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Autore: Gaia Bessie    10/08/2021    7 recensioni
Il ricordo di Draco Malfoy di sua moglie Asteria.
Perché hai l’anima d’acciaio temperato e il cuore di vetro. Ma, questo, non te l’ho saputo dire. Non so se mi avresti ascoltato.
[OS | Draco/Asteria, Fred/Asteria]
Questa storia è candidata agli Oscar della Penna 2022 nella cagoria "Miglior primo piano" indetti sul forum Ferisce più la penna
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Astoria Greengrass, Draco Malfoy | Coppie: Astoria/Fred, Draco/Astoria
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Mi ricordo di te.
Nel cortile, seduta per terra – ed era febbraio, quindi l’erba era a chiazze e tutta secca ma, guardandomi, avevi detto che importava poco o nulla: e credi che io non sia tutta chiazzata, avevi sussurrato. Avevi perso le piume chissà da quanto tempo e, allora, la pelle era un po’ rossa e un po’ bianca.
Un cucciolo scuoiato e, la pioggia che cadeva, altro non era che acido sulle ferite. Io mi ricordo di te.
Che battevi a tempo sul terreno umido di pioggia, macchiando le tue scarpette da bambina e mascherando il suono dei tuoi singhiozzi. Aggraziata non lo sei stata mai ma, quando si trattava di tenere il tempo dei nostri sogni, infranti, eri brava come una ballerina.
Non uniforme, il confine labile della pelle – è quello che dicevi quando ti domandavo cosa non andasse: non uniforme, l’anima che dolcemente si stendeva lungo la linea della mano, quella della vita, interrotta da una brutta cicatrice rossastra.
La vita interrotta, la chiamavi, e ti mettevi a ridere. La tua vita interrotta, bruciata, ustionata: la vita spezzata di Asteria – dicevi che tua sorella era bellissima per davvero e ridevi, amaramente, aggiungendo che un tempo Daphne era stata quella meno bella di te.
Insistevi: non uniforme, il tessuto imperfetto dei pensieri. Tu che ridevi e a stento sapevi dirmi il perché.
Cercavi l’uniformità del mondo perché, addosso, nulla riusciva a coprire tutte quelle macchie che ti disegnavano dentro una mappa di complesse cicatrici. Fingevi che non esistessero ma, a ogni respiro, s’agitavano come vermi in una manciata di fango.
E mi ricordo di te. Che ero l’unico ad averti amata, a preoccuparmi di te quando con leggerezza raccontavi di tua madre che non c’era1, di tua sorella che era promessa sposa e del tuo gatto che zoppicava un po’. Di te non raccontavi mai: dicevi che la tua storia l’avevi scritta in faccia e ridevi.
Mi ricordo di te, Ria, nonostante tutti i tuoi sforzi per cancellarti.
«Oblivion».
 
 
Non uniforme
 
Sei comparsa dal nulla quand’avevo ventidue anni e paura del mondo – il giorno in cui ti ho incontrata, quando Blaise e Daphne avevano finalmente deciso d’ufficializzare il fidanzamento, avevi ancora quell’uniformità che, negli anni successivi, nella vita avresti cercato per sempre e nemmeno te ne rendevi conto.
Ti hanno chiamata per nome, ti sei voltata. Vetro di mare negli occhi, una piccola macchia castana nel sinistro (non uniforme), uno scoglio che annegava nella tempesta: ti sei voltata, ma non hai sorriso. Non sorridevi già più.
Mi sono sempre domandato di cosa sapesse il tuo sorriso, se avesse un sapore-odore particolare o sapesse d’aria masticata, come tutti i sorrisi. Ma avevi smesso a quindici anni e, a ricominciare, non t’eri arresa mai: forse, un sorriso avrebbe rotto quel tentativo d’essere atona e priva d’accento, uniforme, e allora avresti trovato un altro motivo per odiare qualche altra cosa di te.
Non mi ricordavo di te. È tutto una negazione, quando ricordo della te prima di noi, perché tutta la mia vita senza di te è stata privazione. E non avevo memoria di una ragazzina piccola come un ragnetto che sgattaiolava dalla Sala Comune di Serpeverde una sera su due – finché non l’hai fatto più.
Non uniforme, il tuo cuore cicatrizzato male: non sei stata tu, a dirmelo, che avevi un’ombra tra le costole. Fred Weasley t’aveva lasciata a crescere nella sua assenza e, tu, ti eri rinsaldata sui tuoi frammenti e il risultato non ti piaceva.
Quando ti sei voltata si vedeva tutto. Avevi il viso struccato e, sebbene avessi i capelli pettinati in avanti, ti vedevo.
La sorella di Daphne, è stata attaccata dai Mangiamorte: è successo pochi mesi fa, è ancora fresca di San Mungo. Non te lo dovrei dire ma, sai, in giro si mormora già – quella ragazza ha qualcosa che non va. Non sorride mai, perché non sorride mai?
Ho pensato ch’eri bella per poco meno di metà. Un occhio azzurro e un frammento di naso mi guardavano, mentre il resto del viso veniva divorato dalle cicatrici.
Non uniforme, quel dolore: una volta mi hai detto che avresti preferito che t’avessero sfregiato tutta quanta. Sarebbe stato meno umiliante, non riuscire a vedere i segni di com’eri stata.
Non l’hai mai detto, l’ho sempre saputo – ti domandavi se Fred Weasley t’avrebbe amata ancora, se avesse potuto vederti in quello stato.
Quando sei uscita dalla stanza, ti ho seguito. Non so perché l’ho fatto, ma avevi una tale disperazione addosso che, per un istante soltanto. Ho dimenticato quella che avevo io.
C’era qualcosa, nell’unico occhio che riuscivi a tenere ben aperto, qualcosa che turbava: lo sapevi già che tutte le tue speranze erano in caduta libera?
Ti ho salutata con un cenno del capo, tu eri seduta nel cortile di casa tua, scompostamente, il vestito da festa ferito dall’erba troppo secca del prato. Con il piede sinistro, cantavi una canzone che non ho riconosciuto – roba Babbana, avresti detto, alla mia richiesta di spiegazione: non fa per te, Draco.
Hai chinato il capo, ma te ne sei pentita subito. Avevi una grossa cicatrice anche in testa, dove i capelli non ricrescevano, e ti vergognavi a farti vedere in quel modo.
«Ciao» avevi mormorato, infine, a disagio.
Non ho detto nulla. Perfettamente coerente con il materiale della mia anima, fibre d’argento e tessuto verde scuro, ma il coraggio non faceva per me.
Mi sono voltato, ho incassato la testa tra le spalle e senza guardarti di nuovo sono andato via. Non so se hai sorriso.
Sinceramente, preferisco immaginare che tu l’abbia fatto.
 
***
 
Non uscivi mai.
L’ho chiesto a Daphne, più volte, e la risposta è sempre stata la medesima. Tu non uscivi mai.
Se t’importa tanto, vieni a prenderla.
Me l’ha spiegato, che non era solo vergogna, ma anche mancanza. Che avevate camminato con mille sogni in testa e, adesso, ogni passo aveva il rimbombo di quelli di lui che – lo sapevi – t’avrebbe sempre seguito passo dopo passo, dietro le tue spalle pronto a sorriderti per farti sorridere. E che per questo non sorridevi a nessun’altro.
Non uscivi mai e, per questo motivo, sono venuto fino a casa tua: era febbraio e pioveva a dirotto, quando ti ho riconosciuta (una chiazza bionda) sull’erba arida del giardino. Secca come la mia anima interrotta, mi sono domandato se non ti stesse graffiando dalle mani al cuore.
«Ti farai male, rimanendo lì» non ti ho nemmeno salutata. «E prenderai un raffreddore».
Avevi riso – una risata falsa, amara come quella polvere di caffè che, in cucina, avresti rovesciato sempre: non me ne sono accorto, all’inizio, che ti tremavano sempre le mani.
«Importa?» m’avevi chiesto, scrollando il capo. «Sono a chiazze e tagliente anche io e, da quanto ne so, il simile annulla il simile».
Non avrei saputo come controbattere. Mi sono voltato, ho incassato la testa tra le spalle e ho fatto per andarmene sulla scia della tua risata: non oso immaginare che fosse la tua vera risata ma, a volte, desidero intensamente che sia così. Anche se ridevi così forte che ti si spezzava il cuore.
«Aspetta» avevi sussurrato, abbastanza forte affinché ti sentissi. «Non mi hai detto perché sei venuto».
Non lo so, avrei voluto urlare, davvero io non lo so.
Ho scrollato le spalle, tu hai arricciato il labbro – la cosa più vicina a un sorriso che io abbia mai visto da te.
«Perché hai detto…» ho cominciato, non sapendo bene come formulare la domanda. Penso d’essere arrossito, ma non ne sono sicuro e, tu, non me lo dirai mai più.
«Non lo vedi?» hai scostato i capelli del viso, che azzannavano il collo, rivelando le tue cicatrici. «Sono macchiata, Malfoy, pensi che non lo sappia?».
Mesi dopo, me l’avresti detto: chi potrebbe mai volermi, in questo stato?
Io, avevo sussurrato – tu avevi fatto finta di non udire una parola, continuando imperterrita con il tuo discorso.
Nemmeno Lui mi vorrebbe più: non dire di no, per quale altro motivo avrebbe dovuto volermi, se non perché sono stata bella?
(Perché hai l’anima d’acciaio temperato e il cuore di vetro. Ma, questo, non te l’ho saputo dire. Non so se mi avresti ascoltato).
«Puoi dirmi che sono bella comunque» hai sussurrato, divertita. «Almeno per un terzo. Ma so cosa dicono di me, davvero: che sono rovinata, una regina che ha perso la corona e non potrò mai risollevarmi da tutto questo».
Non ti ho mai domandato cosa ti fosse successo – me l’ha detto Daphne, poco prima del nostro matrimonio: non esistono Mangiamorte sopravvissuti, ma solamente altri feriti. Cercavano tuo padre, hanno preso te.
L’Ardemonio aveva consumato il tradimento di tuo padre e molto altro di te. Qualcosa ho perso, hai detto una volta, ma cosa non l’hai confessato mai.
O chi.
«Lo sei» avevo ammesso, una scia di rossore che vita restituiva sul mio viso di cera. «Perché non dovresti?».
Avevi spalancato le braccia. «Guardami» avevi detto. «Non ho più niente».
Forse, non uniforme era la tua pelle marchiata dal fuoco, ma sicuramente avevi l’anima altrettanto mal cicatrizzata. Passandoci le dita sopra, sentivi il rilievo di ogni vecchia ferita e, ogni singolo giorno, vi leggevi sopra il suo nome.
«Non capisco cosa non vada» avevo risposto, testardo. «Sei sempre tu».
In fondo a tutta quella disperazione, tu – non ti vedevi mai, ma c’eri e io ti percepivo, alla cieca, toccando quell’erba tagliente come vetro soffiato.
Giocavi già a nascondino con la tua ombra. Quando non ti guardavo, contavi fino a venti (gli anni che aveva quando è scomparso in un’esplosione) e iniziavi a cercarti silenziosamente.
Non ti sei mai trovata. L’ho compreso solamente il giorno in cui me l’hai spiegato: non ti sei mai trovata – e molto, di te, non l’ho interpretato mai: aspettavo le tue spiegazioni ma, di spiegare a me cos’eri, non ne avevi mai voglia.
Hai preteso amore, mi hai restituito una tiepida sopportazione che, sul finire, s’è raffreddata in indifferenza.
«Non uniforme» avevi sillabato, porgendomi la mano per aiutarti ad alzarti. «Nemmeno la mia linea della vita lo è, ma non so se significa che vivrò tanto o non vivrò proprio».
Mi avevi mostrato il palmo della mano, che versava nel medesimo stato del tuo volto: la mia vita interrotta, avevi spiegato. La mia vita bruciata.
«Volevo chiederti…» avevo cominciato, senza riuscire a lasciarti andare. «Se».
«Non posso uscire con te, Malfoy» il labbro arricciato, chissà perché non osavi scoprire i denti in un sorriso vero. «Sono macchiata anche nel sangue, sai?».
Me l’hai detto così – hai dato un nome alla mancanza che tua sorella t’aveva attribuito e, mentre ti guardavo con aria interrogativa, avevi sillabato il suo nome (senza riuscire a dargli un suono che non somigliasse a un singhiozzo strozzato).
Fred.
È sempre stato lui: non Draco, Fred. Un ricordo impolverato che ha sempre avuto la tua massima considerazione.
Fred, il foglietto piegato nella scatola di un filtro d’amore, le istruzioni della scopa giocattolo di nostro figlio.
Avvertenze: non eccedere nell’utilizzo, consumare lontano dai pasti (una volta ti ha fatta ridere così forte da farti uscire il latte dal naso, hai raccontato a tua sorella con la massima serietà).
Fred.
Non t’affezionare mai – perché è troppo bello per durare per sempre.
«Non lo sa nessuno» t’eri affrettata a concludere. «Mi hanno detto di non sporcare altre persone con questa storia».
«Vorrei che mi permettessi di portarti fuori, un giorno» t’avevo interrotta. «Per favore».
Avevi scosso il capo e pronunciato quelle parole: non penso di potere mai amare nessun altro.
Non ti ho creduta.
Salazar mi perdoni, se da quel momento ho imparato a crederti sempre. Ma tu, la morte di Fred Weasley, non l’hai mai superata e io sono rimasto dietro i tuoi passi ad aspettare che mi dedicassi un sorriso.
«Solo se prometti di non amarmi» avevi sussurrato. «Mi va bene la sopportazione, forse persino l’affetto, ma l’amore mai».
Pensavo mi stessi sfidando, ho detto di sì.
Io la mia promessa non l’ho mantenuta, ma tu sei stata in grado di non innamorarti mai più – e, quel sorriso, per me non lo è mai stato.
 
***
 
Chiacchieravi un sacco.
Non rispondevi mai, quando ti facevo domande dirette, ma pezzo dopo pezzo sono riuscito a ricostruirti – non uniformemente, ma con diverse crepe e punti vuoti, ma avevo comunque un’immagine che un po’ ti somigliava.
E tu raccontavi, non ti fermavi mai.
«Mia madre non c’è» avevi detto, un giorno. «Papà dice che è scappata con un Babbano: aveva troppa paura delle conseguenze».
Non ti ho domandato di che conseguenze tu stessi parlando, ti sei indicata il viso con aria eloquente: forse, ho pensato, saresti dovuta fuggir via anche tu. Ma scappare, per andare dove?
«Daphne sposerà Blaise» avevi proseguito, poche settimane dopo. «Le ha dato l’anello di sua madre, pensa, chissà a che marito apparteneva».
Io, frammento dopo frammento, ti raccoglievo – ma, per quanto potessi premere tra di loro i cocci, la forza di volontà non bastava a ripararti.
E tu, nel momento in cui mi guardavi, avevi già compreso tutto: io che ti amavo e nemmeno ti conoscevo, l’anello di fidanzamento di mia madre nascosto nella tasca.
A volte, avevi commentato il giorno che ero riuscito a porgerti quel minuscolo gioiello, è possibile amare un’ombra2.
Non ti sei mai ripresa da quando hai compreso che, sposarmi, era l’unico modo per allontanarti dai ricordi.
(Anche se, alla fine, ti sono rimasti sempre appollaiati sulla spalla).
Hai detto sì, lo voglio – di crederci, non ci hai creduto mai: dicevi che poche promesse conservavano valore e, le tue, erano flebili come le mie speranze d’averti per me come tu avevi me.
Ma lo hai detto. Sì: lo voglio.
La fede non l’hai mai portata sull’anulare – non uniforme, dicevi, un anello così bello stona sulle cicatrici – ma ancorato al collo con una catenina. Di fianco, l’anello di fidanzamento e un anellino di plastica, da bambina, la cui provenienza non ti ho chiesto mai.
Silenziosamente, penso d’averla sempre saputa: le vostre promesse, infrante per sempre, quando l’eternità non l’avevate mai contemplata in tal senso.
Non uniforme, l’amore che ti restituivo, venato di scarsa sopportazione e debole speranza. Hai detto bene, è possibile amare un’ombra – ma io amavo per essere riamato e tu, di sorridermi, non hai sorriso mai.
Hai detto sì, lo voglio, ma la volontà ti è stata estorta dalla necessità di dimenticare e, alla fine, mi hai sposato per ricordare nei ritagli di tempo. Fra una chiacchiera e l’altra, riemergeva sempre, non sei mai riuscita a mandarlo via.
Non hai mai voluto.
Anche quando è nato Scorpius, per un momento, ti sei domandata perché non avesse i capelli rossi. L’avresti voluto, un figlio da lui? Una famiglia insieme, gli elettrodomestici Babbani, le serate a farsi i dispetti attorno alla culla e dormire abbracciati come fosse l’ultima notte insieme?
Forse, sì. Forse l’avresti voluto anche se sarebbe stato meno bello dei tuoi sogni, ma ti sarebbe bastato.
Quand’è nato Scorpius, ti sei ammalata – consumata come un cerino, Ria, non ti sei nemmeno fatta curare: sia come sia, hai detto, tutti dobbiamo morire. A velocità diverse e a me piace arrivare sempre per prima.
«Non potrai salvarmi per sempre, Draco» mi hai detto, sul finire, quando al San Mungo respiravi a fatica e avevi bisogno d’aiuto solamente per metterti seduta. «Dovrai lasciarmi andare, prima o poi».
«E cosa mi resterà?» avevo gridato, svegliando di soprassalto nostro figlio treenne. «Cosa resterà a me?».
Hai sorriso, scoprendo una striscia bianca di denti: la cosa più simile a un vero sorriso che io abbia mai visto da te.
«I ricordi» hai detto, calma. «E nostro figlio».
E l’impossibilità di darti quell’amore che avevi già ricevuto. Eri satura e il mio, di amore, non l’hai mai voluto accettare.
Dicevi che era troppo e scuotevi il capo dolcemente – c’era comunque qualcosa d’amaro, in te, come quel caffè macchiato delle tre di mattina su cui t’addormentavi.
E io non mi sono mai raccapezzato, con te, era come ricostruire un quadro con della polvere, senza frammenti: a ogni respiro svolazzava qualcosa e, per quanto m’impegnassi a intuire la trama originaria, a ogni tentativo veniva fuori un disegno diverso.
«E se non mi bastasse?» t’avevo domandato, un giorno. «Se volessi te, qui, con noi?».
«Io non ce la faccio più a vivere una vita non uniforme» avevi risposto. «Ormai è tutta una cicatrice, Draco, tutta una ferita che si apre continuamente. Vuoi davvero farmi vivere così?».
Non volevo essere egoista, ho chinato il capo. Silenziosamente, ogni mio muscolo stava gridando di sì.
 
***
 
Mi ricordo di te, Ria, nonostante tutti i tuoi sforzi per cancellarti.
Gli ultimi giorni faticavi a tenere la bacchetta ma, mentre m’attardavo sulla soglia della camera del San Mungo per lasciarti riposare, hai sorriso per davvero – su parole dure, amarissime.
«Vorrei che tu mi ricordassi come non sono stata» hai detto. «Bella. Felice. E ti amavo».
Mi sono voltato per sentirti ridere, anche se assomigliava più a un singhiozzo disperato.
«Oblivion».
Sono caduto a terra, chissà se sono svenuto per ore o per una manciata di minuti: quando ho riaperto gli occhi, te n’eri andata.
Ti ho baciato la fronte, scostando i capelli che ti coprivano il viso, conoscendone il segreto – non sei mai stata brava con gli incantesimi di memoria e, alla fine, forse lo sapevi anche tu.


 

1Non volevo i tuoi soldi, mi preoccupavo per te | Con leggerezza raccontavi che tua madre non c'è (Irama, Rolex)
2Ma è possibile, lo sai, amare un'ombra (Montale)
   
 
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