Anime & Manga > Lady Oscar
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Autore: sacrogral    16/08/2021    19 recensioni
Questa storia è dedicata, se la vuole, alla ragazza che si firma Antirise, perché me l'ha suggerita senza saperlo. E questa storia spera di strappare un sorriso a lei, e a Mina, la mia Grazia Illuminante, e a Paperina75, la mia Beatrice, e al comandante Rouge e a Fiamma dalla penna di fuoco e di Fiamma, perché in questi giorni son state davvero gentili con me, e non eran tenute, l'han fatto solo perché son gentili. Mi siete state preziose.
La storia è strana, tutti i lettori sono i benvenuti ma è lunga e la prendo larga: per il compleanno di André, lo scorso anno, son stato più incisivo. Cerco di mettere i giusti avvisi per non infastidire nessun lettore che capiti qui per caso, ma vi dico: è creata per sorridere, di se stessi e degli altri.
Alcune parti però potrebbero far storcere il naso a qualcuno, quindi metto "arancione" e "tematiche delicate". E metto anche "fantasy" ma non è proprio fantasy, e AU ma non è proprio AU.
Ma io per primo non so bene cosa ho fatto.
Genere: Azione, Commedia, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Altri, André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes
Note: AU, Nonsense | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Si fa presto a dire “cattivo”. E si fa pure in fretta a dire “demone”. Quello che voi chiamate demone, e io ne sono la prova e l’incarnazione, è in realtà l’istinto, il desiderio, la voglia di libertà. Voi chiamereste così, alla leggera, “demone”, tutto questo? Io incarno tutto questo e non è colpa mia, questo sono; e tanto per precisare ciascuno di voi ne ha uno dentro, di demoni come me, che vi sussurra piano, ogni volta che qualcosa non va come vorreste che vada. E spesso lo seguite, dandogli vari nomi anche altisonanti, ma alla fine è sempre lui, non ci vuole tanto a capirlo.

Io sono il demone di André Grandier. Quindi sì, sono il responsabile della sua pazzia momentanea, di quella storia di camicia strappata che non mi si perdona mai, dico mai, hai voglia a giustificare, a spiegare, a elucubrarci sopra. E ancora non sapete niente, proprio nulla della fatica che mi è costato il portarlo lì, il farlo sciogliere un po’.

Ma adesso, agli interessati, voglio parlare, voglio dirglielo, finalmente, com’è andata davvero. Solo per amor di verità: poi, continuate a credere quel che volete, crocifiggetelo, e continuate a disprezzare me, il demone – però intanto io ve lo racconto, e vediamo chi ha davvero il cuore tenero, chi è davvero capace di empatia.

La voglio prendere larga.

Quando nasci demone ti va già malissimo. Non hai madre, non hai padre, se ne infischiano tutti di te. Poi nasci brutto e brutto resti. Finché sei all’asilo e son tutti demoni come te, ancora ancora, si sopravvive. Ma crescendo poi le classi diventano miste. Chissà perché le demonesse invece son tutte belle, ma belle oh, da far girare la testa. I maestri dicevano che è inevitabile, perché se non fossero così belle come potrebbero indurre qualcuno al peccato? E per carità, capisco, però potrebbe valere anche per i maschi. E invece nulla, quindi noi bambini-demoni, grassi, con la pelle di colori improponibili, a chi va bene nasce viola, con gli occhi tondi, con le squame o con corna piccole o grandi, per non parlare dei nasi, noi demoni, chi ci guarda? Le demonesse fanno gruppo a sé, circoli chiusi, ci deridono, e sognano i loro incarichi futuri, si fanno belle per quelli.

E poi cresci, e vai all’Accademia, e lì niente femmine, loro hanno il proprio Convitto, però l’Accademia la fai con gli angeli, e va ancora peggio. Perché – attenzione – quelli che chiamate “angeli custodi” altro non sono che tutti quei sentimenti educati e cortesi, tutto quello che vi volge ad essere socialmente accettabili e quindi – voi credete – felici. Gli angeli sono tremendi: son tutti belli, biondi, alti e non fanno mai nulla di sbagliato. Per le lezioni teoriche niente, ciascuno ha i propri spazi e le proprie materie, e almeno ci risparmiamo le ramanzine tipo: “Prendi esempio da Ariel” o “Non vali un quarto di Uriel”; loro imparano roba tipo “Fenomenologia della gentilezza” o “Escatologia del politicamente corretto”, noi “Storia antica e moderna del veneficio” o “Il diritto alla vendetta: esempi pratici”, ma le prove fisiche, quelle son comuni. Ciò che voi chiamereste bullismo è incentivato e apprezzato. E non si tratta di spinte gentili, “caro puoi fare di meglio”: la verità nuda e cruda, “sei orrendo”, “fai pena”, “sei una delusione ambulante” e via così, fino agli scherzi in cui ride solo chi li fa, supertopi nelle camerate, secchi d’acqua gelata in bilico sulle porte; gli insegnanti a ridere più degli altri, e frustate se ti sorprendono a fumare o anche a rispondere per le rime.

D’altra parte, gli angeli non hanno torto, ribrezzo lo facciamo davvero.

Poi, qualunque sia lo sport, non si scommette su chi vince, ma sullo scarto della perdita. L’anno del 7 a 1 a calcetto, nell’epica partita angeli vs demoni, i bookmaker fecero un flop pazzesco perché nessuno credeva che almeno un punto l’avremmo fatto. E lo segnai io, eh, su un passaggio di un demone che si faceva prima a saltarlo che a girargli intorno, e nessuno lo marcava perché puzzava così tanto che lo tenevano lontano. Falli e azioni indegne, quanti se ne vuole, noi. Loro, sai, son leggeri, ti scartano quando vogliono, ci mettono un attimo a volarti sulla testa – anche se le ali le ottengono col diploma. E noi, belli pingui e sudati, a correre dietro alla palla in mezzo agli sfottò, e potessimo almeno evitare – ma no, obbligatorie le prove, prenderci per i fondelli rafforza il carattere, portarci l’autostima sotto i calcagni ci fa diventare cattivi, è tutto guadagno per il futuro.

E poi, dopo che allenatore, arbitro, spettatori ci hanno ribadito quanto facciamo schifo, ci sono le docce in comune. Non so se rendo l’idea: tu sei un obbrobrio della natura, e ti mettono a lavarti nudo come un verme con gli angeli che per definizione sono perfetti e te lo dicono. Loro manco devono faticare per avere addominali d’acciaio. E poi non sono solo belli, sono maschi, anche se non capisco bene a che gli serva, alla fine il sesso dovrebbe essere roba nostra.

Ma vi dico cosa succedeva abitualmente. Immaginatevi me, verde, grosso, grasso, con gli occhi tondi e senza sopracciglia, senza peli. Sono a far la doccia – aperta – e davanti mi si piazza uno, il portiere di quelli, il tipo che ho infilato nella porta insieme al pallone tanta rabbia c’ho messo. Nudo fra nudi, che vuoi fare? Ho davanti quello, e mi guarda con un sorriso furbo, e si mette a farsi la doccia. Pareva pure che l’acqua scorresse contenta di toccarlo. Appoggia un piede su un panchetto, flette i muscoli dai trocanteri ai polpacci, si sofferma a contemplarsi le cosce. Si passa la mano insaponata dappertutto con delicatezza. Poi si fa colare l’acqua addosso, manda indietro i capelli – lui ce li ha – apre la bocca a bere o a non bere acqua, e si massaggia soddisfatto il petto bello ampio. Dà spettacolo davanti a me, che resto lì incredulo a sacramentare e a pensare alle belle demonesse. E poi si batte la mano sulla coscia e mi dice: “Non è questa la coscia di Giove?” e se ne va ridacchiando, e io imbambolato ancora non ho nemmeno aperto l’acqua e ‘sta a vedere che questo pensa pure – ma no, non ve lo dico nemmeno, cosa penso che possa pensare.

Ma finalmente, dopo le umiliazioni e le pene corporali, si arriva al diploma e ti assegnano l’incarico. Si promette di rivederci fra amici. I professori con aria un po’ disgustata – che comunque io al tema “Si nasce o si diventa serial killer?” ho preso la sufficienza risicata – mi danno diploma e incarico, e con aria che mi sembra cospiratoria mi dicono: “Un incarico facile facile, sarai il demone di André Grandier”. E chi cavolo è, questo? Non è che abbia tanto tempo, faccio una ricerca dell’ultimo minuto sulla più che approssimativa “Demonipedìa”, ma c’è poco alla voce “André Grandier”, penso che dovrò procedere un po’ di pancia, ma se han detto che è un incarico facile deve essere uno propenso all’ira, pieno di risentimento e traboccante d’odio, ergo avrà vita lunga e colma di eventi sui quali potrò agire agile, giusto una spintarella, e magari far carriera veloce.

E quindi si lascia al fato, il 26 agosto 1754 il bimbo nasce e io divento il suo personale daimon, e sono anche emozionato, alla fine è pur sempre la mia prima volta, mi ci metto d’impegno.

Peggio di così non mi poteva andare. Intanto, il bambino, dolce e obbediente fin dalla nascita, neppure faceva penare i genitori quand’era in culla, manco mi riusciva di farlo piangere la notte. Poi, quando qualcosina avrei potuto cominciare a sperare, ecco che rimane orfano di colpo. Genitori andati, entrambi. E il pupo, a sei anni, di buon grado si adatta a vivere con la nonna.

“Va bene” mi dico “Farà impazzire la nonna”. Invece niente, la adora, la rispetta, la venera. La viro sul sociale: la nonna è una specie di governante tuttofare in una famiglia aristocratica, i de Jarjayes – e allora mi dico che svilupperà un forte odio di classe, i tempi sono maturi, e  finirà in tregenda.

E invece niente, anche su quel fronte. Il ragazzino adora il suo padroncino, anzi, la sua padroncina, perché all’inizio c’è un po’ di confusione; ma quando diventa chiaro che Oscar François de Jarjayes in realtà è una femmina, e che l’unica debolezza su cui posso far leva se non voglio perdere il lavoro è proprio questa, comincio a darmi da fare. Ma anche su questo fronte, son complicazioni su complicazioni.

Intanto il suo angelo è – e qui ci vorrebbe l’imprecazione da censura, che censuro – il tipo quello lì, quello della doccia, che non mi ha mai perdonato l’esultanza per quell’unico, misero goal dei demoni a scuola; e anche qui ce ne sarebbero da dire, perché il perdono dovrebbe esser cosa loro, e invece mi sfotte un’altra volta – “Ti vedo sorpreso, ma come, non te ne sei accorto? Sono uguale a lui, io” – e il suo lavoro lo sa fare bene, altro che neofita. Quello non dorme mai e non gli sfugge niente, sempre a sussurrare parole buone di lealtà e sottomissione, che André ascolta da sempre.

Quando Oscar lo difese – André intendo, non l’angelo –  davanti a sua Maestà Luigi XV – il demone di quello: eccone uno fortunato! – e lui fu graziato, e graziato per non aver fatto niente di male per demeriti non suoi, quando gli fu detto “Avete un buon padrone” (un padrone, mi capite?) lui, con le lacrime agli occhi, giurò eterna gratitudine a sprezzo della vita. Perinde ac cadaver mi disse, compiaciuto, quel borioso di angelo; e io gli risposi per le rime: “Le pere non hanno mai ammazzato nessuno”.

Comunque la situazione non cambiava e buttarla sulla lussuria era l’unico modo per ottenere qualcosa, perché per il resto, il ragazzo, virtù cardinali e basta.

Quando arrivai a un grado di disperazione abbastanza alto tanto da pensare a un pensionamento precoce, giocai d’astuzia e mi lavorai il demone di Oscar. Ve lo farei vedere, quello: inutile, inetto, con un piede nell’alcolismo, schiacciato senza rimedio da un angelo che era il primo della classe, ineccepibile per purezza e sempre con la mano alzata soprattutto, mi si dice, a “Chimica della repressione degli istinti”.

Però, quel povero diavolo, aveva delle potenzialità, me lo ricordo.

Con finta naturalezza lo invito fuori una sera, con la scusa di un “Demonesse tour”. Ci si vede in una specie di taverna di Parigi talmente malfamata e piena di pezzenti che credo non ci noterà nessuno. Scelta che si rivela infelice da subito: nonostante il nome sia bello accattivante, la Disperazione, adocchio stupito la Nera Signora che se ne sta lì con l’aria dell’habitué, che ci indirizza subito uno sguardo inquietante e un segno di diniego, come a dire: “Toccatemi questo e se ne riparla”. Questo peraltro era il boia di Parigi, di cui c’importava né poco né punto, cupo, seduto da solo a un tavolo appartato. Però ci mise subito in soggezione, perché Lei ha sempre l’ultima parola e se qualcosa ci hanno insegnato quei sadici dei nostri maestri è che dove sta lei è bene non esserci noi. Il mio compagno si agita, e non si calma notando un affresco sul muro, dipinto da mano che riconosciamo, di Lei che suona il violino e si trascina dietro giovani e vecchi, poveri e ricchi, donne e uomini.

“Ma dove mi hai portato?” mi chiede, strabuzzando gli occhi.

Smania per uscire, il capitano coraggioso, ma io lo tranquillizzo: salutiamo con cortesia la Signora, ci mettiamo lontano, che vuoi che sia, l’interesse di Lei cala e fra questi pendagli da forca che problemi potremmo mai avere.

E infatti e per l’appunto c’è un ragazzino che attira l’attenzione su di noi – Joss, Joss, quei signori sono colorati tutti di verde e di marrone e son brutti – e quindi capisco che c’è un piccolo con la Luce, qui, che ci vede per quello che siamo. Ce ne saranno due in tutta Europa, mondo boia!

L’oste lo rimprovera, gli tira uno scappellotto, sottolinea che alla Disperazione non si fanno distinzioni e si accetta tutti, però adesso ci osserva con aria che mi par malevola, come se, in fondo in fondo, alle stupidaggini del ragazzino un po’ credesse.

E c’è un giovanotto con una faccia particolare, che sembra fatta con pezzi di altre facce tanto è mutevole, che stava per alzarsi alla volta di noi, quando il ragazzino ha cominciato ad indicarci. E non è rassicurante.

Colmo dei colmi, c’è pure un prete, qui. O non erano tutti anticlericali, in questo Paese? Il mio amico diventa marrone pallido e, anche se quel tipo si sta palesemente facendo i fatti suoi, che si sintetizzano in “bere come una spugna” ed è chiaro che non può riconoscerci, smania e gesticola.

Io, che ormai voglio rimanere e penso di sfruttare pure la situazione a mio vantaggio, trovo un paio di botti –  perché qui per sedersi bisogna mettersi su una botte, botti e sgabelli, bella roba – e comunque trovo un paio di botti e subito chiedo vino forte, così da tentarlo.

Il tempo di creare la situazione ed ecco che comincia a lamentarsi di quanto sia dura essere il demone di Oscar François de Jarjayes: una donna soldato, e che donna. Mica uno scherzo, una invece che prende sul serio quello che fa, scatto felino e abile mossa, delira, una integerrima, splendente. L’angelo di lei nemmeno lo saluta, quando lo vede, tanto è sprezzante e sicuro. Elenco le possibili debolezze: invidia? Scuote il capo. Codardia? Nuovo diniego. Tendenza alla maldicenza? No. Magari è stupida. Al contrario, al contrario. E allora insinuo: amore? desiderio? Dice di no lo stesso, ma mi par meno convinto.

“Senti, amico” inizio, e gli riempio il bicchiere “È donna, è da questo lato che va presa. Guarda caso che il mio protetto, su questo fronte, potrebbe esser sensibile. Bel ragazzo, ma poco sveglio. Concentriamoci su questo, vedrai che ci scappa qualcosa di cui entrambi potremo essere soddisfatti”.

Lo sguardo gli si snebbia.

“Il tuo incarico è uno bello e poco sveglio?”

“Esatto. Molto vicino alla tua Oscar” ammetto, pure sincero “Uniamo le forze, peggio di così non può andare”.

E insomma, è d’accordo, lo convinco. Finiamo la serata in gloria e dal giorno dopo mi appresto all’attesa, mentre soffio sul fuoco dell’amore del mio pupillo, e su questo riconosco che mi dà retta, tanto che l’angelo, quello lì uguale a lui, comincia a guardarmi con sospetto e con un filo di rispetto. Vai vai, son quello che ti ha buttato dentro la porta con una pallonata, ora lo vedi che ti combino, una storia d’amore maledetta e contraddittoria, un rapporto servo/padrona che può sfociare in passione e tragedia, e buonanotte ai suonatori.

E, nemmeno il tempo di pensarlo, il mio amico si mette d’impegno; ma, che succede? Sarà che non è molto in sé, sarà che non era il fulmine della classe nemmeno all’asilo, sarà quel che sarà, usa tutte le sue forze e la capacità di persuasione, ma con l’uomo sbagliato. Mica ha controllato le schede, ha capito solo “bello ma poco sveglio”. E così la sua Oscar François si è invaghita, pure in maniera platonica, di un tal conte di Fersen, amante riamato della regina di Francia Marie Antoinette, uno che, da un lato, Oscar neanche la vede, e dall’altro rende ancora più improponibile qualsiasi pretesa del mio pupillo.

Ho passato anni d’inferno, col mio ragazzo che si limitava a stare al suo posto e a soffrire in silenzio, che oscillava fra il desiderio della felicità di lei, a prescindere, e il bisogno di starle vicino e aver cura di lei. E quando quel conte partì per le Americhe credo a combattere per la libertà delle Colonie inglesi, senza rendersi conto che quegli ideali di libertà erano proprio agli antipodi dei concetti su cui la Monarchia francese, e quindi la sua amata, fondava il proprio potere, il giovane André mica ne approfittò. Mai una parola ambigua, mai un’allusione malevola al rivale. Silenzio e rispetto, nulla più. Il ricordo di quel Fersen faceva struggere la bella Oscar. Il demone di lei ormai era fisso agli Alcolisti Anonimi sez. Dem, perché la sua pupilla aveva recepito un concetto distorto, proteggeva e ammirava ancora di più Marie Antoinette amata dal suo amato, e teneva una benda angelica sugli occhi tanto spessa che la concorrenza si permise pure una vacanza, tanto poco pericolo percepiva.

Anni d’inferno, dicevo, e so di cosa parlo. Io cercavo conforto in mali minori: facevo in modo che talvolta lui si spazientisse perché un altro bel tipo, il conte de Girodelle, un subordinato di Oscar de Jarjayes, sembrava tentare di prendersi con lei qualche confidenza da nobile: nulla di che, in realtà, inviti a pranzi di famiglia o a gitarelle estive, che soltanto la sensibilità acuita del mio protetto avrebbe potuto trovare men che formalità – ma siccome aveva ragione da vendere, cercavo di sobillare, di fomentare.

Lui nulla. Anche di questo conte – tutti conti, eccetto il mio incarico, se vi par giusto – André Grandier non azzardava una calunnia, al massimo qualche battuta di spirito, per far sorridere Oscar.

“Ma non capisci?” gli sussurravo “Quello aspetta soltanto una buona occasione per soffiarti la donna. Si gode privilegi e gioventù e non si sposa, perché aspetta come un avvoltoio. Fa’ qualcosa, pezzo d’asino. Ti basta trovarlo in un vicolo buio, mica è in America, quello”.

E il mio protetto, quando udiva la mia voce, chiudeva il cuore e pensava a quando, praticamente adolescenti, avevano rischiato tutti e tre la morte in un incendio, nella casa di un falsario ormai cadavere e a causa di un intrigo di Corte. Ripensava alla finestra sfondata per salvarsi, a loro come a tre moschettieri, e gli venivano le lacrime agli occhi.

E a me faceva rabbia, ma pure tenerezza, ché proprio non capivo e non mi andava giù che fosse sempre così buono. E pensare che avrebbe avuto tutte le doti possibili per diventare, che so, un arrampicatore sociale di quelli di cui si parla per un paio di generazioni; o anche solo un cicisbeo che accompagna signore di una certa età a teatro e poi partecipa alle orge organizzate dai mariti; avesse solo avuto un po’ di ambizione!

Quando quel conte, quello di Fersen intendo, tornò dalle Americhe sano e salvo e ammantato dall’aura eroica di epiche e sconosciute battaglie, André Grandier fu – e chi poteva dubitarne? – il primo a brindare con lui,  e con Oscar, al suo ritorno. Vedeva la sua donna diventare più luminosa quando si rivolgeva a quel marcantonio svedese, e lui, come sempre, era un po’ felice e un po’ disperato. Avrebbe dato un occhio perché Oscar lo dimenticasse, perché guardasse lui come guardava quello.

Era il mio primo incarico e mi avevan dato una situazione senza speranza.

La sera in cui madamigella, bontà sua, si vestì da donna per farsi vedere dal conte di Fersen – e io sarò tardo, ma non ho mai capito perché si mise in gran spolvero e si presentò a un ballo sotto falso nome, allungando mance e comprando silenzi, per non voler essere riconosciuta da quell’uomo – il mio pupillo era irraggiungibile per me. Lui, al contrario di altri, la vedeva donna sempre. Non se ne scordava proprio mai, neppure nei duelli, neppure quando la osservava comandare plotoni.

Però quella sera pareva un bambino spaventato, sembrava un fedele in attesa del miracolo. Io glielo dissi: “Ascolta, bello, non si indossa con facilità un abito da signora. Bisogna fare esercizio, guadagnarsi un certo portamento, una certa eleganza. Mettiti calmo, che quella sembrerà uno spaventapasseri”, ma lui rideva nervoso, per nascondere la paura. E pensare che non aveva tremato e non avrebbe tremato nei momenti più drammatici, nei momenti di pericolo di vita.

Colmo della jella, Oscar in abito da sera ci stava proprio bene. E André rimase incantato, annichilito, steso – io cercavo di dirgli: “Guarda, c’è di meglio” e lui niente, perso, la guardava scendere quelle scale e non riusciva a pronunciare parola, e per giorni non avrebbe pensato ad altro, trattenendo l’immagine nella mente come un dono di Dio.

Io poi, cosa sia successo a quel ballo, non lo so. Io ero con il mio ragazzo, a tentare di consolarlo – c’ero io, eh, mica il suo angelo custode, che magari era a farsi un cicchetto tutto tronfio e tranquillo.

Passava di pensiero in pensiero, senza soluzione di continuità. Credeva che Fersen si sarebbe inginocchiato ai piedi di quella creatura eburnea e lucente prima ancora di riconoscerla; credeva che Fersen l’avrebbe immediatamente riconosciuta e avrebbe ballato con lei tutta la sera e l’indomani l’avrebbe chiesta in sposa; credeva che Fersen, amando Marie Antoinette, l’avrebbe sommersa di complimenti ma nulla più; credeva che Fersen non avrebbe capito che tutta la sua bellezza era per lui, e le avrebbe chiesto chi mai fosse il fortunato che Oscar de Jarjayes voleva sedurre. E via così, di pensiero in pensiero. Si sforzava di desiderare la felicità di Oscar. Si chiedeva se avrebbe avuto la forza di stringere la mano a quell’uomo mille volte fortunato, che avrebbe condiviso la vita e il letto con Oscar. Perché lui alla fine ci credeva, non riusciva a pensare davvero che qualcuno avrebbe potuto non amare Oscar. Come se fosse la donna perfetta, l’unica degna di esser chiamata “donna”. Mi prendeva uno sconforto tale che nemmeno ho parole per descriverlo. E ancora non si chiedeva cosa avrebbe fatto lui, dal giorno dopo. L’attendente a vita, dava per scontato. Vederla, solo vederla. A tratti piangeva.

Che potevo fare? Gli battevo la mano sulla spalla, gli dicevo che l’amore è una piaga, proprio come la povertà e le classi sociali, e poi gli sussurravo che magari al conte di Oscar non importava proprio nulla, che anzi, con quell’abito, altro non avrebbe visto che una dama come tante, inutile, buona solo per accompagnare una danza. E il mio protetto mi si ribellava e mi derideva: “Perché, è forse un idiota, il conte? Solo un idiota potrebbe non capire. E solo un idiota potrebbe star qui, con la testa fra le mani, a farsi domande che neppure è lecito pensare di farsi. Io sono l’idiota, mica lui. Ma dovrà farla felice, dovrà essere alla sua altezza” e poi, ancora: “Non mi interessa ciò che prova lui, mi interessa lei. Voglio che ami me. Voglio che desideri stare con me per sempre” e si prendeva la testa fra le mani, allucinato.
“Caro mio, l’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del Re” gli sussurravo, paterno, ricordando tutte le volte in cui, insoddisfatto di me, avevo fatto gli stessi discorsi: “Voglio essere come quell’angelo. Voglio essere bello e dire non è questa la coscia di Giove?” e alla fine che ci avevo guadagnato, solo di sentirmi ancora più insoddisfatto. Ma per lui mi dispiaceva – avesse avuto almeno un pensierino di vendetta su cui soffiare…

Finì bene, comunque. Oscar de Jarjayes inghiottì una bella umiliazione, il conte di Fersen la riconobbe con un ritardo che non ha mai avuto giustificazioni, e tempo dopo si recò a Palazzo Jarjayes a far cosa non si è mai capito bene, ma giusto per metter la pietra tombale su ogni speranza della bella dama che lei si era rivelata essere – qui le opinioni si spaccano, anche a livello di mera suggestione: è stato un gentiluomo, quel Fersen, a rinunciare a un’altra tacca sul fucile? È stato guidato dalla vanità? Avrebbe potuto preservare il suo amico Oscar tacendo e basta? L’amicizia, unico conforto dell’uomo alla perigliosità della vita, era comunque frantumata? Si vocifera che l’angelo e il demone di Fersen siano arrivati ai ferri corti, ciascuno rivendicando parte di gloria e attribuendo all’altro delle responsabilità.

Io, francamente, me ne infischio. Vi dico solo cosa ha fatto il mio pupillo: niente. Strano, eh? Nemmeno si è offerto come premio di consolazione. E dire che occasioni ce ne sarebbero state.

Però, tornando indietro, la mattina dopo quel ballo sì memorabile, quando vide Oscar in divisa che neppure accennò alla serata appena trascorsa, lo sentii che respirava più liberamente. Nel frattempo, si era limitato a salvare la vita a Oscar durante il periodo in cui quella strega di Jeanne Valois pareva lei, la regina di Francia, e in tempi brevi si era offerto volontario per un piano goffo e pericoloso col quale il rinato colonnello Jarjayes auspicava di catturare il Cavaliere nero. Il mio collega-angelo fu convocato per un encomio con medaglia dalle Alte Sfere, mentre io, negletto, isolato, mi limitavo a sussurrargli di stare attento, con quel costume addosso e quelle pareti da scalare, e nel caso ci fosse da combattere, ammazzare, colpire, senza esitazione.

Non sto a dirvelo, ma finì che un occhio per lei lo diede davvero, senza metafora. Lei ne soffrì e lui minimizzò. “Ne ho un altro, Oscar. Così poco, per te, puoi chiedermelo quando vuoi” disse a un dipresso, il fesso, invece di coltivare il senso di colpa della ragazza. Le chiese solo di liberare quell’altra canaglia del cavaliere nero, invece, che so, di farsi giustizia con le sue mani: mi sarei buttato dalla finestra di Palazzo Jarjayes, quando lo sentii azzardare la richiesta, stupido idealista che altro non era. E non voleva compassione, era stoico, voleva che lei lo vedesse sempre forte, sempre presente. E voleva il suo amore, quell’amore che fa a pugni con la pena e il fardello da portare.

Io lo provocavo giorno giorno, per scrollarlo: “Razza di inetto, sei peggio di un mendicante, vivi di elemosine e di sogni. La Francia va a fuoco, il popolo muore di fame, la tua bella pensa solo a se stessa. Sei un fuco, ecco cosa sei. Fa proprio bene, Oscar de Jarjayes, a rivolgere altrove i suoi sguardi. Ma una volta, solo una volta nella vita, vuoi essere un uomo anziché un servo?”

Quando anche l’altro occhio cominciò ad appannarglisi e lo spettro della cecità gli divenne familiare, cadde in un baratro di prostrazione. Coltivavo la sua disperazione silente come le fanciulle coltivano la bellezza delle loro guance.

E lo sentivo, in modo vago, scricchiolare: guardava la finestra di lei, ascoltava la musica che le dita di lei producevano, aveva un incendio nel cuore ma non si muoveva, si limitava a piccoli gesti che me lo mettevano a nudo: stringeva con forza la spugna con cui lavava i cavalli e si teneva addosso l’odore delle bestie più di quanto era solito fare, e la sera spesso si allontanava da lei, e io, che son anche il demone dell’alcol, lo incentivavo, ché tutto fa e magari allentava un po’ i freni inibitori.

E poi ci fu, come dicevo, la visita del conte, quello di Fersen, e la cosa più vicina a una scena madre che la riservatissima e chiusa Oscar François si sia mai trovata a vivere: a lei cascò addosso il cielo, a lui mancò la terra sotto i piedi, al conte non ne ho idea e nulla me ne cale.

Non lo mollai un istante, in quelle ore: “Sei peggio di un cane cieco, lei adesso sa cosa vuol dire essere una donna, sa cosa vuol dire desiderare – e tu non ne approfitti? Non te l’hanno mai detto che ‘chiodo scaccia chiodo’? Gioca su questo, finché ti resta ancora un po’ d’amor proprio – e un po’ di vista, idiota! Tu fai finta di nulla, ma i momenti di buio aumentano di giorno in giorno, non puoi contrastarli. Ma cosa vuoi dalla vita, tu, davvero?” e questo non glielo sussurravo, glielo chiedevo sul serio, interessato e pure stupito: “Ma cosa vuoi dalla vita, tu, davvero?”

Devo riconoscere che fu Oscar a darmi mano, o forse il suo demone si era un po’ ripreso. Non ho mai visto quella donna strana e umorale come allora. Anche col mio pupillo, passava dalla tenerezza dei ricordi comuni a espressioni taglienti e immotivate, quasi volesse destabilizzarlo di più di quanto già non fosse. Ai problemi di vista di lui nemmeno pensava, proprio non se ne accorgeva. E comunque non le interessavano. Pareva fosse la prima donna al mondo a soffrire per un amore non corrisposto, e nemmeno era una ragazzina, nemmeno era una sprovveduta. Ma la colpa era del mio pupillo: la gente, pure Oscar de Jarjayes, tende a confondere la bontà con la debolezza, e lui dalla sua donna si prendeva tutto, si sarebbe preso i pesci in faccia, con quel silenzio assordante che era diventato una sua caratteristica, quasi imbarazzante direi. Però, servo o non servo, sempre di carne era, il mio pupillo, e io soffiavo e soffiavo, facevo arrivare al suo cuore un venticello che sintetizzava il desiderio di carne, la voglia di rivalsa, la sensazione di aver poco tempo e di star sprecando la sua vita. Il suo angelo doveva essere a qualche festa danzante.

Quella sera il mio pupillo sarà stato anche un po’ alticcio, non dico di no, e l’occhio destro non sarà stato perfetto, e aggiungiamo pure che aveva parlato con un medico disfattista e menagramo nel pomeriggio –  ma era abbastanza di sé da portare un vassoio con chicchere su per scale, abbastanza in sé da bearsi come il beota che era dello sguardo di lei quando lo ringraziò. Sembrava un momento talmente qualunque che io quasi sonnecchiavo.

Poi lei se ne uscì con quella storia che voleva tornare ad essere un uomo, dimenticare i suoi momenti di debolezza femminile, cose così – avrebbe lasciato la Guardia Reale e avrebbe liquidato lui senza mezzi termini, senza ‘ai’ né ‘bai’, e nemmeno un rimpianto, che so, un moto di affetto, un cenno di dispiacere.

Lui, se lo avesse colpito un fulmine, sarebbe rimasto meno impietrito. Sentii una rabbia, ma una rabbia – mi gonfiai tutto, mi espansi, gli invasi il cuore e la testa. Il suo angelo provò ad accorrere, fece appena in tempo a mettergli sulla bocca una frase che aveva del razionale e del sensato, sul fatto che una donna sarebbe sempre stata una donna e non c’era rimedio – scusa se te lo faccio notare, è andata così –  prima di essere spazzato via dal vento della mia furia che non contenevo, che riversavo sul mio ragazzo con tutta la mia potenza. André mi combatteva con la marea del suo amore protettivo e rassegnato, ma io ero più forte, forte come mare in tempesta, forte come frana di montagna;  e quando lei lo schiaffeggiò mi sentii in grado di distruggere il mondo, di abbattere universi interi – “Faglielo vedere, faglielo vedere, uomo, se lei è una donna o no. Prenditi quello che è tuo e dai a lei la lezione che si merita. Usa la mia forza che è tua. Osa, spezza le tue catene, osa. Guardala per quello che è davvero, puniscila!”, gridavo, mentre l’angelo sbattuto non so dove, forse dentro la porta dalla mia pallonata, si era portato con sé l’amicizia, i ricordi d’infanzia, il rispetto sociale e tutte quelle fregnacce sulle quali lei per prima aveva sputato e con cui me lo teneva incatenato come un cane.

Il viso di lui attraversò l’aria che lo separava da quello di lei e la raggiunse, e io esultai per il suo primo vero bacio, un bacio di arroganza e odio e passione cieca, e stavo per scoppiare, e ridevo come può ridere un demone.

E quando d’improvviso tornai normale vidi il mio figliuolo con un pezzo della camicia di lei fra le mani, ebbi la visione di Oscar François seminuda sul suo letto, vidi una donna coperta dai suoi capelli sparsi, arresa, che nascondeva il viso e le lacrime; e lui, che davanti a quelle lacrime mi aveva abbandonato, sentì venire meno ogni forza e ogni intenzione, sentì nausea per se stesso, e chiese perdono senza guardarla, piegato come può esser piegato un fiore, e terribilmente fragile.

Giurò su Dio che non sarebbe accaduto mai più e mai più accadde. Mi chiuse in gabbia, gettò la gabbia in un angolo dimenticato, si immolò. E a lungo non fu più felice di niente. Sentiva di non meritare neppure un briciolo di felicità. Quel suo angelo, richiamato per una lavata di capo dalle Alte Sfere, veniva tuttavia a portarmi delle arance di tanto in tanto, e me ne diceva di tutti i colori. Insinuava che avessi fatto il mio lavoro in maniera pessima e di conseguenza avessi rovinato anche il suo, nonché la sua reputazione. Io per un po’ sopportavo, poi mi difendevo: “Ma cosa vuoi da me, io sono contrario alla repressione e alla schiavitù, di qualsiasi sorta. Che ha fatto, alla fine? Neanche la si può chiamare davvero aggressione. Con i tempi che corrono, poi. Ma ti guardi attorno? Lo vedi cosa succede nel loro ambiente? E fra i poveracci? Non ha mica ammazzato nessuno. E nemmeno ha colto il fiore di lei, se devo parlare bene. E alla fine, le ha detto pure che la ama. Ed è vero. Cos’è, bisogna stare una vita a patire per aver detto a una donna che la ami? Lei mi par che vada avanti e comunque non gliene importi un accidenti di lui – questo si arruola per starle vicino e lei lo prende come un dato di fatto, fai quello che ti pare, prova a proteggermi, per me tutto uguale. A stento lo saluta. Ma che ha fatto, alla fine?”

E l’angelo mi sbucciava un’arancia, perché in quella gabbia si stava scomodi e c’era pure caldo e mi dava gli spicchi per rinfrescarmi un pochino la gola, e mi diceva: “Ma ti senti? Non capisci un accidenti. Il panegirista!”

E io, mentre succhiavo lo spicchio, gli rispondevo per le rime: “Magari potessi farmi il pane!”

Un giorno mi ritrovai la gabbia aperta e uscii, ma ero debole debole.  Gli potetti dare una mano il giusto contro cinque soldati e feci anche troppo, ché un po’ di furia riuscii a racimolarla, ma finimmo in una specie di branda da campo in una sorta di infermeria allestita proprio alla bene e meglio. Era distrutto, il mio ragazzo: il conte, quello di Girodelle, si era svegliato e aveva chiesto formalmente la mano di madamigella Oscar – nemmeno lui si era convinto che lei fosse diventata un uomo, si vede. Quante botte incassò, il mio pupillo. Sentiva che il dolore gli faceva bene, cacciava altro dolore.

Provavo a sussurrargli parole dolci, ché un po’ mi ero pentito davvero e mi dispiaceva di avergli fatto perdere la testa così, da un minuto all’altro, senza un percorso adeguato e soprattutto senza scopo, e al momento sbagliato; chiuso in quella gabbia, ci avevo riflettuto sopra, ma lui era comunque il mio primo incarico ed era difficile, come si fa a prevedere ogni cosa?

“Non occorre, sai, che ti faccia storpiare o che metta a rischio anche l’altro occhio così, per sfogare la tua rabbia. Lei lo sa che la ami, e non le importa. Forse, col tempo… mica è detto che sposi quello. Lo so che ti secca perché lui ha fatto le cose bene, tutti i passi giusti, ma lui può, che ci vuoi fare? Se tu fossi nato nobile e ricco, sarebbe stato tutto diverso, ma così… forse è il caso di mettersi il cuore in pace”, ma lui mi respingeva, il cuore in pace non se lo sarebbe messo mai, ma mai più avrebbe detto niente, mai più le avrebbe mancato di rispetto neppure col pensiero.

Mi ritiravo tutto mortificato e lasciavo il posto a quell’angelo tutto brillante e uguale a lui, che non so che baggianate gli raccontava, ma mi pareva che lo facesse star peggio.

Comunque, Oscar, alla fine non si sposò con quel conte, e neppure con un altro conte, non si sposò e basta.

Il demone di Oscar aveva gettato la spugna da tempo, e quando gli dicevo che il mio ragazzo stava male, se non si potesse far qualcosa, alzava le spalle e mi diceva che in fondo siamo demoni, se i nostri incarichi soffrono pace, andrà meglio la prossima volta – doveva aver seguito qualche corso automotivazionale, di quelli che ti mandano il senso critico in pappa.

“Ma il tuo incarico, non ti sembra tossisca troppo spesso?”

Mi guardò con sguardo vacuo: “Perché, tossisce?”

Senza dire altro, mi limitai a far calare una benda sugli occhi di André, povero, perché anche lui non ci facesse caso. E poi, quando Oscar andò dal medico, allungai una mancia al demone di quello, perché chiedesse notizie dell’occhio di André a Oscar stessa.

E poi supportai il mio incarico in un confronto duro e diretto nientemeno che col padre di Oscar, quella volpe del generale Jarjayes che aveva voluto un figlio maschio a ogni costo e, quando si era rivelato meno servo della Corona di quanto avrebbe desiderato, eccolo pronto ad ammazzarlo con le sue mani. Fece una bella figura, in quel frangente, André Grandier: ormai nascondeva tutto eccetto il suo amore per lei, fermo, ostinato e dichiarato a voce bassa e decisa, colpì Oscar e pure il generale stesso.
Quando gli sussurrai di approfittarne, ma non ci credevo più nemmeno io, lui mi chiuse la porta in faccia.

A quel punto dovette fare lei ogni cosa. Persino la dichiarazione, che André non avrebbe azzardato neppure se lei gli si fosse buttata addosso strappandosi i vestiti di dosso. E lei lo fece, prendendo alla sprovvista me e pure l’angelo. Non era la situazione che avrei desiderato e neppure quella che avevo previsto, e forse c’entrava poco anche la lussuria, a questo punto, e la storia di dramma e sangue nel rapporto complicato servo/padrona era andata a gambe all’aria già da parecchio, ma fui contento lo stesso, ecco, fui contento, perché par sempre incredibile quando una persona, una sola, butta il cuore oltre l’ostacolo e contro il mondo intero, e quella persona alla fine ha ragione.

Poi mi sa che mi ci ero affezionato, al mio incarico, anche se non si dovrebbe.

Accesi le lucciole una ad una per loro, una gran fatica, e eliminai da quel boschetto ogni intruso che potesse disturbarli e pure quelle note fastidiose che è sempre bene che non ci siano, insetti vari e animali della foresta, e anche sassi indesiderati che rendono sempre scomoda la passione all’aperto.

L’angelo mi guardava fare e si limitava ad essere soddisfatto, perché se la poteva rigirare anche a suo pro, tutta quella storia. E alla fine lo portai via io, perché quello, “coscia di Giove”, sarebbe pure rimasto lì a guardare.

E non senza secondi fini me lo portai dietro per un brindisi; pur stupito, non disse di no. Lo portai alla Disperazione e mi godetti l’espressione perplessa del tipo davanti all’affresco della Morte ridente che attira a sé giusti e peccatori, vecchi e bambini, uomini e donne, affresco dipinto di pugno da qualcuno che riconobbe. E la perplessità divenire sconcerto, quando vide la Dama Nera in persona fissarlo, posando la mano su un uomo dall’aria lugubre, isolato, con un fiasco di rosso davanti.

“Tranquillo, angelo” gli dissi, baldanzoso “lo so che dove c’è Lei è meglio che non ci siamo noi, ma tu non toccarle il suo boia di Parigi e Lei nemmeno ci guarderà”.

E così fu.

“Che storia” commentò quello, diffidente.

Poi sentimmo gridare: “Joss Joss, c’è un signore che risplende tutto luminoso insieme a uno grasso tutto verde!” e mentre l’oste gli allungava uno scappellotto e lo invitava a stare al suo posto, ché alla Disperazione non si fanno distinzioni, il mio compagno sbiancò e mormorò: “Quello è un ragazzino con la Luce. Ce ne saranno due in tutta Europa!”

“Eh, lo so” dissi, stranamente orgoglioso “e farai bene a non dir nulla neanche a lui, se non vuoi attirare l’attenzione. Poi, guarda quel bel giovine, quello impegnato a far ridere le due ragazze di facilissimi costumi: di’ una parola storta all’indirizzo del ragazzo, e lo vedrai alzarsi di scatto e con espressione ben diversa”.

“Una parola storta, io?” mi chiese, incredulo “È solo che non mi aspettavo di incontrare un tal assembramento di… particolarità”.

“Senti chi parla!”

“No, davvero. Quell’affresco, e poi la Signora Nera, ma anche quel ragazzino… e il giovane che mi hai indicato, lo conosco, ho avuto occasione, per un favore a un amico… è un artista e vede

“Oh, qui tutti vedono” minimizzai “Soffia lo Spirito, mio caro, e che è, non lo sai?” e urlai per un paio di birre, così forte da far voltare anche un paio di facce da galera tutti compresi, fino a quel momento, in chissà che, e facendo sussultare l’angelo cuor-di-leone.

Aspettai che si ambientasse, il mio angelo confuso, e poi attaccai:

“Senti, amico, è chiaro che io e te d’accordo non andiamo e ci troviamo, diciamo, su posizioni diverse, ma riguardo al ragazzo io avrei un’idea e te ne vorrei parlare”.

“All’incarico, dici?” allargò le braccia “Non c’è niente da dire, quello che potevamo fare l’abbiam fatto, ha avuto la sua parte di vita – poche ore ancora, e trarremo le somme, per lui e per la bella Oscar de Jarjayes”.

Bevvi un sorso e cercai di improvvisare un sorriso convincente.

“Il ragazzo, il nostro incarico, come lo chiami tu, ha buttato alle ortiche il meglio della sua vita e adesso ci ricava una notte d’amore e una morte fra le braccia dell’amata. Ti par giusto?”

Lui mi fissò ancora, senza capire: “C’è a chi va peggio”.

“Certo, certo, non dubito” continuai “Ma sarà che è la prima volta per me… insomma, questa storia merita di essere raccontata”.

“E lo sarà” mi disse lui, furbo “Madame Ikeda la narrerà e la illustrerà per filo e per segno, valorizzerà Oscar François e anche il nostro inc.. André Grandier, li renderà immortali. E noi potremo avere un altro incarico, e cambiare aria. Forse non ci vedremo per lungo tempo”.

Capirai la disgrazia, pensai, se c’è una cosa buona in tutto questo è proprio il fatto di non vederti più – ma mi controllai.

“Lo sai cosa sono le fanfiction?”

“No” mi rispose, stolido.

“E io invece sì, perché consulto i Libri e le Enciclopedie del Futuro, non solo quelle del Passato come siete abituati voi. Anche se son scritte coi piedi e piene di strafalcioni, perché noi demoni il futuro lo vediamo un po’ sfocato. Allora, funziona che i fan si innamorano di alcune storie, di alcuni personaggi, e se le cose non vanno come vorrebbero le storie se le riscrivono, sulla scia dell’Autore Alfa, in questo caso madame Ikeda, ma cambiando il finale, o la parte centrale, o quel che hanno voglia di cambiare. E poi le regalano ad altri fan che le leggono, e a questi magari viene voglia di scrivere anche a loro, perché l’idea di poter agire sui personaggi cari piace!” terminai, sbattendo il boccale sul tavolo.

“E quindi” mi domandò, cominciando a capire “noi non dovremmo avere nessun altro incarico, restare con André Grandier per sempre, finché ci sarà fanfiction, e ispirare via via gli autori più vari, mentre il nostro vivrà varie storie che son sempre la stessa storia”.

“Bravo!” gridai “E così potrà avere una vita lunga, un amore lungo, o una vita breve, o altri amori, a seconda del ghiribizzo di chi prende in mano la penna e lascia libero sfogo alla fantasia. Sarà per lui vivere mille vite, e amare Oscar attraversando il tempo e lo spazio”.

“E noi non faremo mai carriera” precisò.

“No, mai”.

“E tu sarai detestato nei secoli per aver portato il ragazzo a rubare un bacio a Oscar”.

“Esatto” confermai, con una smorfia “Ci sarà chi immaginerà che l’abbia portato a fare di peggio, ci saranno coloro a cui non basteranno mai le scuse, ci sarà chi mi farà vedere i sorci verdi. Ma tant’è. Almeno per André non finisce qui. Insomma, Troia può essere bruciata una sola volta, ma questo ragazzo può avere l’opportunità di essere felice mille volte. Ma devi essere d’accordo anche tu, se tu lasci l’incarico finirà tutto e nessuno scriverà su di loro, perché mancherà l’ispirazione. Solo insieme possiamo far funzionare tutto questo. Sperando che gli angeli e i demoni degli altri personaggi si facciano convincere, è un castello di carte che può crollare al primo soffio”.

Mi guardò con attenzione, l’angelo ambizioso. Pensava che fosse finita, che fosse ora di volar via. Io gli proponevo di restare incatenato in esclusiva a André Grandier, l’unico incarico che avremmo mai avuto, e sempre a ripetere l’eterno scontro fra Istinto e Ragione.

“Sei uno strano demone” se ne uscì fuori, e bevve la sua birra “E non ti ho mai fatto i complimenti per quel goal che fece ammutolire tutti, in cui mi ritrovai aggrovigliato alla rete della porta e col pallone che sembrava perforarmi, tanta forza c’avevi messo. Non ho mai capito come hai fatto”.

Tutto mi aspettavo eccetto questo. Balbettai.

“E i demoni ti portarono in trionfo con una gioia tale che vi faceva brillare quasi quanto brillano gli angeli. Nonostante il disappunto, vi guardavo, e mi dicevo che nemmeno in un secolo avrei provato tanta gioia, abituato a vincere sempre e a rimanere sempre controllato. A Chimica della repressione degli istinti andavo forte”.

“Non ne dubito” intervenni così, tanto per dire qualcosa.

“Ti devo essere sembrato patetico quando poi feci sfoggio del mio bel fisico da angelo. Come se fosse merito mio”.

“La coscia di Giove” gli rammentai.

“Già. Che pollo, eh?” alzò un sopracciglio “Avessi avuto la metà della tua forza, André avrebbe posato le labbra sulle labbra di Oscar, le avrebbe dichiarato il suo amore guardandola e tenendola lì fino alla fine, poi le avrebbe sciolto i polsi, avrebbe fatto un passo indietro, e l’avrebbe lasciata a rimuginare, con la sua bella camicia intatta addosso”.

“Non ci pensare, la colpa è mia. L’istinto è forte. E tu mi hai portato le arance quando il ragazzo non voleva saperne più nulla di me e mi aveva rinchiuso in quella gabbia infuocata come il sole d’agosto”.

Finì la birra d’un sorso e mi tese la mano.

“Ci sto” disse d’improvviso “Al diavolo la carriera. Teniamoci il nostro incarico a vita, diamogli mille occasioni di riscatto e mille di caduta, ispiriamo, sussurriamo, combattiamo. Alla fine, mi sono affezionato anch’io!”

“Questo è parlare, angelo!” gridai, consapevole che con quella stretta di mano, se tutto andava come andava, mi consegnavo mani e piedi a condanna e censura, e a lui consegnavo su un piatto d’argento la possibilità di mettersi in luce mille volte. Ma, che volete, sono un demone strano, che dopo l’unico gesto imperdonabile di cui sempre sarò la causa, possa il mio protetto vivere mille vite e che siano tutte col lieto fine.

O quasi. Insomma, quelle che si potrà.

“Forse questo è l’inizio di una bella amicizia” ribadì lui, correndo un po’ troppo “Certo, bisognerà lavorare. Chissà quanti che scriveranno di loro li rispetteranno, e chissà quanti rispetteranno noi” se ne uscì, preoccupato, ma alzando la mano a ordinare altre due pinte “Tot capita, tot sententiae”.

“Vediamo di non cominciare col piede sbagliato, alla fine tutto questo è per far contento lui, per far felici loro!” gridai, e poi gli risposi per le rime: “In fondo, si sa che nelle sentenze capita di tutto!”
 
 
 
 
 
 

  
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