolò nel sonno non se accorse neppure. E poi, all’improvviso……   Era sdraiato sotto una tenda, al riparo delle macerie di una casa bombardata, in un villaggio ai limiti del deserto. Aveva avuto una giornata veramente impegnativa e pericolosa. Aveva seguito le truppe con cui si era accreditato, quasi in prima linea e aveva documentato con una serie di eloquenti foto, le fasi salienti con cui il nemico era stato sopraffatto e cacciato dalle sue posizioni. Ora, il giorno seguente, ci si aspettava un contrattacco e lui  voleva documentare tutta la storia. Si era fatto indicare un posto più o meno sicuro per passare la notte e, dopo un pasto piuttosto frugale, ci si era recato con tutta la sua attrezzatura pur essendo stato avvertito che si trattava  di una zona molto pericolosa. Entrando si rese conto che la tenda che gli avevano indicato come riparo per la notte, era già occupata. Infatti alla luce di una lampada di fortuna, due suoi colleghi e, per fortuna buoni amici, stavano discutendo su come impostare il pezzo da scrivere e come corredarlo con le foto scattate, naturalmente con un bel bicchiere di whisky davanti. Si trattava di Stefan Lange, giovane giornalista tedesco e della sua collaboratrice e fotografa Nicole Horn, una bella bionda, simpatica,  molto intelligente e capace. Quando lo videro, lo salutarono cordialmente. Si erano già intravisti nel corso della giornata, durante le fasi concitate della battaglia ma evidentemente non c’era stato ne’ modo ne’ tempo per scambiare qualche parola. Ora invece si potevano rilassare un poco, anche se in attesa degli incerti eventi del giorno seguente. Dopo avergli offerto da bere, cominciarono a confrontare con lui quanto osservato durante il giorno e Nicole gli mostrò le foto scattate. Anche lui, che però lavorava da solo, mostrò  il materiale raccolto e così poterono fare dei confronti, commentando alcune fasi della battaglia. Non era un problema per loro, avevano già collaborato in passato, perché pur facendo lo stesso lavoro, si muovevano in ambiti diversi e quindi non c’era rivalità. Alla fine, Stefan si alzò e disse che sarebbe andato al comando per chiedere informazioni per il giorno seguente. Paolo, che aveva scoperto di essere stanchissimo, si era immediatamente sdraiato per dormire. Nicole, seduta accanto a lui, stava riordinando la sua borsa. Non ci fu preavviso. Un grappolo di granate colpì tutto l’accampamento. Evidentemente il nemico aveva ritenuto di far precedere il contrattacco da un fitto bombardamento, proprio quando nessuno se lo aspettava, per infliggere maggiori danni. Una granata scoppiò appena fuori la tenda dove si trovava Paolo. Stefan fu preso in pieno e venne letteralmente fatto a pezzi. I due giornalisti, ancora all’interno della tenda, squarciata dall’esplosione, vennero coperti da sangue e brandelli umani. Nicole che per prima realizzò l’orrore di quanto era accaduto, iniziò ad urlare istericamente. Paolo, capita la situazione tentò di afferrarla e di trascinarla a terra accanto a lui, cercando di limitare il rischio di essere colpiti. Fu inutile. La ragazza che pure ne aveva viste tante, non riusciva a controllarsi e , coperta di sangue stava rigida, immobile, urlando. Una seconda serie di granate colpì l’accampamento ed una nuova esplosione accanto alla tenda provocò una rosa di schegge che la colpirono in pieno. Una in particolare la colpì alla testa portandogliene via mezza. Un’altra recise di netto il braccio della ragazza che rimase in mano a Paolo mentre lei, o quello che ne rimaneva, cadeva in avanti morta. Paolo  perse a sua volta il suo sangue freddo e iniziò a gridare ,intontito dalle esplosioni, ma, a differenza della ragazza, cercò di schiacciarsi a terra il più possibile, scavando il pavimento con le mani quasi a voler scomparire nel terreno, mentre attorno le tremende detonazioni continuavano senza sosta. E urlava, urlava… Urlava ancora quando Will, in ginocchio accanto a lui, cercava di svegliarlo da quello che doveva essere un incubo spaventoso. Non si era sbagliato. Il giovane nascondeva in se, seppure inconsapevolmente, un vero inferno. Alla fine, coperto di sudore ed in preda ad un tremito violento, si svegliò, stravolto da quella esperienza ed ancora incapace di connettere o capire dove realmente si trovasse. L’indiano gli accostò alle labbra una tazza dicendogli di bere. Paolo,  assetato, senza pensare bevve d’un fiato tutto il liquido della tazza, rendendosi conto solo alla fine dello strano sapore che aveva. “Non è acqua! Che mi hai dato?”.”Quello di cui avevi bisogno”. Il ragazzo non  replicò e nel giro di pochi secondi fu preso da un intenso torpore che si trasformò in un sonno profondo, questa volta senza sogni.
                                                                                      Capitolo II°
                                                                                      VI° Giorno
Era giorno fatto quando Paolo tornò alla realtà. Era sdraiato nel suo sacco a pelo e si trovava all’interno della tenda. Lentamente si sedette, cercando di ricordare cosa fosse accaduto la sera precedente. Poi all’improvviso gli tornò tutto alla mente. Le esplosioni, la morte dei suoi amici, il terrore di venire a sua volta dilaniato dalle schegge. Era dunque questo che la sua mente nascondeva? Era naturale che cancellasse un orrore simile. Ora che sapeva, avrebbe dovuto vivere i suoi giorni con la consapevolezza di quella realtà terribile. Si accorse di avere l’ urgenza di liberarsi la vescica. Profondamente turbato e malsicuro sulle gambe, riuscì ad alzarsi, sentendosi molto debole e con i muscoli tutti doloranti. Uscì dalla tenda e fece quanto necessario. Tornato verso il fuoco, cercò qualcosa da bere. “Bene – disse una voce vicina – ora hai espulso gran parte del veleno”. Era Will, comparso come dal nulla che si avvicinò e gli servì del caffè caldo e delle ciambelle zuccherate. “Che veleno? Ah, a proposito cosa mi hai dato ieri sera da bere? Era quello il veleno?”.”No, al contrario, quello era l’antitodo. Assorbe i veleni della mente e poi li porta via”. Preferendo posporre il discorso, il ragazzo accettò il caffè ma rifiutò le ciambelle che però l’indiano insistette per fargli prendere. Seduto su un grosso masso Paolo, bevve volentieri il caffè e si rese conto che l’idea di mangiare qualcosa non era malvagia e, quasi vergognandosene, le mangiò avidamente. Fino a quel momento, la sua guida non aveva minimamente toccato l’argomento. Alla fine fu Paolo che disse all’altro:”Va bene, chiedimelo”.”Io non ti devo chiedere nulla. So cosa è successo, ti ho dato una mano e continuerò a farlo ma, se vuoi dirmi qualcosa, dovrai  farlo tu, di tua iniziativa e non perché te lo chiedo io e ti assicuro che per questo c’è un valido motivo”.”Va bene, allora  per ora non ne voglio parlare”. E rimase in silenzio per il resto della giornata, visto che Will non aveva accennato a smontare il campo. Girellò nei dintorni e poi si trovò dinanzi a due grossi tronchi che probabilmente in un’altra epoca, erano caduti, formando una specie di sedile naturale con tanto di spalliera. Un pino, con la sua chioma folta e bassa, copriva la zona e dei cespugli di ginepro e mirtillo selvatico la isolavano. Paolo si sentì molto attratto da quel posto e quasi senza accorgersene, si sedette sui tronchi e iniziò ad osservare l’orizzonte, i raggi del sole fra i fitti rami del pino, la forma del suolo accanto a lui e si rese conto di riuscire a percepire in modo più netto e intenso gli odori che arrivavano in quel luogo, portati forse dalla leggera brezza che avvertiva. Anche i rumori gli arrivavano diversi, più netti, più distinti e si sentiva entrare in contatto con quel posto sempre di più, come se ne stesse entrando a far parte. I color si erano fatti più netti, più brillanti. “Cosa mi sta succedendo – si chiese più curioso che preoccupato – E’ ancora l’effetto di ‘quella roba’ che mi ha dato da bere Will o piuttosto è proprio vero che questo posto ha una strana magia?”. Raccolse quasi senza rendersene conto, un piccolo pezzo di legno fossile della forma di una grossa moneta. Uno strano pezzo. Di forma perfettamente rotonda, attraversato da venature che andavano dall’arancio al viola. Sentiva con le dita il bordo liscio di quella pietra e si rese conto che averla fra le mani gli dava un ulteriore senso di pace, lo faceva stare bene. Il sole al tramonto lo risvegliò da quella strana trance. Ricordava che Will lo aveva avvisato di non prelevare nulla dal suolo ma quel pezzo di legno pietrificato era lì per lui, lo sentiva e quindi decise di rischiare e se lo mise in tasca. Si rese conto di avere fame e sete e alzandosi si accorse che quel luogo in fondo non aveva nulla di magico. Era come se, fatto il suo lavoro,  fosse tornato ad essere un semplice luogo con due tronchi abbattuti, cespugli, pietre. Aveva perso la sua magia ma Paolo sapeva che c’era stata e c’era stata solo per lui. Tranquillo, tornò verso l’ accampamento dove l’indiano intanto aveva preparato una sostanziosa cena. Il ragazzo, ancora preso dalla strana esperienza della giornata non aveva molta voglia di parlare per cui, pur facendo onore al cibo, restò silenzioso ed il suo compagno, rispettò il suo atteggiamento. Poi Will parlò del viaggio in generale e di tutte quelle storie  conosciute per essere state descritte in film famosi. Fra le altre, in un posto a circa 100 miglia a sud di dove si trovavano, all’interno della riserva Apache, si trovava “Fort Apache”, reso famoso dal regista John Ford in un film del 1948, in cui raccontava di uno scontro fra la cavalleria degli Stati Uniti e gli indiani guidati dal capo Cochise svoltosi nel 1864. Paolo alla fine del pasto, preferì rinunciare alla solita birra fresca e, sentendosi effettivamente molto stanco, senza problema alcuno si recò a dormire sotto la tenda.
                                                                                      
 
                                                                                      VII° Giorno
Al mattino fu svegliato dal solito piacevole odore del caffè appena fatto. Mentre si preparava per la colazione, la sua guida con evidente pratica, procedette a smontare la tenda e Paolo si rese conto che molte cose erano state già riportate sulla macchina: quel tizio era veramente efficiente. Partirono con il sole già alto ma con una brezza fresca che portava ancora i profumi di quel luogo così particolare. Paolo si sentiva un po’ confuso come se avesse dormito troppo ma non stava male. Con il finestrino aperto e il vento che lo colpiva sul viso, iniziò a sentirsi meglio. “Abbiamo da poco lasciato l’Arizona ed ora siamo nel Nuovo Messico – gli disse Will – In questo stato percorreremo circa 300 miglia e ti porterò a visitare degli antichi insediamenti indiani e vedrai che ne varrà veramente la pena”. Paolo si limitò ad annuire perché tanto ormai l’altro aveva deciso e perché aveva accettato di fidarsi in quanto, fino allora non aveva mai dovuto pentirsene. Superarono la cittadina di Gallup , costeggiando una lunga serie di motel e negozi di artigianato. Will disse al suo compagno che quel posto era stato chiamato in passato la Hollywood del sud in quanto fungeva da base di appoggio per tutti i cast che realizzavano i numerosi film western girati dagli anni 50. La popolazione era costituita in gran parte da nativi e pertanto una delle maggiori attività era costituita dalla creazione di gioielli,  in particolare quelli che utilizzavano il turchese. Paolo si ritrovò a pensare alla collanina che gli aveva dato l’indiano al Grand Canyon di cui non aveva detto nulla al suo compagno ma per ora decise di non parlarne ancora. Superarono una piccola cittadina di nome Thoreau e poi si lasciarono alle spalle  Grants, McCarty’s fino ad arrivare ad un bivio a North Aconita Village. Li, in corrispondenza della deviazione, Paolo vide un enorme parcheggio dove sostavano più che altro grossi camion, camper e  pullman accanto ad un capannone di ricambi e ad officine che un cartello indicava con il nome di Sky City Travel Center. Sullo stesso cartello c’era il nome della grossa costruzione a fianco, un Hotel con annesso casinò con molte automobili parcheggiate, chiamato Sky City Casino Motel . Will a sinistra girò seguendo una strada indicata con il nome di Pueblo road. Paolo si era reso conto che da diverse miglia, anche se lentamente, la strada li aveva portati ad un’altitudine discreta, tant’è che quella che sembrava una ampia pianura, in realtà era un altopiano che, da un cartello sulla strada, scoprì essere alto 1600 metri sul livello del mare. Davanti a loro a circa 4 miglia c’era un’imponente altura con i fianchi estremamente ripidi alta almeno un centinaio di metri. Will prese una deviazione su una strada indicata con il nome di Indian Service Route 38 e fu chiaro che quell’altra era la loro destinazione. “Quella che vedi li davanti è una  ‘Mesa’, una collina caratteristica di queste zone – esordì l’indiano – Questa, in particolare è alta 120 metri, rispetto all’altipiano. Una volta c’era solo una scala di pietra per arrivare in cima, mentre ora c’è una strada per fortuna”.”Ma io non vedo nulla in cima. Che ci andiamo a fare?”.”Intanto non vedi nulla perché non sai guardare. Ci andiamo perché tu devi vedere qualcosa, io devo contattare dei miei amici e perché questa signorina – e battè delicatamente le mani sul volante dell’auto – ha sete e rischiamo di restare per strada”.”Uno dei tuoi famosi nascondigli segreti, allora”.”Direi che  non ti puoi lamentare fin’ora. Comunque là in cima c’è un villaggio che si chiama Acoma Pueblo. Il primo insediamento risale nientedimeno che al 1100 d.C. Un gruppo di nativi del luogo, dell’antico popolo degli Anasazi, vi si rifugiò per proteggersi dalle scorrerie di altri gruppi indiani. L’altura era l’ideale per i suoi fianchi scoscesi che la rendevano facilmente difendibile. Purtroppo questo non bastò quando nel 1598 arrivarono gli Spagnoli che con le loro armi ebbero il sopravvento sui nativi decimandoli o deportandoli come schiavi. Furono gli stessi Spagnoli ad indicare i villaggi locali con il termine pueblos. Andati via gli Spagnoli, la popolazione ebbe modo di rimettere in piedi questi Pueblos e di prosperare con la coltivazione ed il commercio. Un grosso aiuto è stato dato loro dalla costruzione della tratta della ferrovia di Santa Fe nel 1880. Insomma non se la sono cavata male tant’è che, alla fine, i locali hanno messo su quell’officina e quell’Hotel che hai visto al’inizio della strada e ora si sono comprati tutto il terreno del pueblo”.”Non sembra però un posto tanto fiorente”.”Beh, devi valutare che i giovani sono attratti dal mondo esterno. Qui la popolazione tende a mantenere salde le tradizioni per conservare un’identità tribale che andrebbe perduta. Gli Anasazi erano un popolo dedito alla medicina e alla spiritualità. Ne sono derivati infatti i popoli degli Hopi, dei Keres e dei Tavo per citare i principali. Qui, ora sono rimaste a vivere una cinquantina di persone ed è proprio con loro che voglio parlare mentre tu ti farai un bel giro. Portati la macchina fotografica perché vedrai che ne varrà la pena. In giro vedrai dei cartelli che dicono che non si possono fare foto senza permesso ma tu non ci fare caso, sei con me”. Il ragazzo rinunciò ad osservare che quella non gli sembrava poi una grande garanzia ma se in quel posto governavano gli indiani, forse era meglio non farli arrabbiare. Arrivarono alla sommità della mesa e comparvero delle costruzioni, quasi tutte ad un piano. Solo alcune erano a due piani ed il secondo piano era raggiungibile tramite delle scale appoggiate al muro.  Arrivarono che si erano fatte circa le 11 del mattino. Superarono un posto di controllo dove il sorvegliante, un indiano con una sorta di divisa, riconosciuta la sua guida, fece loro segno di passare. Le strade erano alquanto sconnesse, ricavate scavando direttamente  la roccia del posto. Le case, in buona parte del colore della pietra, erano semplici, squadrate, quasi tutte con infissi azzurri che formavano un acceso contrasto con il resto del paesaggio. Per la costruzione di quasi tutte era stato usato il materiale chiamato ‘Adobe’, ovvero mattoni di paglia e fango. Al centro dell’insediamento, una costruzione a due piani, . L’indiano fermò l’auto e invitò il ragazzo a scendere. “Allora, fatti un giro e scatta qualche foto, ma con moderazione perché in realtà non sarebbe permesso, specialmente nella chiesa. Ti consiglio di andarla  a vedere. E’ là, in quella direzione. E’ antica ed ha una storia piuttosto interessante. Fra un’ora, più o meno, torna qui”. Detto ciò, l’indiano entrò nella costruzione e sparì. Paolo capì che non voleva essere disturbato mentre era coi suoi ‘misteriosi amici’ e si diresse nella direzione indicatagli. Incontrò delle persone del posto che lo osservarono pur senza rispondere al suo saluto. Vide diverse automobili parcheggiate davanti alle case, alcune di notevole pregio. Arrivato alla chiesa, capì da un cartello, che si trattava della missione di Sant Estevan del Rey costruita nel 1629 da tale padre Juan Ramirez. Era costituita da un blocco centrale affiancato da due campanili di forma quadrata e a lato una piccola costruzione che doveva essere destinata all’alloggio del prete. Era stata realizzata con il classico materiale adobe e l’ossatura principale era costituita da spesse tavole e tronchi di pino ponderosa. All’interno, era rifinita in gesso bianco e, alle pareti, c’erano degli  affreschi piuttosto ingenui ma molto coinvolgenti. Un bell’altare di legno completava l’arredo della cappella. L’ambiente, nella sua semplicità trasmetteva un senso mistico e di raccoglimento che in qualche modo toccava l’animo. Paolo rimase molto colpito e quando uscì si sentiva profondamente sereno. A pochi metri dalla costruzione c’era la mesa con i  suoi classici dirupi e rocce a picco che caratterizzavano quel posto. Anche qui il panorama toglieva il fiato. Forse l’indiano aveva ragione, pensò il ragazzo. Quei posti si presentavano da soli, con la loro forza con la loro intensità. Riuscì a distogliersi comunque da quello spettacolo e si presentò all’appuntamento con un leggero ritardo. Effettivamente Will era già in attesa e, con lui, un gruppo di nativi. Paolo notò subito, davanti a tutti, un uomo che appariva molto vecchio ma che nello stesso tempo trasmetteva una sensazione di forza, di sicurezza e di autorità. Era vestito con un paio di vecchi jeans ed una camicia di flanella. Sulle spalle portava una sorta di scialle   tradizionale. I capelli bianchi, ancora folti erano raccolti sulla testa. Con le braccia conserte lo guardava avvicinarsi. Gli altri quattro uomini, anch’essi indiani, di mezza età e vestiti presso a poco nello stesso modo, ma si capiva dal loro atteggiamento che erano estremamente rispettosi e deferenti nei confronti del vecchio. Probabilmente, il ragazzo pensò, che si trattava di una sorta di capo. Non sapendo come comportarsi, si arrestò a circa due metri di distanza, accennando un leggero inchino, in segno di rispetto. Il vecchio gli sorrise e lo salutò sollevando la mano destra. Disse delle parole e Paolo capì solo ‘da ohodia yaa eteè’. Il ragazzo guardò la sua guida come a farsi consigliare sul da farsi. Will sorrideva come mostrando soddisfazione per come stavano andando le cose e gli disse: “Questo è un grande sciamano della tribù degli Hopi, un ‘nitijaa hatahalii’, lo chiamano ‘Jooniha Sizinigihi’,  ossia ‘Sole Splendente’, perché dicono che dove va lui, arriva la luce e le tenebre fuggono. E’ stata una fortuna trovarlo qui. Questo posto, per la sua posizione e per la sua storia, è ideale per celebrare cerimonie sacre molto particolari e lui viene quando ce n’è bisogno. Quando ti ha visto mi ha chiesto di te e ora, prima di andare, ti vuole salutare. Questi altri sono i suoi discepoli e accompagnatori”. Tutti gli altri accennarono un leggero inchino al quale il ragazzo rispose. Paolo che aveva capito poco di tutto quel discorso ma catturato dallo sguardo penetrante del vecchio, gli si era avvicinato e l’altro, senza esitazione gli aveva preso le mani e ora le stringeva con le palme verso l’alto. Dopo un breve periodo di tempo, durante il quale Paolo si sentì leggermente in imbarazzo, lo sciamano con voce lenta e profonda gli disse alcune parole in lingua indiana. Disse: “Ni yaa et ehe ashkii ndi tsi nodoho bii – fece una pausa e poi, guardandolo in modo ancora più intenso gli si avvicinò e, con un tono più dolce, concluse – Ladaha ni jiniia kin shi yoo ya  a tehe”. Il vecchio gli lasciò le mani e così, quietamente, se ne andò, lasciando il ragazzo confuso e curioso circa le parole che gli erano state rivolte. Will, gli disse che lo sciamano l’aveva riconosciuto per essere una brava persona e che avrebbe avuto piacere di rivederlo se fossero passati per il suo villaggio. “E ci passeremo? – chiese il ragazzo che conosceva ormai il modo di fare della sua guida, “Può darsi – rispose l’altro in modo evasivo e risaliti in macchina ripartirono diretti di nuovo sulla i40. Will pensò tra se che sul ragazzo aveva avuto ragione. Con le su parole lo sciamano aveva confermato i suoi dubbi. Infatti il vecchio, in realtà, aveva detto al ragazzo che aveva percepito un dolore in lui, profondo, nella sua anima e gli aveva chiesto di andare al suo villaggio per poterlo curare e forse guarire. Ora doveva solo convincere l’altro ad andarci. Arrivarono ad Albuquerque circa alle 14.00 dalla direzione ovest e Paolo, piuttosto affamato, chiese cosa c’era in programma. L’altro rispose che aveva deciso di concedergli la visita di una cittadina, così da accontentarlo e per mostrargli che il suo viaggio non si sarebbe svolto tutto nel deserto fra serpenti a sonagli e indiani mistici. La periferia mostrava un posto tranquillo con fabbricati di due o tre piani, molti dei quali costruiti in adobe. Molti avevano porticati, sia al pianterreno che ai piani superiori. Anche qui si vedevano molti locali destinati alla ristorazione e comunque al turismo. Superarono la diramazione con la i25 e attraversarono il ponte che scavalcava l’ampio letto del Rio Grande. Dopo circa un Km, Will lasciò la strada sulla destra imboccando il Rio Grande Boulevard, un ampio viale che correva fra le case basse di quartieri residenziali con villette decorose intervallate da capannoni di piccole imprese di vario genere. Oltrepassata una traversa indicata con il nome di Mountain Road, , Will entrò nel parcheggio sotterraneo dell’hotel Buenavista. Dopo aver affidato l’auto all’addetto, l’indiano disse al ragazzo di seguirlo. Paolo aveva capito che ora sarebbero entrati nell’hotel. Invece l’altro lo condusse fuori e si diresse verso un muro di cinta, alto circa 2 metri e mezzo, ricoperto da un intonaco liscio in color ocra, che si estendeva a vista d’occhio sia a destra che a sinistra, segno che circondava una zona di notevoli dimensioni. Davanti a loro, però, si trovava un varco, ampio e sovrastato da una elegante insegna intagliata in legno, che portava la scritta ‘Welcom to Old Town’, il tutto guarnito con smalti di vivaci colori. “Il luogo dove ci troviamo adesso, è la Old Town di Albuquerque, un luogo antico dove troveremo belle costruzioni, bei locali e bella gente. Ah, e soprattutto , fra poco mangeremo del cibo squisito”. Il posto appariva piuttosto vivace, affollato, sia da turisti che da persone del posto, ma senza confusione. Le costruzioni apparivano come un misto di vari stili. C’erano delle case moderne ma molte di più in stile ispanico e anche nativo. Il quartiere in cui si trovavano si sviluppava attorno ad una piazza centrale chiamata appunto ‘Old Town Plaza’. Si camminava in una atmosfera piena di suoni e colori Appesi ai porticati, in corrispondenza dei negozi, erano frequentissimi i mazzi colorati dei ‘chili’, peperoncini piccantissimi usati in molti piatti della cucina locale. Paolo rimase colpito dalla chiesa  che si trovava a nord della piazza. Si trattava di una chiesa dedicata a S.Filippo Neri. Una bella costruzione solida, piuttosto grande, con ai lati  due alte torri campanarie, rifinite con eleganti guglie. Paolo, senza dire una parola, e senza sapere perché, entrò trovando all’interno un’atmosfera di grande serenità e raccoglimento. Il leggero odore di incenso che aleggiava nell’aria, lo riportò di colpo a ricordi sepolti e eventi del passato di cui non aveva più memoria e  si rese conto di essere stranamente sensibile e vulnerabile a quel tipo di sensazioni. Forse quel viaggio che stava facendo lo stava in qualche modo cambiando e lui non aveva capito ancora se questo fosse un bene o un male. Gli venne comunque naturale inginocchiarsi davanti all’altare maggiore su cui campeggiava, fra altre due statue di santi minori, quella del titolare della chiesa, e rivolgere al santo una veloce preghiera. Si rese conto solo più tardi che la breve pausa che aveva previsto, si era prolungata. In realtà sentiva il bisogno di quel senso di pace che quel luogo gli trasmetteva.  Quando si riscosse si rese conto che era passata circa mezz’ora. Uscì, scusandosi con la sua guida che era rimasta ad attenderlo pazientemente all’ esterno.   “La preghiera è importante per l’uomo – gli rispose questi - Lo spirito, o se preferisci, l’anima, va curato e lo spazio che gli dedichi non è mai sprecato. Lo spirito è la parte più importante ed elevata dell’uomo ed è quella che gli consente di raggiungere livelli altissimi e di fare cose ritenute normalmente incredibili – e poi cambiando bruscamente argomento, come faceva spesso, aggiunse – Ma adesso pensiamo al corpo e a mangiare qualcosa di buono”. Dalla piazza imboccarono la San Felipe Street, in direzione sud, e dopo un isolato, Will si fermò davanti al grosso portone in legno di una villetta, circondata da un alto muro di cinta, senza alcun cartello o indicazione. Quasi immediatamente una pesante anta venne aperta da un uomo, piuttosto anziano ma vigoroso, dai tratti prettamente messicani e con un’espressione truce sul volto che non prometteva nulla di buono. Alla vista dell’indiano, però l’espressione si trasformò in modo incredibile in un grande sorriso e l’uomo prese fra le braccia il visitatore, che ricambiò la stretta e continuarono così per almeno due minuti, pronunciando parole incomprensibili e menandosi grandi pacche sulle spalle, mentre il ragazzo attese senza sapere cosa fare. Poi alla fine, Will lo presentò all’uomo  e gli disse che erano affamati. L’altro li fece subito accomodare all’interno dove, da un piccolo vestibolo, attraverso un corridoio in penombra, li condusse in un giardino luminoso, pieno di alberi e di fiori, con diversi tavoli apparecchiati ai quali erano seduti molti commensali. I due furono fatti accomodare ad un tavolo d’angolo ed il loro ospite sparì senza dire una parola. “Che posto è questo? – chiese Paolo che all’inizio aveva capito di trovarsi in una casa privata – Non è un ristorante”.”Martino, così si chiama il nostro ospite, gestisce assieme alla sua famiglia questa attività da molti anni con discreto successo, come puoi vedere – e indicò i tavoli quasi tutti occupati malgrado l’ora tarda – Effettivamente non è un ristorante nel vero senso della parola. In questa zona è anche piuttosto diffuso il fenomeno di queste case private dove viene offerto il  ‘comida corrida’ , un menù piuttosto vario a basso prezzo. Qui servono il miglior menù di questo tipo della città, fidati”. Paolo non ebbe il tempo di replicare che, l’uomo di prima, accompagnato da una donna anziana, cominciò a posare sulla tavola una grande quantità di piatti con vivande colorate e molto profumate. Poi al centro del tavolo fu messo un secchiello con diverse bottiglie di birra con ghiaccio e una brocca di ceramica smaltata, da mezzo litro circa, coperta con un piattino. Il giovane guardava sorpreso, meravigliato e sempre più affamato, tutta quella varietà di vivande. Posati i numerosi piatti sul tavolo, l’uomo e la donna, con ampi sorrisi, li lasciarono al loro pasto. Poiché non sapeva evidentemente da dove cominciare, la sua guida si sbrigò ad illustrare le varie vivande. Un primo piatto, che aveva palesemente l’aspetto di una zuppa, era il ‘pozole’ , a base di granturco cotto, carne di maiale, cavolo e aromi. Gli altri piatti facevano tutti parte della tradizione culinaria messicana e apparivano tutti molto buoni e interessanti. C’erano i ‘tamales’, involtini di foglia di mais  cotti al vapore con carne di pollo e verdure, accanto all’ ‘enfrijoladas’, torillas con crema, ricoperte di pasta di fagioli e formaggio locale. Un piatto di ‘nopales’, foglie di cactus grigliate, da usarsi per ‘pulirsi la bocca’ fra un piatto e l’altro assieme a delle rondelle di platano fritto. Su un vassoio al centro del tavolo erano state poste delle ‘gorditas’, ossia pagnottelle di farina di mais, ripiene di carne macinata speziata, formaggio fuso e aromi. Per dolce erano state servite delle ‘empanadas dolci, ossia dei fagottini di pasta, ripieni di frutta fresca, come mele, ananas, zucca con cannella. “Cosa c’è nella brocca? – chiese il ragazzo. “Quella per ora lasciala stare, vedrai che più tardi ci servirà. Ora pensa a spazzolare tutto, in primo luogo perché questa roba la offri tu, sono otto dollari a testa. In secondo luogo, Martino si offenderebbe se tu lasciassi qualcosa e, se la prende male, non è una buona cosa. E ringrazia il cielo che non ci ha servito le ‘chapulines’, cavallette tostate alla piastra con succo di lime, aglio e sale, solo perché non è stagione. Hai visto quel coltellaccio che porta alla cintura? Beh, con quello, quindici anni fa, ha sgozzato un cliente che aveva fatto apprezzamenti sulla cucina della moglie e che era seduto proprio al tavolo accanto al nostro. Mangia!”. Paolo immaginava che l’altro lo stesse prendendo in giro ma effettivamente l’espressione di Martino che osservava i commensali, non diceva niente di buono. Quanto alle chapulines il ragazzo preferì sorvolare sul fatto che aveva avuto occasione, sui campi di battaglia, di mangiare cose peggiori.  Poi, la fame ebbe la meglio e assieme al suo commensale si gettò sulle vivande senza più pensare ad altro. Sorprendentemente, il cibo cominciò a scomparire con grande soddisfazione dei loro palati e dei loro stomaci, con continue sorprese per il gusto squisito di quello che era stato loro servito, il tutto annaffiato con frequenti sorsi di birra fresca. Alla fine,Paolo, quasi sorpreso per essere riuscito a mangiare tante cose e con lo stomaco veramente appesantito, si chiedeva come avrebbe fatto ad alzarsi dalla tavola e a rimettersi in viaggio, ma in particolare temeva di sentirsi male per aver esagerato. A questo punto Will gli disse che era il momento di riprendere in considerazione la brocca. La scoperchiò e versò una generosa dose di liquido incolore nel bicchiere dell’altro e la stessa cosa fece per sé. “Giù – disse – tutta d’un fiato!”. Paolo senza pensare eseguì e subito dopo, ebbe la sensazione di aver inghiottito del fuoco liquido. Si sentì bruciare bocca, gola,  stomaco. Dopo un paio di secondi, però la sensazione scomparve ma ebbe comunque  l’impressione di essere stato colpito da una martellata. “Ma che diavolo è questa roba?”. Will riempì di nuovo il bicchiere del ragazzo.”Adesso questo invece lo mandi giù, assaporandolo, come fosse semplicemente un buon vino. Fallo!”. Paolo , anche se incerto, eseguì e con grande sorpresa ora il liquido gli risultò molto gradevole  e riuscì perfino a percepire un leggero sapore fruttato, molto delicato. Appena finito di bere, però, sentì che nello stomaco stava accadendo qualcosa. Provò varie sensazioni: gonfiore, movimento, pressione ed il tutto accompagnato  con dei rumori, piuttosto intensi dei quali si vergognava un po’. Poi dopo un ultimo effetto piuttosto vivace, la pesantezza allo stomaco sparì. “Eccezionale – disse – ma ora è tutto a posto o ci saranno effetti collaterali?”.”Quello che hai bevuto e che ti ha salvato la vita – gli rispose sorridendo l’indiano – si chiama ‘Sotol’. E’ ottenuto dalla fermentazione di un pianta della famiglia delle agave, appunto il sotol, assieme all’ananas. E’ originaria della zona di Chiwawa e la sua gradazione si può variare fra i 45 ed i 55 gradi. Si serve a tavola quando si pensa che forse si mangerà un po’ troppo”.”Ma quella bevanda, come minimo, aveva 100 gradi, almeno la prima volta! E poi, mangiare troppo, certo, con l’idea che se lasciavo qualcosa, il vecchio mi faceva la pelle!”. Il padrone, apparentemente molto soddisfatto, per aver visto i piatti vuoti, portò loro un bricco di caffè, opportunamente rinforzato con del mescal. Dopo una generosa tazza di caffè, Paolo senza rendersene conto, scivolò in un sonno profondo. Fu svegliato  discretamente da una bella ragazza che fuggì ridendo, appena lui aprì gli occhi. Era disteso su un comodo divano, con addosso una copertina, all’interno di una saletta. Accanto a lui, su un tavolinetto, una grossa tazza da cui si sprigionava un forte aroma di caffè. Paolo, tiratosi su a sedere, si accertò prima di tutto che nella tazza ci fosse effettivamente solo caffè e poi bevve avidamente il liquido. Tornò nella sala del ristorante e vi trovò la sua guida che, seduta al tavolo con Martino, parlava del passato mentre entrambi bevevano qualcosa che sembrava molto alcolico e fumando due grossi sigari. Paolo si augurò che la sua guida fosse in grado di guidare anche se non aveva capito cosa avesse in serbo per lui. Preso commiato dal ristoratore, e pagati i sedici dollari, non un centesimo di più perché il padrone si sarebbe offeso con una mancia, salirono sulla auto e ripartirono. Ormai si erano fatte quasi le 18.00 ed il sole era tramontato. Il ragazzo però si accorse che avevano lasciato la i40 ed avevano imboccato la i25. La sua guida gli spiegò che questo che stavano percorrendo era il tracciato più antico della 66 e ora davanti a loro a circa 35 miglia c’era la cittadina di Santa Fe, dove avrebbero trascorso la notte. Will guidava concentrato e sicuro malgrado l’abbondante libagione ed anche Paolo si sentiva lo stomaco libero e si vergognava quasi ad ammettere di avere di nuovo fame. Arrivarono a Santa Fe che ormai si era fatto buio fitto e la cittadina risplendeva nella notte con tutte le sue luci. Lasciarono la i25, imboccando una strada locale, la Cerrillos Road, un ampio viale a doppia corsia che apparentemente attraversava buona parte della cittadina. Arrivarono a Santa Fe che ormai si era fatto buio fitto e la cittadina risplendeva nella notte con tutte le sue luci. Lasciarono la i25, imboccando una strada locale, la Cerrillos Road, un ampio viale a doppia corsia che apparentemente attraversava buona parte della cittadina. Paolo, pur avendo una visione notturna del posto, per cui certamente parziale per via dell’illuminazione artificiale che privilegiava naturalmente iniziative commerciali e turistiche, ritenne che c’erano diversi punti di contatto con Albuquerque. La forma delle case, l’architettura delle costruzioni più antiche, il tipo di ristoranti, di negozi di souvenir, e perfino i mazzi di peperoncini appesi. Arrivati in prossimità di una grande piazza, chiamata appunto ‘Santa Fe Plaza’, Will prese a destra per la Alameida street. Paolo, seppure da lontano, aveva scorto sulla piazza una  chiesa dalle dimensioni veramente importanti. La sua guida gli spiegò  che si trattava di una chiesa edificata intorno al 1890, sui resti di un’altra chiesa più antica, risalente al 1715 circa. Era dedicata a San Francesco d’Assisi e, di recente,  papa Benedetto XVI°, l’aveva elevata al rango di basilica. Il giovane rispose che era meravigliato che ci fossero tutte quelle chiese, viste nell’ultimo tratto che avevano percorso, considerando che a lui risultava che nei primi anni del 900, in quei luoghi, c’era stata quasi una persecuzione dei cattolici. “Beh, in realtà – rispose l’indiano – la persecuzione a cui ti riferisci, c’è stata ed è stata terribile ma, per fortuna non proprio qui, ma più a sud, nel territorio messicano. In Messico, infatti, nel 1925, il presidente Calles promulgò una legge che proibiva il culto del cristianesimo, che lui considerava una minaccia al regime. Chiese e proprietà religiose vennero confiscate, molti preti furono arrestati, esiliati e alcuni anche giustiziati. I cattolici professavano la loro religione in segreto, rischiando la vita. Questa repressione portò alla morte più di 90.000 vittime, un numero impressionante e la cosa peggiore fu che i cattolici chiesero agli Stati Uniti di esercitare pressioni perché inducessero il presidente a smettere con quel regime di terrore. Da quello che risulta dai documenti ufficiali, invece la Casa Bianca ignorò le richieste, stringendo invece dei patti convenienti e lucrosi con il dittatore. Ci fu un tentativo di resistenza armata da parte di un gruppo detto dei ‘Christeros’ che effettivamente riportò molti successi e si rese pericoloso, al punto che il presidente accettò di venire a patti con loro ma, dopo che essi cessarono le ostilità, li fece massacrare. Fortunatamente, nel 1930 fu destituito e i successori, considerata la feroce risposta del popolo, decisero di garantire la libertà di culto, seppure con alcune limitazioni. Infatti, perfino al giorno d’oggi, non è consentito l’insegnamento della religione nella scuola pubblica ed è proibito pregare insieme. Arrivarono alla fine della strada che confinava con un grande parco pubblico, ben illuminato ma visibile solo in parte per il buio della notte, indicato con un cartello con su scritto ‘Patrik Smith Park’. Will parcheggiò l’auto ed a piedi risalirono una strada chiamata ‘Canyon road’, piuttosto stretta ma piena su entrambi i lati, di ogni attività connessa con l’arte. Quello era il quartiere degli artisti di Santa Fe e vi si trovava, dalla più rinomata casa d’aste, al più modesto negozietto di artigianato. La gran quantità di persone che passeggiavano per la via, dava un’idea della vivace attività di quel posto. Quadri, statue, oggetti d’artigianato nei materiali più svariati, laboratori, negozi, tutto molto colorato e piuttosto chiassoso. Arrivarono ad un fabbricato, una sorta di capannone, con davanti uno spiazzo erboso con alcuni alberi. Sul capannone era dipinta in colori vivaci la scritta “Connor Real Art”. Nel giardino si vedevano delle forme, delle sculture di certo, almeno secondo l’artista che le aveva create, realizzate con elemento metallici di ogni genere e di varia origine. Tondini di ferro attorcigliati, piastre metalliche sagomate e bizzarramente tagliate, oggetti di uso quotidiano come barattoli, attrezzi, pezzi di sedie metalliche, coperchi. Il tutto saldato e genialmente verniciato. Paolo decise che quella forma d’arte non era per lui ma dovette riconoscere che quelle strane composizioni non lo lasciavano indifferente. Entrati nel fabbricato udirono immediatamente dei forti colpi intervallati da una strana voce che sembrava proferire urla incomprensibili. Will sorrise e guidò l’altro verso il fondo del capannone. Dietro una parete in lamiera ondulata, che separava il locale esposizione dal laboratorio, comparve una scena che ricordò al ragazzo una situazione da inferi. Alla luce rossastra del fuoco di una fucina, una figura informe, infagottata in una tuta piuttosto malmessa, menava colpi all’impazzata su una piccola lastra di ferro arrugginito, più o meno quadrata, con una pesante mazza. Apparentemente il lavoro non sembrava soddisfare l’artefice di quella operazione in quanto  proferiva ad ogni colpo un improperio nei confronti della lastra, della mazza, del mondo intero, con una voce alterata da una maschera che, assieme ad un paio di occhialoni, gli proteggeva il volto. I due uomini lasciarono ‘lavorare in pace’ l’altro e solo quando posò la pesante mazza per prendere il cannello della fiamma ossidrica, per il tocco successivo al suo lavoro, Will si fece avanti e con voce canzonatoria disse all’altro : “Noto che lo stile è sempre lo stesso ma l’energia mi sembra aumentata! Che è successo?”. L’altro rimase sorpreso e interdetto poi si girò di scatto con la lancia della fiamma sollevata, pronta a colpire ma poi, evidentemente riconosciuto l’indiano, posò l’attrezzo e, con un grido che sembrava di contentezza, cominciò a togliersi tutte le protezioni per poterlo salutare meglio. La prima cosa che colpì Paolo fu una chioma abbondante di capelli rosso fuoco che emerse da una cuffia che li aveva coperti fino a quel momento. Poi tolta la maschera e gli occhiali venne fuori il viso di una bella ragazza dai grandi occhi verdi. Poi dalla tuta, emerse  una giovane alta, molto robusta, piuttosto in carne e coperta solo da un paio di pantaloncini molto attillati e da una maglietta fradicia di sudore che lasciava intravedere in trasparenza un generosissimo seno. Una vera amazzone che con grande piacere andò ad abbracciare l’indiano dicendogli che era un pezzo che non si faceva vedere e che si era dimenticato di lei. Poi si accorse dell’altro e porgendogli la mano disse all’altro: “Ehi, che bel ragazzo, dove l’hai trovato?”. “Tranquilla, non è per te. Per te basto io. Siamo qui per chiedere vitto e alloggio. Saremo i benvenuti?”.”Scherzi? I ragazzi saranno contentissimi di vederti. Piuttosto non vi faranno più andar via, specie questo bel giovanotto qui. A proposito – disse al ragazzo – visto che questo selvaggio non ci ha presentato, io mi chiamo Viola”. Poi, accorgendosi di non essere molto presentabile, con un sorriso, si allontanò dicendo che sarebbe tornata subito per accompagnarli dai suoi amici, visto che per quella sera l’ispirazione artistica non le arrivava. “Beh, ho visto ispirazioni più composte ed elevate – disse Paolo fra lo scherzoso ed il critico. Ma poi aggiunse – Chi sono questi amici di cui parla? E’ da loro che mangeremo? E per dormire? – chiese il ragazzo che aveva intuito qualcosa nelle parole della ragazza. “Sono vecchi amici, tranquillo, ti piaceranno. Da loro troveremo tutto quello che ci serve – e accompagnò le parole con una strizzata d’occhio che sorprese non poco il ragazzo e che in un certo senso gli fece provare un senso di inquietudine. Arrivò la ragazza che si era lavata, pettinata e  cambiata. Aveva indossato una minigonna nera su un collant dello stesso colore a maglia larga e un toppino azzurro che non è che coprisse molto più della maglietta di prima. Completavano l’abbigliamento un paio di sandali a zeppa  color argento e un gran numero di braccialetti e collane di tutti i colori. Con una certa sorpresa, Paolo notò che la ragazza non aveva né tatuaggi né piercing, almeno visibili. “Allora, sei pronta per il tuo fratello rosso? – chiese scherzando Will. “Pronta e stavolta non mi scappi, e te le faccio pagare tutte – aggiunse con uno sguardo malizioso. Poi prese Will sotto braccio e chiuso il laboratorio, salì sulla macchina assieme a loro. Paolo si trovò stretto fra la ragazza e lo sportello. Viola con fare malizioso gli chiese se gli dava fastidio visto che gli stava così addosso e l’altro effettivamente un poco turbato da quel contatto e da quella irruenza, rispose ance tropp precipitosamente: “Assolutamente no!”. La ragazza con il sorriso di chi la sa lunga, dette indicazioni all’indiano circa il tragitto da farsi. Paolo onestamente non sapeva se invidiare o meno l’altro perché si rendeva conto che quella ragazza dava l’impressione di essere piuttosto impegnativa sotto tutti i punti di vista. Aveva capito poco delle indicazioni di Viola ma si rese conto che l’altro era molto pratico del territorio. Lasciarono Santa Fe seguendo sempre la i25. A causa del buio non si vedeva nulla del panorama. Sorpassarono il fiume Pecos e poi, in corrispondenza di una località indicata con il nome di Pajarita, lasciarono la strada principale voltando a sinistra per una via sterrata ma comodamente praticabile. La strada si snodava fra dune e bassi cespugli. All’improvviso, arrivati sulla sommità di una duna più alta delle altre, in basso apparve il ‘villaggio’. In realtà solo un grosso concentramento di roulotte e camper che erano disposti a formare due larghi anelli concentrici che si chiudevano in fondo, in prossimità del corso del fiume. Al centro dell’anello interno c’erano dei fuochi accesi, attorno ai quali si vedevano delle figure, indubbiamente gli abitanti del complesso e comunque tutto lo scenario era illuminato, sia pure al minimo, da alcuni lampioncini a luce gialla. “Allora adesso è qui che state? – disse Will rivolto alla ragazza – ma, mi sbaglio, o siete cresciuti di numero?”. “Stiamo qui perché le forze dell’ordine preferiscono che noi non si stia tanto vicino all’abitato. Sai che noi siamo tutti brave persone ma la gente di queste parti ancora non si fida di noi. Ci chiamano ancora zingari, drogati, opportunisti e sfaticati. Da due giorni è venuto a trovarci un gruppo di commercianti da Chicago, perché si sta valutando di allargare il nostro mercato in quella zona e ci servono dei negozi a cui appoggiarci”.”Allora – disse l’indiano rivolto al ragazzo che si chiedeva chi fossero quelle persone – questi sono nientemeno che degli autentici ‘hippie’ che tuttora vivono come nel 1965, quando iniziò il movimento . Ma non ti far trarre in inganno, non sono affatto dei fannulloni. In realtà sembra che siano piuttosto benestanti e fra poco, conoscerai il vecchio, un vero patriarca. E’ un po’ strano ma sembra che all’epoca si sia fumato diversa roba che certamente non gli ha lasciato la mente  limpida, ma non lo sottovalutare perchè è tuttora più in gamba di molti di noi”. “Ma piombiamo così – obiettò Paolo – Sei sicuro che siamo i benvenuti?”. “Intanto Will è un mio ospite – intervenne a quel punto Viola, quasi risentita, che aveva a quel punto stretto le braccia attorno alle spalle dell’indiano – e poi noi riceviamo volentieri tutti. Solo qualcuno che non ci sta bene, o che fa o dice qualcosa di sbagliato,  alla fine lo gettiamo nel fiume, ma niente di più grave. Al massimo ti farai una bella nuotata. Perchè sai nuotare, vero?”. Paolo stava per ribattere ma  erano arrivati ad una piccola zona adibita a parcheggio, nella quale si trovavano alcune enormi motociclette ed una decina di auto di grossa cilindrata e indubbiamente di elevato costo. Saranno stati pure hippie ma di certo, da quello che si vedeva, c’era la conferma del loro benessere. Il parcheggio era sulla destra del campo al quale si accedeva per un comodo sentiero. All’interno dell’anello, Paolo ebbe modo di vedere che in fondo, verso il fiume, erano state montate due grosse cupole geodetiche, della larghezza di almeno una ventina di metri. Quella a destra aveva i pannelli trasparenti ed era illuminata. L’altra era al buio. Fra le cupole e la riva del fiume, era stata parcheggiata una megaroulotte che quindi stava un po’ in disparte. Al centro dell’anello, sparsi qua e là, dei gruppi di persone attorno ad alcuni tavoli o seduti attorno a dei fuochi, che parlavano, cantavano o mangiavano qualcosa. Paolo vide che almeno una decina di roulotte erano le favolose ‘Airstreem’ in alluminio, forse nuove o forse d’epoca ma, comunque, di certo di gran valore. Sapeva che una di quelle roulotte si poteva comprare nuova per una cifra che poteva arrivare tranquillamente a 100.000 euro. Il ragazzo vide che la sua guida, saldamente ‘tenuto’ dalla sua ragazza, salutava qualche passante che incontravano, segno che era una persona conosciuta. Sentì ad un certo punto delle grida di una ragazza che si avvicinava correndo. Vide che era diretta verso di loro e, senza alcuna esitazione, saltò al collo di Will, trascinandolo quasi a terra, mentre lo abbracciava stretto, baciandolo ripetutamente. L’indiano, lasciava fare, ridendo, in attesa che quel ciclone si calmasse, mentre invece Viola, che era stata spinta da una parte, protestava energicamente, ordinando all’altra di piantarla e , facendolo, la chiamava Rose. “Viola e Rose – pensò Paolo che intanto aveva visto che la seconda ragazza era una copia quasi perfetta di Viola, magari la sua gemella – che pasticcio! “. La seconda però, a differenza della prima, era vestita in modo assai più convenzionale, con un vestito di cotone  con gonna lunga e larga e un ‘golfettone’  celeste che le arrivava a mezza coscia, ma, anche attraverso le misure comode degli abiti che indossava, si indovinava che era di corporatura quasi identica a Viola. Il viso era molto somigliante ma i capelli erano di colore castano, raccolti in una semplice coda di cavallo. Praticamente la versione casalinga di Viola. Grosso modo aveva capito che ambedue le ragazze  erano invaghite di Will il quale sapientemente, almeno così sembrava, riusciva a barcamenarsi fra le due. Indubbiamente quell’uomo aveva delle doti nascoste. Quando la situazione tornò alla normalità e Will ebbe presentato il suo amico, le ragazze tenendolo abbracciato una per lato, lo condussero verso uno dei fuochi accanto ad una cupola. Sedute attorno al fuoco, su dei bassi sgabelli, c’erano una quindicina di persone, tra cui ne spiccava una, sia per corporatura che per il fatto che stava parlando con voce molto decisa e gli altri lo stavano a sentire con rispetto. L’uomo però, vedendo il gruppetto arrivare, si zittì per un attimo per capire  chi fossero, poi, dopo un attimo: “Che mi venga un colpo – tuonò con tono allegro – il mio indiano girovago! Che ci fai qui? Hai sentito l’odore del cibo del bivacco? E ti sei anche portato compagnia, vedo! Qualche altro sfaticato giramondo come te?”. Paolo ormai si era reso conto che le conoscenze di Will erano tutte, quanto meno,  un po’ singolari e che quindi non doveva fidarsi della prima impressione. Comunque quell’uomo, per istinto, sembrava simpatico e stava solo facendo dell’umorismo. “Adesso andate a mangiare perché intuisco che siete affamati ma poi, tornate qui che voglio parlare con voi e voglio conoscere il giovanotto. Fate con calma perché intanto io finisco qui”. Paolo si accomiatò con un leggero inchino della testa, mentre Will lo trascinava via. “Ma che fai? Non è mica un patriarca. Così gli fai montare la testa! – gli disse scherzando l’indiano. Si diressero verso la cupola illuminata e il ragazzo vide che era attrezzata a luogo comune di ritrovo. C’era una zona con bassi divani e cuscini, posti al suolo, a delimitare una zona separata, dei piccoli tavoli con sedie e, su un lato, una sorta di self service con accanto carrelli pieni di vassoi, posate e bicchieri, una specie di piccola mensa, insomma. Nei vassoi Paolo, con una certa sorpresa, ma anche soddisfazione, vide che c’erano delle normali vivande che avrebbe trovato nella cucina di una ordinaria casalinga americana. C’era una bel vassoio di maccheroni al pomodoro , formaggio e polpette, un altro con stufato di manzo con piselli, poi pesci arrosto, tutto con contorni di patate, mais, pomodori, fagioli. Completavano la sfilata delle torte di carote e di mele. Su un tavolo, accanto, c’erano diversi contenitori con vari succhi di frutta. Seguendo l’esempio degli altri che si stavano servendo senza complimenti, anche il ragazzo, che aveva un discreto appetito, decise di assaggiare un po’ di tutto, specialmente il pesce che gli era sembrato condito alla perfezione. Per bere, si dovette contentare dei succhi di frutta ma gli venne detto che al campo gli alcolici non erano visti di buon occhio, salvo rare eccezioni. “Strano – disse ai suoi compagni – mio aspettavo un campo di gente con usi e costumi particolari. Ma vedo una mensa che mi fa pensare a quella di  un’ azienda, le persone sono vestite in modo informale ma niente di che. La visione generale non farebbe pensare ad una comunità hippie”. “Che ti aspettavi, di trovare un gruppo di drogati, sdraiati per terra che si passavano le canne fra incensi e musica psichedelica? – disse in tono sardonico Viola - Ragazze discinte che ti si gettavano fra le braccia invocando l’amore libero?”. Beh, pensò Paolo, su questo ultimo argomento ci sarebbe da parlarne. “Il punto – disse Will fra un boccone e l’altro – è che degli hippy, si parla sempre per i loro comportamenti estremi, esagerati, che fanno notizia. Questo movimento, ha avuto anche aspetti eclatanti,  legati a scelte particolari di vita e a precisi canoni di comportamento. Ma poi vedrai che il ‘vecchio’ magari, dopo, ti saprà spiegare meglio”. In quel momento si avvicinò a loro una ragazzina, esile, capelli lunghi lisci e biondi, dai tratti delicatissimi, con una semplice tunica bianca che le scendeva fino ai piedi e dall’apparente età di una quindicina di anni. La nuova venuta si rivolse ai due uomini e disse loro semplicemente : “Benvenuti”. Paolo rimase colpito e incredibilmente attratto dagli occhi azzurri e bellissimi della nuova arrivata e rimase a guardarla con la forchetta a mezz’aria. Sembrava distinguersi da tutto quello che c’era intorno, come se fosse circondata da un’aura di energia speciale. Ruppe l’incantesimo Will che esclamò: “Ma guarda chi si è fatta viva! Nientemeno che Betty, la figlia preferita del ‘vecchio’! – poi, indicando il giovane, ancora incantato, le disse – ti presento Paolo. E’ un bravo ragazzo, italiano e amico mio, capito?”. “Ma certo – rispose la ragazza sorridendo a Paolo – ho solo sentito che eravate arrivati e volevo salutarvi e tu, sei veramente carino – aggiunse con tono candido, rivolta a Paolo. “Si certo, come no! – disse a voce alta Viola a Rose – Adesso però facci finire di mangiare e poi andiamo dal ‘vecchio’. Magari aspettaci lì”. “No – rispose Betty – preferisco prendere un succo di frutta assieme a voi. Così magari facciamo amicizia prima – disse parlando più che altro al ragazzo. E fu proprio accanto a lui che prese posto al tavolo. Paolo sentiva molto la presenza della ragazzina e si chiese il perché. Lei rimase comunque in silenzio mentre le altre due raccontavano a Will le novità del campo, delle loro attività, della comunità. Quando ebbero finito di mangiare, decisero di andare a raggiungere il gruppo del ‘vecchio’ che era ancora seduto attorno al fuoco, ascoltando una ragazza che cantava una canzone, ‘The sound of silence’ accompagnandosi con una chitarra. Tutto il gruppo ascoltava la bellissima voce della ragazza in assoluto silenzio, alcuni perfino commossi. Paolo ricordava che musica era stata la colonna sonora del celebre film ‘ il laureato’ ma poi gli venne alla mente che quella canzone doveva avere un valore particolare per quella gente e per gli americani in generale, visto che lo stesso autore, Paul Simon, in un clima di grande commozione, l’aveva eseguita al Ground Zero Memorial, accompagnandosi con una semplice chitarra acustica in occasione della commemorazione del decimo anniversario della tragedia dell’ 11 settembre 2001. Quando le note terminarono, rimasero tutti per un po’ in silenzio poi il ‘vecchio’, rivolgendosi al ragazzo che, assieme agli altri, aveva atteso con atteggiamento rispettoso che la ragazza finisse il pezzo, prima di avvicinarsi, chiese:”Sai cosa dicono i versi di questa canzone?”. “Beh, conoscendo la lingua, direi che parla del fatto che la gente non ascolta, che preferisce passare il tempo con il cellulare, definito il Dio neon”.”Bravo, ma non è così semplice e contemporaneamente è facilissimo o almeno lo sarebbe, se la gente si fermasse ad ascoltare. – Gli fece un gesto invitandolo ad accomodarsi accanto a lui. Paolo accettò ma senza molto entusiasmo. Era stanco, voleva andare a dormire e soprattutto non gradiva essere il centro dell’attenzione. A parte la ragazza che aveva cantato, il resto delle persone erano di tutte le età. C’era la coppia di anziani, delle persone di mezza età, che cercavano forse un briciolo di immagine ricorrendo a qualche capo di abbigliamento un po’ anomalo, fasce colorate per tenere fermi i capelli, ma comunque senza esagerare. C’erano infine anche i giovani, vestiti in modo più informali degli altri, più colorati, più ricchi di collane e braccialetti. Furono proprio loro a chiedergli chi fosse e cosa facesse per vivere. Quando lui glielo rivelò, il gruppo rimase alquanto impressionato. Un reporter di guerra? Uno che andava in mezzo alle battaglie per fare foto e documentare i massacri? “Ma che razza di persona potrebbe fare un lavoro simile e, magari, ti piace pure? – disse molto contrariato il vecchio – Ah, non c’è che dire stavolta Will ci ha portato una gran bella persona!”. Paolo se la stava vedendo brutta quando al suo fianco spuntò come dal nulla la figuretta di Betty. Gli si mise a fianco e gli prese delicatamente un braccio. “Non è un guerriero - disse la ragazza accarezzandolo, - ha il viso gentile, il suo sguardo è  buono”. E dicendo così gli sorrideva occhi negli occhi, come se fossero solo loro due in quel momento. “Perbacco, - esclamò il vecchio - ti sei trovato un avvocato niente male. Lei non sbaglia mai con le persone e, se lei dice che sei a posto, allora ci crediamo. Anche se quello che fai per vivere, almeno secondo la nostra filosofia, è un po’ indigesto”. Paolo provò a spiegare dicendo che il suo lavoro serviva a non far dimenticare le sofferenze, la povertà, la mancanza di libertà dei popoli coinvolti, facendo  in modo che i belligeranti fossero tenuti a condotte non estreme; avrebbe dovuto contribuire a limitare i danni, insomma. “E funziona? – chiese un giovane del gruppo. “No. Da un po’ di tempo, sembra che l’uomo abbia perso il senso della misura. Che si sia distratto appresso a nuovi valori tossici, malvagi. Il mio lavoro per questo si sta facendo sempre più pericoloso a fronte di risultati estremamente modesti. Chi dovrebbe intervenire, a volte fa finta di non vedere e, ancora peggio, in modo occulto, magari fomenta la guerra stessa”. Paolo alla fine provò a spiegare cosa si riproponeva di trovare in quello strano viaggio che l’indiano gli stava facendo fare  ma preferì non entrare troppo nel personale. “Come avrai capito, noi siamo contro la guerra – iniziò a dire il vecchio – Ci piace considerarci gli ultimi hippie del territorio ma siamo più che altro delle persone che hanno fatto delle scelte di vita. Ecco perché qui non troverai situazioni estreme, con personaggi strani, suoni di sitar, incensi, droga…. Beh, no. Di quella, forse, qualcosa ne trovi ma niente di importante. A noi piace pensare di discendere da quelle persone definite ‘beatnik’,  da un giornalista  alla fine degli anni ’50, fondendo i termini di beat generation e Sputnik,  per mettere in evidenza che si aveva a che fare con pericolosi sovversivi comunisti. Classificazione pericolosa, in un momento in cui in America c’era un forte sentimento di anticomunismo, una paranoica ‘paura rossa’, un po’ per il Maccartismo e un po’ a causa della guerra fredda. Naturalmente non erano comunisti, ma solo persone che si ribellavano al conformismo alienante della società dei consumi, alla segregazione ed alla povertà in generale. Cercavano un’alternativa di vita nelle droghe che avrebbero dovuto contribuire a dare una maggiore consapevolezza interiore e nell’attività sessuale che avrebbe fornito una nuova libertà. Naturalmente non erano ben visti anche se, nel tempo, si unirono a loro intellettuali di un certo calibro, come ad esempio Allen Ginsberg, che per quella scelta divennero a loro volta definiti ‘scomodi’”. Il vecchio fece una pausa nel suo racconto e indirizzò un gesto ad un ragazzo del gruppo che subito, alzatosi, partì di gran carriera verso la cupola illuminata. Paolo aveva notato che, malgrado quel discorso dovesse essere ormai noto e arcinoto, il gruppo lo ascoltava con piacere come se fossero contenti di ripercorrere quella che doveva essere la loro storia.  Il giovane che si era alzato, tornò quasi subito e portava con grande maestria quattro barattoli da almeno due litri ognuno contenenti un liquido chiaro, quasi incolore. Paolo conosceva quei barattoli e capì che il vecchio aveva piacere a condire la sua storia con un altro po’ di sano folklore americano. Era sicuro che quello fosse nient’altro che il famigerato ‘moonshine’, l’whisky distillato ‘in proprio’ che lui non aveva mai assaggiato ma di cui alcuni colleghi gli avevano detto un gran bene.  Quando fu aperto il primo barattolo dal vecchio, che annusò il contenuto da intenditore, il ragazzo percepì subito l’aroma intenso di quella miscela fatta in casa. Poi cominciarono a girare le tazze e tutti, a turno, si servirono generosamente. Anche la sua giovane ‘protettrice’ si fece la sua parte. Paolo pensò di dire qualcosa ma, visto che il padre era lì davanti e non aveva nulla da obiettare, ritenne opportuno farsi i fatti suoi. Anche a lui, era stata versata una tazza quasi piena. Non abituato a bere, specie quella roba, non sapeva come comportarsi. Comunque per darsi un tono ne bevve un bel sorso imitando gli altri. Capì subito di aver sbagliato. La gola gli bruciò per un pezzo. Dopo un generoso sorso, il vecchio riprese a parlare: “Nel movimento era molto importante la musica, a cui molti ragazzi si inspiravano e numerosi eventi erano perciò legati a gruppi e spettacoli. All’inizio del 1966, un gruppo di noi a San Francisco, comprò il magazzino costumi cinematografici del teatro della Fox che aveva chiuso i battenti. I ragazzi poterono sbizzarrirsi a mascherarsi e a vestirsi con il massimo della fantasia. Io mi ero unito da poco a loro e ricordo le feste che organizzavamo. Ero scappato di casa appena sedicenne con un mio amico e, appena arrivati, ci ritrovammo a fare parte di un gruppo. Ballavamo tutta la notte, con la musica giusta, con le luci psichedeliche e poi, le ragazze….. “. Lasciò la frase in sospeso e il suo sguardo si perse per qualche istante in fondo alla sua tazza, di certo rapito in qualche ricordo di quelli indimenticabili e nessuno ebbe il coraggio di interrompere quel momento di estasi. Poi, come ritornato da un altro mondo, riprese: “In quel periodo eravamo diventati almeno 15.000 persone, tutti concentrati nella zona di Haight Ashbury. Poi, però, nel mese di ottobre, lo stato dichiarò l’ LSD, illegale e molte cose cambiarono. Nel ‘67’ il raduno all’aperto a San Francisco richiamò almeno 30.000 persone al Golden Gate Park. I giovani avevano dei fiori nei capelli e spesso ne offrivano anche ai passanti, da cui nacque l’ appellativo di ‘figli dei fiori’. Era il periodo delle comuni, dei vestiti sgargianti, della vita libera, dei pulmini variopinti che giravano per il Paese. Sembravamo invincibili e inarrestabili. Non ci si rendeva conto che gli interventi mediatici, di portata sempre più ampia, portavano l’attenzione della gente sugli aspetti meno lusinghieri del movimento. L’abuso della droga, la condanna del lavoro, i costumi troppo permissivi… - e il vecchio si prese un’altra pausa, buttando giù un’altra abbondante sorsata dalla sua tazza. Paolo lo ascoltava affascinato perché quell’uomo, con le sue esperienze, gli stava facendo ripercorrere tutta una serie di eventi che avevano avuto risonanza i tutto il mondo. Poi riprese: “A metà del 69’ a Woodstock ci fu un famosissimo concerto con almeno 500.000 persone. Si esibirono delle autentiche leggende. Joan Baez, Janis Joplin, Crosby, Nasty and Joung, Carlos Santana, the Who e Jimi Endrix, solo per citarne alcuni. Quanti ricordi e quanti amici…”. Poi rivolto alla ragazza con la chitarra le disse di cantare ancora qualcosa. Quella ci pensò un attimo e poi iniziò a cantare una canzone intitolata ‘Have you ever seen the rain’ dei Credence Clearwater revival. Questa canzone fu ritenuta a lungo dai media come una protesta nei confronti della guerra del Vietnam al punto da essere assunta come colonna sonora da molti movimenti pacifisti dell’epoca. Paolo, un po’ per la stanchezza di quella lunghissima giornata piena di eventi, un po’ per il fatto che senza accorgersene, preso dal racconto si era finito la sua tazza di whisky, pur non essendo abituato a bere superalcolici, ormai si lasciava trasportare da quella malinconica ma bellissima musica. Quando la ragazza terminò, il vecchio che intanto aveva approfittato della pausa per riempire di nuovo la sua tazza, riprese: “ Purtroppo le cose belle, difficilmente si ripetono. Quando nel dicembre del ‘69’ presso l’Altamont Raceway Park, presso San Francisco fu organizzato un altro storico concerto, intervennero almeno 300.000 persone per ascoltare artisti del calibro dei Rolling Stones e poi Nasty and Young, e Crosby. Ma quella volta,  le cose sfuggirono di mano al servizio d’ordine e ci furono molti atti di violenza e disordini con morti e feriti. E a metà degli anni ‘70’, con la fine della guerra nel Vietnam e della leva obbligatoria e con l’affiorare di un nuovo senso di patriottismo, legato all’approssimarsi del bicentenario degli Stati Uniti d’America, gli ideali hippie cominciarono a venir meno e anche i media smisero a poco a poco di occuparsi del fenomeno. La società cominciò a cambiare, le cose presero a correre, dando vita negli anni ‘80’,  a persone come gli Yuppies, giovani professionisti alla ricerca dell’affermazione economica, totalmente immersi in uno stile di vita consumistico volto all’ostentazione del successo. Che tristezza, che stravolgimento di valori. Noi eravamo diventati vecchi ormai e molti, a poco a poco, si fecero riassorbire dal sistema. Io non mi volevo arrendere. Avevo avuto una vita troppo bella e non l’avrei rinnegata per nulla al mondo. Fortunatamente, quando avevo visto il vento girare, avevo cominciato ad investire qualcosa nella musica e avevo messo da parte un bel gruzzolo. Il mio sogno era questo, un villaggio, un posto dove la gente potesse venire e stare, in pace. Certo, un’utopia, perché comunque sono sempre i soldi a mandare avanti tutto, ma visti solo come mezzo per gestire questa situazione, mai come fine ultimo. Così – concluse rivolto a Paolo - ora produciamo capi di vestiario, abbiamo varie coltivazioni al di là del fiume e molti di noi lavorano nel campo artistico. Quadri, gioielli, sculture, oggetti di arredamento. Insomma siamo autosufficienti. Non diamo fastidio a nessuno e nessuno lo dà a noi. E speriamo che continui così a lungo e, se un giorno, vorrai tornare e stabilirti qui, sarai sempre il benvenuto”. Poi si alzò, un po’ malfermo sulle gambe e, salutato il gruppo, sorretto dalla ragazza con la chitarra, si diresse verso la sua grande roulotte, quella al di là delle cupole. Paolo, non sapendo cosa fare, rimase seduto sul suo sgabello, anche perché la sua guida ormai da un pezzo era sparito assieme alle sue due amiche. “Vuoi dormire qui? – gli chiese sorridendo Betty che gli era rimasta accanto. Poi senza aspettare risposta, lo prese per mano e lo condusse con lei – vieni”. Arrivarono davanti ad una piccola roulotte color rosa. La ragazza aprì la porta e lo condusse all’interno dove una luce soffusa illuminava un ambiente particolarmente intimo. Un ampio letto in fondo con cortine di veli colorati, Mobiletti rosa rifiniti con fiocchi e centrini colorati. Oggettini di vari materiali sagomati come pupazzetti, piccoli animali, bambole. Sapienti sorgenti luminose per far sembrare che la luce soffusa provenisse dal nulla. Aleggiava un particolare profumo dolciastro, non spiacevole, somigliante al Patchouli. Paolo con grande preoccupazione si ricordò che il patchouli, sotto forma di olio aromatico era usato dal movimento degli hippie come afrodisiaco in quanto ritenuto in grado di risvegliare l’energia sessuale. Che cosa si era messa in testa quella ragazzina? Va bene il campo degli hippie, va bene l’amore libero ma il suo senso morale lo bloccava completamente  pur sentendosi molto turbato da tutta quella situazione perché Betty era riuscita con la sua figura, i suoi modi ed i suoi atteggiamenti a smuovere qualcosa che invece avrebbe dovuto rimanere sopito. Forse il profumo, forse l’alcol consumato, forse il modo in cui la ragazza ora l’aveva abbracciato, rischiarono di travolgerlo ma per fortuna il suo senso morale ebbe la meglio. Più gentilmente che potè, la scostò da se e poi le disse: “Mi dispiace ma non mi sento di fare quello che ti aspetti da me. Sei carina, anzi sei una splendida ragazza ma io sono troppo stanco e ho davvero bisogno di dormire  - mentre si allontanava e con soddisfazione aveva raggiunto la porta continuando a proferire varie scuse, la ragazza lo guardava quasi sorridendo, in modo strano. Paolo uscito dalla roulotte, si rese conto che ora non sapeva davvero dove andare. Ed era veramente stanco. Prima di andare a rintanarsi nel pick up, per un alloggio di fortuna, decise però di fare un tentativo e si diresse verso la cupola che era ancora illuminata. Lì, ad un ragazzo che stava facendo la pulizia del pavimento chiese se per caso non ci fosse un posto di fortuna per dormire. “Ma certo che c’è – rispose l’altro – qui capitano spesso persone di passaggio. Seguimi”. E lo condusse verso l’altra cupola, quella al buio. Una porta conduceva ad una stanzetta con una decina di brandine. Ognuna aveva il suo materasso, il cuscino ed una serie di coperte ordinatamente piegate, tutto rigorosamente pulito. Un’altra porta conduceva in un piccolo bagno. Rimasto solo, Paolo ripensando a quella lunghissima giornata, si sdraiò su una delle brandine ed, appena il tempo di coprirsi con le coperte, scivolò in un sonno profondo e senza sogni.
                                                                                     VIII° giorno
La mattina successiva fu svegliato da una serie di colpi provenienti dal locale attiguo. Ci mise un po’ a riprendersi completamente. Poi tutto gli tornò alla mente. La comune, il vecchio, Betty e lui che era scappato. Ed era ancora convinto di aver fatto la scelta migliore. Il locale attiguo era un magazzino e qualcuno stava scaricando delle casse. Nel piccolo bagno trovò il necessario per lavarsi ed anche un rasoio usa e getta per radersi. Indubbiamente la comunità era ben organizzata. Al locale del buffet trovò su dei tavoli una scelta di vivande di tutto rispetto. Dal consueto piatto di uova e pancetta, ai dolci tradizionali e a due varietà di torta, carota e mele, con tutta la serie di succhi e sciroppi per guarnire frittelle e dolci. E naturalmente un buon caffè. Rispondendo al saluto di persone che era convinto di non conoscere, si fece una bella razione di quanto c’era e, adeguatamente rifocillato, si recò al furgone in attesa che Will, sparito dalla sera prima, si facesse vivo per poter partire. Aveva cercato con lo sguardo dappertutto Betty, sperando di poterla salutare e magari scusarsi per essere stato quanto meno brusco ma non la vide da nessuna parte. E poi, fra risate e battute, arrivò Will, ancora abbracciato alle due ragazze con le quali, apparentemente aveva trascorso ‘molto piacevolmente’ il tempo. “Ehi – lo salutò l’indiano – allora, sei qui! Pronto a partire?”. E ridendo, si staccò dalle due ragazze che lo lasciarono andare di malavoglia. Poi, salito sul pickup, mise in moto e riprese la i25  verso la cittadina di Santa Rosa, indicata a circa 90 miglia. “Allora, - disse Will sorridendo – hai avuto una bella nottata? Ti sei rilassato come si deve?”. “Che intendi dire?”. “Beh, ieri, Betty…, devo dire altro?”. “Certo che devi dire altro. E magari era addirittura nei tuoi piani, vero? – cominciò a rispondere Paolo scaldandosi e tirando fuori quello che si sentiva – Tu vai con le sorelline e io mi consolo con la ragazzina, ma per chi mi hai preso?”.”Aspetta – rispose Will che aveva smesso di sorridere – ma che è successo ieri?”.”E’ successo che come avevi previsto Betty alla fine mi ha portato nella sua roulotte e voleva, voleva….. mi capisci no?”.”Si, fin qui ti seguo ma poi quello che non capisco è quello che è successo dopo!”. “Niente è successo! Che doveva succedere? Non so come vi comportate da queste parti ma io con le ragazzine non ci vado. Me ne sono andato e ho dormito nella cupola”.”Che hai fatto? Hai mollato Betty? O per il grande spirito, questa è bella. E io che ti avevo portato lì, si può dire apposta, per farti scaricare un po’ di tensione. Ragazzina? Ma quale ragazzina! Betty ha quasi 25 anni e metà degli uomini del campo avrebbe dato chissà cosa per poter avere l’occasione che hai avuto tu. E tu la pianti in asso e te ne vai! E non voglio sapere il vecchio, quando saprà che hai rifiutato la compagnia della sua figliola preferita!”. E continuò a guidare borbottando fra se in dialetto navajo. Paolo, confuso si era reso conto di aver preso una solenne cantonata e anche di aver fatto una gran misera figura ed ora aveva dei sentimenti contrastanti. Poi, all’improvviso, Will inchiodò i freni dell’auto. “Dimmi – disse rivolto all’altro con un cipiglio veramente truce – e tu mi hai creduto capace veramente di proporti rapporti con una ragazzina?”.”Ma che ne so – rispose Paolo preso alla sprovvista e preoccupato dall’espressione dell’altro – D’altronde si dice che gli indiani prendevano delle mogli giovanissime e magari la tradizione è rimasta”.”Certo, ma quando l’aspettativa di vita di un pellirosse era di 30, 35 anni. Poi le cose sono cambiate. Comunque, ora mi chiedi scusa o scendi dalla macchina e ti lascio qui!”.”Come qui? In mezzo al nulla?”. “Qui, in mezzo al nulla. Sono stato offeso e pretendo soddisfazione. Allora,  queste scuse!”.”Va bene – disse Paolo che non era poi così convinto di come stavano andando le cose ma con l’alternativa di essere abbandonato per strada… - va bene ti chiedo scusa. Ho sbagliato a dubitare di te”. “Mmmm – si limitò a dire l’altro e rimise in moto riprendendo il tragitto. Proseguirono ancora per un po’ e alla fine Paolo non potè resistere dal domandare “Ma dì un po’, davvero mi avresti lasciato in mezzo alla strada?”. “No, prima di farti scendere, avrei accostato al ciglio della strada, - e scoppiò a ridere come un matto. – Scusa ma non ho potuto resistere. Che faccia hai fatto quando ti ho detto l’età della ragazza. Però resta il fatto che hai pensato male di me e questo mi dispiace. Va bene – aggiunse bloccando le parole di scusa del suo compagno di viaggio – incidente chiuso. Non ne parliamo più”. E proseguirono per diverse miglia in silenzio. Will apparentemente concentrato sulla guida, anche se lo scarso traffico e le condizioni della strada non richiedevano una particolare attenzione, mentre Paolo osservava il paesaggio che però ora si era fatto piatto e brullo. Raggiunsero alla fine la cittadina di Santa Rosa. Il ragazzo notò un contrasto notevole con il panorama circostante. La cittadina appariva infatti molto verde e con dei laghetti, alcuni anche piuttosto ampi. Will, uscendo dal suo offeso silenzio disse che  fu appunto per la presenza di acqua, che le due compagnie ferroviarie, che stavano posando i binari un po’ dappertutto negli Stati Uniti, la Pacific Railroad e la North Aestern Railroad, scegliessero quel posto come punto di incontro e scambio per le loro linee ferroviarie, in quella zona. Il fatto che ci passasse anche la 66 contribuì a far sviluppare la cittadina che ora era il capoluogo della contea di Guadalupe. L’indiano non mostrò di volersi fermare e Paolo non vide nulla di particolarmente interessante. Solo, verso la fine dell’abitato, notò un lungo palo con in cima, apparentemente in bilico una Hotroad gialla. La sua guida gli disse che era solo l’insegna del Route 66 Auto Museum, un posto dove erano esposte auto d’epoca personalizzate. Il paesaggio appariva sempre piatto e privo di elementi di interesse, salvo forse un discreto numero di ‘derrik’ di petrolio e parecchi mulini a vento tipo ‘Aermotor’ caratteristici delle pianure americane. Raggiunsero la cittadina di Tucumcari, piuttosto piccola. Will spiegò che quella cittadina era nota percè lì venne creato il campo di appoggio per i cantieri delle ferrovie di Santa Rosa. All’inizio, un luogo piuttosto pericoloso  per le continue violente risse che vi nascevano. A causa delle frequenti sparatorie il posto infatti venne chiamato ‘six shoter siding’ ossia, all’incirca ‘binario sei colpi’. Poi, calmatesi le acque e terminati i cantieri, coloro che avevano deciso di restare, preferirono cambiare il nome alla cittadina, scegliendo il nome delle montagna vicina, appunto Tucumcari. Percorse altre 3 miglia, all’incirca e verso le 10,30 raggiunsero un posto chiamato Adrian Wimbay Place. Will lasciò la strada e parcheggiò a fianco di un locale, una sorta di bar ristorante negozio di souvenir chiamato Adrian Midpoint Cafe. Era un edificio ad un piano di colore bianco, rifinito in legno. Al suo fianco, la parte superiore di una vecchia torre di controllo adattata come ufficio turistico e informazioni. Proprio in corrispondenza del locale, una linea bianca tracciata di traverso sulla intera carreggiata indicava, sull’altro lato della strada, una piazzola nella quale si vedeva un ampio cartello a fondo bianco con  scritto un enorme ‘Welcome’ con vernice nera e, sotto, un’indicazione secondo la quale proprio li, era il punto a metà strada fra Los Angeles e Chicago, posti tutti e due esattamente a 1139 miglia. Insomma significava che era stato percorso esattamente metà del tragitto della 66. Paolo pensò che con altri 8 giorni avrebbe potuto compiere il viaggio ma bisognava vedere in realtà cosa aveva in serbo per lui Will che, con la scusa che il tragitto si formava giorno per giorno, in realtà non gli diceva mai molto a proposito delle tappe che avrebbero effettuato. In quel momento l’indiano disse al giovane di andare al bar a bere un bel caffè e a mangiare una fetta di torta che in quel luogo veniva fatta proprio bene. Poi, senza aggiungere altro, ripartì con il pickup, dicendo che sarebbe tornato presto. Paolo, che ormai aveva capito che obiettare non gli sarebbe servito a nulla, entrò nel locale. La sala era piuttosto ampia con una decina di tavolini di diverse forme, in formica, e ricoperti con tovagliette di tela cerata a fiori, attorno ai quali erano disposte delle sedie in vilpelle imbottite. Niente di che. Le pareti piene di scritte relative alla 66 e, in un angolo, un vecchio Jukebox funzionante,  con  dischi a 45 giri di musica folk o comunque d’epoca. Poi vide la vetrinetta delle torte e ce n’erano veramente parecchie. Alla fine decise per quella alla cioccolata che accompagnò con un  caffè. Aspettando il ritorno della sua guida si sedette ad un separè fra quelli che erano proprio dal lato della vetrina per veder comodamente l’esterno. Rimase comunque sorpreso per la qualità del caffè e della torta che aveva scelto. Guardandosi attorno non vide in realtà nulla di speciale in quel locale. Avrebbe anche potuto essere un posto in Italia, magari accanto a qualche stazione di servizio di qualche paesotto ma c’era comunque un’atmosfera particolare, qualcosa nell’aria che lo faceva risultare particolare. Nella zona dedicata ai souvenir erano in vendita i soliti oggetti che si trovavano in questi posti, cappellini, tazze, pupazzetti, oggettistica, quadri e le immancabili cartoline. Alla fine preferì uscire  all’ esterno, per aspettare il ritorno di Will che lo raggiunse dopo circa un quarto d’ora. Ripartirono subito dopo e Paolo si rese conto che ora il serbatoio era di nuovo pieno. “Ora siamo nel Texas – disse l’indiano – la terra dove ogni cosa è grande e la popolazione ci tiene a farlo sapere a tutti. Dicono che i texani siano particolarmente attaccati al loro territorio, tanto che affermano di essere prima texani e solo poi, americani. Usano uno slang particolare che hanno il vanto di mantenere anche quando lasciano il loro Stato e, parlando, usano delle frasi e delle metafore profondamente legate alla loro natura, agricola e di allevatori”. “Ma come nasce lo stato? Anche qui ci sono stati dei coloni che hanno deciso di stabilirsi in questi luoghi?”.”Non esattamente – rispose Will – Naturalmente non posso essere preciso perché, conoscere la storia di tutti gli stati americani è complicato, visto il loro numero però, per sommi capi, ti posso dire che la colonizzazione vera e propria di questi territori iniziò alla fine del 1600 con i Francesi. Però le cose non andarono bene specie perché nacquero dei contrasti fortissimi con le popolazioni locali. All’inizio del 1700 si fecero avanti gli Spagnoli che ebbero, all’inizio, miglior fortuna ma anche loro non seppero gestire al meglio i contatti con i nativi. Così, verso la fine del 1700, la Spagna fu costretta a ritirarsi, pur avendo raggiunto un buon livello per quello che riguardava la cristianizzazione delle popolazioni locali. A quel punto, si fecero avanti i Messicani che, alla fine del 1820, riuscirono a cacciare definitivamente gli Spagnoli che più volte avevano tentato di rientrare in gioco. Il Messico, però, allo scopo di ingrandire lo Stato e di aumentare il suo potere, incoraggiò con ogni mezzo la colonizzazione del Texas da parte degli Europei, tanto che si stima che verso la fine del 1825 ci fossero sul territorio non meno di 30000 coloni di razza anglosassone. Il fatto è che in tutto questo altalenare di influenze e giochi di potere, i coloni, di ogni nazionalità fossero, si trovarono ad affrontare le stesse difficoltà e gli stessi problemi. Questo li portò a sviluppare una coscienza nazionale, territoriale che li fece sentire innanzi tutto dei Texani. E fu proprio in questa veste, che nel 1835, iniziarono la loro battaglia per affrancarsi dal Messico, per trovare una loro indipendenza. Famosa è rimasta la battaglia di Alamo, combattuta ne 1836, fra le truppe del Generale Santa Anna che con 6000 uomini dovette affrontarne poco più di 200 asserragliati nel forte e che resistettero per ben 13 giorni e che preferirono morire piuttosto che arrendersi. Alla fine, comunque, i Messicani vennero battuti e cacciati. Purtroppo a quel punto vennero fuori i vari dissidi interni fra le varie fazioni dei Texani, al punto che i Messicani pensarono bene di tentare di ritornare. Alla fine però il Congresso Americano, nel 1845, approvò una legge che annetteva la Repubblica Texana agli Stati Uniti d’America”.”Per Bacco, e voi locali, in tutta questa storia, come avete reagito?”. “Purtroppo non nel modo migliore. All’epoca non c’era pace fra le varie tribù. Gli Hasinai erano nemici giurati degli Apache Lipan. Questi ultimi si allearono con gli Spagnoli che li aiutarono a combattere  anche contro i Comanche, i Tonkawa e i Mascalero. Insomma gli indiani non capirono che l’avversario vero era quello che veniva da fuori, e non le popolazioni locali. Alla fine, ne uscirono bene solo i Comanche che ebbero una pace separata con il Messico, impegnandosi a combattere contro la tribù dei Karankawa.  Gli Apache vennero quasi sterminati assieme ad altre tribù di cui non si ricorda più nemmeno il nome, come ad esempio i Coahuiltocan”.”E poi – concluse Paolo- ve la doveste vedere con i bianchi che vi rinchiusero nelle riserve”.”Esatto. Ora però la situazione è molto cambiata. In generale gli indiani d’America, sono proprietari di buone parti del territorio e partecipano alla vita sociale e commerciale del paese. Naturalmente ci sono sempre dei focolai di razzismo ma quelli riguardano un pò tutte le razze – e poi ridendo si rivolse al suo passeggero – e io lo so bene visto che devo viaggiare con un ‘mangiaspaghetti’”. La frase sorprese Paolo. “Ah questa! – esclamò – Farmi dare del mangiaspaghetti da un ‘muso rosso’!”. “Ecco appunto – disse Will tornando subito serio -. Ora hai visto quanto ci voglia poco a dare corpo a questi luoghi comuni, trasformandoli in insulti gratuiti. E può capitare a tutti e dovunque!”. Intanto erano arrivati alla cittadina di Vega. E poi dopo circa 15 miglia, superarono anche un piccolo agglomerato di case chiamato Bushland. “La prossima tappa – disse alla fine Will – è una simpatica cittadina. Viste le dimensioni dello Stato, le città più importanti, compresa la capitale, sono molto lontane ma, dove ci fermeremo noi, ossia ad Amarillo, troverai tutto il Texas più autentico. Anzi forse più autentico. Perché altrove, nelle città più importanti, da un po’ di tempo la popolazione sembra voler apprezzare tutte quelle cose che una volta nemmeno considerava. Ossia l’arte, la musica, la cultura insomma. Eh si, dopo tanto tempo, alla fine, la gente ha cominciato ad apprezzare tutto questo. A Houston c’è il ‘Houston Theater District, dove su 19 isolati, sono distribuiti teatri destinati ad ospitare spettacoli di balletto, opera e concerti. Houston, grazie a due manifestazioni importanti che si tengono ogni anno, è considerata ormai la capitale della musica mondiale dal vivo, per non parlare dei festival cinematografici. Ah, dimenticavo. Poi ci sono la pittura e la scultura. Anzi, per la scultura, ecco davanti a noi un esempio di quella locale moderna”. E così dicendo indicò il lato destro della strada. Paolo all’inizio non vide nulla, solo il verde dei campi che costeggiavano da un po’ le carreggiate. Poi, in lontananza vide degli oggetti, sporgenti dal terreno, paralleli, come delle colonne ma, per la distanza, non si capiva bene di cosa si trattasse. “Aspetta – disse l’indiano – ora mi avvicino e vedrai che lo riconoscerai. Infatti è famoso in tutto il mondo”. Arrivati in prossimità di una stradina sterrata che portava al monumento, Will sostò sul lato della strada e poi scesi, si incamminarono per i pochi metri che mancavano. Al suolo, erano state ‘piantate’ dieci Cadillac , parallele, con una inclinazione di 45°. Erano solo carcasse ormai, piuttosto malmesse e coperte di graffiti di tutti i colori. Alcune con il tetto sfondato o addirittura senza, i pneumatici ormai rovinati ed in parte mancanti e completamente svuotate. Malgrado ciò, erano effettivamente piuttosto famose. A terra, attorno ai ruderi delle automobili, c’erano molte bombolette di vernice di vari colori. “Questo è il ‘Cadillac Ranch’ – disse Will – E’ un’opera rappresentativa del movimento dell’ Ant Farm, ossia un’architettura d’avanguardia che iniziò a diffondersi nei primi anni 70. Questa opera, in particolare, è stata realizzata da Stanley Marsh nel 1974”.”Peccato però che la gente l’abbia ridotta in questo stato. Avrebbero potuto conservarle meglio – obiettò il ragazzo. “Al contrario – rispose l’altro – Il proposito dell’artista era che tutti in qualche modo lasciassero un segno, qualcosa che facesse il progetto anche loro. Che ognuno partecipasse, insomma. Sia con un graffito, un buco, in qualsiasi modo. La partecipazione è anzi incoraggiata, anche con  queste bombolette a terra. Sono a disposizione dei visitatori”. E parlando raccolse una bomboletta di vernice rossa e, dopo averla agitata, spruzzò una delle auto, lasciando un segno simile ad una saetta. “Vuoi provare?” – disse Will porgendo la bomboletta all’altro. “No grazie, vedo che la gente ha partecipato anche troppo”. In realtà non era molto convinto dello spirito dell’opera. Avendo visto che una carcassa era stata data alle fiamme, si chiedeva se anche quella potesse considerarsi una attiva partecipazione all’opera d’arte. Risalirono in macchina e Will disse al ragazzo che ora era finalmente venuto il momento di mangiare e qui, ad Amarillo, c’era un posto speciale dove non si poteva non fermarsi. Iniziarono a traversare la cittadina mantenendosi però sulla i40 e quindi Paolo non potè vedere molto della parte antica del posto. Sul tragitto infatti si vedevano più che altro attività commerciali di ogni genere, motels e solo di quando in quando qualche moderno condominio. Poi Will lasciò la strada per entrare nel parcheggio del famoso ‘Big Texas Steack Ranch’, un locale molto noto per la qualità della carne che veniva servita seguendo la tradizione più assoluta e per le varie manifestazioni che vi si svolgevano. Si presentava come un grosso e largo  edificio rivestito in legno di colore giallo. Nel parcheggio c’era una grande statua di un vitello della razza Hereford, famosissima anche per le varie pellicole in cui si parlava di cow boys e mandrie. In realtà la razza da carne per eccellenza del Texas era la Longhorn, appunto dal nome, col le lunghe corna. Il punto era che la Hereford si era dimostrata alla fine  più robusta e resistente delle altre. L’alta figura di un cow boy posta sul tetto, invitava tutti ad entrare. “Ora si che potrai dire di aver mangiato un’autentica bistecca – disse l’indiano al ragazzo e questi, piuttosto affamato lo seguì immediatamente all’interno del locale. Si trovò in un piccolo atrio, che aveva nel mezzo una bacheca, ben chiusa, all’interno della quale era ospitato un notevole esemplare di serpente a sonagli, vivo e vegeto e naturalmente delle slot machine a tema western. Da lì si accedeva alla sala che era considerata dagli intenditori, un po’ il ‘sancta sanctorum’ della bistecca. All’interno, un po’ in penombra, erano disposti su file ordinate, diversi tavoli, circondati da comode sedie, tutto naturalmente in stile country. Una balconata che girava tutto intorno alla sala, dove potevano mangiare coloro che volevano vedere il locale dall’alto, rappresentava il piano superiore. Sui tavoli, le tovaglie in plastica ricordavano il mantello pezzato dei bovini. Su un lato della sala, all’interno di un largo chiosco, erano poste le griglie, davanti alle quali degli addetti cuocevano senza sosta i vari tagli di carne scelti dai numerosi commensali che affollavano il locale. Fra i tavoli, agilissime, si muovevano delle ragazze in abiti stile tex-mex, portando con maestria dei grossi e pesanti vassoi rotondi sui quali erano posate le varie vivande da servire ai clienti.  Si vedevano più che altro famiglie con bambini ma anche gruppi di uomini o donne venuti a gustare dei buoni piatti, in piacevole compagnia. Davanti al chiosco, in alto, erano disposti dei grossi segnatempo con cifre luminose. Will guidò il ragazzo ad un tavolo libero, in mezzo alla sala e subito una ragazza, passando,  lasciò sul loro tavolo un paio di menù. Paolo osservò il suo con attenzione sapendo che l’indiano, di certo, sapeva già cosa scegliere. Venivano naturalmente offerte varie portate di carne alla griglia o semplicemente arrosto, più che altro pollo e manzo, ma anche diversi altri piatti. Zuppe, insalate, pesce, stufato, fritti, il tutto secondo le ricette più tradizionali del territorio. Interessante era la parte dedicata ai bambini con vivande adattate  per loro. Era notevole anche l’offerta dei dolci con torte di ogni genere e, almeno all’apparenza, molto appetitose. Per quanto riguardava le bevande c’era naturalmente una vasta offerta di vari tipi di birra ma anche, per chi avesse avuto pretese particolari, una ampia gamma di vini, anche di buon livello. Will chiese a Paolo se si fidava di lui, e , ricevuta una risposta positiva, ordinò alla prima ragazza che si era presentata, una bella bistecca alla griglia con tutti i contorni previsti e poi, naturalmente, birra. Disse poi al ragazzo che per l’occasione avrebbero pagato a metà. Paolo, solo per vedere la faccia dell’indiano fu tentato di ordinare una bottiglia di vino Cabernet Sauvignon da 55 dollari la bottiglia. La ragazza tornò poco dopo con il proverbiale enorme vassoio, pieno di tantissimi piatti, piattini, tazze e boccali di birra e cominciò a ‘scaricare’ tutto sul loro tavolo. “Ma che hai ordinato – chiese il ragazzo al suo compagno – Qui c’è da mangiare per quattro persone. Solo la bistecca sarà più di mezzo chilo!”.”Qui siamo nel Texas – rispose l’altro – dove tutto è gigantesco. Se questa bistecca ti sembra grande, vedrai cosa succederà fra poco, visto che qualcuno si cimenterà di certo con la ‘Challenge Steak’”. Paolo scoprì che si trattava di una tradizione del locale per cui veniva offerta una bistecca da 72 once, ossia due chili, che doveva essere mangiata nel tempo massimo di un’ora. Superando la prova, la consumazione sarebbe stata gratuita e si sarebbe entrati in una elite di persone particolari, le cui foto erano attaccate in ordine sulla parete. E ce n’erano parecchie! Il cibo era veramente buono. La carne, tenera e succulenta, arricchita dai gusti delle varie salse. Le patate arrosto, le cipolle fritte erano perfette. L’insalata rinfrescava la bocca e consentiva di andare avanti nel pasto. La birra fresca era buonissima. Poi, all’improvviso, un cameriere, come un imbonitore, presentò dei candidati per la scommessa della Challenge Steak. Il primo era un uomo di mezza età, piuttosto corpulento che dava l’idea di essere una buona forchetta. Gli altri, o meglio le altre, erano una coppia di ragazze dall’aspetto normalissimo ma che sembravano sorprendentemente determinate. Per la sfida, proprio davanti al chiosco delle griglie, c’erano dei tavoli posti su delle pedane rialzate. Quando i concorrenti presero posto, furono serviti loro dei grossi piatti che contenevano naturalmente la bistecca, davvero impressionante per le sue dimensioni e poi tutta la serie di contorni. Ad un segnale preciso, vennero fatti partire gli orologi segnatempo, settati su 60 minuti, ognuno abbinato ad un commensale. Fra la curiosità e gli incitamenti degli altri commensali, i tre iniziarono il loro percorso, sia pure con tecniche diverse. L’uomo procedeva con piccoli bocconi, gustandosi la carne. Le ragazze, invece procedevano a grossi bocconi, dando l’idea di inghiottire direttamente la carne senza nemmeno masticarla. Paolo preferì continuare a gustare il suo pranzo in pace perché ne valeva veramente la pena. Era a metà della sua bistecca, quando un boato salutò la fine della prova di una delle due ragazze. Ce l’aveva fatta in dodici minuti! E l’altra era sulla buona strada. L’uomo invece era appena ad un quarto del suo tragitto e già sembrava in difficoltà. Will gli disse che il record era di meno di tre minuti ed apparteneva anche lui ad una  ragazza. Poco dopo anche l’altra, fra gli applausi del pubblico, terminò la sua prova.  Alla fine del pasto Will e Paolo, soddisfatti e sazi, terminarono con una tazza di caffè nero ed un bicchiere di Karl Rogers, un cocktail a base di whiskey aromatizzato alla ciliegia, veramente gradevole. Quando Paolo disse di apprezzare molto quella bevanda a titolo di digestivo,l’indiano gli fece osservare che era solo di recente che nel Texas si potevano consumare alcolici e soprattutto in pubblico. Infatti, malgrado quello che si pensa, ossia che il proibizionismo sia ormai cessato nel lontano 1933, in alcuni Stati, ancora vigono delle severe norme o comunque delle restrizioni. Con addirittura dei paradossi, come ad esempio, quello per cui  in Tennesse, nella More County, dove sorge la sede della famosissima fabbrica di Whiskey Jack Daniels, è tuttora severamente proibito il consumo di alcolici. Usciti, dal locale, si diressero verso la loro auto ma videro che, davanti al loro mezzo, era parcheggiata, di traverso, una decappottabile con dentro tre ragazzotti che ascoltavano musica country a tutto volume. Uno, era seduto alla guida e gli altri due erano dietro. Apparivano tutti e tre piuttosto robusti e si scambiavano continuamente stupide battute per le quali però ridevano a crepapelle. Apparentemente non sembravano completamente lucidi. Quando Will chiese loro cortesemente se si potevano spostare, il ragazzo alla guida, un biondo con i capelli cortissimi gli fece segno che non capiva per l’alto volume della musica. L’indiano rifece la sua richiesta a voce più alta e quando il giovanotto ripetè i suoi gesti, si chinò in avanti e rapidissimo, spense la radio. Gli occupanti dell’auto rimasero per un attimo interdetti, come se non si fossero aspettati il gesto dell’altro. Poi il ragazzo alla guida fece il gesto di aprire lo sportello e l’indiano lo trattenne invitandolo a non scendere e a spostare l’auto. A questo punto tutti e tre si alzarono in piedi e saltarono giù dalla macchina con fare minaccioso. “Ma guarda un po’ se adesso uno sporco indiano si può permettere di dare ordini a tre oneste persone come noi – disse uno di quelli che all’inizio stava seduto dietro, apparentemente il capo del gruppetto – Adesso noi ti faremo vedere come trattiamo quelli come te – e tacitamente fece segno agli altri due di disporsi nel modo più opportuno per attaccare il loro avversario. Will, apparentemente tranquillo, li stava studiando con molta attenzione, valutando il modo di affrontare la cosa. In realtà non era la prima volta che gli capitava una situazione del genere e sapeva che, se avesse colpito per primo la persona giusta del gruppetto, magari gli altri avrebbero perso la voglia di continuare. Per un attimo il tempo sembrò fermarsi e poi, all’improvviso, : “Veramente, ci sarei anche io – disse tranquillamente Paolo che si era materializzato alle spalle del gruppetto, sorprendendo tutti , Will compreso.  Quello che sembrava il capo, lo degnò appena di un’occhiata e valutandolo inoffensivo, gli disse: “Sta tranquillo che a te pensiamo dopo –  e distolto lo sguardo, ripetè ai suoi compagni – andiamo, sistemiamo questo bastardo!”. Però non fece a tempo a muoversi che uno sgambetto lo fece finire a terra rovinosamente. “Scusa – gli disse con aria ingenua Paolo che si era velocemente spostato al suo fianco – non l’ho fatto apposta”. Inferocito il ragazzo si rialzò da terra e guardandolo con odio, gli disse : “Adesso ti faccio veramente male – e gli si scagliò contro mentre gli altri due amici erano rimasti a guardare, incerti sul modo di intervenire. Paolo si limitò a scansarsi all’ultimo momento e con un altro sgambetto fece finire l’aggressore di nuovo a terra. Il tutto sotto lo sguardo quasi divertito di Will che si era reso conto, con sorpresa, di avere un valido alleato. Il giornalista disse seriamente al ragazzo che si stava rialzando di piantarla perché stava rischiando di farsi  male. Ma quello ormai, fuori di testa, di nuovo gli si gettò contro, senza accorgersi che l’altro si era spostato accanto ad un palo. Anche stavolta Paolo riuscì ad evitare l’assalto ma il solito sgambetto che fece a quell’altro, lo mandò a sbattere con la testa sul palo e questa volta il ragazzo non si rialzò. A questo punto, gli altri due si lanciarono addosso al giornalista che si era messo in posizione di difesa ma Will decise di intervenire prendendo uno dei due per un braccio, facendolo ruotare bruscamente su se’ stesso e mollandogli un terribile manrovescio che lo fece crollare in ginocchio coprendosi il viso con le mani. Quello che si era lanciato contro Paolo, a quel punto si era reso conto di essere rimasto solo e, cercando di cavarsela con pochi danni, disse che lui non c’entrava e che due contro uno non era leale, dimenticando forse, che fino a pochi minuti prima, erano loro in tre contro uno. Paolo a quel punto, gli disse di recuperare il suo amico a terra e di levarsi di mezzo. Will fece alzare bruscamente il ragazzo in ginocchio, che perdeva sangue da naso, e lo costrinse ad aiutare l’altro a caricare in macchina quello ancora svenuto, e poi, facendolo mettere alla guida, gli intimò di spostarsi, cosa che l’altro eseguì immediatamente. A quel punto Paolo e la sua guida, rimontati sul loro pickup, semplicemente uscirono da parcheggio e ripresero il loro tragitto. Passarono alcuni minuti prima che riprendessero a parlare. Anche se lo scontro era finito bene, per loro era comunque stato un fatto inaspettato. Fu Will il primo a ritrovare la parola. “Devo ammettere che mi hai sorpreso. Primo per il sangue freddo, e poi per come ti sei difeso. Cos’era quella roba? Noi indiani abbiamo una cosa simile che chiamiamo na’ahinitaha”.”Per prima cosa, non pensavi mica che con il mio lavoro non avessi preso qualche precauzione su come difendermi, anche se in un conflitto a fuoco, non ci fai un granchè ma in situazioni normali, di solito la  conoscenza di queste pratiche ti dà quel falso senso di sicurezza che ti consente di affrontare i pericoli a cuore più leggero. Da incoscienti, spesso. Inoltre non ero tranquillo per niente. Quel tizio era pericoloso e poteva anche essere armato, anche se solo d un coltello. E poi, diciamola tutta, ero tranquillo perché sapevo che c’eri tu, che da quel che ho capito non sei davvero un novellino”.”Effettivamente mi aspettavo di dover affrontare la situazione da solo e speravo di non prendere troppi colpi. Per fortuna che è andata diversamente”. “La tecnica che ho usato deriva da un’arte marziale che si chiama aikido. Ne conosco altre ma questa mi piace perché è la più affine al mio carattere. Non si danno colpi, se se ne può fare a meno ed è lo stesso avversario che più violentemente attacca e più efficacemente viene respinto”. “Insomma un attaccante più è stupido e brutale, come quello di poco fa, e più si fa male. Geniale. Fra la nostra gente ci sono delle tecniche in merito che vanno sotto il nome di naageeh”. “Avremo dei guai, ci sarà un seguito?”.”No non credo. Credo che fossero solo dei ragazzotti ubriachi che stavano decidendo come organizzare la serata e noi siamo semplicemente piombati sulla scena in un momento sbagliato”.”Meglio così, allora”. E, chiuso il discorso, continuarono nel loro viaggio. Ma presto il ragazzo si rese conto che non stavano procedendo verso ovest sulla i40, bensì sulla i27 verso sud. Will, interrogato in merito, spiegò che stavano facendo solo una lieve deviazione perché c’era un posto che meritava una visita e nel quale avrebbero passato la notte. Paolo, conoscendo il suo compagno immaginò subito un altro bel luogo deserto, selvaggio, magari. Però c’era da dire che la sua guida, fino a quel momento, non aveva mai commesso errori. Durante il percorso sulla i27, il paesaggio circostante aveva iniziato a mutare, trasformandosi da piatto e uniforme in una zona di colline più o meno alte coperte di vegetazione selvatica, quale alberi di ginepro, cespugli di mirtillo, cactus. Sorpassarono un cartello su cui era scritto “State Park – Palo Duro Canyon” e proseguirono su una strada un po’ più stretta della precedente ma comunque ben tenuta. “Un altro parco nazionale? – chiese Paolo. “Si, ma questo è particolare e vale la pena di visitarlo. Poi mi dirai tu stesso se avevo ragione, d’altronde è solo il secondo che vedi. In America di parchi ce ne sono 95. Ma se quello che penso è giusto, dovrebbe essere l’ultimo o al massimo il penultimo”.”Se ti chiedo cosa significano le ultime parole, sono sicuro che non mi rispondi, vero?”.”No, non è vero. Semplicemente ti rispondo di nuovo che il viaggio che si snoda  certamente su un tragitto di massima, cambia a seconda delle situazioni”. E detto questo non disse più nulla. Paolo, da parte sua, aveva capito che non aveva senso insistere. Passarono davanti ad aree attrezzate per la sosta di caravan e roulotte. Ma la strada, che aveva cominciato a salire,  proseguiva in mezzo ad alture che non consentivano di vedere praticamente nulla. E poi, all’improvviso, dopo circa 3 miglia, e un ultimo tratto di salita molto ripida, si aprì alla vista un panorama incredibile. Mentre il tragitto iniziava a discendere in tornanti molto stretti ed impegnativi, era apparso in tutta la sua magnificenza il Canyon conosciuto son il nome di Palo Duro Canyon. Si  vedevano le alture che lo fiancheggiavano con le  caratteristiche pareti  ripidissime, colorate a strati sovrapposti, come se volessero in qualche modo raccontare la loro storia millenaria. Il posto però appariva piuttosto verde e sul fondo del canyon scorreva, a tratti, un corso d’acqua, il Fiume Rosso. Passarono davanti ad un basso edificio di pietra che ospitava un esercizio di ristorazione e souvenir ma non fecero sosta. Will si fermò invece dopo un paio di miglia, davanti ad un edificio simile al precedente, chiamato “El Coronado Lodge”, che ospitava il “Visitor Center”. Dentro, a parte un ufficio molto informale dei guardiani del parco, dove , fra l’altro si pagavano i servizi a disposizione dei visitatori, c’erano delle foto e delle testimonianze che raccontavano un po’ la storia di quel posto. Si parlava della battaglia con la quale l’esercito, alla fine del 1874, agli ordini del colonnello McKanzie, aveva costretto gli indiani ad abbandonare la zona e ad avviarsi alla riserva in Oklahoma. Molte foto riguardavano i gruppi di lavoratori, quasi tutti veterani, che avevano partecipato dal 1932 al 1934 alla costruzione della strada, la Park Road 5, che permetteva di visitare il parco. Alla fine del giro, Will condusse il ragazzo su di una terrazza a fianco del centro, da dove si poteva godere di una buona vista del canyon che, pur essendo più piccolo del Grand Canyon, aveva comunque delle dimensioni di tutto rispetto. Infatti era lungo circa 120 miglia, con una larghezza media di 10 Km ed una profondità massima di 350 metri. Sulla terrazza c’erano montati dei cannocchiali, dai quali altri visitatori stavano osservando lo splendido panorama. Si vedevano distintamente le creste delle alture, le gole profonde, i vari colori delle rocce. Will gli spiegò che anche questo luogo era stato modellato dall’acqua. Il colore rosso derivava dal ferro contenuto nelle rocce che rimanendo all’asciutto aveva dato luogo a fenomeni di ossidazione. Il colore bianco che contrastava era dovuto invece a vasti depositi di gesso che l’acqua non era riuscita a lavare via. A due kilometri di distanza, si vedeva anche a occhio nudo un vasto anfiteatro, chiamato Anfiteatro Pioneer che veniva usato durante l’estate, per manifestazioni musicali di vario genere. Si scorgeva a tratti il riflesso del sole sull’acqua e alcune zone adibite e attrezzate per il pernottamento. Nel parco era possibile spostarsi a piedi ma anche a cavallo, in moto e in bici. Risaliti in macchina, ripartirono, seguendo ancora la Park Road 5, inoltrandosi sempre di più nel canyon. “Ora arriveremo in un posto particolare. Alzeremo la tenda e passeremo la notte lì. Domattina ti porterò a visitare un posto speciale che ora non possiamo né raggiungere, né apprezzare per via del buio che sta scendendo”. La strada che Will aveva iniziato a percorrere era poco più di un viottolo, dedicato più che altro alle moto ed alle escursioni a cavallo ma l’indiano, dimostrando una notevole  conoscenza del terreno, riuscì  a percorrerlo fino ad una  piazzola naturale, sul fianco di una ripida altura. La zona era circondata da cespugli ed alberi di ginepro, presenti in gran quantità in tutto il canyon, tanto da portare gli spagnoli a chiamare appunto quel posto “Palo Duro”, nome con il quale essi chiamavano quel particolare tipo di albero. Il posto era molto riparato, sia dal forte vento, che dagli sguardi di eventuali turisti di passaggio sui vari sentieri. Prima che facesse buio, avevano approntato il campo e Will, dopo la sua solita cerimonia propiziatoria, aveva acceso il fuoco in un apposito spazio che aveva accuratamente circondato con delle pietre. Paolo aveva notato il particolare tramonto. Sembrava che dall’orizzonte si fossero sollevate delle fiammate arancioni, di colore sempre più acceso. Poi, d’improvviso, ci fu una vampata finale per tutto l’orizzonte ed il sole calò. Era sembrata una scena quasi soprannaturale e forse , pensò Paolo, che l’indiano aveva ragione quando gli aveva detto che quello era un posto magico. Will, intanto, mise a fianco del fuoco acceso, due pietre piatte ad arroventare e poi iniziò a preparare in una pentola, uno stufato di fagioli conditi con una scatola di conserva fatta in casa, a suo dire, e molte erbe che aveva raccolto intorno alla zona del campo. Con grande efficienza poi aveva impastato della farina di mais e ne aveva ottenuto delle focacce che aveva messo a cuocere sulle pietre piatte che intanto si erano arroventate. Con le focacce, riempite con i fagioli e la salsa, realizzò una sorta di tacos gustosissimi. Delle mele e delle  arance conclusero il pasto che Paolo trovò comunque molto piacevole. Will, quando alla fine si trovarono attorno al fuoco a sorseggiare l’immancabile bottiglia di birra, raccontò che in quel luogo non era opportuno consumare carne. E spiegò che quelle terre erano state abitate dai suoi antenati per secoli. Buona acqua, buona caccia, piante commestibili. Prima si insediarono gli Apache e poi Comanche e Kiowa e nel 1560 circa, arrivarono le spedizioni dell’uomo bianco che mapparono e rilevarono il territorio con tutte le sue caratteristiche. Nel Canyon, in particolare, c’erano alcune zone che erano ritenute sacre , in quanto dedicate dai nativi allo svolgimento di importanti  riti della loro religione. Paolo ascoltava quei racconti, particolarmente colpito per essere proprio là, dove quelle cose erano realmente accadute e immaginava quasi di vedere le scene che la sua guida, d’altronde abilissimo narratore, gli raccontava. Questi, continuando nel suo racconto, disse che purtroppo, inevitabilmente, alla fine del 1874, dopo situazioni di scaramucce e attriti fra coloni  e indiani, arrivò l’ordine dall’uomo bianco di lasciare quei luoghi per essere confinati nelle riserve dell’ Oklahoma. Naturalmente i locali rifiutarono e tutte le tribù, sotto il comando del capo Lupo Solitario, raccolte armi, munizioni ma soprattutto cibo sufficiente per affrontare l’inverno, si rifugiarono in un villaggio nascosto nel cuore del canyon con il proposito di resistere e combattere più a lungo possibile. Il governo degli Stati Uniti si rese subito conto della determinazione, della forza e dell’indubbio vantaggio degli indiani che combattevano inoltre a casa loro. Fu proprio per questo che il comando delle truppe che avrebbero dovuto affrontare gli indiani fu affidato ad un alto ufficiale ossia il colonnello Ronald McCanzie, un ufficiale molto duro e inflessibile, tanto che dai suoi stessi soldati era soprannominato Bad Hand o Perpetual Punisher. Si era già fatto notare durante la guerra civile americana per aver assunto il comando delle prime compagnie regolari composte da afroamericani, al comando delle quali aveva riportato dei risultati incredibili. Questi arrivò nel canyon con un alto numero di soldati ma ciò non gli sarebbe servito a molto se non avesse studiato e applicato una valida strategia. E poi, la fortuna o la sfortuna a seconda dei punti di vista. Un gruppo di Comanche decise di mettere in atto una infelice iniziativa contro un reparto dell’esercito che sembrava particolarmente indifeso. Ma le cose non andarono per il verso giusto e quando gli indiani, visto che le cose per loro volgevano al peggio, decisero di sganciarsi dalla battaglia e ripiegare sulle loro posizioni, le guide Apache dell’esercito riuscirono a seguirli e a scoprire così il villaggio segreto dei ribelli. Il colonnello, informato, mise insieme una notevole forza di attacco e riuscì a fa far venire allo scoperto il grosso degli indiani sfidandoli in campo aperto. Intanto però, un nutrito gruppo di soldati, raggiunse il villaggio segreto, distruggendo tutto, capanne, riserve di cibo, attrezzi. Così, quando gli indiani, battuti in campo aperto si ritirarono, scoprirono di non aver più riserve per l’inverno. Intanto il colonnello McCanzie fece catturare quasi tutti i cavalli degli indiani, più di 1500 capi e li fece abbattere. Quasi tutti gli indiani accettarono, non avendo scelta, di andare nelle riserve di Fort Sill, in Oklahoma. Lupo Solitario e il suo gruppo di fedelissimi Kiowas, resistettero per tutto l’inverno ma poi, alla fine a metà dell’anno successivo, si dovettero arrendere anche loro, consapevoli che continuando a combattere sarebbero morti invano. “E così finisce la storia dei soliti poveri indiani – concluse il racconto Will, bevendo anche l’ultimo sorso della sua birra – Qui alcuni luoghi sono sacri per noi nativi e domani, come  ti ho detto, ti porterò in uno di questi posti magici e tu mi saprai dire, poi, se non avrai percepito qualcosa di particolare”.”D’accordo – rispose Paolo tornando alla realtà dopo aver quasi sognato tutta la vicenda che gli era stata appena raccontata – Ma credo che tu ed i tuoi amici sul mio conto vi sbagliate di grosso. Devo ammettere comunque che a questo punto sono curioso anche io. Lo ritengo comunque un atto di riparazione da parte di un viso pallido nei confronti degli indiani perseguitati d’America. E guarda che sono convinto di ciò che ho detto”. Will gli augurò la buona notte , mentre il ragazzo si ritirava a dormire nella tenda, lui rimase a rimettere a posto il campo e poi si mise a sua volta a dormire, sdraiandosi accanto al fuoco.  Stavolta Paolo, indubbiamente stanco per aver dormito poco e male nei giorni precedenti, prese subito sonno. E all’improvviso, pur tenendo gli occhi chiusi, fu consapevole che davanti a lui c’era qualcosa… poi sentì il fragore delle esplosioni, vide  i lampi delle granate, fu soffocato dal  lezzo della polvere da sparo, della carne bruciata e delle feci, dal calore del sangue sul suo viso e sulle sue mani. Aprì gli occhi e si trovò praticante addosso due figure orripilanti. Una era costituita da una massa di carne maciullata di ciò che era stato un corpo umano, l’altra era ciò che rimaneva della sua collega Nicole Horne, senza un braccio e senza mezza testa. Gli erano ormai addosso e lo stavano ghermendo. Impietrito dall’orrore, non riusciva a muoversi né a proferire alcun suono. Quei due mostri lo sollevarono dal suo sacco a pelo e cominciarono a trascinarlo fuori dalla tenda. Fuori era come se tutto fosse congelato. Le fiamme del fuoco immobili, il suo compagno disteso a dormire, l’aria ferma. Al colmo del terrore si accorse che quelle due cose mostruose lo stavano trascinando verso un a specie di nube rossa, un passaggio, forse un portale. Che significava quella cosa? Ma il terrore che lo aveva attanagliato non gli permetteva di connettere. Sapeva solo che un destino orrendo lo aspettava all’interno di quella nube. Ormai sicuro che per lui fosse finita, rimase sorpreso nel vedere che all’improvviso, fra lui e i suoi aggressori, si era formata una piccola sfera di luce, intensissima, che aumentava continuamente di diametro. Paolo capì subito che quell’intervento era diretto a cacciare le due figure infernali che infatti, riparandosi, lasciarono la presa su di lui ed, emettendo suoni spaventosi ed inarticolati, si rifugiarono all’interno della nube che subito scomparve. Paolo, completamente confuso, era balzato in piedi, consapevole di avere di nuovo il controllo di sè. Rendendosi conto che quella luce lo aveva aiutato, chiese chi fosse. Nella luce prese a materializzarsi lentamente una forma umana. Alla fine il ragazzo riuscì a distinguere distintamente la figura del vecchio indiano che Will aveva indicato con il nome di Sole Splendente. Solo che a vederlo in quel momento non sembrava proprio il vecchio che aveva incontrato sulla piazza di Acoma Pueblo. Emanava da lui una grande forza, un’energia incredibile, il tutto rafforzato da un atteggiamento di grande fermezza. Lo sciamano gli prese le mani come nel loro precedente incontro e Paolo sentì risuonargli nella mente delle parole mentre l’altro lo fissava sereno senza parlare. “Sapevo che avresti avuto bisogno di me e quindi ti ho seguito. Domani fatti condurre all’ “hihichaha” , osserva ciò che accadrà e poi fatti portare da me, ma presto!”. Alla fine del messaggio l’indiano passò lentamente la mano destra davanti agli occhi del ragazzo che andò immediatamente a terra come una bambola di pezza.
 

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Avventura / Vai alla pagina dell'autore: Avion946