Atto Primo: non si è mai tanto naturali come quando si recita una parte.
[O. Wilde]
Forse abbiamo esasperato la situazione,
scagliato un
qualche tipo di colpo.
Sirius non può
credere a quanto vicino sia il pavimento.
Rotola
sul suo stesso stupore per rimettersi seduto, senza realmente tentare di
mascherare alcunché. Non della sua espressione, non
delle sue nudità.
“Mi hai
dato un pugno.”
Doveva
venir fuori come un’esclamazione, ma le immagini sature dei secondi precedenti continuano ad avvilupparsi alla sua lingua, lasciando le
loro scie di colori troppo forti e cambiando le sfumature delle parole.
Remus è una nuvola di
pelle contro l’orizzonte scuro del seminterrato.
“Basta
giochetti. Da ora in poi. Non ti voglio più qui.”
I sensi
di Padfoot si attivano, allarmati
dal pestare sordo dei piedi nudi sul pavimento sporco. Il compagno – il lupo – è un compagno che va via di spalle, adesso,
inghiottito dalla luce promettente che è il fondo del tunnel.
La
bestiola resta a guaire tra gli istinti dell’Animago,
nel lato instabile che emerge sotto gli occhi pietosi della luna piena.
Sirius scrolla via il
cane come una ciocca di capelli fuori posto.
“Vai, certo, va’ pure! Ma non tornare da me quando ti servirà
ancora qualcuno con cui giocare ad Ammazza La Pulce E Scappa!”
Vocalizzata,
la loro caccia mensile rimbalza fra le mura della
Stamberga e torna a colpirlo dritto sul mento, come il ben mirato gancio di Remus.
“Sei ancora nudo, questo lo sai?!”
L’urlo
si perde prima di raggiungere la luce. La persona cui è rivolto non sarebbe lì
per udirlo, in ogni caso.
Sirius sfrega insieme
le gambe lunghe. Il sedere inizia a fargli male per il contatto prolungato col
suolo, ma non riesce a considerare l’idea di rimettersi in piedi.
Sente
l’abbandono soffiargli addosso con la sua polvere urticante e l’esasperazione
folle del giorno che nasce.
Forse abbiamo spezzato il sigillo,
le crepe sono
venute alla luce.
L’aria
si è fatta troppo pesante per il pudding, James
decide.
Il suo
ingrato ruolo di leader gl’impone d’intervenire.
“Duuunque, Pete, amico… ti ho mai
raccontato di quella volta con Brittany Willets e il ripostiglio delle scope?”
Chiunque
abbia respirato la medesima aria di James
Potter per più di mezz’ora ha avuto il
privilegio di ascoltare i resoconti delle sue prodezze – qualsivoglia genere di
prodezze. Peter non si disturba ad alzare la testa
dalla sua colazione.
“Sì, lo hai fatto.”
Una
forchetta tintinna più forte del dovuto contro il piatto.
Le
risponde il battere brusco di un bicchiere sul tavolo.
James lascia guizzare
nervosamente lo sguardo da Sirius a Remus, maledicendo mentalmente l’ingordigia di Peter e il suo ottuso rifiuto per i diversivi.
Non gli
resta che cambiare approccio.
“Giusto. Hey,
Petey, che ne diresti di accompagnarmi al campo da Quidditch per sbirciare gli allenamenti dei Tassorosso? Hanno quel nuovo portiere che nessuno ha ancora
visto in azione, potrebbe essere interessante!”
Peter non ritiene affatto che l’aria sia troppo pesante
per il pudding. Sta profondendo tutti i suoi sforzi affinché il messaggio passi
forte e chiaro.
“Non capisco perché dovresti preoccupartene.
Sei un Cercatore, per di più il migliore della scuola – lo sanno tutti.”
Sirius scaglia di
malo modo il tovagliolo attraverso il tavolo.
Remus lo raccoglie
con uno scatto stizzito.
“Si può sapere dove hai imparato
a stare a tavola in questo modo? Credevo che almeno le
buone maniere fossero un aspetto positivo del
Protocollo Black.”
“Beh, sai com’è, sono pur sempre
la pecora bianca della famiglia. Tu dove hai imparato a fare a pugni in quel
modo, Lupin? Pensavo che l’essere quello che sei
imponesse un controllo più rigido degli impulsi.”
James rabbrividisce nell’uniforme oro e rosso, salvo rammentare il valore di
quei colori e il loro significato. Calcia violentemente Peter
sotto il tavolo, beccando di striscio un intimidito Longbottom.
“Va bene, Peter,
tu ora vieni con me, senza protestare né fare domande stupide che metterebbero
tutti in imbarazzo e rovinerebbero i miei sforzi di fingere che qui non stia
accadendo nulla e sia tutto perfettamente sano e normale e tranquillo, okay? Mi
sono spiegato?”
Pù di metà degli
studenti del quinto anno osserva la scena con vivo interesse, insieme a un discreto numero di allievi più piccoli dagli occhi
sgranati e impauriti.
Peter Pettigrew batte le palpebre per mezzo minuto, il tempo che
gli serve a razionalizzare l’idea di abbandonare la colazione nel piatto. Poi
sceglie di scrollare le spalle con aria saggia, e saggiamente stare al gioco.
Metà dei
Malandrini batte in ritirata, lasciando i restanti due quarti a fare i conti
con la cappa d’iper reazionarietà
che avvolge un estremo del tavolo Grifondoro.
“È mosca bianca o pecora nera, Black. Se non sei in grado
di citare correttamente un modo di dire babbano
faresti meglio ad astenerti dal farlo, considerato anche quanto poco credibile
suoni dalla bocca di uno col tuo cognome.”
Sirius sembra
accusare fisicamente il colpo, arcuando le spalle e incupendo d’un tono o due.
“Perché
non la pianti col dramma del mezzosangue bistrattato e affronti il vero
problema, eh, Rem? Perché non ammetti una volta per tutte cos’è che ti ha fatto scattare in quel
modo, giù alla Stamberga? Che avresti voluto darmi sul
serio, mentre eravamo lì, e non hai avuto la forza di…”
Quella
di Remus Lupin che attacca briga con un altro studente è una visione cui nessun Grifondoro può dirsi lontanamente abituato. Men che meno se la scena avviene in sala da pranzo, di
fronte all’intera scolaresca, e ha per oggetto Sirius
Black, fra tutti.
Il
sussulto di sorpresa è collettivo, mentre lo spazio tra i due contendenti si
riduce al minimo. La cravatta di Black è stretta nel pugno bianco di Lupin, i cui occhi dardeggiano oro.
Mai l’operato degli elfi è stato più indecorosamente trascurato –
deliziose colazioni giacciono pressoché intoccate nei
piatti da portata. Ma è solo un attimo, durante il
quale ogni cosa sembra passare in secondo piano rispetto alla verità dello
scontro.
Remus è il primo a
ritrarsi, apparentemente svuotato di ogni energie.
Nessuno è in grado di notarlo, ma Sirius sa che ha il
corpo intero scosso da fremiti, e gli occhi macchiati di luce frustrata.
“Io non ce la faccio.”
È il
ringhio rotto con cui il primo attore prende congedo dal suo pubblico.
La scena
non ha più modo di continuare, il mantello di Remus
che sparisce in fretta oltre la soglia. Parte dell’audience s’interroga sul modo
migliore di procedere; i più avveduti emulano Sirius
e tornano a concentrarsi sui piatti che hanno innanzi.
Forse abbiamo passato il segno,
dato l’avvio a
tutto.
Nell’aprire
senza invito le cortine del letto, Sirius non è
sorpreso di trovare Remus raggomitolato contro il
muro, bacchetta alla mano per farsi luce. Gli occorre un secondo in più per realizzare che l’altro sta effettivamente giocando con la punta luminescente,
tracciando disegni scomposti nell’aria.
“Paura
del buio?”
Remus gli rivolge un
sorriso che è più una smorfia.
“Sarebbe
stupido per uno come me, no? Ho imparato a controllare
gli impulsi.”
La
bacchetta oscilla aggraziata, portando con sé la piccola lucciola in cima. Sirius ne segue i movimenti fluidi, suo malgrado rapito.
“Il che
si risolve in un colpo di fortuna per te,
visto che il mio primo impulso è quello di Cruciarti
finché non potrai più reggere il dolore.”
È la
minaccia soffiata fuori con acredine a strapparlo dal torpore luminoso.
Sirius sbuffa una
risata smorzata, per poi lasciarsi scivolare sul bordo del letto. Si è prefisso
uno scopo che può essere conseguito solo con la giusta arte e dedizione,
rammenta a se stesso, oltre a una certa dose di
tattica.
Il
fallimento non è contemplato.
“Sai,
penso che Prongs sia andato veramente fuori di testa, là sotto. Prima, cioè.
Sembrava una donnicciola isterica, e – non hai avuto
anche tu l’impressione che stesse picchiando Pete
sotto il tavolo con un grosso randello, o roba del genere? Perché io posso
quasi giurare che stesse picchiando Pete sotto il
tavolo con un grosso randello.”
Remus emette un
curioso suono nasale che Sirius interpreta come il
segnale di passaggio obbligato alla fase due.
“Immagino
che nominare la Stamberga davanti a tutti non sia stata
proprio una delle mie idee migliori, eh?”
L’altro
mette via la bacchetta con un gesto troppo rigido per
apparire casuale.
Nella
penombra opprimente del baldacchino cala il respiro pesante dell’onere. Turbina con le sue pretese di dialogo e chiarezza, fino a mescersi
con la colpa epilettica e volgare, incalzato dall’impazienza della memoria
con le mani sui fianchi.
Sirius registra il
cambio d’atmosfera rabbrividendo, e massacra la cappa di negatività dal suo
centro.
“Fortuna
che non c’erano puzzolenti orecchie Serpeverde nei
paraggi. Figurarsi cosa farebbe Snivellus se
intravedesse la più piccola occasione di ficcare quel
suo enorme naso pitocchioso nei nostri affari! Anche
se non mi dispiacerebbe darlo in pasto a Moony e
fargli ‘ciao-ciao, viscida poltiglia di Snivellus!’ una volta per tutte.”
L’ultimo
pensiero sembra intrattenerlo particolarmente, con la sua carica d’innegabile
fascino macabro. È certo che l’espressione di Remus,
benché forzatamente stoica, nasconda lo stesso irrefrenabile impeto
d’approvazione.
“Non
offenderti, ma gradirei immensamente vederti andare al diavolo, adesso.
Grazie.”
Sirius non ha modo di
realizzare che, tempo due secondi netti, si ritroverà
scagliato oltre le tende e piuttosto dolorosamente spiaccicato sul pavimento. Finché accade.
“Oww, andiamo, Moony! Tu mi hai
dato un pugno! Tu mi hai dato un pugno ed io
ti ho perdonato!”
Uggiola
pateticamente all’indirizzo delle coltri ben tirate.
È in uno
scatto ferino che la testa di Remus riappare tra le
tende, gli occhi ardenti di sdegno e sconcerto.
“Io ti
ho dato un pugno perché tu hai cercato di molestarmi mentre
non ero cosciente! Sei stato un colossale idiota, e io avevo
– ho talmente tanta ragione che è
stupido persino spiegare quanta infinita ragione io abbia!”
Reso
ansante dallo sforzo di esprimere con una sintassi corretta il proprio orrore, Remus strattona bruscamente la stoffa per richiudere Padfoot e l’assoluta mancanza di buonsenso fuori dalla sua sfera personale.
Una
risoluzione troppo saggia per durare.
Si
affaccia nuovamente, sbottando con quanto più astio riesce.
“E poi,
permettimi di farti notare che hai davvero un modo contorto di dimostrare la
tua clemenza.”
È
l’Errore. Sirius lo sa, lo legge chiaramente, perché
è il panico che si allarga negli occhi del lupo a farglielo capire.
Prende a
raspare contro le tende nella sua miglior imitazione di grosso cagnone
esagitato.
“Quindi è per questo che sei così corrucciato? È perché non
pensi che io ti abbia perdonato sul serio? Ow, ma non
essere sciocco, Mo-oh-ony! È
ovvio che ti ho perdonato, no? Sei il mio compagno
peloso!”
Remus sgrana gli
occhi e tenta di arretrare, ma è ormai tutto perduto.
“Non è
per questo! Non è per questo che ce l’ho con te, Sirius, non – non
sono il tuo compagno peloso!”
“Rem. Tesoro. Dolcezza.”
Sirius è praticamente di nuovo sul letto, adesso, e in una posizione
che chiunque avesse la disgrazia di entrare in questo frangente dalla porta
troverebbe traumatizzante in modo irreversibile.
“No!
Non è per questo, Sirius, malediz–”
“Andiamo.
Sai che lo vuoi.”
Remus sente il fiato
spezzarsi sul fondo della gola. Black è, con la sua sfolgorante stupidità, a
meno di un centimetro dal toccargli il naso – una distanza che rende
impossibile ignorare lo scintillio di puro entusiasmo nell’argento letale dei
suoi occhi. L’odore di pelle e unghie e capelli che si porta dietro invade le
narici senza aggredire; il suo peso grava sul piumone senza minaccia. È lì,
profondamente innocuo nella sua spavalderia, e sorride come…
Remus storce il naso.
“Non se
continui a ghignare in quel modo idiota.”
Neanche
sembra accorgersi di quanto sorpreso Padfoot sia dalla risposta. Probabilmente perché questi è eccellente
nel recuperare.
“Non
posso farne a meno, mon Moony. È il mio marchio di fabbrica.”
Il
bianco di denti curati brilla nell’ombra.
Lupin rotea gli
occhi.
“Chiudi
la bocca.”
Sirius lo fa. E Remus vi poggia contro la
propria, cautamente.
Forse abbiamo dato fuoco alle polveri,
un’abitudine
difficile da perdere.
È quasi
impossibile credere alla pelle, ora che è lì. Che è lì nel
modo in cui è nata per essere.
E Sirius
è nervoso al punto in cui irrisoria è la distanza dall’odio per se stesso.
“Rem… ti prego.”
Qualcosa
scorre lungo tutto il suo corpo. Striscia tra le gambe frementi, avvolge
l’inguine in tumulto, bacia il fondo dell’addome.
“Non mi
fermare.”
Anche la sua voce
sembra scorrergli addosso, come l’umidità calda della pelle.
Remus è così diverso,
sembra – sembra una macchia, sfocata, che tenta di
sovrapporsi disperata all’immagine di un tempo. Una che questo letto cancellerà,
e che la mente già stenta a richiamare.
Sirius accetta ogni
secondo di labbra e di lingua, mentre lunghe dita curiose cercano il senso
stesso del piacere proprio lì, fra le sue cosce schiuse, e madide.
“A
volte… l’attrazione non è questione di fasi.”
La bocca
di Remus parla alle sue costole, linee oblique sotto
il tessuto fine del fianco.
La bocca
di Remus parla alla sua pelle, ma
Sirius non riesce ad accettare che sia Moony a guidarla.
“A
volte… è dire quel che si vuole...”
Un
cozzare brusco di fianchi, e lo shock maggiore di tutti.
Aperto,
scavato, discosto.
Come
potrà tornare a sentirsi, senza Remus? Essere in grado di tollerare la propria esistenza
come monade stravolta.
“…
quando lo si vuole.”
Senza la
sua pelle nella pelle.
Un urlo
muto cade nel tranello del piacere. Le mani di Sirius
stringono gli appigli che trovano, mentre il curioso ibrido dei corpi uniti
rinuncia alla terra per farsi spazio nel vuoto. Per vincere
la gravità con la forza di un desiderio saziato, immenso nella follia della sua
unicità.
Tutto ciò che ricordo,
tutto ciò che
mi torna in mente sei tu,
mentre mi
dicevi che c’era stato un incidente.
Dev’esserci un posto
rosso, fra gli universi. Un posto rosso per tutto il sangue
degli uomini che vi affluisce, lasciando indietro corpi come conchiglie lisce e
mute. Innaturalmente convesse.
Sirius non sente più
il suono del mare.
“Pads…”
Il
bianco informe che è Remus scuote la calma. Sonno che cede il passo. Sensi nella ronda migratoria di
ritorno.
“Come stai?”
È sempre
quella, la prima domanda di Moony. Ogni volta che
apre gli occhi nel letto dell’infermeria, un pensiero preciso va
inevitabilmente a loro. Agli altri. Agli amici che rischiano la vita al suo
fianco mese dopo mese, costruendo un debito che Remus sa non riuscirà mai a saldare.
Sirius non può
rispondere. È un compito che tocca a Potter,
generalmente, perché Black sarà sempre più impegnato a
ghignare come un idiota, e Pettigrew a contemplare
con timore crescente le ferite nuove sul corpo del lupo.
Però adesso James non c’è. Neppure Peter.
Ed è una sola la
conclusione che Remus, essendo Remus
nel modo in cui lo è, può ricavarne.
“Ho fatto del male a qualcuno. Sirius? Guardami.”
Vorrebbe
dirgli quanto egoista sia, per sua parte, chiedergli
proprio di guardarlo. Potrebbe ordinargli qualunque altra cosa, e Padfoot eseguirebbe ubbidiente. Ma
questo, e questa mattina, non è in questione.
“Sono loro. Dimmelo, Sirius. Ho… attaccato Prongs. Wormtail.”
Deve farlo, deve. Perché
Remus non è più la sua voce, e nulla ha il senso
corretto di una domanda, e solo – Sirius sa che
dovrebbe farlo in ogni caso, e quel che perderà non sarà più suo comunque.
Moony è slavato. I
capelli sembrano paglia tirata indietro con la forza,
ghermita da dita inflessibili e dure come i rami di un Platano.
Sirius non può
continuare a guardarlo. Non…
Le
braccia, scoperte dalla veste a maniche corte, sono avvolte da più strati di
bende. Su di esse vanno allargandosi macchie scure che
è impossibile fissare.
“Sirius.”
Deglutisce.
Gli
occhi di Remus paiono nient’altro che ferite del lupo.
“Li ho uccisi. Li ho morsi? Ora
dove sono? Aspettano di scoprire se sono come me…”
Tutto a un tratto la consapevolezza della perdita – di ciò che
esattamente gli verrà sottratto, è abbastanza da spingere Sirius
oltre il limite.
“Sta’ zitto,
sta’ zitto! Tu non sai niente! Smettila di parlare!”
È
chiaramente uno shock, per l’ambiente che hanno intorno, ma Remus
ha l’aria di non farsi mai trovare impreparato. Si aspetta di tutto e tutto può
accadergli, perché è il giorno dopo la luna, e la sua bestia si ciba del
controllo che l’uomo prova a imporle.
Sirius ingoia
vilmente, stringendo nei confini della vista l’immagine di Moony
nella sua neve sporca, come un tesoro sfuggente e morboso.
Forse,
se rimandasse ancora, potrebbe…
“Sirius.
Voglio sentirtelo dire.”
…
renderlo meno reale?
Deglutisce,
sapore acido di lacrime.
“Rem.”
Basta
così. È tutto ciò che riesce a gemere, il tono strozzato, la gola serrata. Abbassa
lo sguardo sulle nocche bianche dei pugni che tiene ben stretti sulle
ginocchia, rigidamente accartocciato su se stesso come siede.
La mano
di Moony afferra l’orlo delle lenzuola, contraendosi
spasmodica. Una paralisi entusiasta va colonizzando il suo corpo, a partire dal
cuore che perde un battito, e un altro, e un altro ancora.
Sirius distende le
dita della sinistra, asciugandone il palmo sudato contro il tessuto dei
pantaloni spiegazzati. Con la destra si allenta il nodo della cravatta, per poi
artigliarsi la gola con odio esausto, senza ferirsi abbastanza.
“Rem…”
Due
tocchi decisi alla porta gli tagliano le parole fra le labbra.
Sulla
soglia, accanto quella immancabile di Madame Pomfrey, stanno due figure curiosamente fuori posto; in
contrasto, ciascuna a sua modo, con la sacralità asettica della malattia che l’infermeria
impone.
“Molto bene, signor Lupin. Vedo che ha ripreso conoscenza.”
Albus Silente sorride
gioviale. Sirius sente il sangue defluire
pericolosamente dal cervello.
Madame Pomfrey supera frettolosamente l’uscio, avvicinando il
paziente fisso con la fronte corrucciata dalla preoccupazione.
“Cielo, povero ragazzo! Dev’essere stata una notte terribile, per te.”
Dalla
sua posizione semi-distesa, Remus s’immobilizza
definitivamente.
Sirius avrebbe voglia
di urlare.
L’espressione
sgomenta del lupo parla da sola per tutti i presenti. Si riflette nell’accorata
preoccupazione della Guaritrice, come nelle mezzelune calate sul naso del
Preside. Colpisce i nervi stravolti e il confuso ammasso di colpa crepitante
che costituisce il rampollo Black.
Bagna
gli occhi torbidi di Severus Snape,
spalle curve sulla porta.
Sirius chiude
l’incubo oltre la barriera della cecità, come se bastasse a silenziare Moony dalla voce tremante.
“Madame… signor Preside, lui… Severus non dovrebbe… che cosa è successo?”
Un unico
sguardo d’intesa lega Poppy Pomfrey
a Silente.
Braccia
intrecciate morbidamente dietro la schiena, sulla lunga veste verde oceano,
l’uomo muove senza fretta verso il letto del malato, evitando ogni occhiata
superflua alla figura adombrata di Sirius.
“La invito a restare tranquillo e
a non lambiccarsi troppo il cervello, signor Lupin.
Ogni cosa ha la sua giusta spiegazione, e sono certo che il signor Black qui
presente vorrà…”
I piedi
della sedia stridono sulle piastrelle. Sirius scatta
all’erta, volto nascosto dalle lunghe ciocche corvine.
Gli
occhi di Remus guizzano, rapidi quanto una fuga.
“Pads?”
L’animagus ansima, stordito
dall’odore persistente di sangue e farmaci, e quello dei suoi stessi capelli.
“Signor Black, la prego di
sedersi.”
Non può,
non – non ha l’abilità per fare questo, non conta cosa, quanto, vorrebbe
scusarsi col Preside, ma non, deve andare via di lì immediatamente.
Sfreccia
verso l’uscio, vincendo bruscamente il tentativo di trattenerlo operato da Snivellus.
“E
lasciami!”
Il Serpeverde è spintonato contro la porta, mentre le proteste
di Madame Pomfrey seguono il fulmine nero oltre la
soglia. Insieme all’urlo ferito che tormenterà i giorni di
Black fino alla fine.
“Sirius!”
Sempre a fingere,
sempre a
credere che l’amore sarebbe bastato.
Sono
settimane che Remus e i suoi occhi non si
appartengono più.
Lo hanno
notato tutti. Molti, certo, l’indicano diversamente, ma Sirius
è convinto di avere la definizione più vera per quello stacco dalla realtà che
parte sin dall’apparenza.
Apertamente,
Moony ha perdonato. Padfoot per l’egoismo sconcertante
delle sue leggerezze; Snape per l’occhiata d’odio che
ha accompagnato la sua promessa; Albus Silente per
aver lasciato che tutto accadesse sotto il suo naso. È ben lontano dal
perdonare se stesso per essere quello che è, o Fenrir
Greyback per aver ucciso quello che avrebbe potuto essere; ma si tratta di vecchie colpe che
hanno il peso di bagagli sdruciti, cui ci si abitua grazie all’indolenzimento
del corpo.
Per
questo nuovo dolore, i sensi non vogliono saperne di assopirsi. E tutto il rancore è rivolto contro la debolezza del solo
sentimento in grado di tenerlo a galla.
Remus non accetta che
il suo amore gli consenta di guardare Sirius negli
occhi, ma non possa espandersi fino a smussare il
ricordo dell’odio.
“Moony.”
“Nh?”
Sirius ritrova una
volta di più la conferma della sua sensazione. Non c’è alcun modo di fingere
che sia tutto normale, sotto quello sguardo orribilmente estraneo.
Odia, odia gli occhi di Remus più di se
stesso, perché stanno sul suo viso a rammentargli che cosa ha perso.
Eppure ha bisogno di
sentirli addosso. Anche mentre mentono come fanno.
“È davvero stupido da parte mia
sperare che tutto possa tornare come prima?”
Remus stringe le
labbra, unico segno che offre.
Perché vorresti tornare
indietro? Pensaci, Padfoot. Pensaci bene. Tutto
questo, e tu hai ancora una chance. L’ennesima prova
della tua onnipotenza. Rinunceresti davvero all’unica conferma importante della
vita?
Vorrebbe
dire, ma trova il modo di tramutare in oro la
piattezza bieca della bugia.
“No, Sirius, non lo è. Va già bene. Va meglio ogni giorno che passa.”
Andrebbe meglio
solo potessi sputare via le ossa del mio amore inutile, e liberarmi del
disgusto per il loro sapore.
Vorrebbe
dire anche questo, ma non c’è modo di rivestire la
sazietà di metalli pregiati.
Ignaro, Sirius assente, fiuta l’aria con un sorriso. Deve solo
ignorare l’odore di cenere.
La tua innocenza mi manca
ogni giorno.
Su alla
torre d’Astronomia le mura hanno un sapore diverso. Remus
ci pensa, fallendo nel trovarvi un briciolo di senso.
L’aria
della sera è rarefatta; sgualcita, forata dall’odore degli incontri. Il tempo
delle vite si ripiega in involti fitti di emozione,
con le pietre polverose e i merli della torre per testimoni. Le notti rubate
alla frenesia della routine e agli spettri confusi della guerra si bagnano di
una dolcezza disturbante, e tutte culminano lì: negli amplessi donati al vento,
e al cielo.
Remus non comprende
come la meta di illecite fughe giovanili possieda il
potere di farlo sentire tanto adulto.
È del
tutto illogico. Quel senso di frugalità puerile la cui presenza parrebbe
inevitabile è inspiegabilmente rimpiazzato da un’acuta gravità, pronta a
scaraventarlo senza guanti nell’età adulta. Nel mondo che è
oltre i cancelli di Hogwarts, col suo sapore amaro e speziato. Frizzante e caldo.
Ma forse è solo
l’ombra di Sirius contro la luna a distogliere ogni
percezione.
Remus lo guarda,
nell’ultima notte prima dell’estate, e una corrente d’amore risanato torna a
proteggerlo. Salvifica e benevola, respinge i ricordi di mesi privi di
coordinate, derubati d’appigli. Mesi di distanze scavate in
seno al contatto.
Ormai
non cerca più di toccarlo, Sirius, però va bene così.
La loro è una lenta guarigione, retta dai metri che
necessariamente li separano anche quando restano da soli. Come
adesso – con la sagoma di Padfoot rannicchiata sul
davanzale, e la schiena di Remus contro la parete
opposta.
“È una buona serata per
salutarsi.”
Riemerge
appena dagli spessi strati della riflessione nel sentire occhi brillanti
puntati addosso.
“Davvero?”
Non gli
riesce di tirar fuori altro. Per la prima volta dopo
la disillusione più spietata, è nuovamente schiacciato dalla certezza dei
sentimenti – plasmati nella bellezza viscerale e profonda,
oceanica, del compagno che ha scelto per la vita, e la vita ha scelto per lui.
Sirius è un brandello
d’irrinunciabile notte, e dalla notte Remus dipende come estasiato.
“Saranno delle belle vacanze. I Potter mi hanno invitato per qualche giorno, verso la fine
di luglio. In caso le cose si facessero troppo pesanti.”
Non c’è
bisogno di inquisire oltre. Conoscere il traditore della famiglia garantisce
uno sguardo privilegiato sui Black; porta a galla gli incubi che mai periscono
entro quelle mura di pregio e memorie.
Remus si raddrizza
contro il corpo della torre, ma non smette di sorridere.
“Mi fa piacere.”
La nota
stonata però è lì, in agguato. Sirius non permette
che gli sfugga, tentenna.
“Saresti potuto venire anche tu,
solo… con la luna, e tutto il resto…”
E tutto il resto.
Gli
angoli della bocca si arcuano nervosi.
Come fare l’amore
con te nella stanza comune, e soffocare i gemiti con i drappi del letto.
“Già, certo, lo so. Non
preoccupatevi, starò benissimo.”
Sirius arriccia il
naso, insoddisfatto, ma non muove un passo per sbugiardarlo. Remus osserva che, tempo addietro, sarebbe stato lanciato
giù dalla torre come punizione per aver mentito – di fatto, tempo addietro non
c’erano barriere di rimorso a frenare l’irruenza.
“Ti porterò un regalo. Qualcosa dalla Cornovaglia, dove sta lo zio di Prongs.
Magari una cornamusa! Scommetto che ti piacerebbe imparare
a suonare una di quelle. Sempre che tu non sappia già farlo.”
L’entusiasmo
sale ingenuo in un crescendo, commuovendo Remus fino
alla dura roccia che lo sostiene.
“Dubito che troverai una sola
cornamusa in Cornovaglia, Padfoot. Ma in caso
passassi per la Scozia sappi che accetterei di buon grado un kilt.”
“Come? Niente cornamuse? Credevo
si chiamasse Cornovaglia per questo!”
Il
cucciolo ha sul viso un tale stupore tradito che la nostalgia dei suoi occhi
inizia a prendere forma, meschina e in anticipo. Remus
può inspirarla, distinguerla come nota piccata nella cappa pesante che oscura
la torre.
Quel
diventare adulti, perdendo qualcosa lungo la strada.
“Pensa solo a goderti le vacanze,
d’accordo?”
Capitola
infine, e Sirius annuisce vigoroso. Il suo profilo
taglia la luna in caselle aristocratiche, mentre contempla il cielo che pare
invitarlo e ripete, in un sussurro:
“Sarà una bella
estate.”
La
gravità delle pietre non sembra più tanto pressante. Nelle ferite d’ombra,
labbra giovani si spiegano sotto il firmamento, le une all’altre
estranee, ma complici; e tutte per sbaglio sfiorano il futuro cui le ore
del giorno le avvicinano, ammantate da spessi strati d’incoscienza che le
preserveranno, per una notte ancora.
Remus si premura di
rispondere al sorriso.
Splendida,
come la sua stella, l’innocenza di Sirius
brilla per gli ultimi istanti.
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Per chiarire:
- sì, l'autrice matta di (Or) The Tempest è tornata, straripante di gratitudine per i suoi lettori <3. Però, sarà meglio che vi avverta: se state cercando ancora quel genere di storia allora fareste meglio ad uscire dalla pagine. (But) The Act è un fosco flashback dove i picchi d'umorismo sono affidati quasi esclusivamente a Prongs xD e sono peraltro molto sporadici. Qui mi sono cimentata nel fare le cose seriamente. Oh-oh, paura.
- gli stralci colorati vengono da una canzone cui sono molto legata, tradotta in italiano. Si chiama 'Always The Pretenders', e a cantarla sono gli Europe. Ecco la componente song-fic della storia. =)
- qualunque commento, positivo o negativo che sia, è più che ben accetto ^O^/. Se desiderate ulteriori chiarimenti o avete qualche domanda: sarei deliziata di rispondervi. *-*
Grazie di cuore alle meravigliose lettrici di (Or) The Tempest e alla fair lady che mi ha iniziata al fandom. <3 Shjtem <- cacofonico monosillabo che i francesi interpretano come dichiarazione d'amore xD.
A presto, spero, col prossimo capitolo! ^O^
Previsti: altri 2. ù__ù