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Autore: PerseoeAndromeda    11/08/2021    3 recensioni
Shun è consapevole che, dopotutto il sangue che ha versato, non potrà più tornare innocente. Si sente contaminato, sporco e nulla potrà lavare via il sangue che vede sulle proprie mani
Genere: Angst, Drammatico, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Andromeda Shun, Cygnus Hyoga, Phoenix Ikki
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
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Fanfic partecipante alla challenge Easter calendar 2021 del gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanart and Fanfiction - GRUPPO NUOVO
 
Autore: Perseo e Andromeda; Heather-chan
Fandom: Saint Seiya
Prompt: 161. Lavare
Titolo: Mani di sangue
Personaggi: Shu, Ikki e Hyoga (breve comparsa degli altri bronze)
Genere: angst, drammatico, hurt/comfort
Rating: giallo per presenza grafica di violenza e accenni ad autolesionismo
 
MANI DI SANGUE
 
«È finita… è finita Shun».
La mano di Hyoga sulla spalla sembrò lì apposta per dare un freno ai brividi che gli scuotevano il corpo. Sussultò e si guardò intorno.
I fratelli erano tutti poco distanti, erano vivi, malconci…
Feriti, ma vivi.
Il campo di battaglia, invece, era cosparso di cadaveri, alcuni erano mutilati, alcuni mostravano ferite aperte che rendevano le loro membra nient’altro che ammassi di carne.
Gli occhi di Shun, quasi per caso, si posarono su uno di questi, il viso irriconoscibile, sfigurato da un’arma che gli aveva ridotto il cranio in frantumi.
In un flash della memoria rivide la catena di Andromeda che si dirigeva verso quel volto, uno dei tanti… non ricordava il momento della colluttazione: quando la sua arma raggiungeva il bersaglio, in lui accadeva sempre qualcosa di strano, un vuoto mentale, un totale blackout dei sensi che gli impediva di vedere, di pensare, di capire davvero quel che stava accadendo.
Poi però i ricordi tornavano in frammenti improvvisi, negli incubi della notte e nelle visioni che neanche da sveglio gli davano tregua, momenti che teneva il più possibile per sé, che ricacciava nel fondo della sua anima più che poteva, per non essere un peso e per non impazzire.
Si portò una mano alla bocca e distolse lo sguardo, strizzò le palpebre con forza, fino a sentire dolore alla testa. La mano di Hyoga sulla spalla si fece più salda e un’altra mano si intrufolò in una delle sue. Era una mano grande, ruvida, avrebbe riconosciuto la consistenza e la pelle di Ikki-Niisan anche nelle tenebre più profonde.
Profonde come quelle in cui si trovava adesso, le stesse in cui si era sempre trovato alla fine di ogni battaglia.
«È finita» sentì ripetere. Questa volta era Ikki-Niisan.
Avrebbe voluto crederci, l’avrebbe voluto così tanto, ma non era finita affatto.
Quella era stata una battaglia… pesci piccoli, avversari da nulla… che si erano fatti solo massacrare. Avevano sviato l’attenzione dal vero problema, probabilmente consapevoli che le loro vite sarebbero finite quel giorno.
Gli occhi di Shun bruciarono. Fino a quel momento aveva creduto di non avere più lacrime: era talmente assuefatto alla battaglia, alla violenza, al sangue… all’uccisione… che tutto gli passava addosso e lui rimaneva freddo.
Almeno così credeva o, forse, sperava.
Poi le lacrime arrivavano e lui poteva solo cercare di reprimere, di soffocare i singhiozzi mordendosi il labbro, mentre il suo volto cercava rifugio contro la spalla di Ikki-Niisan.
Il petto della Fenice era così caldo, anche le sue braccia lo erano ma, seppur gli occhi fossero chiusi, lui vedeva quel volto morente, il sangue che schizzava, i corpi mutilati tutti intorno.
“Basta…” riuscì solo a pensare.
Nelle orecchie le voci dei fratelli:
«Shun, coraggio…».
«Va tutto bene adesso, torniamo a casa».
 
***
 
Quando riaprì gli occhi giaceva su qualcosa di morbido, avvolto in coperte calde, il corpo dolorante in più punti, ma non più di altre volte in cui era tornato vivo da una battaglia.
Sbatté le palpebre, si portò una mano alla fronte a spostare il ciuffo sempre troppo lungo e adocchiò il polso fasciato in una benda che gli avvolgeva tutto l’avambraccio. Effettivamente era uno dei punti in cui sentiva maggior dolore.
Sollevò un poco le spalle e le sue membra protestarono, mentre la coperta scivolava via dalle spalle nude: scoprì fasciature anche sul fianco e sull’altro braccio, poco sotto la spalla. Probabilmente si trattava delle ferite più gravi che aveva subito.
Sospirò e si guardò intorno, riconoscendo la propria stanza di Villa Kido.
Il sole prossimo al tramonto tingeva pareti e pavimento di un rosso quasi accecante, una visione che avrebbe dovuto suscitare serenità e che forse, un tempo, Shun avrebbe trovato bella. Ma ora quel rosso non era bello, era un colore che lo terrorizzava più di ogni altra cosa, era il colore che lo avvolgeva nei suoi incubi e durante le ore di veglia, un fiume di sangue che lo trascinava e lo faceva affogare. Era lo stesso rosso che, ogni volta che sollevava le mani e le guardava, grondava sui palmi e scorreva viscido tra le dita.
Era diventato un gesto quasi meccanico, sul quale ormai non rifletteva più, gli bastava un piccolo evento, come quel tramonto e lo sguardo andava alle proprie mani. Le sollevò, tremavano in maniera incontrollata, gemette nel momento stesso in cui cominciò a muoverle ed emise un singhiozzo quando rivide ciò che si era aspettato: un sudiciume che niente al mondo avrebbe potuto lavare via, rivoli scarlatti che gocciolavano lenti e presto avrebbero formato, intorno a lui, una palude di sangue che lo avrebbe risucchiato, prima o poi in essa sarebbe scomparso, si sarebbe perduto per l’eternità.
Le unì, le stropicciò una contro l’altra, intrecciando nervosamente le dita, come se quello potesse bastare. Ma sapeva perfettamente che non sarebbe bastato.
In quei momenti, quando sentiva che il panico cresceva, che il respiro perdeva ogni regolarità e il cuore cominciava a pulsare in maniera insopportabile e dolorosa, non gli restava che una cosa da fare: correre in bagno e lavarsi le mani, lavarsele fino allo sfinimento, fino a cancellare ogni cosa, per quanto sapesse che non sarebbe servito a niente.
Ma non c’era altro che potesse fare e più esitava e cercava di autoconvincersi che era tutto nella sua mente, che non c’era niente di tutto quel che vedeva sulle sue mani e intorno a lui, più la voce nella sua testa gli ripeteva:
“Oh, sì che c’è. Non importa quanto tenti di negarlo e non potrai mai lavarlo via, perché il sangue che hai sparso è radicato sotto la tua pelle, fluisce nella tua carne e nelle tue vene, giunge al tuo cuore e lo soffoca, corrompe la tua anima, ti fa vedere quale mostruosità tu sia in realtà al di sotto di quel viso d’angelo che tutti vedono. Sei un mostro… solo un mostro e non hai alcuna speranza di redenzione”.
Le sue membra vennero scosse da un singhiozzo violento che lo fece ripiegare su se stesso, le mani strette a pugno contro il petto, l’ondata di nausea lo spinse ad abbandonare ogni resistenza per precipitarsi fuori dal letto, imboccare il corridoio e correre barcollando fino al bagno. Qui giunto si liberò del niente che aveva nello stomaco, poi rimase qualche istante sul pavimento, il fiato corto, tremiti convulsi che gli scuotevano i nervi e gli occhi, sbarrati nel vuoto, dai quali sgorgavano lacrime accompagnate da gemiti, flebili ma colmi d’angoscia.
Si aggrappò ai bordi della tazza per tirarsi in piedi e i suoi occhi caddero sullo sporco che aveva lasciato… sporco, sporcizia ovunque.
Lui non era altro che tutto quello sporco che aveva intorno.
Allungò a stento una mano per tirare lo sciacquone, ma subito dopo la testa gli girò così tanto che si lasciò di nuovo andare in ginocchio, esausto ed era certo che non fosse per la stanchezza delle battaglie, per il dolore delle ferite che gli ricordavano la loro esistenza, non solo almeno.
Le mani…
Doveva almeno lavarsi le mani, perché tutto quel sangue era ancora lì, lo vedeva, non importava affatto che la mente gli dicesse che non c’era, lui lo vedeva, lo sentiva, ne percepiva la viscosità sulla pelle ed era caldo, tanto da bruciargli la carne.
A fatica si rimise in piedi, si trascinò fino al lavandino e fece scorrere l’acqua, insaponandosi fino ai gomiti, senza tener conto della benda, neanche la vedeva più, vedeva solo tutto quel sangue. E più sfregava più ce n’era, non accennava ad andarsene, per quanto sapone ci mettesse, per quanto passasse le mani l’una contro l’altra, per quanto artigliasse la pelle per grattare via tutto, il sangue era lì.
Era il sangue di quel ragazzo steso a terra, di tutti quei giovani che il loro furore di guerrieri non aveva risparmiato, ma lui, lui, Shun di Andromeda, era il peggiore di tutti, ne era certo, nessuno era così freddo e vuoto quando combatteva, nessuno cancellava ogni cosa… non importava quanto gli dicessero il contrario, lui non era il loro angelo, lui era il demone, lui era…
Gli sfuggì un grido insieme a un singhiozzo più forte e le unghie solcarono la pelle, graffiarono: avrebbe tolto tutto, avrebbe cancellato ogni parte di sé se fosse servito a cancellare tutto quell’orrore che aveva addosso, quel mostro terribile che era.
 
***
Ikki e Hyoga si incontrarono nel corridoio e si scambiarono un’occhiata in parte sorpresa, in parte complice, prima di andare ad aprire la porta del bagno.
Il primo particolare che attirò la loro attenzione furono le chiazze di vomito sul pavimento, poi il santo di Andromeda, la schiena curva sul lavandino, le mani sotto il getto dell’acqua aperta al massimo e il liquido rosso che gocciolava.
«Shun!».
Il loro grido fu unanime mentre si gettavano sul fratello, Hyoga ad afferrargli le spalle, Ikki a prendere le sue mani, per capire cosa stesse succedendo.
«Ma cosa ti sei fatto?».
Shun subito non comprese, provò a divincolarsi, gemette qualcosa di inintelligibile, poi cercò di sottrarre le proprie mani alla stretta di Ikki.
Ci mise una tale foga che il maggiore, colto alla sprovvista, le vide scivolare via, per tornare all’acqua, dove anche lo sguardo di Shun venne di nuovo calamitato e qualche balbettio sconnesso sfuggì ancora alle sue labbra.
Ikki e Hyoga colsero, a malapena, le stesse parole ripetute più volte, sussurrate in una nenia senza fine:
«Non va via… non va via…».
«Shun!» urlò Hyoga. Catturò di nuovo le sue mani e, con uno strattone, lo trascinò lontano dal lavandino, mentre il ragazzo si dibatteva e piangeva per tornare al suo ossessivo rituale.
Ikki rimase immobile, gli occhi spalancati e le braccia tese verso il fratellino.
«Smettila! Calmati adesso, devi calmarti, Shun!».
Nelle orecchie del maggiore dei fratelli risuonavano le esortazioni di Hyoga e la voce rotta dal pianto di Shun, che continuava a vaneggiare di tutto quel sangue, dello sporco che non se ne andava.
Era vero, il sangue c’era, quello delle ferite che il ragazzo si era procurato da solo, scorticandosi fino a mettere a nudo la carne per cacciare chissà quale assurdo mostro avesse dentro.
Dopo i primi istanti di smarrimento Ikki si riscosse, si portò vicino ai due fratelli in lotta, afferrò Shun da dietro, gli avvolse i fianchi e lo attirò contro il proprio petto; nel frattempo si appoggiò con la schiena al muro, per poter dare maggiore stabilità a se stesso e al ragazzo sconvolto.
Shun singhiozzò ancora, continuò per qualche attimo ad agitarsi, ma in maniera sempre più blanda, poi finalmente Ikki percepì il suo abbandono, così totale che dovette sostenerlo altrimenti, ne era certo, sarebbe caduto a terra.
Continuava tuttavia a tremare, a respirare in preda al panico.
Ikki, mantenendo un braccio saldo intorno all’addome, portò l’altra mano sul mento, poi sulla guancia e, voltandogli un poco il viso, lo fece aderire al proprio petto.
«Buono Shun… buono…» gli sussurrò nelle orecchie, il naso affondato nei capelli, deciso a fargli sentire il proprio calore.
Hyoga lo teneva per i polsi con gentile fermezza e la protezione delle braccia e della voce di Ikki, la dolcezza del tocco di Hyoga, sortirono qualche effetto. Shun continuava a piangere, ma i singhiozzi erano sempre meno violenti, il respiro meno sofferto.
Infine, smise del tutto di dibattersi.
Lentamente, con un moto di tristezza, Hyoga lo lasciò libero e le mani di Shun ricaddero verso il basso. Ikki lo tenne stretto con entrambe le braccia, poi si lasciò scivolare contro il muro, finché entrambi si ritrovarono seduti a terra. Anche le gambe del maggiore avvolsero il fratello, ora tutto racchiuso nel rifugio protettivo di quel corpo forte e accogliente.
Il santo di Andromeda ebbe un brivido, si rannicchiò su se stesso e Hyoga rimase qualche istante ad osservare quella scena: Ikki era possente, Shun quasi scompariva tra gambe e braccia che lo avvolgevano, simili ad una sfera fatta di solo amore…
Un cerchio d’amore che teneva fuori tutto il resto…
Teneva fuori anche lui.
Strinse le labbra, imprecò contro se stesso: non era il momento, Shun non aveva bisogno di quello adesso, lasciare spazio alla propria gelosia, al proprio tormento, era fuori discussione.
«Bisogna medicargli le mani» sentenziò e si diresse verso l’armadietto dei medicinali per prendere il necessario.
Ikki accentuò ancora di più la stretta su Shun, gli posò un bacio sulla guancia:
«Mi vuoi dire cosa ti è successo, Shun-chan? Cosa volevi fare?».
Tentò di mantenere calmo il tono della propria voce, ma non poté trattenere tutta la preoccupazione che provava.
Shun non rispose subito, tanto che, per un attimo, Ikki credette che non fosse neanche consapevole di dove si trovasse. Invece, dopo un po’, da quella figurina ora così raccolta da sembrare minuscola, si levò un flebile sussurro:
«Volevo farlo andare via… ma non se ne va… non se ne andrà mai».
Hyoga tornò ad inginocchiarsi davanti a loro, posò accanto a sé disinfettante e bende e sfiorò con la propria una delle mani di Shun. Il coetaneo sussultò, fece per ritrarla, così Hyoga strisciò verso di lui e riacciuffò quella mano fuggitiva, sperando di non sembrare più brusco del dovuto.
«Dai Shun, voglio solo disinfettarti».
Gli occhi verdi spuntarono dal rifugio che era diventato il petto di Ikki e il santo del cigno ebbe un attimo di debolezza: quello sguardo, per lui, significava perdizione, l’istinto gli suggeriva solo di afferrare Shun, strapparlo alle braccia del fratello e stringerlo tra le proprie, portarlo via da tutto, in un luogo che appartenesse solo a loro due.
Ovviamente si trattenne, Shun aveva bisogno del suo autocontrollo e lo avrebbe mantenuto.
«Mi lasci fare, Shun-chan?».
«Certo che ti lascia fare… vero, Shun?» fu l’incoraggiamento di Ikki, accompagnato da una carezza tra i capelli scarmigliati del più giovane.
Il viso di Shun si mosse, gli occhi scesero fino alla propria mano, che Hyoga stava cominciando, delicatamente, a controllare. Non tentò più di ritrarla, ma continuava a tremare senza tregua.
«Guarda cosa ti sei fatto» sospirò il santo del cigno, contando con lo sguardo tutti quei graffi profondi che il fratello aveva inferto a se stesso.
Poi imbevette di disinfettante un batuffolo di cotone e cominciò a tamponare le ferite una ad una, mentre uno Shun dall’espressione ora assente osservava le sue mosse e, soprattutto, guardava le proprie mani, come se da esse fosse ipnotizzato.
Ikki lasciò che Hyoga si occupasse dell’aspetto pratico, mentre lui controllava le reazioni di Shun, che ormai sembrava calmo. Ma non si trattava di una calma rassicurante, troppo simile all’apatia e i tremori non si erano del tutto sopiti.
«Tanto è inutile» sussurrò all’improvviso il santo di Andromeda, la voce flebile, ma fin troppo neutra è assente.
Hyoga si fermò, sollevò lo sguardo su di lui e lo osservò, ma fu Ikki a rispondere al fratello, accentuando la stretta delle proprie braccia:
«Cosa è inutile, Shun?».
Cercò di mantenere il tono calmo, ma non riuscì a frenare il sospiro profondo con il quale accompagnò la domanda.
«Non si può pulire quello che è sporco dentro…».
Ikki aggrottò la fronte, le sopracciglia folte si corrugarono e Hyoga ebbe un fremito, le sue dita si tesero sui polsi di Shun, per un istante strinsero così forte da lasciare dei segni rossi, ma il più giovane rimase impassibile, inerte, disinteressato a tutto.
Sulle labbra del santo del Cigno comparve una smorfia di rabbia, finì per posare l’altra mano sulla spalla di Shun, lo scosse e i loro visi furono improvvisamente vicini.
«Shun, c’è solo il tuo sangue su queste mani, non ce n’è altro, capisci? Solo il tuo!».
Di fronte a quegli occhi di ghiaccio colmi di furia e frustrazione, nell’udire quella voce incrinata dalla rabbia, anche gli occhi di Shun ebbero un lampo, si fecero più grandi, il velo sembrò per un attimo svanire per lasciare spazio a una disperata richiesta di aiuto.
La voce uscì sconfitta, in un sottile singhiozzo:
«C’è invece… non può essere altrimenti… c’è… e aumenterà».
Poi fece qualcosa che colse entrambi alla sprovvista: strappò la propria mano dalla stretta di Hyoga e gli gettò le braccia al collo.
«Non mi illudo, non pretendo di tornare pulito, non potrà accadere. Ma perdonatemi, perdonatemi se non riesco ad essere sempre forte come voi e se ho tanta paura di me stesso… ci proverò… vi prometto che ci proverò».
Sconvolto, sconfitto da quella reazione, Hyoga lo accolse, lo strinse e sollevò lo sguardo su Ikki, trovando in esso uno specchio del proprio tormento e della propria impotenza.
Questi scosse il capo, poi si avvicinò di nuovo a Shun, gli posò le mani sui fianchi e appoggiò la fronte tra i suoi capelli.
«Ci proveremo insieme, Shun… nessuno di noi ti lascerà più».
 
 
 
 
 
   
 
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