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Autore: LyraRainsworth    23/06/2021    6 recensioni
Molti ragazzi ti regaleranno dei fiori. Ma un giorno ne incontrerai uno che imparerà a riconoscere qual è il tuo fiore preferito, la tua canzone preferita, il tuo dolce preferito. E anche se sarà troppo povero per regalarti quelle cose, non avrà importanza perché lui si sarà preso il tempo per conoscerti come nessun altro. Solamente quel ragazzo merita il tuo cuore.
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Sofia sa che sta facendo la cosa giusta. Non ha alcuna intenzione di sentirsi in colpa per aver mollato il lavoro di assistente di Genzo Wakabayashi. Lei ha altri piani per il futuro, ha delle ambizioni, e di certo non comprendono il ruolo di fatina personale di una star del calcio. E allora perché quando Genzo si presenta alla sua porta, chiedendo il suo aiuto, Sofia esita a rifiutare? Per due anni, il SGGK è stato il suo incubo: neanche un buongiorno al mattino, o un sorriso il giorno del suo compleanno. Era talmente concentrato sullo sport che sembrava non accorgersi nemmeno di chi lo circondasse. Cos'è cambiato, allora? Dopo il modo in cui è stata trattata, lei desidera solo dedicarsi alla sua vera passione, il design. La perseveranza di Genzo sarà in grado di farle cambiare idea?
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Genzo Wakabayashi/Benji, Karl Heinz Schneider, Nuovo personaggio, Sanae Nakazawa/Patty Gatsby, Tsubasa Ozora/Holly
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non ami qualcuno per il suo aspetto,
i suoi vestiti, o per la sua auto di lusso,
ma perché canta una canzone che solo tu puoi sentire.
- Oscar Wilde

 
Quando fioriscono gli anemoni
Capitolo Uno: Aconito

Prima o poi l’avrei ammazzato.

Un giorno.

Dopo essermi licenziata, così nessuno avrebbe sospettato di me.

“Genzo”, brontolai, anche se sapevo che non sarebbe servito a niente. Brontolare mi avrebbe solo fatto guadagnare l’Occhiata, quella famigerata espressione altezzosa che in passato era valsa a Genzo più di una rissa. O almeno, così mi avevano detto. Io, quando lo vedevo curvare in giù gli angoli della bocca, stringere le labbra e socchiudere gli occhi scuri, avevo solo voglia di tirargli le orecchie.

L’interessato, sull’orlo di una morte sanguinosa e spettacolare, o di una pianificata con cura, che avrebbe richiesto del detersivo per i piatti, l’accesso al suo cibo e un lungo periodo di tempo, emise un verso da dietro la rivista sportiva che stava leggendo.

“Mi hai sentito” ripeté testardo, come se la prima colta in cui l’aveva detto fossi stata sorda.

Oh, l’avevo sentito. Forte e chiaro. Per questo volevo ucciderlo.

Il che, in pratica, dimostrava le meraviglie della mente umana; si può provare affetto per qualcuno e allo stesso tempo desiderare di fargli cadere un mattone sulla testa.

Probabilmente fu la mancanza di una risposta immediata che lo indusse ad aggiungere, senza cambiare espressione e con gli occhi puntati dritti su di me: “Non importa cosa devi dirgli. Fallo e basta.”

Sospirai e abbassai la mano destra in modo che il mobiletto nascondesse il dito medio puntato verso il portiere.

Come se quell’espressione non fosse già sufficiente di per sé, il suo tono di voce mi irritava ancora di più. Era quello che usava per avvertirmi che era inutile discutere; non avrebbe cambiato idea, né allora né mai, quindi tanto valeva mettermi l’anima in pace.

Dovevo sempre mettermi l’anima in pace.
Quando avevo cominciato a lavorare per il tre volte proclamato portiere dell'anno della Bundesliga, c'erano poche cose che non mi piaceva fare: mercanteggiare, dire di no e discutere con lui. Ma se c'era una cosa che odiavo, e intendo proprio, proprio tanto, era cancellare gli appuntamenti all'ultimo minuto. Mi irritava e andava contro la mia morale. Cioè, una promessa è una promessa, no? Anche se tutto sommato, tecnicamente, non ero io a deludere i tifosi. Era Genzo.

Il maledetto Genzo, occupato a leggere senza una preoccupazione al mondo, non sapeva niente della frustrazione che mi costringeva ad affrontare quando chiamavo il suo agente. Dopo tutta la fatica fatta per organizzare l’evento, dovevo informarlo che Genzo non sarebbe andato ad autografare proprio un bel niente al negozio di articoli sportivi di Speicherstadt . Evviva.

Sospirai, mentre il rimorso mi pungolava lo stomaco e la coscienza, e allungai una mano per sfregarmi il ginocchio irrigidito.

“Gli hai promesso...”

“Non mi importa, Sofia.” Mi lanciò di nuovo quell’occhiata. “Di’ a Max di cancellare tutto,” insistette, passandosi una mano tra i capelli d’ebano. Incrociò il suo sguardo, scuro e testardo, con il mio. “È un problema?” Inarcò un sopracciglio.

Sofia questo. Sofia quello.

Cancella tutto. Di’ a Max di cancellare tutto.

Aaaah!

Non è che adorassi chiamare il suo agente, tanto per cominciare, figuriamoci poi per cancellare un’apparizione due giorni prima della data prevista. Sarebbe uscito fuori dai gangheri e avrebbe sfogato la sua frustrazione su di me, come se avessi avuto un qualche potere su Sua Signoria Genzo Wakabayashi.

In verità, al massimo ero riuscita a consigliargli quale macchina fotografica comprare, e solo perché lui aveva “Cose migliori da fare che ricerche sulle macchine fotografiche” e perché “Ti pago apposta”.

Non aveva tutti i torti. Tra quello che mi pagava lui e gli extra allungati da Kaltz di tanto in tanto, potevo ben stamparmi un sorriso sulla faccia – anche se forzato – e fare quanto richiesto. Ogni tanto, aggiungevo persino una piccola riverenza sarcastica, di cui Genzo fingeva di non accorgersi.

Non credo che si rendesse davvero conto della pazienza che avevo mostrato nei suoi confronti negli ultimi due anni. Un’altra persona di certo l’avrebbe già accoltellato nel sonno. Almeno io, quando elaboravo piani per ucciderlo, di solito consideravo metodi indolore. Di solito.

Da quando si era strappato il tendine d’Achille, l’anno prima, dopo appena un mese dall’inizio del campionato, era cambiato.

Cercavo di non biasimarlo, sul serio. Era dura perdere quasi tre mesi di partite e vedersi addossare la colpa quando la tua squadra non vinceva il campionato. Come se non bastasse, alcuni pensavano che non sarebbe mai tornato quello di prima, dopo sei mesi di stop per la convalescenza e la fisioterapia. Quel genere di infortunio non era uno scherzo.

Ma si parlava di Genzo. Alcuni atleti ci mettevano ancora di più a rimettersi in piedi e certi non ci riuscivano nemmeno. Lui ce l’aveva fatta prima di quanto fosse umanamente possibile. Tuttavia, sorbirmelo sulle stampelle e accompagnarlo avanti e indietro tra la riabilitazione e i vari appuntamenti aveva più volte messo a dura prova la mia pazienza.

C’è un limite ai modi da stronzo brontolone che si riescono a sopportare in un giorno, anche se lo devi fare per contratto. Genzo amava il suo lavoro e immaginavo che avesse paura di non riuscire a giocare mai più, o di non tornare più sui suoi livelli, per quanto non esprimesse mai ad alta voce quei timori.

Era comprensibile. Non riuscivo nemmeno a immaginare come mi sarei sentita se mi fosse successo qualcosa alle mani, impedendomi di disegnare per il resto della mia vita.

In ogni caso, la sua irritabilità aveva raggiunto livelli mai registrati nella storia dell’intero universo. Ed ero cresciuta con tre sorelle maggiori che avevano il ciclo sincronizzato. Grazie a loro, la maggior parte delle cose e delle persone non mi infastidiva.

Conoscevo bene la prepotenza e Genzo non superava mai il limite tra quella e la cattiveria ingiustificata. Solo che a volte era un cretino. Per sua fortuna, avevo una piccola, minuscola, microscopica cotta per lui; altrimenti lo avrei accoltellato anni prima.

A pensarci bene, qualsiasi creatura provvista di occhi e a cui guarda caso piacevano gli uomini si sarebbe presa una sbandata per Genzo Wakabayashi.

 

Quando mi guardò con aria interrogativa da sotto le ciglia nere incurvate, con un lampo negli intensi occhi neri, incastonati in un volto che avevo visto sorridere solo davanti a un pallone da calcio, deglutii, scossi piano la testa e digrignai i denti, osservandolo.

La sua figura alta e muscolosa si distese come quella di un gatto, e in un lampo era in piedi dinnanzi a me. Cercai disperatamente di impedire alle mie guance di prendere fuoco per la sua vicinanza.

“C’è qualche problema?” mi chiese, la sua bocca curvata in un sorrisetto di sfida.

«Assolutamente no, Sua Altezza», dissi, producendomi nell’inchino più ridicolo del mio repertorio e battendo le ciglia, anche se continuavo a mostrargli di nascosto il dito medio. Tipico di Genzo: il minuto prima mi faceva arrossire, quello dopo mi faceva venir voglia di ucciderlo.

«Si rassegneranno», commentò con noncuranza e ignorando il soprannome, poi spinse indietro le spalle dai muscoli infiniti.

Giuro che erano abbastanza ampie da avvolgere comodamente una persona minuta.

«Non è un dramma».

Non era un dramma? Gli sponsor non l’avrebbero pensata così e ancora meno il suo agente, ma in fondo Genzo era abituato ad averla sempre vinta. Nessuno gli diceva mai di no. Lo dicevano a me e io dovevo trovare un modo per sistemare le cose. A differenza di quanto pensava certa gente, il portiere dell’Amburgo non era davvero un idiota né uno con cui era difficile lavorare.

Nonostante le smorfie e i mugugni, non imprecava mai ed era raro che perdesse la pazienza senza un buon motivo. Era esigente: sapeva cosa voleva e come doveva essere ogni dettaglio della sua vita. Era davvero una qualità invidiabile, ma il mio compito era realizzare tali richieste, che fossi d’accordo o meno con le sue decisioni.

“Ancora per poco, però”, ricordai a me stessa. Mi sarei licenziata presto, lo sentivo. Quel pensiero mi rallegrava un po’.

Due mesi prima, il mio conto in banca aveva finalmente raggiunto una cifra che trovavo tranquillizzante, grazie alla pura forza di volontà, a risparmi al centesimo e ai lavoretti che facevo quando non ero impegnata a fare l’assistente di Genzo.

Avevo raggiunto il mio obiettivo: mettere da parte un anno di stipendio. Ce l’avevo. Finalmente. Alleluia, alleluia. Sentivo quasi l’odore della libertà nell’aria.

“Quasi” era la parola chiave. Non avevo ancora trovato il coraggio di dire a Genzo che davo le dimissioni.

«Perché quella faccia?», mi domandò a un tratto. Sbattei le palpebre, colta alla sprovvista. Inarcai le sopracciglia e cercai di fare la finta tonta.

«Che faccia?». Non funzionò.

Genzo socchiuse di pochissimo gli occhi scuri, sfiorandomi inavvertitamente il braccio. «Quella». Mi indicò con un gesto del mento.

Mi strinsi nelle spalle e finsi di non capire di cosa stesse parlando.

«C’è qualcosa che vorresti dire?». Avevo sempre un centinaio di cose da dirgli, ma lo conoscevo troppo bene. Non gli importava sul serio. Non gli interessava se avevo un’opinione diversa, né se pensavo che avrebbe dovuto comportarsi in un’altra maniera. Mi stava solo ricordando chi era il capo. Ovvero, non io. Stronzo.

«Io?». Sbattei le palpebre. «No».

Mi rivolse uno sguardo pigro, poi la sua attenzione si concentrò sulla mano che tenevo nascosta dietro l’isola della cucina. «Allora piantala di farmi il dito. Non cambierò idea sugli autografi», disse con una nonchalance ingannevole.

Strinsi le labbra e abbassai la mano. Maledetto stregone. Era un cavolo di stregone, mi ci sarei giocata la pelle. Un mago. Un veggente. Aveva un terzo occhio. Ogni singola volta che lo mandavo a quel paese a gesti, se ne accorgeva. E non pensavo di essere così trasparente. Non insultavo la gente per divertimento, però mi dava davvero fastidio che cancellasse un’apparizione pubblica senza un motivo legittimo. E tirarsi indietro perché aveva cambiato idea e non voleva saltare un pomeriggio di allenamenti non lo era, secondo me. Ma io che potevo saperne?

«Va bene», mugugnai sottovoce. Genzo per una frazione di secondo fece una smorfia. Quelle folte sopracciglia scure si aggrottarono e la bocca si corrugò agli angoli. Poi fece spallucce, come se d’un tratto non gli importasse più quel che stavo facendo.

La cosa buffa era che se qualcuno mi avesse detto cinque anni prima che sarei finita a fare il lavoro sporco per qualcun altro, avrei riso.

Non ricordo di essere mai stata a corto di obiettivi o di piani per il futuro. Avevo sempre sentito il bisogno di uno scopo e lavorare per me stessa era uno di quelli per cui lottavo da sempre.

Sin da quando avevo sedici anni ed ero al primo lavoretto estivo, e al cinema mi urlavano addosso perché non avevo messo abbastanza ghiaccio in una bibita, avevo capito che un giorno avrei voluto lavorare in proprio. Non mi piaceva prendere ordini. Non mi era mai piaciuto. Ero testarda e cocciuta, o almeno era questa la componente principale e peggiore del mio carattere secondo il mio padre affidatario. Non miravo alla gloria né a diventare miliardaria. Non volevo essere una celebrità, nemmeno per sogno. Volevo solo una piccola attività in proprio come graphic designer, in modo da poter pagare le bollette, comprare da mangiare e mettere qualcosina da parte per tutto il resto. Non volevo dovermi affidare alla carità o al capriccio di qualcun altro. Mi era toccato farlo per troppo tempo. Scossi la testa, cercando di ricacciare in un angolo buio del mio cuore i ricordi che minacciavano di riaffiorare.

Avevo quasi sempre saputo cosa volevo fare della mia vita, quindi, ingenuamente, credevo di essere già a metà dell’opera. Non mi aspettavo che realizzare il progetto fosse così difficile. Quello che nessuno ti dice mai è che la strada verso il raggiungimento dei tuoi obiettivi non è una linea retta, assomiglia più a un labirinto. Ti fermi, riparti, torni indietro e ogni tanto svolti dalla parte sbagliata, ma la cosa importante da ricordare è che c’è un’uscita. Da qualche parte. Non puoi smettere di cercarla, nemmeno quando vorresti davvero fermarti. E soprattutto non puoi farlo quando sarebbe più facile e meno spaventoso seguire la corrente piuttosto che partire da sola e costruire la propria strada.

Genzo si allontanò da me, riprendendo la sua lettura. Aveva già accantonato la nostra conversazione e l’incidente del dito medio. Non mi sentivo affatto in colpa per essere stata sgamata.

La prima volta mi ero sentita morire per l’imbarazzo e pensavo che mi avrebbe licenziata, ma ormai lo conoscevo: non gli importava; o almeno avevo quell’impressione, visto che non avevo ancora perso il lavoro.

Avevo visto persone affrontarlo a muso duro e cercare di provocarlo, chiamandolo con epiteti e insulti di ogni tipo che avevano fatto inorridire me. E lui che faceva? Non batteva ciglio; fingeva di non sentire. Devo essere sincera, tanta spina dorsale era impressionante. Io perdevo le staffe se qualcuno mi suonava il clacson mentre guidavo.

Anche se Genzo era ammirevole, anche se il suo fisico perfetto faceva girare qualsiasi donna e anche se alla maggior parte delle persone sarei sembrata stupida se avessi abbandonato un lavoro del genere, con un capo che era protagonista della pubblicità di un marchio di abbigliamento sportivo, volevo comunque andarmene. Questo impulso diventava di giorno in giorno più forte.

Mi ero fatta il culo. Nessuno aveva faticato al posto mio. Era ciò che volevo, che avevo sempre voluto. Avevo tenuto gli occhi fissi sull’obiettivo per anni, in attesa della possibilità di diventare padrona di me stessa. Non volevo più chiamare degli stronzi che si comportavano come se fossi una scocciatura o passare le notti a rivedere programmi di allenamento.

“Diglielo, diglielo, digli subito che vuoi andartene”, mi spronava il mio cervello, quasi disperato. Ma c’era sempre quella vocina inopportuna, carica di indecisione e insicurezza, a cui piaceva aggirarsi nello spazio destinato alla mia spina dorsale inesistente, e quella vocina mi ricordava: “Che fretta c’è?”.

 

Negli due anni in cui avevo lavorato per lui, Genzo aveva sempre mantenuto la sua distanza.

Avevo appreso tutto il possibile su di lui, considerando che ottenere informazioni personali da Genzo era come estrargli un dente. Avrei potuto dirvi quanti anni aveva, quanti soldi ci fossero sul suo conto in banca, quali spezie non gli piacevano. Sapevo quali erano i suoi cibi preferiti, che taglia di scarpe portava, quali colori si rifiutava di indossare.

Ma erano tutte cose che avrebbe potuto scoprire uno stalker o un bravo osservatore. Si teneva stretto ogni particolare della sua vita con tutte e due quelle sue mani grandi come piatti. Avevo la sensazione che se avessi cercato di estorcergli i dettagli che non conoscevo, ne avrei avuto per il resto della mia vita.

Una volta capito che non si sarebbe trasformato nell’Incredibile Hulk se gli facevo qualche domanda, avevo cercato di mostrarmi amichevole, ma invano negli ultimi due anni non aveva mai restituito il sorriso, mai risposto ai miei “Come stai?” e, a parte la famigerata occhiata che mi faceva rizzare una criniera immaginaria, c’era stato quel tono, quasi strafottente, che assumeva ogni tanto e che avrebbe meritato una scarica di calci in culo… da parte di qualcuno molto più grosso di me.

 

Ogni giorno i ruoli di capo e dipendente diventavano più definiti. Gli ero affezionata quanto potevo esserlo a qualcuno che vedevo almeno cinque giorni a settimana, di cui in pratica mi prendevo cura per guadagnarmi da vivere, ma che mi trattava come l’amica di una sorella minore fastidiosa che avrebbe preferito non avere.

Per due anni non avevo avuto problemi a svolgere compiti di cui non ero proprio entusiasta, ma aggiornare le sue pagine social, rispondere alle e-mail e tutto quanto concerneva i suoi tifosi erano gli aspetti che preferivo del posto di assistente. E in parte era per questo che continuavo a convincermi a rimandare le dimissioni. Perché controllavo il suo account su Facebook o Twitter e vedevo qualcosa postato da un ammiratore che mi faceva ridere.

Nel corso degli anni avevo imparato a conoscerne alcuni, interagendo con loro online, ed era facile ricordarsi che lavorare con Genzo non era poi così male. Non era il lavoro peggiore del mondo – proprio per niente. Avevo uno stipendio più che onesto, orari piuttosto buoni… e, per citare quasi ogni altra donna che avesse scoperto per chi lavoravo, “il capo più sexy del pianeta”. Quindi, che potevo farci. Se ero costretta a obbedire a qualcuno, tanto valeva che fosse un uomo il cui corpo e il cui viso facevano invidia ai modelli che usavo per realizzare le copertine dei libri altrui. Tuttavia, ci sono cose nella vita che non puoi fare senza uscire dalla tua bolla di sicurezza personale e prenderti qualche rischio, e una di queste è lavorare in proprio. Perciò non mi ero decisa a dire a Genzo: “Sayonara, Sua Altezza” nelle ottanta diverse occasioni in cui il mio cervello mi aveva suggerito di farlo. Ero inquieta.

Lasciare un lavoro ben pagato – stabile, almeno finché Genzo continuava la sua carriera – faceva paura; ma quella scusa diventava sempre più trita e ritrita. Non eravamo amici del cuore e tantomeno confidenti. Pensandoci, però, perché mai avremmo dovuto? Quell’uomo cercava la compagnia di non più di tre persone, forse, quando riusciva a strapparsi agli allenamenti e alle partite. Vacanze? Non ne faceva mai. Penso che non sapesse nemmeno cosa fossero. In casa sua non c’era una sola foto di parenti o amici. Tutta la sua vita ruotava attorno al football. Era il centro del suo universo. Davvero, nei grandi piani della vita di Aiden Graves io non ero nessuno. In un certo senso ci sopportavamo a vicenda. Palesemente. A lui serviva un’assistente e a me serviva un lavoro. Mi diceva cosa fare e io obbedivo, che fossi d’accordo o no. Ogni tanto, cercavo invano di fargli cambiare idea, ma in fondo non dimenticavo mai che per lui la mia opinione non aveva la minima importanza. Potevi cercare di diventare amica di qualcuno che continuava a respingerti con la sua indifferenza solo fino a un certo punto, poi ti arrendevi. Era un posto di lavoro, niente di più e niente di meno. Per questo avevo sudato sette camicie per arrivare all’indipendenza, così da potermi relazionare con persone che apprezzavano i miei sforzi. Eppure eccomi lì, a fare cose che mi facevano impazzire e rimandare i miei sogni per un altro giorno, e un altro, e un altro ancora… Che cazzo stavo facendo?

«Fotti solo te stessa», mi aveva detto Diana l’ultima volta che ci eravamo sentite. Mi aveva chiesto se avessi finalmente detto a Genzo che me ne andavo e io avevo risposto la verità: no. Dopo quel suo commento avevo provato una fitta di rimorso. Era vero che facevo del male solo a me stessa. Sapevo che dovevo parlare con Genzo. Nessuno l’avrebbe fatto al posto mio; ne ero consapevole. Ma… Okay, non c’era nessun “ma”. E se lavorando per conto mio avessi fatto fiasco? Seduta a guardare Genzo che mangiava, mi ricordai che avevo pianificato e costruito la mia attività in maniera tale che non accadesse. Sapevo quel che facevo. Avevo messo da parte i soldi. Ero brava e amavo il mio lavoro. Ce l’avrei fatta. Ce l’avrei fatta. Cosa stavo aspettando? Prima di allora, tutte le volte che avevo pensato di parlarne a Genzo semplicemente non sembrava il momento giusto. Aveva appena avuto il permesso di ricominciare ad allenarsi dopo il suo infortunio e non me la sentivo di accollargli un altro peso. Avevo l’impressione di abbandonarlo quando si era a malapena rimesso in piedi. Poi eravamo subito partiti per il Colorado, così che potesse allenarsi in santa pace. In un’altra occasione, era venerdì. O lui aveva avuto una brutta giornata. O… qualsiasi altra cosa. C’era sempre un motivo. Sempre.

Non restavo perché mi ero innamorata di lui o roba del genere. Forse, subito dopo essere diventata la sua assistente, avevo sviluppato una cotta gigantesca, ma il suo atteggiamento distaccato non aveva mai permesso al mio cuore di entusiasmarsi più di tanto. Non avevo mai potuto sperare che Genzo all’improvviso mi guardasse e pensasse che ero la persona più meravigliosa della sua vita. Non avevo avuto tempo per quelle sciocchezze irrealistiche. Mi ero data l’obiettivo di fare ciò che dovevo e forse quello di strappare un sorriso all’uomo che non sorrideva mai. Avevo avuto successo in un campo solo. Negli anni, l’attrazione si era affievolita, al punto che alla fine l’unica cosa di cui ero infatuata – correzione: che apprezzavo, in maniera del tutto sana e normale – era la sua etica lavorativa.

E il suo viso.

E il suo corpo.

Ma il mondo era pieno di ragazzi con un viso e un corpo da sballo.

Deglutii e strinsi i pugni. “Fallo”, disse il mio cervello. Al massimo, che poteva succedere? Se avessi finito i clienti avrei sempre potuto cercare un altro lavoro.

Non l’avrei mai scoperto se non ci provavo. La vita era un rischio. Questo era ciò che avevo sempre voluto.

Quindi, presi un profondo respiro, osservai con attenzione l’uomo che era stato il mio capo per due anni e lo dissi. «Genzo, c’è una cosa di cui devo parlarti».

Perché, andiamo, che poteva mai fare? Dirmi che non potevo andarmene?


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NOTA DELL'AUTRICE
Grazie infinite a tutte le lettrici che sono arrivate fin qui, per aver sopportato questo mio piccolo sclero; è la prima fanfiction che scrivo quindi spero tantissimo che vi sia piaciuta almeno un po'! 
Una piccola nota sui capitoli: ognuno avrà come titolo il nome di una pianta, in base a quale sentimento o emozione simboleggia nel linguaggio dei fiori. A fine capitolo, se vi interessa, troverete il significato di ciascun fiore. Quello di questo capitolo, l'aconito, è un fiore velenoso associato all'odio, all'antipatia. Mi è sembrato perfetto per l'inizio del rapporto tra Sofia e Genzo. Vedremo poi come si evolverà!
A presto,
Lyra
   
 
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